COMPENSI SPETTANTI AGLI AMMINISTRATORI

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ARTICOLO - Pubblicato il: 19 settembre 2010 - Da: G. Manzana E. Iori

Sintesi

Il problema della deducibilità del compenso amministratori non è nuovo alla Cassazione. Senza voler scomodare l’ordinanza n. 18702 del 23 agosto del 2010 che mette in discussione la deducibilità in base a logiche che vanno oltre a quanto è possibile dedurre dal dettato normativo, si ricorderà le sentenze che intervengono sulla deducibilità compenso in caso di mancanza di delibera assembleare e sulla possibilità dell’amministrazione finanziaria di sindacare l’entità del compenso.

Normativa

Secondo il co. 5, art. 95, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 [5195], i compensi erogati agli amministratori sono deducibili nell’esercizio in cui vengono corrisposti: la deducibilità è condizionata al loro effettivo pagamento.

La norma poi estende la disciplina prevista anche ai compensi erogati sotto forma di partecipazioni agli utili, erogati ai soci fondatori o ai promotori, recependo nel Tuir la previsione di cui all’art. 14, co. 3, lett. i), L. 24 dicembre 1993, n. 537 [1287]. Anche in questo caso si applica il criterio di cassa e, in deroga al principio dell’imputazione (ex art. 109, co. 4, Tuir), i compensi sono deducibili anche se non sono imputati a conto economico dell'esercizio cui si riferisce l'utile che ha costituito la base di calcolo del compenso.

Si noti come la deducibilità in base al principio di cassa riguardi esclusivamente il compenso; i relativi contributi previdenziali dovranno pertanto rispettare il principio di competenza.

L’adozione del criterio di cassa, in deroga al principio generale della competenza, trova la sua giustificazione nell’esigenza di rimuovere gli inconvenienti derivanti dal precedente dettato normativo, in virtù del quale la deduzione dei compensi erogati sotto forma di partecipazioni agli utili avveniva nel rispetto del principio della competenza economica e quindi temporalmente anticipata rispetto al momento in cui i compensi stessi venivano assoggettati ad imposizione nei confronti del percettore e indipendentemente dall'effettiva tassazione dei compensi stessi.

Si noti come la norma regoli in merito ai compensi agli amministratori senza fare quindi riferimento alla natura reddituale che tali somme costituiscono per il percettore. Si ha quindi che i costi relativi a collaborazioni coordinate e continuative (ad esempio, membro del collegio sindacale, collegio dei revisore dei conti non titolare di partita Iva) ovvero da collaborazioni professionali che non derivino da attività di amministratore, sono esclusi dalla deducibilità in base al principio di cassa e continuano ad essere deducibili per l'impresa in base al principio di competenza temporale.

Da un'applicazione letterale dell'art. 95, co. 5, Tuir si dovrebbe concludere che la società deduce solo le somme effettivamente corrisposte agli amministratori entro il 31 dicembre di ciascun periodo d'imposta. Tuttavia occorre segnalare che la questione fu diversamente risolta dall'Agenzia delle Entrate (si vedano la C.M. 18 giugno2001, n. 57 e 12 dicembre 2001, n. 105), la quale ha affermato che anche per la società deve applicarsi il criterio di cassa allargato in considerazione del fatto che all’amministratore si applica la speciale regola di cui all'art. 51, co. 1, Tuir [5151], cioè le somme incassate entro il 12 gennaio sono figurativamente percepite entro il precedente periodo d'imposta.

Pertanto la società può dedurre i compensi pagati agli amministratori fino al 12 gennaio dell'esercizio successivo al termine del periodo d'imposta, come se figurativamente li avesse erogati entro il 31 dicembre.

Considerato che la ratio della pronuncia dell'Agenzia è quella di far coincidere i criteri di tassazione tra erogante e percipiente, nel caso di amministratore professionista il principio di cassa allargato non trova applicazione. In questo caso, infatti, per l’amministratore i compensi corrisposti nei primi giorni di gennaio concorrono a formare il reddito nel nuovo esercizio.

Stessa cosa dicasi in caso di società con esercizio a cavallo dell’anno solare, considerato che anche in questo caso non trova applicazione il principio di cassa allargato.

