DEDUCIBILITA' DEI COMPENSI SPETTANTI AGLI AMMINISTRATORI

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ARTICOLO - Pubblicato il: 7 marzo 2013 - Da: G. Manzana E. Iori

 

La deducibilità del compenso amministratori è argomento che non tramonta mai. Si ricorderà l’estate del 2010 e l’ordinanza n. 18702 del 23 agosto 2010 con cui la Cassazione ha sostenuto che i compensi corrisposti agli amministratori di società di capitali non costituivano in ogni caso un costo deducibile. Dalla motivazione del provvedimento emergeva che era stato applicato l'articolo 62 del Dpr 917/1986, che disciplinava, fino al 31 dicembre 2003, le spese per prestazioni di lavoro nell'ambito della determinazione del reddito di impresa. Questa norma -che a differenza dell’attuale trattava del reddito d’impresa nell’ambito dell’Irpef e valeva solo per rimando anche per le società di capitali (gli allora soggetti Irpeg) - prevedeva la non deducibilità di somme a titolo di compenso del lavoro prestato o dell'opera svolta dall'imprenditore individuale, mentre al comma 3 prevedeva la deducibilità dei compensi spettanti agli amministratori delle società di persone aventi natura commerciale.

In sintesi secondo la Cassazione il regime di deducibilità dell’allora art. 62 del Tuir non era applicabile agli amministratori delle società di capitali essendo la loro prestazione assimilabile più a quella dell'imprenditore che a quella degli amministratori di società di persone. Per i giudici la posizione dell'amministratore delle società di capitali era equiparabile «sotto il profilo giuridico, a quella dell'imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l'assoggettamento all'altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione».

Secondo la dottrina (unanime), la tesi della Cassazione è errata e comunque veniva del tutto superata dalla riformulazione del testo della norma (nuovo art. 95) avvenuta con la riforma Ires (valida per gli esercizi dal 2004 in poi). Veniva evidenziato che nell’ordinanza la Suprema corte non avesse considerato che esisteva un'altra norma (l’allora art. 95 del Tuir) la quale estendeva la disciplina delle società di persone anche alle società di capitali e che una società ha una propria personalità giuridica (soggettività giuridica in caso di società di persone) che fa si che l’amministratore, ancorchè possa essere anche socio della società, sia soggetto in ogni caso distinto rispetto alla società.

Queste argomentazioni sono state fatte proprie dal Ministero dell’Economica; con la risposta al questione time del 30/9/2010 il Ministero, intervendo circa l’ordinanza 18702 13 agosto 2010 sull’annosa questione dell’indeducibilità a prescindere del compenso amministratori, aveva lasciato intendere di non intravedere alcun vincolo legale alla deduzione (se non l’effettivo pagamento, applicandosi il criterio di cassa). Sottolinea però, ritornando su argomento che si riteneva chiuso che, anche per i compensi in esame, la deduzione soggiace al requisito di inerenza previsto dall’art. 109, comma 5, del Tuir. Il Ministero pare voler richiamare un certo l’orientamento giurisprudenziale che, in passato, aveva legittimato il disconoscimento della deduzione di spese derivanti da atti “antieconomici” e dunque la possibilità per il Fisco di effettuare un sindacato di congruità degli importi attribuiti agli amministratori.

In tale contesto si inserisce la sentenza 24957del 10 dicembre 2010 della Corte di Cassazione la quale neppure affronta il tema dell’ordinanza dell’agosto 2010 - dando evidentemente per scontato che il Tuir comprende i compensi agli amministratori tra gli oneri deducibili - occupandosi invece della congruità degli importi corrisposti affermando, in linea con altre sentenze recenti, che l’importo del costo in esame è insindacabile, in quanto la formulazione attuale della norma non prevede più un limite pari agli importi di amministratori non soci.

Ma tale presa di posizione non convince l’amministrazione che con la Ris. 113/E/2012 riporta in primo piano la questione dell’antieconomicità e dell’abuso del diritto.

C’è poi il problema della deducibilità del compenso in mancanza di delibera.

