VERIFICA FISCALE: LE DICHIARAZIONI RESE DAL SOGGETTO VERIFICATO E QUELLE RESE DA TERZI

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ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori

Le dichiarazioni rese dal soggetto nei cui confronti la verifica (e, dunque, l'accertamento susseguente) viene condotta vanno distinte da quelle rilasciate da soggetti terzi.

Le prime sono sempre utilizzabili. Ad esse può essere riconosciuto, se contengono l'ammissione di fatti favorevoli al Fisco, il valore di confessione stragiudiziale (- Comm. Trib. Centrale, sez. X, 15 giugno 1988, n. 4929; Cass., sez. I, 9 giugno 1990), sicché la loro attendibilità - sia in riferimento all'an, sia in riferimento al quantum - è rimessa all'apprezzamento discrezionale del giudice (art. 116 del Codice di procedura civile).

Ne consegue che tutti gli spunti investigativi in esse presenti e rintracciabili devono essere sviluppati ed approfonditi nel massimo grado possibile.

In altri termini, la mera dichiarazione di parte sfornita di obiettivi riscontri può non essere sufficiente a motivare la formulazione di un rilievo, per cui, in caso di dichiarazioni indizianti rese dal soggetto verificato, è sempre doveroso per il funzionario procedente verificarne la portata e la veridicità mediante l'espletamento di ulteriori accertamenti in grado di ancorare il tenore delle affermazioni di parte a elementi di fatto oggettivamente riscontrabili.

Quanto alle dichiarazioni dei terzi, la legge consente agli Uffici ed alla Guardia di Finanza impegnati in attività di accertamento o verifica nei confronti di esercenti arti o professioni di acquisire informazioni, dati, notizie e chiarimenti, non indistintamente da tutti i soggetti, bensì solo da taluni, qualificati in relazione alla sussistenza di particolari rapporti economici intercorsi con il soggetto ispezionato.

Inoltre, molto spesso la possibilità di acquisire notizie e precisazioni è circoscritta a casi in cui l'organo inquirente abbia necessità di ottenere puntualizzazioni in ordine a documentazione già acquisita dai medesimi soggetti cui vengono poi chieste ulteriori delucidazioni.

Se ne deve desumere che un potere generalizzato di acquisire informazioni da terzi non è normativamente previsto dall'ordinamento tributario, fatta eccezione per l'ipotesi in cui l'indagine tributaria sia diretta nei confronti di contribuenti diversi da soggetti passivi IVA (a mente del combinato disposto degli artt. 37, comma 1, e 38, comma 3, del Dpr n. 600/1973).

Ciò tuttavia, non vale a precludere in senso assoluto alla polizia tributaria la possibilità di raccogliere informazioni, dati e notizie da qualunque fonte.

Da un
canto, infatti, in caso di applicazione della procedura di accertamento induttivo, rimane indiscutibile il potere dell'Ufficio di rettificare la base imponibile e l'imposta sulla base dei dati e delle notizie "comunque raccolti"; dall'altro, se talune attività non acquisiscono autonoma rilevanza in sede di istruttoria ai fini dell'accertamento, possono nondimeno essere svolte, rientrando comunque tra quelle a carattere prettamente informativo, che ogni Corpo di polizia è abilitato a svolgere in via di principio generale.

La circolare n. 1 del 1998, specifica che “in caso di applicazione della procedura di accertamento induttivo rimane indiscutibile il potere dell’Ufficio di rettificare la base imponibile e l’imposta sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti; dall’altro, se talune attività non acquisiscono autonoma rilevanza in sede di istruttoria ai fini dell’accertamento, possono nondimeno essere svolte, rientrando comunque tra quelle a carattere prettamente informativo, che ogni Corpo di polizia è abilitato a svolgere in via di principio generale”.

È evidente che, sotto il profilo della valenza probatoria, dichiarazioni acquisite al di fuori degli specifici poteri attribuiti dalle leggi d'imposta agli Uffici finanziari e alla Guardia di Finanza non saranno in nessun caso autonomamente suscettibili di essere utilizzate al fine di motivare l'accertamento, a prescindere da quanto circostanziate e numerose esse siano.

Peraltro, anche dichiarazioni acquisite nell'esercizio di quei poteri abbisogneranno sempre di esser verificate attraverso approfondimenti investigativi capaci di identificare riscontri obiettivi alle affermazioni rese.

E ciò non già in virtù di espressa previsione di legge, bensì in considerazione della complessa sistematica normativa che delinea l'accertamento come un procedimento fondato essenzialmente e pressoché indefettibilmente (salvo il caso "limite" dell'accertamento induttivo puro) sull'analisi di risultanze documentali o, quanto meno fattuali, sempre, comunque, obiettivamente riscontrabili.

