PERDITE SUI CREDITI ALLA LUCE DELLE MODIFICHE APPORTATE DALLA LEGGE DI CONVERSIONE DL. 83
ARTICOLO - Pubblicato il: 2 dicembre 2012 - Da: G. Manzana E. Iori
Il comma 5 dell’art. 101 del Tuir prende in considerazione anche l’ipotesi delle perdite sui crediti.
A tale proposito viene stabilito che tali componenti reddituali assumono fiscalmente significato:
- nel caso in cui risultino da elementi certi e precisi, ovvero,
- in ogni caso, se il debitore risulta assoggettato a procedure concorsuali.
In conformità al principio della competenza economica di cui all’art. 109 del Tuir occorre che la perdita presenti i requisiti:
- della certezza, quanto alla sua esistenza, e
- quello della oggettiva determinabilità, quanto al suo ammontare.
Gli elementi di certezza devono essere documentati e devono esistere nell’esercizio in cui il credito viene portato a perdita e si configura quando il creditore è in grado di dimostrare di aver esperito, senza esito,tutti le azioni di recuper ritenute necessarie in funzione dell’importo del credito. Per crediti in importo significativo (si veda dopo quanto viene detto per quelli di minore entità) gli elementi di certezza possono configurarsi nelle seguenti situazioni:
- infruttuosità dell’esecuzione individuale a carico del debitore
- mancato reperimento da parte dell’Ufficiale giudiziario di beni pignorabili nel patrimonio del debitore
- infruttuosa notifica degli atti di precetto
- fuga e latitanza del debitore
- comunicazione da parte del legale incaricato del recupero del credito che sconsiglia sul piano delle convenienza economica l’iniziazione dell’azione legale in presenza di insufficiente patrimonio del debitore.
Tali elementi devono trovare oggettivo riscontro negli atti intervenuti tra le parti e nella procedura attivata per il recupero dei crediti stessi. Ciò non sta a significare che la perdita deve essere definitiva, quanto che si debba dare prova della sua effettività e del suo ammontare.
Con la risoluzione del 23 gennaio 2009, n. 16/E le Entrate ritengono che una situazione di (temporanea) illiquidità - ancorché seguita da un pignoramento infruttuoso - non possa essere ritenuta sufficiente a legittimare la deduzione del credito non incassato (in tutto o in parte), richiedendosi, a tal fine, una più complessa e articolata valutazione della situazione giuridica della specifica partita creditoria e del singolo debitore cui quest’ultima è riferita.
La risoluzione deve però essere inquadrata nell’ambito dello specifico contesto: il credito è nei confronti di una Asl, soggetto che in quanto pubblico non può essere insolvente. Indirettamente quindi la risoluzione porta a ritenere che, in generale, l'atto esecutivo infruttuoso permette la deduzione (anche alla luce dell'analoga disposizione prevista per la detrazione dell'Iva dall'articolo 26 del Dpr 633/72).
Nella stessa risoluzione l’Agenzia evidenzia che non assume rilevanza, ai fini della svalutazione:
- la circostanza secondo la quale i beni immobili del debitore siano confluiti in un fondo comune e risultino “non ipotecabili ed impignorabili”; ciò in quanto anche laddove fosse possibile procedervi, l’infruttuoso pignoramento non vale ex se a configurare la sussistenza degli “elementi certi e precisi” richiesti dall’articolo 101, comma 5, del Tuir;
- le osservazioni evidenziate dal contribuente nell’istanza in merito alla natura di enti pubblici economici delle ASL debitrici che, secondo la medesima Società, porrebbe queste ultime al riparo da eventuali richieste di fallimento. Peraltro, come detto sopra, per l’Agenzia tale elemento porta a soluzioni opposte: proprio siffatta natura può fondatamente costituire elemento di positiva valutazione circa la probabilità di recuperare il credito non esatto.
Per i crediti di modesto importo, nozione che varia in base alle dimensioni dell’azienda e secondo il tipo di attività esercitata (Ris. Min. 9/124 del 6.8.1976), si può procedere con minor rigidità, ad esempio evidenziando la costosità di una azione di recupero. Una raccomandata di sollecito non dovrebbe mai mancare (R.M. 9/124 del 6.8.76).
La questione è stata risolta, se non altro in parte, dal Dl 83/2012. Infatti, in sede di conversione, nell’ambito delle c.d. “Misure per facilitare la gestione delle crisi aziendali”, è stato modificato il comma 5 dell’art. 33 che sostituisce l’art. 101, comma 5, TUIR, in base al quale si evince che i citati “elementi certi e precisi” sussistono in ogni caso se il credito è di modesta entità e sono decorsi 6 mesi dalla scadenza del pagamento dello stesso.
In merito il Legislatore precisa che il credito è di modesta entità per le imprese “di più rilevante dimensione”, ex art. 27, comma 10, DL n. 185/2008, quando lo stesso non supera € 5.000 e per le quando non supera € 2.500.
In merito va evidenziato che sono considerate imprese “di più rilevante dimensione” quelle con un volume d’affari o di ricavi non inferiore a 100 milioni di euro. Il citato comma 10 dispone infatti che: “Si considerano imprese di più rilevante dimensione quelle che conseguono un volume d'affari o ricavi non inferiori a trecento milioni di euro. Tale importo è gradualmente diminuito fino a cento milioni di euro entro il 31 dicembre 2011 ...”.
