RADDOPPIO DEI TERMINI DI ACCERTAMENTO

articolin

ARTICOLO - Pubblicato il: 19 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori

L’art. 57, co. 3, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 in materia di Iva e l’art. 43, co. 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 in materia di II.DD., inseriti per effetto dell’art. 37, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (cd. decreto Bersani-Visco), conv. con modif. con L. 4 agosto 2006, n. 248, prevedono in caso di violazio¬ne che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del Codice di procedura penale, per uno dei reati fiscali previsti dal D.Lgs. 74/2000, il raddoppio dei termini di decadenza dell’azione di accertamento relativamente al periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione.

Per effetto delle citate disposizioni il Fisco può notificare gli avvisi di accertamento entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazio¬ne e, nel caso di omessa presentazione o di presentazione di dichiarazione nulla, fino al 31 dicembre del decimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.

In condizioni normali, ossia in assenza di vio¬lazioni penali tributarie, i termini di decadenza oltre i quali gli Uffici finanziari non possono più accertare la posizione fiscale del contri¬buente sono invece fissati, sia per le imposte sui redditi che per l’Iva, al 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione, ovvero del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione omessa avrebbe dovuto essere presentata. Oltre questi termini la posizione del contribuente si «consolida» definitivamente.

Quando scatta la notizia di reato

Alla base della possibilità di estendere i termini per l’accertamento vi è, quindi, una violazione penale tributaria in materia di imposte sui redditi o Iva commessa dal contribuente, la cui notizia (cd. notizia criminis) viene normalmente acquisita nel corso delle attività di verifica fiscale.

L’obbligo di denuncia sorge anche ove sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali, il cui accertamento è riservato all’autorità giudiziaria penale e non alla polizia giudiziaria o a pubblici ufficiali.

Infatti, qualora nel corso delle attività ispettive emergano risultanze tali da ritenere configurata, quanto meno nei principali elementi costitutivi di carattere materiale, una fattispecie criminosa, i verificatori devono provvedere senza ritardo ad informare il Pubblico Ministero competente.

Questo sia nel caso di militari appartenenti alla Guardia di finanza, alla luce delle qualifiche di polizia giudiziaria dagli stessi rivestite, sia nell’ipotesi di funzionari civili dell’Amministrazione finanziaria che, in qualità di pubblici ufficiali, hanno l’obbligo di riferire ogni notizia di un reato perseguibile d’ufficio appresa nell’esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio.

È appena il caso di ricordare, poi, che l’omesso o il ritardato inoltro all’Autorità giudiziaria della comunicazione di notizia, sono penalmente sanzionati ai sensi dell’art. 361, co. 2, Codice penale. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità è sempre stata particolarmente severa nel valutare l’omissione o il ritardo nell’adempimento di tale obbligo, soprattutto quando fa capo alla polizia giudiziaria (nel caso in esame la Guardia di finanza).

Quest’ultima, secondo la Suprema Corte, non ha alcun margine di discrezionalità nel valutare la notizia criminis per cui, una volta presa conoscenza di una situazione di possibile rilevanza penale, essa è senz’altro obbligata ad informare tempestivamente l’Autorità giudiziaria, senza alcuna possibilità di valutare o prendere in considerazione profili soggettivi ovvero altre circostanze, diverse dalla materialità del fatto, idonee a poter incidere sulla responsabilità penale (quali, ad esempio, presenza o meno del dolo specifico - particolarmente rilevante in ambito penal-tributario, dove le ipotesi delittuose previste dal D.Lgs. 74/2000 si fondano sul dolo specifico di evadere le imposte -, ricorrenza di esimenti, di cause di estinzione del reato o di non punibilità, ecc.) rimesse alla esclusiva valutazione della magistratura.

Qualora poi siano stati compiuti atti per i quali è prevista la presenza del difensore della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini (ad esempio, sono state sequestrate fatture ritenute relative ad operazioni inesistenti), la comunicazione della notizia di reato deve essere trasmessa al più tardi entro 48 ore dal compimento dell’atto.