L’entità del compenso

L'entità del compenso è decisione che di norma spetta all'assemblea dei soci (art. 2364, Codice civile), salva l'ipotesi di amministratori investiti di particolari cariche per i quali la misura del compenso è stabilita dal l'organo amministrativo (art. 2389, comma 3, Codice civile), a meno che lo statuto non affidi anche questa decisione all'assemblea. Il punto delicato è valutare se la misura del compensi deliberati possa essere disconosciuta dal Fisco se giudicata eccessivamente elevata. Negli anni si sono susseguite sentenze di cassazione di segno opposto anche conseguenti all’abrogazione della soglia massima per legittimare la deducibilità fiscale del compenso degli amministratori soci - soglia parametrata alla misura corrente degli emolumenti spettanti ad amministratori non soci - contenuta nel precedente Testo unico (Dpr n. 597 del 1973). Tanto per richiamarne alcune si ricorda le sentenze n. 6599 del 09/05/02; n. 21155 del 31/10/05; n. 28595 del 02/12/08 e n. 24957/2010 per le quali il sindacato di contruità non è possibile e altre (n. 12813 del 27/09/00, n. 13478 del 30/10/01, n. 20748 del 25/09/06) che lo ammettono.

Cass. n. 12813 del 27 settembre 2000

Cass. 30 ottobre 2001 n. 13478

Cass. 27 settembre 2000 n. 12813

Cass. n. 13478/2001

Una prima pronuncia in cui questa tesi fu riconosciuta valida si ha con la sentenza della Cassazione n. 12813 del 27 settembre 2000 (poi seguita dalle sentenze della Corte di Cass. 30 ottobre 2001 n. 13478 e Corte di Cass. 27 settembre 2000 n. 12813). Sulla base del principio generale secondo il quale l'amministrazione può valutare la congruità di costi e ricavi a prescindere dalla contestazione della loro veridicità, la Suprema corte ha riconosciuto fondati i rilievi del Fisco che aveva disconosciuto parte dei compensi erogati all'organo amministrativo.

La questione era inerente i compensi ad amministratori di società in nome collettivo ma la vicenda assume evidentemente contorni generali quando nella sentenza si afferma: “Per quanto attiene ai compensi degli amministratori delle società in nome collettivo, la loro deducibilità, riconosciuta dall'art. 62 del Tuir indipendentemente dal fatto che gli amministratori siano o non siano soci, non significa che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni sociali o contratti, e ciò a prescindere dall'invalidità di questi atti sotto il profilo civilistico”.

Secondo questa pronuncia, il Fisco avrebbe potuto procedere alla rettifica delle dichiarazioni dei redditi, sia pure nel rispetto dei principi dettati dal decreto sull'accertamento e dal Tuir in materia di reddito d'impresa, e negare in tutto o in parte la deducibilità dei costi, se eccessivi rispetto al montante ricavi o all'oggetto dell'impresa. E questo anche in mancanza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi degli atti giuridici compiuti nell'esercizio dell'attività imprenditoriale. I giudici precisano ulteriormente che il Fisco non poteva essere vincolato alle deliberazioni assembleari in tal senso e che questo percorso logico dovesse estendersi anche agli altri elementi di costo sostenuti dall'impresa (Cfr. Corte di Cass. Sentenza n. 13478/2001).

Cass. n. 6599 del 9 maggio 2002

Cass. n. 21155 del 31 ottobre 2005

La vicenda ha suscitato molte critiche per un motivo molto semplice: nel precedente Testo unico (Dpr n. 597 del 1973) era sì prevista una soglia massima per legittimare la deducibilità fiscale del compenso degli amministratori soci - soglia parametrata alla misura corrente degli emolumenti spettanti ad amministratori non soci - ma con l'entrata in vigore del Tuir questo parametro è stato abrogato. Sia nel precedente art. 62 sia nell'attuale art. 95 del Tuir non vi è traccia di alcun tetto limite quale condizione necessaria per la deduzione fiscale del compenso.

Da qui la tesi che la misura del compenso non sia oggetto di possibile sindacato di congruità da parte del Fisco. Questa tesi è stata sostenuta da altre e recenti pronunce della Suprema Corte tra, le quali vale la pena di ricordare la n. 21155 del 31 ottobre 2005 in cui emerge chiaramente l'insindacabilità della misura del compenso (prima la Cassazione n. 6599 del 9 maggio 2002).: “Questo orientamento è basato sul fatto che l'art. 62 del Tuir, nella sua nuova formulazione introdotta dal testo unico, non prevede più il richiamo a un parametro da utilizzare nella valutazione della entità dei compensi, per cui l'interprete non può che prendere atto della modificazione normativa e concludere per l'inesistenza del potere di verificare la congruità delle somme date ad un amministratore di società a titolo di compensi per l'attività svolta”. Va anche ricordato che la società ricorrente aveva aggiunto che in ogni caso il compenso erogato agli amministratori rappresentava il 2,6 per cento dei ricavi contabilizzati ed era da ritenersi congruo anche sulla base delle tariffe professionali dei dottori commercialisti chiamati a svolgere incarichi amministrativi.