Con le Ris. n. del 1976, n. 9/124, 9/557 e 9/1336 del 1976 e n. 9/517 del 1980 l’Amministrazione finanziaria ha escluso la necessità di ricorrere a rigorose prove formali in relazione a crediti di modesto importo, nella considerazione che la loro lieve entità sconsiglia alle aziende di intraprendere onerose azioni di recupero; la rinuncia (art. 1236 c.c.) deve quindi essere giustificata da una scelta di convenienza basata sul confronto tra i costi per la riscossione (costi della procedura esecutiva) e il beneficio derivante dall’entità del credito stesso. Con sent. 11329 del 2001 la Cass. richiede che la rinuncia sia deliberata dal C.d.A. (se esistente) e che la decisione sia presa in seguito ad una valutazione attenta delle condizioni economiche del cliente;
L'istituto della remissione del credito è disciplinato dall'art. 1236 del Codice civile. Si tratta, in sintesi, di un negozio con il quale, unilateralmente, il creditore comunica al debitore che è sua intenzione rinunciare al proprio diritto di credito. La remissione, peraltro, non produce effetto se il debitore dichiara in un congruo termine di non volerne profittare.
Fac simile - Dichiarazione di remissione del debito ex art. 1236 del Codice civile
Il sottoscritto <…> (seguono i dati identificativi) con la presente, ai sensi e per gli effetti dell'art. 1236 del Codice civile, dichiara di rinunciare al proprio credito, che alla data attuale ammonta a complessivi euro <…>, in favore del debitore <…> (seguono i dati identificativi).
<…> li <…>
N.B. la rinuncia al credito può essere inviata anche per raccomandata a.r. nel qual caso è opportuno indicare nella comunicazione il termine per l'opposizione del debitore.
Pare opportuno eviedenziare come nonostante sarebbe parso indiscutibile che la rinuncia ai crediti, di per sè, determini la certezza e la definitività della perdita conseguente, in tale pronunce l’Amministrazione finanziaria condiziona la deducibilità delle perdite a un concetto di inerenza individuato ”non soltanto nella obiettiva riferibilità dell'onere all'esercizio di impresa, anche nella ricorrenza di quel concetto di "inevitabilità" dello stesso“; e questo concetto va ricercato “in una scelta di convenienza per l'imprenditore, ovverosia quando il fine perseguito è quello di pervenire al maggior risultato economico”. Di qui, la conclusione che le perdite conseguenti alla rinuncia dei crediti possano essere riconosciute solo in relazione a posizioni creditorie di modesta entità, tali da non giustificare il sostenimento degli oneri propri di un'eventuale azione di recupero.
La questione è delicata e investe due annose questioni: se siano o meno "sindacabili" da parte del Fisco le scelte operate dall'imprenditore e, inoltre, se scelte valutate come "anomale" possano configurarsi come espressione di una liberalità che, in quanto tale, non possa essere opponibile all'Erario.
Sul problema, un'interessante sentenza è quella della Commissione regionale dell'Emilia Romagna (Cfr. sentenza n. 5/2 del 2004), che si segnala per l'importo del credito rinunciato da una Banca (oltre 142 milioni di vecchie lire) il cui onere era stato oggetto di ripresa da parte dell'Ufficio. Nel specifico, peraltro, era stata dimostrata, con elementi oggettivi, l'antieconomicità di un eventuale tentativo di recupero del credito da parte dell'istituto, visto che la procedura sarebbe comunque risultata infruttuosa. Di qui la decisione della Commissione che legittima la deduzione della perdita conseguente alla rinuncia del credito. La sentenza, quindi, evidenzia come non è l'entità del credito rinunciato che giustifica la deduzione fiscale dell'onere, ma la situazione oggettivamente riferita all'irrecuperabilità del credito, nell'ottica di una valutazione di convenienza economica che si basa anche - va aggiunto - sulla possibilità di dedurre il costo relativo. In tal senso anche la sentenza n. 16330 del 28 aprile 2005, dove la Cassazione riconosce la deducibilità di perdite su crediti, anche se di importo rilevante, sulla base di elementi "soggettivi" rappresentati (antecedenti all'apertura di procedure concorsuali), nel caso di specie da valutazioni del legale di parte e dalla infruttuosità delle azioni di recupero.
Sempre in tema di rinuncia al credito (e quindi in assenza dell’esperimento negativo delle procedure esecutive) la giurisprudenza ha considerato sufficienti, elementi quali l’irreperibilità del debitore, una situazione patrimoniale complessa, la situazione di nulla tenenza del debitore. In particolare nella sentenza n. 11329 del 2001 la Cassazione ha ritenuto legittimo l'operato della società rinunziante per il fatto che il debitore presentava una totale inconsistenza patrimoniale - dal che l'inutilità di una qualsiasi azione tesa al recupero del credito - oltre ad altre ragioni di inopportunità nell'esperimento dell'azione stessa, fermo restando poi che non emerge che la legittimità fiscale della rinuncia sia condizionata alla modesta entità del credito.
Inoltre, è interessante la conclusione che si può trarre in relazione all'inquadramento fiscale della rinuncia al credito. In altri termini, rinunciando al credito, e avuto riguardo all'art. 101 si avrebbe una minusvalenza ex comma 1, una perdita su crediti ex comma 5 ovvero una insussistenza di attivo ex comma 4? Dalla sentenza si intuisce che dalla rinuncia al credito derivi un'insussistenza di attivo, e questo potrebbe essere spiegato così:
1) non si tratta di una minusvalenza poiché questo componente implica necessariamente prima la cessione di un'attività a titolo oneroso e poi il realizzo di un valore inferiore al suo costo fiscalmente riconosciuto; in tale ipotesi non avviene alcuna cessione dell'attività-credito;
2) non si tratta di una perdita su crediti perché questa implica il mantenimento, in capo al creditore, del titolo giuridico che legittima l'azione di recupero del credito medesimo; una volta esperita tale azione, si deve arrivare al mancato realizzo dello stesso, da cui la perdita; diversamente la rinuncia al credito comporta una totale abdicazione anche in relazione al diritto di agire per il suo recupero, in pratica l'ideale sradicamento della posta dall'attivo di stato patrimoniale (in questo senso alcuni commenti alla sentenza in esame).