L’ordinanza n. 18702 del 23 agosto 2010

Con l’ordinanza n. 18702 del 23 agosto 2010 la Cassazione sostiene che i compensi corrisposti agli amministratori di società di capitali non costituiscono un costo deducibile. Dalla motivazione del provvedimento emerge che è stato applicato l'articolo 62 del Dpr 917/1986, che disciplinava, fino al 31 dicembre 2003, le spese per prestazioni di lavoro nell'ambito della determinazione del reddito di impresa. Questa norma -che a differenza dell’attuale trattava del reddito d’impresa nell’ambito dell’Irpef e valeva solo per rimando anche per le società di capitali (gli allora soggetti Irpeg) - prevedeva la non deducibilità di somme a titolo di compenso del lavoro prestato o dell'opera svolta dall'imprenditore individuale, mentre al comma 3 prevedeva la deducibilità dei compensi spettanti agli amministratori delle società di persone aventi natura commerciale.

In sintesi secondo la Cassazione il regime di deducibilità dell’allora art. 62 del Tuir  non era applicabile agli amministratori delle società di capitali essendo la loro prestazione assimilabile più a quella dell'imprenditore che a quella degli amministratori di società di persone. Per i giudici la posizione dell'amministratore delle società di capitali era equiparabile «sotto il profilo giuridico, a quella dell'imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l'assoggettamento all'altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione».

La decisione, che non dovrebbe più  destare dubbi con le regole ora in vigore, desta forti perplessità.

In prima battuta sembra che la Suprema corte non abbia considerato che esisteva un'altra norma (l’allora art. 95 del Tuir) la quale estendeva la disciplina delle società di persone anche alle società di capitali. Sia il sistema normativo precedente al 2004, che in quello successivo l'imprenditore individuale non ha alcun diritto a detrarre somme per l'attività gestoria che egli svolge ma, contestualmente, non tassa il compenso percepito, mentre l'imprenditore societario (società di persone o società di capitali non fa differenza) può sempre dedurre le somme corrisposte agli amministratori i quali dovranno portarli a tassazione.

In seconda battuta non va dimenticato che una società ha una propria personalità giuridica (soggettività giuridica in caso di società di persone) che fa si che l’amministratore, ancorchè possa essere anche socio della società, sia soggetto  in ogni caso distinto rispetto alla società; ciò a differenza dell’imprenditore, dove le c.d. sfere, quella personale e quella  e imprenditoriale sono una finzione fiscale che nulla hanno a che vedere con gli ambiti giuridici. Quanto all'assimilazione delle prestazioni degli amministratori delle società di capitali a quelle dell'imprenditore, va ricordato che in diritto commerciale si è sempre pacificamente ritenuto che l'attività gestoria di una società (spesso affidata a persone non socie, chiamate a svolgere l'attività di amministrazione per le loro professionalità) debba essere retribuita con somme (o con forme di partecipazioni agli utili) che chiaramente costituiscono un costo per la società. E se c'é un costo (sicuramente inerente in quanto sorto per consentire la gestione della società) automaticamente c'è una generale deducibilità del costo, essendo impensabile il contrario. Nel caso delle società di capitali, peraltro, la distinzione tra i soci, da una parte, e l'amministrazione, dall'altra, presenta profili maggiori, e ancora più evidenti, rispetto alla situazione delle società di persone.

Come anticipato, la decisione della suprema corte, in ogni caso  non dovrebbe destare dubbi con le regole in vigore dal 1 gennaio 2004. La riforma fiscale (Dlgs n. 344/2003)  pur senza avere apportato modifiche sostanziali al regime delle spese per gli amministratori, ha riscritto - dopo l'introduzione dell'imposta sulle società - le norme sulle società di capitali facendo discendere da esse l'imposizione del reddito di tutte le imprese. Con le regole ora in vigore, il calcolo del reddito imponibile delle società di capitali avviene secondo una disciplina specifica e non più, per rimando, in base alle norme delle imprese Irpef.

La deducibilità del compenso in caso di mancanza di delibera assembleare

Ci si potrebbe chiedere se la deducibilità fiscale delle remunerazioni erogate agli amministratori sia condizionata dalla regolarità civilistica della procedura adottata dalla società per l'assunzione dell'obbligo e del relativo pagamento.

Sul piano civilistico il compenso agli amministratori è regolato, tra gli altri, dagli artt. 2364, 2389, 2432 e 2421, Codice civile; in particolare, tali norme prevedono che la determinazione del compenso agli amministratori compete all'assemblea dei soci. Il problema si pone nel caso in cui difetti una delibera: perché non si sia provveduto alla verbalizzazione di una deliberazione effettivamente adottata o perché non si sia deliberato alcunché. In materia societaria vige uno statuto speciale che fissa termini di decadenza assai ristretti per impugnare gli atti societari, spirati i quali una delibera (trasfusa in un verbale di assemblea) in ipotesi viziata, non è più impugnabile.

