SOCIETA' DI COMODO: DIFESA IN CONTENZIOSO
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
Stando quanto previsto dalla norma, nella difesa dalla disciplina delle società di comodo il contribuente può dare dimostrazione:
1. della non esistenza di finalità elusive
2. della presenza di un soggetto effettivamente operativo (la norma scatta a fronte, per l’appunto di presunzione di non operatività)
3. dell’impossibilità di operare (la norma parla di «oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi (...)»)
4. Dell’eventuale non correttezza dell’iter amministrativo seguito dall’Ufficio.
In merito al primo punto (norma antielusiva) va evidenziato che dal momento che la tipologia di interpello è quella di cui all’art. 37-bis, D.P.r. 600/1973, laddove la non operatività del contribuente derivi da scelte gestorie discutibili, ma assolutamente lecite, quali la concessione in locazione di immobili, in affitto d’azienda, il mancato incasso di dividendi a fronte dell’avvenuto rimborso parziale di finanziamenti soci, ecc., occorre contestare l’assenza, nel provvedimento di diniego, della specificazione dell’operazione alternativa che il contribuente avrebbe dovuto porre in essere. L’eccezione, non ha mero scopo tuzioristico, ma trova radicamento nel fatto che, spesso, è accaduto di riscontrare nei provvedimenti di diniego il riferimento a non precisati comportamenti alternativi e/o la descrizione delle scelte gestorie adottate dal contribuente come, in qualche modo, elusive.
A titolo di esempio, ciò è accaduto allorquando una società di persone ha concesso in locazione la sua unica azienda ad una società a responsabilità limitata non interamente composta dai medesimi soci. in quella sede, l’Amministrazione finanziaria ha stigmatizzato come elusiva tale operazione, senza tuttavia specificare quale sarebbe stata l’operazione alternativa, soprattutto a fronte dell’impossibilità, per la società di persone, di esercitare in proprio l’attività (presenza di soci minori e carenza di requisito tecnico).
Secondo l'agenzia delle Entrate, la disciplina delle società non operative avrebbe finalità antielusive. Secondo la circolare 5/E del 2007 queste finalità «emergono con chiarezza dalla disposizione ... che ha introdotto la possibilità ... di chiedere preventivamente la disapplicazione della relativa disciplina mediante la presentazione di un'apposita istanza di interpello ai sensi del l'articolo 37-bis, comma 8, del Dpr 29 settembre 1973, n. 600 (interpello disapplicativo)».
Con il Dl 223/2006 è stato infatti previsto che la società ha la possibilità (quindi, secondo il dato normativo non l'obbligo), in presenza di situazioni oggettive che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, del reddito e degli imponibili Iva previsti, di richiedere la disapplicazione delle «relative disposizioni antielusive», attraverso interpello di cui all'articolo 37-bis, comma 8, del Dpr 600/1973.
Quindi non solo le circolari delle Entrate, ma anche la norma parrebbe identificare la disciplina delle società di comodo tra quelle antielusive. Altrimenti, non vi sarebbe stato bisogno di "scomodare" l'interpello disapplicativo, proprio delle disposizioni antielusive, ma sarebbe bastato prevedere la possibilità di interpello ordinario, ai sensi dell'articolo 11 dello Statuto del contribuente.
Se le cose stanno in questi termini, cioè se si tratta di una norma antielusiva (più che altro - a avviso di parte della dottrina - per un'errata impostazione normativa e anche di prassi – Cfr. D. Deotto, Società di comodo strette nelle morse degli accertamenti, Il Sole 24 Ore del 2/11/2009) è proprio sull'aspetto "elusione" che occorre fondare la propria strategia di difesa. In primo luogo, perché tra le disposizioni antielusive espressamente disciplinate non ce n'è alcuna riferita alle società di comodo (a meno che – ma non pare il caso – non si voglia scomodare l'abuso del diritto) e poi perché, sotto il profilo sostanziale, non si comprende cosa vi sia di elusivo nell'intestare a delle società, alla luce del sole, determinati beni.
In merito al secondo punto (operatività del soggetto) si è già detto che la norma contiene tre presunzioni di evasione: la prima in base alla quale si considera non operativo il soggetto che non raggiunge determinati ricavi figurativi minimi o è in perdita sistematica; la seconda in base alla quale per gli enti non operativi «si presume che il reddito del periodo d'imposta non sia inferiore a ...»; infine, la terza, la quale prevede che per i soggetti non operativi «si presume che il valore della produzione netta non sia inferiore a ...».