In pratica si può concludere che la rinuncia al credito genera un'insussistenza di attivo (ex comma 4 dell'art. 101) sia perché le altre strade interpretative non sono praticabili, sia per il fatto che la rinuncia comporta l'azzeramento di valore di un'attività.
A questo punto si apre un'ulteriore questione, non affrontata dalla Cassazione: a seguito della rinuncia al credito si dovrà o no utilizzare il fondo svalutazione crediti? Coerentemente con la linea interpretativa desumibile dalla sentenza la risposta dovrebbe essere negativa.
ELEMENTI CERTI E PRECISI
• è necessario far risultare la perdita da elementi certi e precisi (R.M. n. 9/124 del 1976) e che la stessa sia definitiva (C.M. n. 39 del 2002), dimostrando di aver fatto tutto il possibile per il recupero del credito in sofferenza (ad esempio, infruttuosa attuazione di azioni legali per il recupero del credito, esito negativo del pignoramento etc). Se il credito è di importo significativo, è sempre opportuno l'intervento di un legale;
• per i crediti di modesto importo, nozione che varia in base alle dimensioni dell’azienda e secondo il tipo di attività esercitata (Ris. Min. 9/124 del 6.8.1976), si può procedere con minor rigidità, ad esempio evidenziando la costosità di una azione di recupero. Una raccomandata di sollecito non dovrebbe mai mancare (R.M. 9/124 del 6.8.76).
• La rinuncia (art. 1236 c.c.) è deducibile a condizione che realizzi una scelta di convenienza per l'imprenditore (R.M. 9/557 del 9.4.80 e R.M. 9/517 del 6.9.80). Con sent. 11329 del 2001 la Cass. richiede che la rinuncia sia deliberata dal C.d.A. (se esistente) e che la decisione sia presa in seguito ad una valutazione attenta delle condizioni economiche del cliente;
• riduzioni parziali di credito quali la transazione (atto registrato), la conciliazione giudiziaria o una sentenza che accerti un minor credito, costituiscono perdite fiscalmente deducibili;
• per i crediti assistiti da polizza assicurativa a copertura di eventuali perdite, la deduzione dell'eventuale perdita non è consentita (Ris. Min. 19/4/1979 n. 9/217);
• per i crediti verso debitori esteri la dichiarazione di fallimento, o procedura analoga prevista dalla legge dello stato del debitore (ma non le procedure di riorganizzazione), rende deducibile la perdita (C.M. n. 39 del 10.5.02; Ris. n. 355 del 14.11.02).
Per quanto attiene le perdite su crediti relative a debiti stranieri (Cfr. Circ. n.131.11.1730 del 1970 e Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 39/E del 2002) occorre fare la seguente distinzione:
- se il debitore è un privato, è necessaria e sufficiente una dichiarazione, da parte delle competenti autorità giudiziarie, di insolvenza del debitore;
- se il debitore è un ente pubblico, è necessaria o la dichiarazione di sinistro emessa dalla Sace (Sezione speciale per l’Assicurazione del credito all’Esportazione) a seguito dell’accertamento di insolvenza e a patto che contenga l’indicazione dell’indennizzo liquidato a titolo di risarcimento per la mancata riscossione, oppure, nell’ipotesi di crediti non garantiti, di analoga documentazione (anche di parte).
La perdita è deducibile nella misura risultante dalla differenza tra il valore fiscale del credito e l’ammontare di quanto recuperato; nel caso si tratti di crediti per i quali esistono accantonamenti dedotti ai sensi dell’art. 106 del Tuir, la perdita andrà imputata a riduzione del valore del fondo stesso sino alla capienza del medesimo e solo per la parte eccedente potrà essere considerata di competenza dell’esercizio; in altre parole le perdite su crediti sono deducibili limitatamente alla parte eccedente il fondo svalutazione crediti creato nei precedenti esercizi.
In caso di cessione del credito, si prospetteranno due differenti situazioni.
Nella cessione pro-soluto (ovvero con semplice garanzia di esistenza del credito e non anche della solvibilità del debitore) il cedente garantisce al cessionario la sola esistenza del credito senza assumere la garanzia della solvenza del debitore. In tal modo si realizza il trasferimento della titolarità del credito a titolo definitivo e il cessionario assume il rischio connesso con l'insolvenza del debitore ceduto; se la cessione viene effettuata ad un valore inferiore a quello del credito, questa differenza è deducibile, sempre che il relativo atto sia valido ed efficace; per la formazione di eventuali perdite assume rilievo il prezzo di cessione dei crediti che deve essere raffrontato con il valore fiscalmente riconosciuto (Cfr. Ris. n.137/E del 1996).
La Cassazione ha sostenuto che la deducibilità delle perdite su crediti anche nell'ipotesi di cessione pro-soluto è da ritenersi legittima a condizione che la “certezza e precisione” della perdita siano riferiti non agli effetti della cessione ma alla condizione che i crediti ceduti possedevano prima della cessione stessa e che vi sia la convenienza a cedere il credito (Cfr. sentenze n. 13181, 13916 e 15563 del 2000, n. 14568 del 2001, n. 7555 del 2002 e 5337 del 2006). In buona sostanza, viene riconosciuta solo in astratto l'idoneità di una cessione pro-soluto per la deducibilità fiscale delle perdite.