Cass. sentenza n. 3774/1995

Sul tema, su un piano squisitamente civilistico,  è intervenuta la Cassazione con la sentenza n. 3774/1995,  pronunciata su  un  motivo  di  ricorso  proposto  nei  confronti  di una sentenza che aveva  dichiarato  l'illegittimità  della  ratifica,  mediante approvazione del bilancio, dei  compensi  che gli amministratori  di  una società per azioni si  erano  autodeterminati,  senza  preventiva  delibera dell'assemblea (e pertanto con affermazioni che ne costituiscono  la  ratiodecidendi e non mero obiterdictum), il compenso «può  essere  inserito  in bilancio, in quanto sia stato deliberato dalla  assemblea  con  un'autonoma decisione, che non può essere implicita  nella  approvazione  del bilancio stesso».

Cass. sentenza  n.  2832/2001

Di contro, con la sentenza n. 2832/2001 la Cassazione ha affermato che l'approvazione del bilancio nel quale figuri iscritta la voce  relativa  al compenso ha  valore giuridico  di  approvazione  e  ratifica  dell'operato dell'amministratore  che  si  sia  attribuito  tale  compenso   senza   che l'assemblea lo abbia previamente deliberato. L'approvazione  del  bilancio, infatti, costituirebbe manifestazione  di  volontà  specificamente  diretta all'approvazione di tale attribuzione, perchè non  costituirebbe  una  mera presa  d'atto  di  dati  contabili,  ma   rappresenterebbe   un   atto   di appropriazione del rapporto da parte della società e pertanto una ratifica.

Affermando tale principio la sentenza richiama la Cassazione n. 6935/1983 la quale, pronunciando  in  una  fattispecie  in  cui  un soggetto poi   nominato amministratore di una  società  di  capitali,  in  epoca  antecedente  alla costituzione, aveva stipulato un contratto di locazione, ha ritenuto che la delibera di approvazione del bilancio, in cui sia incluso il debito per i relativi canoni, non costituendo una mera dichiarazione di scienza,  nè  un semplice atto unilaterale ed interno, ma un atto in cui rileva  la  volontà che sta alla base della formazione della  deliberazione  stessa,  ove  sia provata la conoscenza dell'instaurazione del  rapporto  locativo  da  parte dell'assemblea, costituisce un atto di appropriazione di tale  rapporto  da parte della società e vale come ratifica dell'atto posto in essere  da  chi ha agito in nome della società stessa senza averne il potere.

Cass. sentenze n. 28243/2005 e n.  11490/2007

Il principio affermato con la  sentenza  n.  2832  del  2001,  è  stato condiviso, in modo espresso e mediante rinvio esplicito, dalla successiva sentenza n. 28243/2005, e implicitamente da Cassazione n.  11490/2007, che tuttavia ha negato che, allo scopo di valutare la possibilità di sanare l'autoattribuzione di compensi da parte dell'amministratore, non preventivamente deliberata dall'assemblea, mediante delibera 

di approvazione di bilancio, sia sufficiente l'affermazione del  principio  di diritto astratto di cui alla decisione del 2001, essendo necessario che  in concreto siano indicati gli elementi probatori dai quali  risulti  che  la specifica spesa era stata acquisita al bagaglio istruttorio della  delibera relativa al bilancio.

La stessa duplicità  di  orientamenti  evidenziata  all'interno  della giurisprudenza di legittimità si è registra anche nella giurisprudenza  di  merito e nella dottrina.

Cass. Sezione Unite con la sentenza del 29 agosto 2008, n. 21933

In tempi successivi alle sentenze sopra riportate è intervenuta la Cassazione a Sezione Unite con la sentenza del 29 agosto 2008, n. 21933.  Viene detto che i compensi degli amministratori devono essere determinati con una delibera societaria specifica in quanto non si può pensare che questa delibera possa essere implicita in quella che ha approvato il bilancio.