A fronte della (prima) presunzione di non operatività, il contribuente potrebbe però dimostrare di essere un soggetto effettivamente operativo, nel senso che svolge, comunque, un'attività secondo le logiche economiche. Il che potrebbe essere dimostrato dagli atti posti in essere. Che poi la situazione sia "fruttifera" o "infruttifera" è un altro discorso: qui la norma chiede la dimostrazione della propria operatività. Oppure la prova contraria potrebbe essere data dalla dimostrazione del fatto che, per situazioni oggettive, e nonostante l'eventuale rigetto dell'interpello disapplicativo, il contribuente non ha potuto svolgere effettivamente l'attività (e molti casi segnalati sono proprio questi).
Se si accetta l'impostazione in base alla quale le regole sulle società di comodo contemplano più presunzioni, la seconda e la terza entrerebbero in gioco solamente se non è stata data dimostrazione della operatività secondo la logica descritta oppure dell'impossibilità a svolgere l'attività.
Il fatto, comunque, di non avere raggiunto quel determinato reddito potrà essere giustificato dimostrando l'inidoneità del proprio patrimonio a generare quei risultati e, quindi, che lo stesso risulta oggettivamente infruttifero, perlomeno rispetto ai parametri richiesti dalla legge.
Sarà quindi conveniente rendere un’esposizione sintetica e schematica dei motivi di merito fondanti l’opposizione, con dimostrazione, anche numerica, dell’irragionevolezza economica degli indici patrimoniali recati dalla norma.
Andrebbe considerato, infine, che se si è in presenza di una pluralità di presunzioni legali, anziché di una previsione antielusiva, le presunzioni previste per legge devono rispettare alcuni fondamentali canoni costituzionali.
Le presunzioni fiscali devono essere ragionevoli, non devono ledere il diritto di difesa del contribuente, devono essere conformi al principio di capacità contributiva e devono rispettare i canoni del giusto processo, tra cui quello della "parità delle armi". Così, il fatto che una presunzione sia rimessa alla discrezionalità del legislatore, non può, però, far sì che tale discrezionalità sconfini nell'arbitrio da parte dello stesso, ponendo a carico del contribuente un onere di prova cosiddetto "diabolico", cioè impossibile o estremamente difficile da assolvere.
In merito al terzo punto (impossibilità di operare) occorre riprendere, passo per passo, le argomentazioni fondanti il diniego e rappresentarne l’infondatezza. Anche situazioni oggettivamente e chiaramente esimenti l’applicazione della normativa, possono non essere state considerate come tali. In sede giudiziale è necessario riproporre tutte le considerazioni già addotte, controbattendo punto per punto le argomentazioni avverse, cercando di stigmatizzarle.
Sarebbe opportuno, inoltre, addurre elementi nuovi, anche di natura presuntiva. Nel campo immobiliare, per esempio, è possibile fare riferimento alle numerose pubblicazioni ed inserzioni immobiliari, da cui evincere l’insensatezza delle percentuali di redditività imposte dalla norma. Altro esempio, può essere il caso di una società proprietaria di un campo di golf, per la quale, si è dimostrato attraverso uno studio economico di primaria società di consulenza, come la stessa presentasse indici di redditività ed impiego di personale ben superiori rispetto ai competitors.
In merito al quarto (correttezza dell’iter amministrativo seguito dall’Ufficio) occorre considera che la prassi considera l’inammissibilità del ricorso in caso di mancata presentazione dell’interpello; in merito si è già avuto modo di dire che l'inammissibilità del ricorso può essere disposta soltanto dal giudice tributario nelle ipotesi previste dagli articoli 18 e seguenti del Dlgs 546/92. E tra queste non ce n'è alcuna che dispone l'inammissibilità del ricorso per mancata presentazione dell'interpello delle società di comodo. In ogni caso non rientra tra i poteri dell'Agenzia dichiarare inammissibile un ricorso. In merito si veda quanto detto trattando di interpello.
Sempre in merito a questo punto occorre considerare che nella prassi è stato verificato come l’Amministrazione finanziaria abbia bollato come «improcedibili» talune istanze di interpello, giacché ritenute come incomplete. A titolo puramente informativo, si rileva che tale nuova categoria di vizio, l’improcedibilità, appunto, non trova radicamento alcuno nel panorama legislativo italico, specialmente nel D.m. 19 giugno 1998, n. 259 applicabile giusta richiamo dell’art. 30, L. 724/1994 all’interpello di cui all’art. 37-bis, D.P.r. 600/1973.