A sostegno di ciò i giudici precisano, tra l'altro, che - al di fuori dell'assoggettamento a procedure concorsuali del debitore - non sono stati previsti dal legislatore altri "automatismi" per il riconoscimento fiscale delle perdite su crediti.
Questa sentenza ha generato perplessità nella misura in cui ha individuato quale norma legittimante la deduzione l'art. 101, comma 5 del Tuir che, in realtà, attiene alla svalutazione del credito e non alla perdita da negoziazione.
Come è stato sottolineato in dottrina (Stevanato) il componente negativo di reddito che si origina con la cessione non è perdita da inesigibilità (art. 101, comma 5 del Tuir) bensì la perdita da negoziazione (art. 101, comma 1 del Tuir). In questo ambito è inutile interrogarsi sulle future vicende del credito ceduto, poiché la perdita deriva dal fatto che l'impresa ha ceduto, poniamo, a 10 ciò che era contabilizzato per 100, e pertanto manifesta un componente negativo di 90.
In questo senso è del tutto irrilevante che la cessione avvenga pro-soluto o pro-solvendo, poiché l'eventuale addebito al cedente dell'insolvenza del debitore ceduto, non rende meno certa la perdita generata dalla negoziazione, ma, semmai, la amplifica.
Questa radicale distinzione tra perdite da negoziazione del credito e perdite da inesigibilità del medesimo è l'argomento più convincente per prendere le distanze dalla tesi sostenuta dalla Cassazione. A tal fine va segnalato la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Sassari, n. 67 dell'11 giugno 2004. Questa sentenza, pur segnalando la circostanza che il contribuente cedente il credito si era attivato per tentare di riscuoterlo prima di decidere per la cessione (il che crea qualche incertezza sulla conclusione delle stessa sentenza poiché la circostanza della inesigibilità del credito ai fini della cessione dello stesso è irrilevante), afferma che la cessione del credito comporta che il cedente “non potrà mai rientrare dalle perdite subite nella cessione”. Pertanto ne emerge la cessione quale atto che genere perdite da negoziazione e non da svalutazione.
Con questa sentenza si individua una diversa definizione del componente negativo di reddito che si manifesta nella cessione del credito, anche se va sempre ricordato che l'operazione in oggetto rientra tra quelle che possono far scattare la norma antielusiva (37-bis del Dpr n. 600 del 1973) per cui una valida ragione economica sottostante alla cessione deve sempre sussistere.
Nella Risol n. 70/E del 2008 l’Agenzia delle entrate affronta il caso di cessioni pro soluto dei crediti verso controllate che nascondono delle rinunce ai crediti stessi da parte del socio. Viene detto che occorre considerare l’aspetto sostanziale dell’operazione. Per cui è irrilevante la verifica degli elementi certi e precisi delle perdite per ottenere l'immediata deduzione del credito (art. 101, comma 5 del Tuir) in quanto l'ammontare rinunciato va ad aumentare del costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione nella controllata. Secondo l’Agenzia infatti solo formalmente si è di fronte ad una cessione di credito pro soluto. Si trattaterebbe nella sostanza di una rinuncia al credito da parte del socio ed è applicabile, quindi, l'art. 94, comma 6, Tuir, che prevede che “l'ammontare (...) della rinuncia ai crediti nei confronti della società», da parte dei soci della medesima, si aggiunga al costo delle partecipazioni.
Il disconoscimento del contratto di cessione del credito pro soluto deriva dal fatto che la determinazione dei corrispettivi dei due contratti (alienazionedelle partecipazioni e cessione del credito) è avventa con un unico procedimento, durante il quale la dismissione del credito per il valore simbolico di un euro è stato giustificato dalla «necessità di alleggerire per quanto più possibile la situazione finanziaria della società ceduta”.
IL CASO
La società Alfa nel 2003 ha svalutato civilisticamente la partecipazione detenuta nella società Gamma. Nel 2007 ha ceduto l'intero pacchetto azionario alla società Delta, generando una plusvalenza solo contabile. Contestualmente, Alfa ha ceduto pro soluto a Delta anche un credito di finanziamento che vantava nei confronti della partecipata Gamma, civilisticamente svalutato.
La perdita dalla cessione pro soluto del credito può essere fiscalmente deducibile, a prescindere dalla sussistenza degli «elementi certi e precisi » o dal fatto che il debitore sia «assoggettato a procedure concorsuali»?
Secondo l’Agenzia (Cfr. Ris. n. 70/E del 2008) delle entrate della riduzione dei debiti di Gamma si è certamente «tenuto conto nel valutare la convenienza economica ad acquisire il controllo» di Gamma.Se la cessione del credito è vista come una rinuncia, è irrilevante verificare gli elementi certi e precisi delle perdite su crediti,in quanto l'importo relativo alla rinuncia al credito non è immediatamente deducibile dal reddito d'impresa. Questo va ad aumentare del costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione in Gamma ai fini del calcolo della plusvalenza da cessione delle azioni. Conseguenza che non genera alcun vantaggio ad Alfa, dato che la plusvalenza dalla cessione delle partecipazioni è civilistica.