Nella sostanza le Sezioni unite per arrivare alla conclusione più restrittiva sottolineano innanzitutto che il tema della remunerazione degli amministratori delle società di capitali (che, sulla base della riforma del 2003 può essere costituita in tutto o in parte da partecipazioni agli utili o dall'attribuzione del diritto di sottoscrivere a prezzo predefinito azioni di futura emissione) è tra i più importanti nell'ambito delle problematiche del governo societario. Tanto che la Commissione europea è più volte intervenuta sul punto e il Testo unico sull'intermediazione finanziaria è stato modificato in alcuni aspetti, sempre alla ricerca di un equilibrio tra gli interessi dei soggetti che hanno compiti di direzione delle società e quelli degli azionisti.

L'articolo del Codice civile che disciplina la materia, il 2389, nella lettura delle Sezioni unite, ha una natura imperativa e inderogabile «sia perché, in generale, le discipline della struttura e del funzionamento delle società regolari sono dettate (anche) nell'interesse pubblico al regolare svolgimento dell'attività commerciale e industriale del Paese, sia perché la loro violazione, in particolare la percezione di compensi non previamente deliberati dall'assemblea era prevista dall'articolo 2630, 2° comma n. 1, del Codice civile (...) come delitto che non poteva essere certo scriminato dall'approvazione del bilancio successiva alla consumazione».

Le delibere di approvazione del bilancio e di determinazione del compenso degli amministratori hanno poi oggetti chiaramente diversi. La prima è indirizzata a controllare la legittimità di un atto di competenza degli amministratori, approvandolo o no, mentre l'altra ha la funzione di determinare o stabilire la la remunerazione dei manager. In ogni caso, mette ancora in evidenza la sentenza, anche a volere ipotizzare l'ammissibilità di una ratifica tacita della autodeterminazione del compenso da parte dell'amministratore sarebbe necessaria la prova che, approvando il bilancio, l'assemblea è a conoscenza del vizio ha espresso la volontà di fare proprio l'atto compiuto dall'organo privo di potere non potendo invece essere considerata sufficiente una generica delibera di approvazione.

Prendendo poi in considerazione le pronunce sia di merito sia di legittimità che hanno seguito un indirizzo diverso, le Sezioni unite ricordano che si è di solito trattato di sentenze che non hanno riguardato la violazione di norme imperative come avviene invece nel caso di quelle sui compensi degli amministratori. La stessa dottrina ritiene poi che l'ammissibilità di delibere tacite o implicite sia in contrasto con le regole di formazione della volontà della società e in particolare con la disciplina del Codice civile che stabilisce l'indicazione esplicita dell'ordine del giorno degli argomenti sui quali deliberare in maniera tale da permettere la partecipazione all'assemblea di soci preparati.

Per le Sezioni unite, infine, va conservata la distinzione tra approvazione del bilancio e degli atti gestori a esso sottostanti; distinzione che deve trovare un riflesso anche nella separata indicazione nell'ordine del giorno tra i punti da trattare. L'unica possibilità di un'approvazione dei compensi contestualmente al bilancio è nella prova che l'assemblea dopo avere licenziato il rendiconto ha affrontato e approvato in maniera esplicita il nodo della retribuzione.   

La posizione degli organi verificatori è spesso improntata alla valorizzazione, anche sotto il profilo fiscale, della carenza di deliberazione. Gli argomenti utilizzati sono riconducibili essenzialmente al difetto di certezza del costo sostenuto, anche sotto il profilo della mancanza di data certa; e, ancor prima, alla carenza di un idoneo titolo di pagamento. Secondo alcuni, l'eccessiva asprezza di questa conclusione (che cozza anche contro ragioni di "simmetria" fiscale nel caso di regolare tassazione dell'emolumento da parte dell'amministratore) invita a valutare interpretazioni alternative, che però non possono prescindere dal superamento di un ostacolo significativo: la carenza di una delibera determina l'inesistenza del titolo giuridico che legittima il pagamento. In questo caso, infatti, la società mantiene in astratto il diritto alla ripetizione dall'amministratore delle somme "indebitamente" versate. Se il diritto alla restituzione viene non attivato dalla società, si potrebbe configurare una liberalità e, come tutte le donazioni, un onere non rilevante nei rapporti con il Fisco (Cfr.G. Maccagnani e G.P. Ranocchi, Delibera anche retroattiva, Il Sole 24 Ore 27 marzo 2006).