Da quanto sin qui riportato, è sempre legittima l'acquisizione in sede di verifica delle dichiarazioni della parte e di terzi.

Varia, invece, da caso a caso la valenza probatoria che, ai fini dell'accertamento, è possibile riconoscere a dette dichiarazioni autonomamente considerate.

Quanto minore è il pregio che per legge è riconosciuto alle dichiarazioni verbali rese da chicchessia, tanto maggiore dovrà essere lo sforzo prodotto dagli investigatori per corroborare il principio di prova dei fatti che da esse è possibile desumere.

Così in caso di accertamento analitico-induttivo.

La Sentenza n. 118/1998 della Commissione regionale della Lombardia, afferma che “nel contesto del processo tributario, in cui è negata qualsiasi rilevanza alla prova testimoniale, le dichiarazioni rese dalle persone fisiche non possono in alcun modo entrare nella valutazione delle Commissioni; così non è possibile prendere in considerazioni le espressioni verbali raccolte dalla polizia tributaria sia a carico sia a discolpa di chicchessia”. A dire il vero va però anche ricordata la Sentenza n. 453/1997 della Commissione tributaria provinciale di Brindisi secondo la quale la leggittima una rettifica di tipo analitico fondata esclusivamente su di una dichiarazione resa da un terzo in un processo verbale di constatazione, a condizione che la dichiarazione sia sufficientemente univoca e precisa.

Anche la Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità dell’art. 7, D.Lgs. 546/1992, in cui si prescrive il divieto della prova testimoniale nel processo tributario, con Sentenza n. 18/2000, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 26 gennaio 2000, n. 21, ha asserito che “non sono fondate, con riferimento agli artt. 3, 24 e 53 Cost., le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della l. 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui esclude l’ammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario. (...) Ne consegue che il divieto della prova testimoniale nel processo tributario trova giustificazione, sia nella spiccata specificità dello stesso rispetto a quello civile ed amministrativo, correlata alla configurazione dell’organo decidente e al rapporto sostanziale oggetto del giudizio; sia nella circostanza che esso è ancora, specie sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale; sia, infine, nella stessa natura della pretesa fatta valere dall’Amministrazione finanziaria attraverso un procedimento di accertamento dell’obbligo del contribuente che mal si concilia con la prova testimoniale”. Continua però la Corte Costituzionale: “il valore probatorio delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione finanziaria nella fase dell’accertamento è, infatti, solamente quello proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione. Si tratta, dunque, di un’efficacia ben diversa da quella che deve riconoscersi alla prova testimoniale e tale rilievo è sufficiente ad escludere che l’ammissione di un mezzo di prova (le dichiarazioni di terzi) e l’esclusione dell’altro (la prova testimoniale) possa comportare la violazione del principio di parità delle armi”.

In merito, il divieto di prova testimoniale previsto dall'art. 7, comma 4, del D.Lgs. 31.12.1992, n. 546 inibisce l'ingresso a giudizio di testimonianze dirette avanti al giudice nelle particolari forme previste dal codice di procedura civile, senza pregiudicare l'assunzione delle risultanze di verbali nei quali siano trasfuse dichiarazioni che, dovendo comunque trovare conferma in elementi obiettivi di riscontro, si offrono sempre e necessariamente alle più ampie smentite e confutazioni, a partire da quelle che consentono l'istituzione e la tenuta della contabilità in conformità alle prescrizioni di legge.

La Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità dell’art. 7, D.Lgs. 546/1992, con Sentenza n. 18/2000, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 26 gennaio 2000, n. 21, ha asserito che “non sono fondate, con riferimento agli artt. 3, 24 e 53 Cost., le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della l. 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui esclude l’ammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario. (...) Ne consegue che il divieto della prova testimoniale nel processo tributario trova giustificazione, sia nella spiccata specificità dello stesso rispetto a quello civile ed amministrativo, correlata alla configurazione dell’organo decidente e al rapporto sostanziale oggetto del giudizio; sia nella circostanza che esso è ancora, specie sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale; sia, infine, nella stessa natura della pretesa fatta valere dall’Amministrazione finanziaria attraverso un procedimento di accertamento dell’obbligo del contribuente che mal si concilia con la prova testimoniale”. Continua però la Corte Costituzionale: “il valore probatorio delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione finanziaria nella fase dell’accertamento è, infatti, solamente quello proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione. Si tratta, dunque, di un’efficacia ben diversa da quella che deve riconoscersi alla prova testimoniale e tale rilievo è sufficiente ad escludere che l’ammissione di un mezzo di prova (le dichiarazioni di terzi) e l’esclusione dell’altro (la prova testimoniale) possa comportare la violazione del principio di parità delle armi”.