Nella cessione pro-solvendo il cedente garantisce oltre all'esistenza del credito anche la solvibilità del debitore. In questo caso, essendo il cedente legato al comportamento del debitore, in capo allo stesso mancherà il requisito della certezza della perdita. Quindi, anche qualora la cessione sia intervenuta ad un valore inferiore a quella del credito, la perdita non potrà comunque essere dedotta (Cfr. Ris. n. 9/634 del 1982). In merito si vedano anche quanto detto trattado appena sopra delle cessioni pro-soluto.
Se il credito è assistito da polizza assicurativa a copertura di eventuali perdite, la deduzione dell’eventuale perdita non è più consentita (Cfr. Ris. n. 9/217 del 1979).
Nella sentenza della Cassazine n. 16330 del 3 agosto 2005, i giudici di legittimità hanno interpretato l'art. 66, comma 3 del Tuir (ora art. 101, comma 5) ritenendo che il periodo d'imposta per operare la deduzione delle perdite (su crediti) debba coincidere con quello in cui si acquisisce la certezza che il credito non può più essere soddisfatto, perché è in quel momento che si materializzano gli elementi certi e precisi della sua irrecuperabilità; nel caso di specie i giudici avevano considerato non possibile, per errore di competenza, la deduzione di una perdita i cui elementi certi e precisi relativi all’inesigibilità del credito (nota del legale e procedure esecutive infruttuose) si erano formati nell’esercizio precedente.
Questa interpretazione normativa sarebbe volta a evitare che il contribuente possa scegliere arbitrariamente il periodo di imposta in cui dedurre la perdita, snaturando in tal modo la regola espressa nel principio di competenza (allora statuito dall'art. 75 del Tuir, attualmente dal l'art. 109).
A distanza di anni la Giurisprudenza assume dunque una posizione analoga a quella espressa dal Secit nella relazione relativa all'anno 1990 laddove si affermava che, nel rigoroso rispetto del principio di competenza, la perdita dovesse essere imputata al reddito nel periodo di imposta in cui acquistano consistenza gli elementi certi e precisi, non prima ma neanche dopo, onde contrastare manovre dirette a collocarla nel momento fiscalmente più conveniente.
In caso di assoggettamento del creditore a procedura concorsuale la perdita è senz’altro deducibile. Il testo unico post riforma fiscale – Dlgs n. 344 del 2003, diversamente da quello precedente prevede che il debitore si considera assoggettato a procedure concorsuali dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
Il legislatore ha quindi recepito il contenuto dell’art. 11, comma 9 del Dpr n. 42 del 1988 in forza del quale un debitore si intende assoggettato a procedure concorsuali dalla data:
- della sentenza dichiarativa del fallimento;
- del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa;
- del decreto di ammissione al concordato preventivo;
- del decreto che dispone l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
In merito si veda anche la Circ. 10 maggio 2002 n. 39/E.
La risposta all’interrogazione parlamentare n. 5-00570 del 5 novembre 2008 ha prevsito che “… l’automatismo previsto nel caso delle procedure concorsuali, ove l'inesigibilità è, secondo l'id quod plerumque accidit, conclamata (conseguentemente la norma pone una presunzione in questo senso) e ove la quantità della perdita è stata sottoposta a controllo dagli organi concorsuali». In altri termini (n.d.R. solo) nelle ipotesi diverse da quelle rientranti nelle procedure concorsuali, «è il contribuente a dovere dimostrare come e perché una perdita su crediti fiscalmente rilevante si è verificata in quanto il credito, azionato nelle forme di legge, è diventato inesigibile» (cfr. Corte di Cassazione, sentenza del 20 novembre 2001, n. 14568).
Si è posto il problema se nelle procedure concorsuali richiamate dall’art. 101, comma 5 del Tuir vi è il concordato stragiudiziale, e le nuove forme, recentemente introdotte nel nostro ordinamento. Si tratta dei «piani attestati»(di cui all'articolo 67, comma 3, lettera d) della legge fallimentare) e degli «accordi di ristrutturazione» del debito (articolo 182 bis della stessa legge).
La fattispecie dell'articolo 67 si estrinseca in un piano di risanamento dell'impresa la cui ragionevolezza è attestata da un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili. Non è richiesto alcun consenso da parte dei creditori, produce l'effetto di impedire l'esercizio dell'azione revocatoria laddove il piano non raggiungesse il suo obiettivo e quindi si traducesse in procedura concorsuale. L'accordo di ristrutturazione del debito, invece, comporta l'assenso di almeno il 60% dei creditori e raggiunge anch'esso il risultato di impedire l'esercizio dell'azione revocatoria. In entrambi i casi interviene un professionista che redige una relazione, il quale deve avere un duplice requisito soggettivo: essere iscritto sia all'albo degli avvocati o dei dottori commercialisti ed esperti contabili sia nel registro dei revisori.
Queste nuove forme di risanamento "giudiziale" dell'impresa in crisi presentano delle evidenti ricadute tributarie che possono essere riassunte in due filoni: da una parte l'effetto dello stralcio totale o parziale del debito verso i creditori, dall'altra l'emersione di plusvalenze generate dalla dismissione di beni o rami di azienda.
Riguardo al primo va notato che il Tuir non conosce queste nuove procedure inserite recentemente nella legge fallimentare: non essendo aggiornato, non tutela esplicitamente i debitori dall'insorgenza di imponibile come invece accade per le procedure classiche del fallimento, del concordato fallimentare o di quello preventivo. Il pericolo, perciò, è che l'effetto positivo ottenuto dal piano di risanamento in termini di maggiore liquidità venga in parte vanificato dal prelievo tributario.