In questa prospettiva va segnalato che nulla impedisce alla società di adottare una delibera dotata di tutti i crismi formali che "sani" la situazione con efficacia espressamente retroattiva (si badi a scanso di equivoci che la delibera in ratifica sarebbe adottata al momento, ad esempio, della verifica fiscale; e si tenga anche nel giusto conto, dell'orientamento ministeriale e giurisprudenziale, a proposito della non utilizzabilità in sede contenziosa dei documenti non esibiti nel corso della verifica). All'eccezione del Fisco secondo cui in questo caso il requisito della certezza sarebbe difettoso perché acquisito posteriormente alla data di deduzione del costo, potrebbe obiettarsi, che sussistono plurimi elementi oggettivamente incardinati nel tempo (ad esempio l'annotazione dei movimenti nelle scritture contabili, i versamenti periodici delle ritenute, il rilascio delle certificazioni, gli elementi risultanti dai bilanci approvati e depositati), indirettamente ma inequivocabilmente idonei a conferire, pur a posteriori, la certezza oggettiva del costo, tale da renderlo fiscalmente deducibile.

L’entità del compenso

L'entità del compenso è decisione che di norma spetta all'assemblea dei soci (art. 2364, Codice civile), salva l'ipotesi di amministratori investiti di particolari cariche per i quali la misura del compenso è stabilita dal l'organo amministrativo (art. 2389, comma 3, Codice civile), a meno che lo statuto non affidi anche questa decisione all'assemblea. Il punto delicato è valutare se la misura del compensi deliberati possa essere disconosciuta dal Fisco se giudicata eccessivamente elevata.

Cass. n. 12813 del 27 settembre 2000

Cass. 30 ottobre 2001 n. 13478

Cass. 27 settembre 2000 n. 12813

Cass. n. 13478/2001

Una prima pronuncia in cui questa tesi fu riconosciuta valida si ha con la sentenza della Cassazione n. 12813 del 27 settembre 2000 (poi seguita dalle sentenze della Corte di Cass. 30 ottobre 2001 n. 13478 e Corte di Cass. 27 settembre 2000 n. 12813). Sulla base del principio generale secondo il quale l'amministrazione può valutare la congruità di costi e ricavi a prescindere dalla contestazione della loro veridicità, la Suprema corte ha riconosciuto fondati i rilievi del Fisco che aveva disconosciuto parte dei compensi erogati all'organo amministrativo.

La questione era inerente i compensi ad amministratori di società in nome collettivo ma la vicenda assume evidentemente contorni generali quando nella sentenza si afferma: “Per quanto attiene ai compensi degli amministratori delle società in nome collettivo, la loro deducibilità, riconosciuta dall'art. 62 del Tuir indipendentemente dal fatto che gli amministratori siano o non siano soci, non significa che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni sociali o contratti, e ciò a prescindere dall'invalidità di questi atti sotto il profilo civilistico”.

Secondo questa pronuncia, il Fisco avrebbe potuto procedere alla rettifica delle dichiarazioni dei redditi, sia pure nel rispetto dei principi dettati dal decreto sull'accertamento e dal Tuir in materia di reddito d'impresa, e negare in tutto o in parte la deducibilità dei costi, se eccessivi rispetto al montante ricavi o all'oggetto dell'impresa. E questo anche in mancanza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi degli atti giuridici compiuti nell'esercizio dell'attività imprenditoriale. I giudici precisano ulteriormente che il Fisco non poteva essere vincolato alle deliberazioni assembleari in tal senso e che questo percorso logico dovesse estendersi anche agli altri elementi di costo sostenuti dall'impresa (Cfr. Corte di Cass. Sentenza n. 13478/2001).

Cass. n. 6599 del 9 maggio 2002

Cass. n. 21155 del 31 ottobre 2005

La vicenda ha suscitato molte critiche per un motivo molto semplice: nel precedente Testo unico (Dpr n. 597 del 1973) era sì prevista una soglia massima per legittimare la deducibilità fiscale del compenso degli amministratori soci - soglia parametrata alla misura corrente degli emolumenti spettanti ad amministratori non soci - ma con l'entrata in vigore del Tuir questo parametro è stato abrogato. Sia nel precedente art. 62 sia nell'attuale art. 95 del Tuir non vi è traccia di alcun tetto limite quale condizione necessaria per la deduzione fiscale del compenso.

