TRANSFER PRICING NAZIONALE

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ARTICOLO - Pubblicato il: 12 giugno 2018 - Da: G. Manzana E. Iori

In base alla normativa sul transfer pricing (articolo 110, comma 7, del Tuir), i componenti di reddito derivanti da operazioni intercompany con società non residenti sono valutati in condizioni di libera concorrenza. L’eventuale differenza tra il valore normale dei beni e/o dei servizi e il ricavo o costo contabilizzato va indicata tra le variazioni in aumento in dichiarazione.

Il Dlgs 147/2015 ha previsto che (…) 2. La disposizione di cui all'articolo 110, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato.

>> La norma di interpretazione autentica sembrerebbe affermare un principio che risulta sostanzialmente pacifico nelle norme, nella prassi e nella giurisprudenza.

>> Nella bozza originaria del Testo unico era stata prevista una norma che sanciva il principio del transfer pricing interno, che era stata, però, eliminata nel testo definitivo (come proposto dalla Commissione parlamentare dei Trenta).

>> Nella relazione di accompagnamento è precisato che si è inteso accogliere l’osservazione contenuta nel parere della commissione Finanze della Camera (punto 7, secondo alinea), che aveva chiesto di «chiarire con norma espressa che il cosiddetto transfer pricing interno non è compatibile con l’attuale impianto del Tuir».

>> Del resto è pur vero che non vi è mai stata chiarezza sul punto.

Nella risoluzione 9/198 del 1982 e nella circolare ministeriale 32 del 1980 era stata originariamente affermata la possibilità per gli uffici di contestare sulla base del valore normale la congruità dei corrispettivi stabiliti nell’ambito delle transazioni infragruppo domestiche.

Tale orientamento era stato, però, superato dalla circolare delle Finanze 53 del 1999, in cui si è sancita l’impossibilità di applicare il transfer pricing estero e affermato che se il ricorso ad altre disposizioni (come l’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973 sull’accertamento analitico-induttivo) fosse risultato di difficile praticabilità, si sarebbe valutata la possibilità «di suggerire proposte normative».

Anche la Cassazione ha affermato (nelle sentenze 10802/2002, 23551/2012 e 17955/2013) l’inapplicabilità alle operazioni effettuate tra società residenti in Italia della disposizione sul transfer pricing estero.

Ma la stessa Cassazione, pur riconoscendo la non applicazione dell’art. 110 ai gruppi nazionali (nelle sentenze 10802/2002, 23551/2012 e 17955/2013), ha anche affermato nelle sentenze 17955/2013, 8849/2014, 12502/2014, 23124/2014 e 12844/2015) che il principio del valore normale - richiamato anche dall’articolo 110, comma 7, del Tuir - costituirebbe una “clausola antielusiva” di portata generale che consentirebbe alle Entrate di rettificare i corrispettivi delle transazioni infragruppo non in linea con il valore di mercato dei beni o servizi.

>>Ma la disposizione dell’articolo 9 del Tuir, che contiene la definizione del «valore normale», @non è uno strumento generale di controllo dei corrispettivi, @@ma un criterio da usare in presenza di componenti reddituali “in natura” e negli altri casi in cui è espressamente richiamato da altre norme.

D’altra parte, questa ricostruzione interpretativa della Suprema corte non appare condivisibile. Se fosse corretta, infatti, non si capirebbe perché il legislatore abbia espressamente sancito nell’articolo 110 del Tuir la regola del transfer pricing e l’abbia limitata ai corrispettivi delle operazioni infragruppo che vedono coinvolto un soggetto non residente, facendo rinvio al valore normale soltanto ai fini della valutazione di tali corrispettivi. Al contrario, il valore normale può “sostituire” il corrispettivo soltanto in limitati casi, normativamente previsti, nei quali quest’ultimo manca o c’è l’esigenza di evitare arbitraggi fiscali. L’affermazione della Cassazione finirebbe, altrimenti, per contrastare con il principio di derivazione contabile del reddito d’impresa, stabilito anche a tutela della certezza del rapporto tributario.

>>Del resto, senza invocare il valore normale, è comunque possibile la rettifica dei corrispettivi risultanti dai contratti e dalla contabilità in base al principio secondo il quale - in presenza di comportamenti “antieconomici” dei contribuenti - gli uffici possono contestare la congruità degli importi (abuso): principio che la Corte ha spesso applicato ai costi correlati ai servizi infragruppo (sentenze 9497/2008, 9469 e 11154/2010, 16642/2011, 12502 e 21184/2014, 6972 e 10319/2015). Devono, però, sussistere situazioni di arbitraggio fiscale, in cui si verifica un risparmio di imposta in conseguenza, ad esempio, di differenze di aliquote o delle differenti modalità di tassazione di chi sostiene il costo e di chi consegue il componente positivo. In particolare, è necessario che:

- il comportamento del contribuente venga valutato tenendo conto della complessiva situazione contrattuale e aziendale, perché una operazione che, isolatamente considerata, può apparire antieconomica potrebbe invece risultare pienamente conforme ai canoni dell’economia se inquadrata alla luce della complessiva strategia imprenditoriale;

- siano evitate duplicazioni impositive: l’Agenzia ha correttamente affermato, nella nota 55440/2008, che «se ad un costo dedotto si contrappone un ricavo integralmente ed effettivamente tassato in capo ad un altro soggetto, la plausibilità del rilievo perderà inevitabilmente di consistenza».

Va, altresì, considerata l’eventuale partecipazione delle società interessate al regime del consolidato fiscale, in presenza del quale il transfer pricing interno non assume, di regola, rilevanza ai fini reddituali, nonostante l’abrogazione della disposizione che consentiva di applicare il regime di neutralità fiscale ai trasferimenti di beni tra le società che avevano optato per tale regime.

A prescindere dal giudizio sull’orientamento giurisprudenziale che riconosceva sufficiente l’applicazione anche al transfer pricing interno dell’art. 9 del Tuir, è ora chiaro che se si vogliono contrastare operazioni elusive realizzate attraverso operazioni di transfer pricing interno non si può certamente applicare l’articolo 110, comma 7, del Tuir perché la norma di interpretazione autentica lo impedisce e non si può semplicemente richiamare l’articolo 9 del Tuir in chiave antiabuso perché, a tale riguardo, occorre operare mediante la clausola antielusiva generale del nuovo articolo 10-bis dello Statuto del contribuente (legge 212/2000). Quindi, occorre che gli uffici finanziari dimostrino il vantaggio fiscale indebito, e cioè il vantaggio disapprovato dal sistema. E a tale riguardo è palese che all’interno dei gruppi il vantaggio indebito non sussiste tutte le volte in cui a fronte di un aumento di reddito in capo a un soggetto si ha la riduzione in capo a un altro con irrilevanza dell’operazione per le casse erariali in quanto il gruppo, nella sua globalità, non consegue alcun risparmio.

Non sarà più sufficiente dimostrare che vi sarebbe stato un maggior reddito in presenza di un valore normale superiore ai corrispettivi, come previsto dall’articolo 110, comma 7, del Tuir, ma l’amministrazione dovrà attivare i “meccanismi” dell’articolo 10-bis dello Statuto, ivi inclusa la disciplina di carattere probatorio. È auspicabile, quindi, che i giudici di legittimità non “scomodino” più l’articolo 9 del Tuir per contrastare operazioni elusive realizzate mediante transfer pricing interno ma prendano atto della nuova clausola generale antiabuso.

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