A fronte dello stralcio parziale del debito, il debitore vede sorgere una sopravvenienza attiva di pari importo che genera materia imponibile (articolo 88 comma 1 del Tuir). Il comma 4 del medesimo articolo non nomina il concordato stragiudiziale, ma nemmeno cita le due forme di risanamento inserite nella legge fallimentare. La questione è stata posta all'attenzione dell'agenzia delle Entrate che si è pronunciata con la circolare n. 8/09, punto 4.2 analizzando la posizione del creditore, ma l'esito della pronuncia non può che interessare anche il debitore.
L'agenzia, ancorandosi a un'interpretazione letterale del Tuir, nota che ai fini della deducibilità della perdita sul credito ex articolo 101, comma 5 del Tuir, non si manifestano le condizioni per la deducibilità immediata derivante da procedura concorsuale, poiche l'accordo di ristrutturazione del debito (e a maggior ragione il piano attestato) non è previsto dal Tuir. Mentre dal punto di vista del creditore si potrebbe aggirare l'ostacolo sostenendo la deducibilità della perdita per sussistenza di elementi certi e precisi (possibilità resa difficile dopo la risoluzione n. 16/09), più problematica appare la situazione del debitore, poiché la stessa tesi letterale porta a concludere che non essendo citate le procedure in esame nell'articolo 88 comma 4 del Tuir, ne deriva che la sopravvivenza attiva risulta imponibile. Questa conclusione, tuttavia appare irragionevole e derivante più da un mancato coordinamento normativo che da un esame razionale del problema. Questi stessi dubbi, peraltro, sono stati "ufficializzati" dal direttore dell'agenzia delle Entrate (Il Sole 24 Ore del 20 novembre 2009) che auspica una revisione normativa o almeno interpretativa dell'intera questione.
Vale la pena sottolineare, come elemento positivo, che almeno sotto il profilo Irap non dovrebbero sussistere dubbi in merito alla non rilevanza della sopravvenienza attiva da stralcio del debito. Essa, non derivando da aggiornamento di stime, va certamente iscritta nell'area straordinaria del conto economico che è esclusa dall'imposizione regionale. Nemmeno si può attrarre a tassazione la sopravvenienza evocando il principio di correlazione poiché lo stralcio riguarda l'aspetto finanziario e non economico della prestazione o della cessione.
Tali problematiche sono state superate, almeno per quanto concerne gli accordi di ristrutturazione dalla modifica normativa apporata agli artt. 88 e 101 dalla legge di conversione del Dl 83/2012 (legge n. 134/2012). Dopo la modifica infatti, il comma 5 prevede che 5. “Le perdite di beni di cui al comma 1, commisurate al costo non ammortizzato di essi, e le perdite su crediti sono deducibili se risultanoda elementi certi e precisi e in ogni caso, per le perdite su crediti, se ildebitore è assoggettato a procedure concorsuali o ha concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell'articolo 182-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267”.
Il comma 4 dell’art. 88 risulta così riformulato.
4. Non si considerano sopravvenienze attive i versamenti in denaro o in natura fatti a fondo perduto o in conto capitale alle società e agli enti di cui all'articolo 73, comma 1, lettere a) e b), dai propri soci e la rinuncia dei soci ai crediti, nè gli apporti effettuati dai possessori di strumenti similari alle azioni, nè la riduzione dei debiti dell'impresa in sede di concordato fallimentare o preventivo o per effetto della partecipazione delle perdite da parte dell'associato in partecipazione. In caso di accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell'articolo 182-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, ovvero di un piano attestato ai sens
dell'articolo 67, terzo comma, lettera d), del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, pubblicato nel registro delle imprese, la riduzione dei debiti dell'impresa non costituisce sopravvenienza attiva per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all'articolo 84.
PROCEDURE CONCORSUALI
• L'Amministrazione controllata non rientra fra le procedure in questione perché non contemplata dal DPR 42/88. Infatti, i presupposti di tale procedura prevedono fra l’altro la "possibilità di risanare l'impresa" (art. 187 Legge Fallimentare);
• Con riferimento al concordato preventivo, bisogna richiamare le condizioni richieste dalla legge. In questa procedura concorsuale il debitore deve garantire il pagamento di almeno il 40% dei debiti chirografari (art. 160 L.F). Pertanto, la norma sulla deducibilità della perdita trova applicazione solo per la parte che si prevede di non incassare (il restante 60%).
• nella circolare n. 8 del 2009 l’agenzia delle entrate ha escluso l’applicazione dell’art. 101, comma 5 del Tuir in riferimento alla procedura semplificata degli accordi di ristrutturazione di cui all’articolo 182-bis del R.D. 267 del 1942, come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo n. 169 del 2007. Trattasi di una procedura di natura stragiudiziale, finalizzata a valorizzare il ruolo dell'autonomia privata nella gestione della crisi dell'impresa mediante un accordo, stipulato dal debitore con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, la cui efficacia è garantita dal provvedimento di omologazione del Tribunale. L’amministrazione finanziaria, attenendosi ad una interpretazione letterale, ha negato la possibilità di deduzione delle perdite in quanto detta procedura non è stata recepita all’interno del citato comma 5 dell’art. 101 del Tuir La modifica normativa apportata dalla legge di conversione del Dl 83/2112 l’ha invece ricompresa.