Le dichiarazioni indizianti rilasciate dai terzi, quindi, possono essere utilizzate dall’Amministrazione finanziaria come indizi, e quindi lasciati poi alla libera valutazione del giudice tributario. In tal senso, risulta molto chiara anche la Sentenza n. 4269/2002 della Cassazione, Sezione tributaria civile, in cui viene nuovamente affermato quanto già asserito dalla Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 18/2000, ovvero che “le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’Amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente, in un processo tributario, e che il valore probatorio di tali dichiarazioni è solamente quello proprio degli elementi indiziari (...)». La sentenza in questione continua: «ebbene, per dare concreta attuazione ai principi del giusto processo, per come riformulati nel nuovo articolo 111 della Costituzione, lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale deve essere necessariamente riconosciuto anche al contribuente per garantire la parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa. Chiaramente, anche per il contribuente, tali dichiarazioni non potranno avere valore di prova, ma dovranno avere il valore di elementi indiziari, che necessitano di essere valutati assieme ad altri elementi, non potendo da soli costituire il fondamento della decisione”.

In definitiva, poiché la verifica fiscale svolta in via ordinaria può indirizzarsi tanto nei confronti di soggetti esercenti arti e professioni, quanto nei confronti di persone fisiche non soggetti passivi Iva, nonché sfociare in un accertamento analitico o in un accertamento induttivo (o, per le persone fisiche, sintetico), la valenza probatoria di eventuali dichiarazioni verbali acquisite è necessariamente rimessa alla intelligente valutazione del direttore dell'attività ispettiva e dei componenti la pattuglia i quali, in relazione al quadro giuridico di riferimento, dovranno percepire a quali possibili utilizzi potrà essere destinato il lavoro investigativo da essi svolto, una volta che le relative risultanze siano pervenute all'ufficio investito della competenza all'accertamento.

Sotto il profilo più strettamente operativo, al di fuori delle dichiarazioni rese, a domanda o spontaneamente, dal soggetto verificato o da suoi dipendenti e collaboratori nel corso delle quotidiane operazioni di verifica (le quali verranno trascritte, come già si è detto, nel p.v. di verifica), potrà rendersi necessario acquisire dichiarazioni anche da parte di terzi, all'uopo avvalendosi delle disposizioni recate dagli artt. 51 del Dpr 633/1972 e 32 del Dpr 600/1973.

La valutazione circa l'opportunità o la necessità di procedere in tale senso è rimessa, eventualmente su suggerimento del capo pattuglia, al direttore della verifica il quale, ove necessario, provvederà ad interessare il Comandante del Reparto perché disponga l'esecuzione del servizio.

Gli esiti della valutazione devono essere riportati e motivati nel piano di verifica.

Tutte le informazioni acquisite in tal modo dovranno formare oggetto di separata verbalizzazione, tanto nel caso in cui si proceda mediante l'esecuzione di controlli incrociati con accesso presso la sede dell'attività economica di cui è titolare il soggetto dal quale si intendono assumere le dichiarazioni, quanto nel caso in cui questi sia convocato presso gli uffici del Comando.

Le risultanze di tali operazioni dovranno poi essere trasfuse anche nel p.v. di verifica che darà pertanto compiuta menzione delle operazioni condotte e dei dati, delle notizie e delle informazioni acquisiti presso terzi, nonché di eventuali osservazioni in merito della parte che di dette operazioni e dei suoi esiti verrà portata a conoscenza.

Dichiarazioni indizianti rilasciate dal verificato

Se contengono affermazioni favorevoli al Fisco, può essere riconosciuto il valore di confessione stragiudiziale. In tale caso la loro attendibilità, sull’an e sul quantum, è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice.

Dichiarazioni indizianti rilasciate da terzi

Con riferimento all’accertamento induttivo (puro), la giurisprudenza sostiene la validità delle dichiarazioni (indizianti) raccolte da terzi.

Negli altri casi fungono da indizi e possono, quindi, concorrere a formare il convincimento del giudice ma non sono idonee a costituire, da sole, il fondamento della decisione. Lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in deve essere necessariamente riconosciuto anche al contribuente per garantire la parità delle armi processuali, fermo restando che le stesse dichiarazioni avranno valenza quali indizi.

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