L’obbligo di trasmettere alla Procura della Repubblica la comunicazione della notizia di reato può, di conseguenza, ricorrere in qualsiasi fase del controllo fiscale, senza dover necessariamente attendere la conclusione di tutte le operazioni. In tale eventualità, la verifica potrà comunque essere proseguita in via amministrativa per aspetti e irregolarità diverse da quelle oggetto dell’informativa all’Autorità giudiziaria.

Un discorso a parte meritano i reati in materia di imposte sui redditi ed Iva previsti agli artt. 3, 4 e 5, D.Lgs. 74/2000, punibili solo nel caso di superamento di alcune soglie di punibilità, riferite agli elementi sottratti dalla base imponibile e/o all’imposta evasa (pari alla differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata in dichiarazione, ovvero all’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine).

Ci si chiede, infatti, se
alla determinazione della soglia riferita all’imposta evasa debbano o meno procedere gli stessi verificatori, oppure se quest’ultima sia riservata all’Ufficio finanziario competente per l’accertamento.

In merito, tenuto conto della natura delle soglie di punibilità – costruite come elementi costitutivi obiettivi del reato e non come condizioni di procedibilità – ma, soprattutto, della completa autonomia fra procedimento penale e procedimento di accertamento, l’interpretazione finora seguita dagli organi dell’Amministrazione finanziaria ritiene spetti ai verificatori l’autonoma valutazione della configurabilità degli illeciti penali ai fini delle imposte sui redditi e dell’Iva, anche previa quantificazione dell’imposta evasa.

Allo stesso modo il Pubblico Ministero, per decidere se esercitare o meno l’azione penale, nonché il giudice dell’udienza preliminare e quello del dibattimento, ai fini delle decisioni concernenti il rinvio a giudizio o la condanna, dovranno a loro volta, in via del tutto autonoma, determinare l’imposta evasa, anche se a questo scopo debbano ricorrere a nozioni e regole proprie del diritto tributario.

All’atto pratico i verificatori provvedono a una preliminare quantificazione dell’imposta evasa e comunicano all’Ufficio finanziario competente il numero assegnato dalla Cancelleria del Pubblico Ministero al procedimento penale instaurato a seguito della comunicazione di notizia di reato. Quest’ultima potrà eventualmente essere integrata dall’Ufficio titolare dell’azione di accertamento, invece, mediante la comunicazione di elementi di carattere tecnico che possano risultare di rilevo per la configurazione in concreto della responsabilità penale.

Secondo la Corte costituzionale la normativa del 2006, in sostanza, fissa (ex lege) nuovi termini, raddoppiati rispetto a quelli ordinari, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva (vedi Corte Cassazione sentenza 20 luglio 2011, n. 247 depositata in data 25 luglio 2011). Partendo da questo concetto, la sentenza arriverà a dire che il raddop¬pio dei termini opera anche se la denuncia è stata presentata quando ormai i termini di accertamento ordinari erano già decorsi. In merito si veda quanto detto dopo.

Ai sensi dell’art. 37, comma 26, del citato decreto-legge n. 223 del 2006, “le disposizioni di cui ai commi 24 e 25 si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto (4 luglio 2006) sono ancora pendenti i termini di cui al primo e secondo comma dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e dell’articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633.”

In sostanza, esse operano non solo per il periodo di imposta 2006, ma anche per quelli precedenti, per i quali, per espressa previsione normativa, all’atto della comunicazione della notitia criminis, gli uffici siano ancora legittimati a procedere all’accertamento secondo i termini non raddoppiati.

In merito a tale aspetto dell’applicazione del raddoppio dei termini anche alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore del D.L. 223/2006 (4 luglio 2006) si è pronunciata la Corte costituzionale nella sent. 20 luglio 2011, n. 247affermando che questo effetto non deriva dalla natura retroattiva della normativa, ma dall’applicabilità ex nunc della protrazione dei termini in corso.

In merito si veda anche quanto detto subito dopo a commento della sentenza.

La ratio legis dell’innovazione del 2006 risiede nella volontà del Legislatore di dotare l’Amministrazione finanziaria di un maggior lasso di tempo per acquisire e valutare dati utili a contrastare illeciti tributari che, proprio per avere rilevanza penale, sono ritenuti particolarmente gravi e, di norma, di complesso accertamento.