• Nella relazione sull’attività del 1990, il SECIT ha affermato che la sussistenza degli elementi certi e precisi può ritenersi presente per tutta la durata della procedura. Di conseguenza, anche la competenza per la imputazione della perdita in deduzione dal reddito, ovviamente nei limiti di quanto imputato al conto economico, deve ritenersi estesa allo stesso periodo. Afferma il SECIT, infatti, che "il credito di 100 verso un fallito può essere imputato a perdita in conto economico in misura di 70 nell'esercizio di apertura del fallimento e costituire componente di reddito nel corrispondente periodo di imposta nella stessa misura, salvo ulteriore analoga operazione in un esercizio successivo in pendenza della procedura concorsuale, per il residuo di 30”;
• La Corte di Cassazione, invece, con la sentenza n. 12831 del 2002, ha evidenziato che "i vari tipi di procedure concorsuali consentono, in tutto o in parte, il recupero del credito in dipendenza di molteplici variabili; e che non v'è ragione di escludere aprioristicamente la possibilità che l'apprezzamento di tali elementi consenta di individuare i requisiti di certezza e di determinabilità della perdita, con riguardo ad un esercizio diverso da quello nel quale la procedura concorsuale si è aperta". Ciò nonostante, conclude la sentenza n. 12831 del 2002, "non è possibile scegliere il periodo di esercizio, tra quelli posteriori all'apertura della procedura concorsuale, in cui dedurre la perdita” (tesi confermata anche da sentenze nn. 16198 del 2001 e 16330 del 2005).
Ritornando alle procedure rilevanti va evidenziato come l’impresa ha la facoltà di rilevare la perdita totalmente o parzialmente nella misura in cui ritiene che il credito sia divenuto irrealizzabile, in uno qualsiasi degli esercizi a partire da quello in cui viene emessa sentenza dichiarativa o provvedimento da parte degli organi preposti. Il che non deve tradursi in un libero arbitrio nell’individuazione dell’esercizio di deduzione: in caso di procedura concorsuale l’esercizio di deduzione va individuato in relazione al momento in cui si è assunta certezza della totale o parziale inesigibilità, magari dovuta alla conoscenza della reale (e insufficiente) massa dell’attivo fallimentare. Le perdite non dedotte nel corso della procedura possono essere imputate all’esercizio nel quale avviene la chiusura dell’operazione (Cfr. Relazione Secit anno 1990).
Tale concetto è stato bene spiegato dai giudici di legittimità nella sentenza n. 12831 del 2002 dove viene sostenuto, da un lato, che le perdite su crediti non devono essere portate in deduzione necessariamente e per intero nel periodo di imposta in cui la procedura concorsuale si è aperta, pur precisando, dall'altro, che il contribuente non sarebbe tuttavia autorizzato a scegliere il periodo in cui dedurre la perdita tra quelli posteriori all'apertura della procedura concorsuale, dovendo trovare in ogni caso applicazione il principio generale di competenza, certezza ed obiettiva determinabilità di cui all'art. 75, primo comma del Tuir (attuale art. 109 del Tuir). La sentenza è quindi in linea con quella, sempre della Cassazione, del 3 agosto 2005 n. 16330 (in merito si veda quanto detto appena sopra e subito dopo).
Tale concetto è stato ripreso e ben commentato nella norma di comportamento n. 172 in materia di «Perdite su crediti: deducibilità in caso di fallimento o procedure concorsuali», redatta dalla Commissione Norme di comportamento e di comune interpretazione in materia tributaria dell'Associazione italiana dottori commercialisti. La massima dell’Associazione è la seguente “L'esercizio in cui dedurre le perdite su crediti nei confronti di clienti falliti o sottoposti ad altre procedure concorsuali è quello in cui le perdite si manifestano e sono iscritte in bilancio secondo il prudente apprezzamento degli amministratori, il che può avvenire o nell'esercizio stesso di inizio della procedura concorsuale o anche, in tutto o in parte, in quelli successivi”.
Viene evidenziato che la disposizone dell'articolo 101, comma 5, Tuir, secondo la quale le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e in ogni caso quando si è in presenza di procedure concorsuali, non ha il significato di presumere la perdita dell'«intero» credito alla data d'inizio della procedura stessa, bensì di introdurre una presunzione semplice riguardo alla certezza della perdita, la cui entità deve essere valutata attentamente in ogni singolo caso considerando il presumibile valore di realizzo del credito (Cfr Cassazione, sentenza n. 12831 del 4 settembre 2002).
In altri termini, l'articolo 101, comma 5 del Testo unico – nel momento in cui riconosce la perdita del credito all'apertura della procedura concorsuale – non va considerato come un'imposizione al contribuente dell'obbligo di dedurre in quell'esercizio l'intero ammontare del credito stesso (pena il disconoscimento da parte dell'Amministrazione finanziaria in caso di deduzione della perdita in un esercizio successivo), ma riconosce, anche sul piano fiscale, la validità della stima del valore di presumibile realizzo effettuata dall'imprenditore caso per caso (Cassazione, sentenza n. 12831 del 4 settembre 2002 e Assonime, circolare n. 69 del 23 dicembre 2005 (pagina 38).
La presunzione di sussistenza di elementi certi e precisi vale per tutta la durata della procedura concorsuale; pertanto la deducibilità della perdita deve ritenersi ammissibile – per tutta la durata della procedura – nei limiti dell'imputazione a bilancio (Per le imprese minori, le perdite devono essere separatamente anno-tate nei registri tenuti ai fini Iva (articolo 18, comma 3, del Dpr 600/73).
Ad esempio, il credito di 100 verso un fallito può originare in bilancio una perdita correttamente stimata di 70 nell'esercizio di apertura del fallimento – costituendo componente negativo di reddito per l'importo di 70 nello stesso periodo di imposta – con la possibilità di dedurre il residuo di 30 negli esercizi successivi se e quando –civilisticamente – si manifesterà la residua perdita (Secit,relazione sull'attività svolta nell'anno 1990, punto 4.1.11).