Da qui la tesi che la misura del compenso non sia oggetto di possibile sindacato di congruità da parte del Fisco. Questa tesi è stata sostenuta da altre e recenti pronunce della Suprema Corte tra, le quali vale la pena di ricordare la n. 21155 del 31 ottobre 2005 in cui emerge chiaramente l'insindacabilità della misura del compenso (prima la Cassazione n. 6599 del 9 maggio 2002).: “Questo orientamento è basato sul fatto che l'art. 62 del Tuir, nella sua nuova formulazione introdotta dal testo unico, non prevede più il richiamo a un parametro da utilizzare nella valutazione della entità dei compensi, per cui l'interprete non può che prendere atto della modificazione normativa e concludere per l'inesistenza del potere di verificare la congruità delle somme date ad un amministratore di società a titolo di compensi per l'attività svolta”. Va anche ricordato che la società ricorrente aveva aggiunto che in ogni caso il compenso erogato agli amministratori rappresentava il 2,6 per cento dei ricavi contabilizzati ed era da ritenersi congruo anche sulla base delle tariffe professionali dei dottori commercialisti chiamati a svolgere incarichi amministrativi.

La Suprema corte nella sentenza n. 6599/02 ricorda che l'articolo 59 del previgente Dpr n. 597 del 1973 aveva tentato di mettere un argine al fenomeno, sottoponendo i compensi degli amministratori soci ai limiti «delle misure correnti per gli amministratori non soci». Il fatto che tale elemento non sia stato accolto nelle disposizioni successive, elimina ogni possibilità di intervento, anche perché la norma antielusiva (articolo 37-bis del Dpr n. 600 del 1973) non è applicabile alle ipotesi di specie. Inoltre, sempre secondo il richiamato orientamento della Suprema Corte, il comportamento dell'impresa non sarebbe attaccabile neppure sul piano dell'inerenza, dovendo quest'ultimo requisito essere riferito alla "qualità" del costo e non alla sua "quantità".

In buona sostanza, se la spesa serve a produrre ricavi, sindacarne la misura corrisponderebbe a "sostituirsi" all'imprenditore, unico soggetto cui spetta la scelta delle strategie aziendali.

Il nuovo “filone” interpretativo fa notare che l'art. 62 del Tuir (oggi art. 95, comma 5) al comma 3 dispone, sic et simpliciter, che i compensi spettanti agli amministratori, anche in forma di partecipazione agli utili, si deducono nell'anno fiscale in cui sono corrisposti.

Pertanto, la Cassazione non vede in questa norma, né in altre, il riferimento a tabelle o ad altre indicazioni vincolanti sul piano della deducibilità fiscale degli emolumenti all'organo amministrativo. Vincoli che invece esistevano nella norma precedente al Tuir, ove nell'art. 59 del Dpr n. 597 del 1973 era espressamente previsto che i compensi agli amministratori erano deducibili “nei limiti delle misure correnti”. La mancanza nelle nuove norme del Tuir di questo vincolo alla deduzione delle remunerazioni amministrative e di una norma antielusiva generale, impongono al Fisco di osservare un limite netto e preciso al proprio potere di accertamento sulla congruità dei compensi agli amministratori e, in generale, di qualsivoglia voce di costo dell'impresa, onde evitare “il rischio concreto dell'arbitrarietà”.

È evidente il contrasto che emerge nella giurisprudenza della Suprema corte che ha prodotto diverse sentenze alternativamente ispirate alla tesi della sindacabilità e del l'insindacabilità dell'entità del compenso. La tesi che evidentemente appare più rispettosa del nuovo dato normativo, e l'unica in grado di spiegare il motivo per cui da un testo in cui era presente un parametro si è passati all'attuale norma priva di qualunque tetto di congruità, è quella che vede la misura del compenso quale decisione che spetta solo al l'organo sociale deputato a prenderla senza che il Fisco possa esercitare alcun sindacato di congruità.

Ai fini accertativi il “problema” però può spostarsi in termini di prove. In merito la dottrina più autorevole invita sul punto a considerare che l'antieconomicità (ovvero la manifesta irragionevolezza di certe scelte) non può, da sola, costituire il "quadro accusatorio" della rettifica, ma solo un indizio che, unitamente ad altre considerazioni, può qualificare la presunzione a favore del Fisco e invertire l'onere della prova. Non va poi dimenticato l'aspetto della doppia imposizione, generalmente tenuto in secondo piano quando si discute di congruità dei costi a livello di singola impresa e non di sistema. Insomma, anche in questo caso l'assenza nel sistema normativo di un qualsivoglia riferimento finisce per danneggiare le imprese, che hanno il gravoso compito, all'atto della fissazione dei compensi, di individuare un importo «economicamente convincente » agli occhi dei futuri verificatori, operazione che si presenta ancora più complessa con riferimento alla remunerazione in natura (fringe benefit) e a quella differita, vale a dire il trattamento di fine mandato (Tfm).

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