In particolare, la gravità e la difficoltà di rilevamento di detti illeciti derivano sia dalla non arbitraria ipotizzabilità (in base a chiari ed obiettivi elementi indiziari) dei reati perseguibili d’ufficio previsti dal D.Lgs. 74/2000, sia dal fatto che tali reati normalmente richiedono controlli, verifiche ed indagini fiscali particolarmente difficili al fine di determinare l’effettiva capacità contributiva dei soggetti passivi d’imposta.

Ulteriore obiettivo perseguito dal Legislatore, indicato nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del D.L. 223/2006, è quello di consentire la circolazione delle prove dal giudizio penale al processo tributario, tenuto conto della normale maggior durata del processo penale rispetto agli ordinari termini di accertamento.

Ovviamente però, il raddoppio dei termini di decadenza opera esclusivamente in relazione all’annualità cui si riferisce il reato, e non a tutto il periodo sottoposto a controllo.

Ad esempio, in caso di verifica fiscale relativa agli anni 2008 e 2009, qualora venga denunciata la commissione di un reato tributario relativo all’annualità 2008, la proroga dei termini per l’accertamento opererà solo per tale periodo d’imposta, e non anche per il 2009.

Un altro aspetto riguarda l’ampiezza della proroga, ossia se essa riguardi l’intera posizione fiscale del contribuente relativamente a quel periodo d’imposta in cui si è verificato il fatto costituente reato ai sensi del D.Lgs. 74/2000, ovvero solo i riflessi fiscali direttamente correlati alla vicenda penale. Secondo l’interpretazione finora seguita dagli organi dell’Amministrazione finanziaria l’ampiezza della proroga fa riferimento anche ad aspetti diversi dalla violazione stessa e, quindi, anche a irregolarità fiscali non emerse o non considerate nell’ambito del procedimento penale.

In forza della specialità del terzo comma dell’art. 57 e dell’art. 43, non rientrano nel computo dei termini da raddoppiare i prolungamenti previsti da altre disposizioni di legge (ad esempio, proroga biennale di cui all’art. 10, L. 27 dicembre 2002, n. 289, proroga per gli interventi antievasione e antielusione internazionale ex art. 12, co. 2-bis, D.L. 1° luglio 2009, n. 78, conv. con modif. con L. 3 agosto 2009, n. 102).Ciò significa che nel caso in cui i prolungamenti dei termini previsti da diverse disposizioni siano astrattamente applicabili in relazione alla medesima fattispecie, l’Amministrazione finanziaria non potrà mai utilizzarli in modo cumulativo al fine di su-perare il massimo dell’ampliamento previsto dalla singola normativa più favorevole per l’amministrazione stessa.

Altro aspetto di rilievo, è se l’aumento dei termini ordinari per l’accertamento risenta delle vicende del procedimento penale instaurato per effetto della denuncia di reato. In merito a tale aspetto la C.M. 54/E/2009 sostiene che il raddoppio dei termini operi a prescindere dalle successive vicende del giudizio penale che consegua alla denuncia ex art. 331 del c.p.p.. Tale interpretazione, secondo il citato documento di prassi, sarebbe conforme ai criteri ermeneutici fissati dall’art. 12, co. 1 delle disposizioni sulla legge in generale il quale, nello stabilire il primato dell’interpretazione letterale sugli altri criteri ermeneutici (in claris non fit interpretatio), prevede che «nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del Legislatore». Alla stessa soluzione l’Agenzia giunge anche utilizzando il diverso – e sussidiario – criterio interpretativo della mens legis, ossia della finalità della disposizione, dovendosi ragionevolmente escludere che il Legislatore abbia voluto subordinare l’efficacia del procedimento tributario di accertamento – e delle risultanze istruttorie ivi raccolte – al verificarsi di una fattispecie successiva ed eventuale, quale la pronuncia di condanna penale del contribuente e in base al principio di separazione tra procedimento amministrativo di accertamento e procedimento penale fissato dall’art. 20, D.Lgs. 74/2000, in forza del quale il primo non può essere sospeso «(...) per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione».