La valutazione dell'imprenditore, qualora correttamente effettuata e iscritta in bilancio, diviene vincolante anche ai fini fiscali, non legittimando eventuali contestazioni da parte della pubblica amministrazione (Vedasi anche Abi, circolare TR/003527 del 12 aprile 1990).
Tuttavia la valutazione dell'imprenditore non può essere totalmente discrezionale: non può scegliere, a suo piacimento, l'esercizio a cui imputare la perdita, ma, nella valutazione dei crediti e nella rilevazione delle perdite, dovrà attenersi ai principi di verità e correttezza previsti dall'articolo 2423, secondo comma e di prudenza di cui all'articolo 2423-bis, comma 1, numero 4, del Codice civile tenendo conto dell'effettivo grado di recuperabilità del credito, anche in funzione di eventuali garanzie, come ad esempio i privilegi, le ipoteche e le garanzie personali di terzi (Cassazione, sentenza n. 12831 del 2002 e Assonime, circolare n. 69 del 2005, citate). Per effetto dell'articolo 101, comma 5 del Testo unico, ove l'imprenditore abbia sufficientemente documentato i criteri in base ai quali ha operato la stima del presumibile valore di realizzo dei crediti nei confronti di soggetti
in procedura concorsuale (ad esempio –in presenza dicrediti di importo significativo – mediante pareri di legali interni o esterni riguardanti l'effettiva recuperabilità del credito), sarà l'Amministrazione finanziaria a dover dimostrare, se ve ne saranno i motivi, che i criteri seguiti dall'imprenditore sono erronei, tanto da inficiare la verità e correttezza del bilancio. Può quindi verificarsi che le imprese bancarie o finanziarie (i cui crediti sono normalmente assistiti da garanzie reali o personali) iscrivano più spesso, nell'esercizio di apertura della procedura concorsuale, una perdita su crediti di ammontare inferiore al valore nominale del credito (cioè per la sola parte eccedente la garanzia); mentre le imprese industriali o commerciali (i cui crediti sono raramente assistiti da garanzia) stralcino, più frequentemente – nell'esercizio stesso –l'intero ammontare del credito.
I principi sopra esposti non sono contraddetti dalla giurisprudenza della Cassazione (Cassazione, sentenza n. 16330 del 3 agosto 2005) in cui si afferma che «l'anno di competenza per operare la deduzione deve coincidere con quello in cui si acquista certezza che il credito non può più essere soddisfatto perché in quel momento stesso si materializzano gli elementi "certi e precisi" della sua irrecuperabilità ». Tale giurisprudenza,
infatti:
- riguarda una controversia relativa a perdite su crediti verso soggetti non interessati da procedure concorsuali;
- conferma che le perdite su crediti devono essere dedotte obbli-gatoriamente nell'esercizio in cui divengono certe, senza che il contribuente abbia la facoltà di scegliere a sua discrezione l'esercizio in cui dedurle, ma non entra nel merito dei criteri da utilizzare per l'effettiva quantificazione dell'entità della perdita che, in ciascun esercizio, abbia acquisito il connotato della certezza.
Questa giurisprudenza, in altri termini, non afferma che l'intero ammontare del credito debba essere stralciato in un solo esercizio, a pena di indeducibilità del residuo ammontare negli esercizi successivi, né potrebbe essere diversamente, dato che, altrimenti, la norma fiscale condizionerebbe la deducibilità della perdita a un comportamento che, in molti casi, costituirebbe violazione delle norme di redazione del bilancio.
L'apertura della procedura concorsuale rimane quindi un momento in cui si presume la sussistenza di una perdita, ma la sua quantificazione e rilevanza va determinata – nel rispetto dei principi generali di cui all'articolo 2423, secondo comma e 2426, primo comma, numero 8) del Codice civile e del principio di prudenza di cui all'articolo 2423-bis, comma 1,numero 4 del Codice civile – da parte dell'imprenditore.
La norma non contiene alcun riferimento alla procedura di amministrazione controllata potendo, questa, essere definita non come un vero e proprio stato di insolvenza ma come un periodo di temporanea difficoltà dell'impresa a far fronte alla proprie obbligazioni che si traduce, per il creditore, in un impedimento temporale che differisce la riscossione del credito ma non l'automatica diminuzione del credito stesso. In questo caso, quindi, occorrerà rifarsi ai criteri generali dell'art. 101 per cui la perdita sarà deducibile se desunta da elementi "certi e precisi" (Circ. n. 39 del 2002).
L’amministrazione aveva già avuto modo di dire la plusvalenza concorre integralmente alla formazione del reddito imponibile nell'esercizio in cui è realizzata ovvero,qualora ricorrano i presupposti previsti dalla legge, in quote costanti nell'esercizio stesso e nei successivi ma non oltre il quarto (ris. 237/E/2009); ciò a differnza di quanto succede sul piano civilistico dove l’OIC 1 prevede che tali plusvalenze sono ripartite in funzione della durata del contratto di locazione (in merito si veda quanto detto nelle specifico paragrafo all’art. 88 del Tuir). Coerentemente, nell'ipotesi di minusvalenza, nei limiti di quanto imputato a conto economico nell'esercizio di competenza, l’Amministrazione nella diretta MAP del 4/6/10 ritiene che la stessa sia deducibile nell'esercizio medesimo ai sensi del combinato disposto degli articoli 101 e 109, comma 2, lettera a) del Tuir.