Tale interpretazione è stata confermata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 247/2011 secondo la quale i nuovi termini di decadenza operano per il sol fatto che sia stato comunque intrapreso un procedimento indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorge ed indipendentemente dal suo adempimento.

Sulla base della stessa impostazione logica - tesa a garantire all’Amministrazione finanziaria la possibilità di utilizzare gli elementi istruttori emersi nel corso delle indagini penali per un periodo di tempo più ampio rispetto a quello ordinario – la Circ. 54/E /2009 giunge a ritenere che la proroga operi anche in relazione alle fattispecie in cui, per l’accertamento tributario nei confronti del soggetto verso cui opera l’ampliamento dei termini, sia necessario procedere all’accertamento anche nei confronti di altro soggetto d’imposta legato al primo, ad esempio, da un rapporto di responsabilità solidale.

Ciò, ovviamente, solo per quegli aspetti tributari che assumono rilevanza per la determinazione della posizione fiscale del primo e limitatamente al periodo d’imposta cui si riferisce la violazione che assume rilevanza penale.

È il caso, ad esempio, del rapporto tra consolidante e consolidata che si determina nell’ambito del consolidato nazionale previsto dall’art. 127, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, che consente ai gruppi societari di determinare il proprio reddito imponibile, ai fini Ires, in forma unitaria e globale in capo ad un unico soggetto controllante controllante (cosiddetto consolidante), in presenza di rapporti partecipativi che abbiano i requisiti previsti dagli artt. 117 e 120, D.P.R. 917/1986.

In tale ipotesi, atteso che il procedimento di accertamento sul gruppo si compone di due livelli legati da un nesso di consequenzialità, per cui alla rettifica operata in capo alla società consolidata consegue sempre la rettifica del reddito complessivo globale ai fini della determinazione della maggiore imposta dovuta, il raddoppio dei termini in capo alla consolidata comporta l’estensione dello stesso anche nei confronti della consolidante.

Analoga estensione opera anche in relazione alle ipotesi di società legate da rapporti di controllo che abbiano aderito alla procedura di liquidazione Iva di gruppo, ai sensi dell’art. 73, co. 3, D.P.R. 633/1972, nonché di società che abbiano optato per il sistema di tassazione per trasparenza ai sensi dell’art. 115, D.P.R. 917/1986. In relazione a tale ultimo caso, però, la proroga si applica agli aspetti tributari che assumono rilevanza per la determinazione della posizione fiscale della società partecipata, limitatamente ai redditi di partecipazione imputati a ciascun socio.

Si pone poi il problema di capire se il raddoppio dei termini per la decadenza dell’azione di accertamento in presenza di un reato tributario opera unicamente nel caso in cui la violazione penale è stata effettuata quando i termini ordinari di accertamento (ordinari) non erano ancora decaduti, ovvero - com’è l’interpretazione seguita dagli organi dell’Amministrazione finanziaria - anche quando la constatazione della violazione penale è stata effettuata quando già i termini ordinari di accertamento erano decaduti. In merito a tale aspetto di recente si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza 20 luglio 2011, n. 247 (depositata in data 25 luglio 2011) chiarendo che il raddoppio dei termini opera anche se la denuncia è stata presentata quando ormai i termini di accertamento ordinari erano già decorsi (ma pur sempre in relazione ad annualità per le quali, alla data di entrata in vigore del D.L. 223/2006 (4 luglio 2006), erano ancora pendenti i termini di accertamento).

Molto critica su questo punto la dottrina. Secondo De Mita “la funzione dei termini è la certezza dei rapporti: non credo sia consentito introdurne di nuovi perché gli elementi da accertare siano altri rispetto a quelli già accertabili. La disciplina non è una scaletta che varia in funzione dei tipi di presupposti che vengano in essere.

I termini "brevi", dice la Corte, operano in presenza di violazioni per le quali non sorge l'obbligo della sanzione penale mentre i termini raddoppiati operano in presenza di violazioni per le quali v'è l'obbligo della sanzione. Ma qui viene disattesa in modo clamoroso l'autonomia dei due procedimenti. L'amministrazione non opera in funzione del processo penale né viceversa. Il potere di accertamento è uno solo e non si fraziona in ragione del tipo di presupposto” (Uno schiaffo ai contribuenti, E. De Mita, Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2011, pg. 1 e 25). Secondo Tesauro “Lo Statuto dei diritti del contribuente non ha valore costituzionale; vincola però tutti (anche la Corte costituzionale) nell'interpretazione delle leggi. La norma che prevede il raddoppio deve essere interpretata in modo restrittivo, perché deroga al principio dello Statuto, secondo cui «i termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati». La Corte costituzionale non ha seguito i criteri interpretativi imposti dallo Statuto.” (La Consulta ha trascurato lo Statuto, F. Teasuro, Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2011, pg. 25).

Spetterà invece al giudice tributario, ma solo se richiesto dal contribuente, accertare se il Fisco abbia agito con imparzialità o se, invece, abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale della normativa per fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento.

Tale aspetto costituisce la principale possibilità difensiva che l'ordinamento e la stessa sentenza della Corte offrono al contribuente. La questione riguarda i casi in cui l'amministrazione constaterà una violazione penale tributaria, ritenuta del tutto infondata dal contribuente e magari riferita a un periodo di imposta per il quale la decadenza dei termini ordinari di accertamento si è già realizzata.

In queste ipotesi, infatti, il contribuente, verosimilmente, riterrà la notizia di reato strumentale alla "riapertura" dei citati termini fiscali e quindi finalizzata soltanto all'esecuzione di un accertamento tributario.

Il primo e più importante tentativo difensivo da esperire è con il ricorso introduttivo in commissione tributaria.

La Corte costituzionale, infatti, ha chiarito che il sistema processuale tributario consente al giudice tributario di controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell'obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora circa la loro ricorrenza e accertando, quindi, se l'amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità o, invece, abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni al fine di fruire ingiustificatamente di un piú ampio termine di accertamento.

In concreto, quindi, nel ricorso occorrerà eccepire la decadenza dei termini ordinari per l'esecuzione dell'accertamento da parte dell'ufficio in quanto il raddoppio non si è realizzato, perché – come chiarito in un passaggio dalla sentenza 247/2011 – la comunicazione della notizia di reato è stata fatta solo pretestuosamente e in via strumentale per usufruire dei termini più ampi.

Tale censura deve essere motivata e provata opportunamente, evidenziando le circostanze di fatto o la sequenza degli eventi, dai quali appunto emergerebbe la strumentalità della denuncia all'autorità giudiziaria.

La valutazione dei giudici tributari – come precisa la Corte – non può riguardare l'accertamento del reato ma il riscontro dei presupposti dell'obbligo di denuncia.

Un'altra strada difensiva si apre poi se l'eccepita strumentalità della notizia di reato si basa sul ritardo con cui è stata inoltrata alla Procura della Repubblica, rispetto a quando è iniziato il controllo. Per rafforzare le sue ragioni, potrebbe essere proprio il contribuente a segnalare alla Procura la condotta dei verificatori o dell'ufficio per aver trasmesso con ritardo la comunicazione all'autorità giudiziaria.

In questa ipotesi – come ricordato anche dalla Corte costituzionale – si realizza la violazione prevista e sanzionata dall'articolo 361 del Codice penale in base al quale il pubblico ufficiale, che omette o ritarda di denunciare all'autorità giudiziaria un reato di cui ha avuto notizia nell'esercizio o a causa delle sue funzioni, è punito con la multa da 30,99 a 516,46 euro. La pena è della reclusione fino a un anno, se il colpevole é un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria, che ha avuto comunque notizia di un reato del quale doveva fare rapporto.

 ROVERETO

Via Santa Maria, 55 
38068 Rovereto (TN)
T 0464.420613 - F 0464.458657
studio@manzana.it

 VERONA

Viale del Lavoro, 33 
37135 Verona (VR)
T 045.8201986 - F 045.509627
verona@moassociati.it

  MILANO

Via M. Pagano, 67  
20145 Milano (MI)
T 02.4813821 - F 02.48197197
milano@moassociati.it

Questo sito utilizza cookie per migliorare servizi ed esperienza dei lettori. Se decidi di continuare la navigazione consideriamo che accetti il loro uso. Per maggiori informazioni: privacy policy.

  Accetti di proseguire la navigazione?