La Suprema corte nella sentenza n. 6599/02 ricorda che l'articolo 59 del previgente Dpr n. 597 del 1973 aveva tentato di mettere un argine al fenomeno, sottoponendo i compensi degli amministratori soci ai limiti «delle misure correnti per gli amministratori non soci». Il fatto che tale elemento non sia stato accolto nelle disposizioni successive, elimina ogni possibilità di intervento, anche perché la norma antielusiva (articolo 37-bis del Dpr n. 600 del 1973) non è applicabile alle ipotesi di specie. Inoltre, sempre secondo il richiamato orientamento della Suprema Corte, il comportamento dell'impresa non sarebbe attaccabile neppure sul piano dell'inerenza, dovendo quest'ultimo requisito essere riferito alla "qualità" del costo e non alla sua "quantità".

In buona sostanza, se la spesa serve a produrre ricavi, sindacarne la misura corrisponderebbe a "sostituirsi" all'imprenditore, unico soggetto cui spetta la scelta delle strategie aziendali.

Il nuovo “filone” interpretativo fa notare che l'art. 62 del Tuir (oggi art. 95, comma 5) al comma 3 dispone, sic et simpliciter, che i compensi spettanti agli amministratori, anche in forma di partecipazione agli utili, si deducono nell'anno fiscale in cui sono corrisposti.

Pertanto, la Cassazione non vede in questa norma, né in altre, il riferimento a tabelle o ad altre indicazioni vincolanti sul piano della deducibilità fiscale degli emolumenti all'organo amministrativo. Vincoli che invece esistevano nella norma precedente al Tuir, ove nell'art. 59 del Dpr n. 597 del 1973 era espressamente previsto che i compensi agli amministratori erano deducibili “nei limiti delle misure correnti”. La mancanza nelle nuove norme del Tuir di questo vincolo alla deduzione delle remunerazioni amministrative e di una norma antielusiva generale, impongono al Fisco di osservare un limite netto e preciso al proprio potere di accertamento sulla congruità dei compensi agli amministratori e, in generale, di qualsivoglia voce di costo dell'impresa, onde evitare “il rischio concreto dell'arbitrarietà”.

Ordinanza 18702 del 13 agosto 2010

Con l’ordinanza 18702 del 13 agosto 2010, la Cassazione ha affermato, in base ad una lettura dell’art. 62 del Tuir (attuale art. 95), da più parti ritenuta superficiale ed erronea, che la legge impedisce alle società di capitali di dedurre i compensi erogati agli amministratori.

Il Ministero dell’economia (risposta al question time del 30 settembre 2010), intervendo circa l’ordinanza 18702 13 agosto 2010 sull’annosa questione dell’indeducibilità a prescindere del compenso amministratori (in merito si veda quanto viene detto dopo) aveva lasciato intendere di non intravedere alcun vincolo legale alla deduzione (se non l’effettivo pagamento, applicandosi il criterio di cassa), fermo restando che, anche per i compensi in esame, la deduzione soggiace al requisito di inerenza previsto per ogni onere di impresa dall’art. 109, comma 5, del Testo unico, requisito la cui sussistenza deve essere valutata caso per caso.

Con quest’ultima annotazione, l’Agenzia pare volesse richiamare un certo orientamento giurisprudenziale che, in passato, aveva legittimato il disconoscimento della deduzione di spese derivanti da atti “antieconomici”.

In tale contesto si inserisce la sentenza 24957/2010, sempre della Cassazione, la quale assume sulla questione un approccio legato al contenuto delle norme, sottolineando che non esistono attualmente disposizioni che legittimano un sindacato di congruità del Fisco sulla quantificazione dei compensi. Non lo prevede il Tuir (nel quale non compaiono più, come invece avveniva in passato, limiti connessi con la misura degli amministratori non soci), non lo consente la norma antielusiva in quanto l’art. 37-bis del DPR 600/73 non indica questa fattispecie.

Inoltre, a seguito del ricordato criterio di cassa che sovraintende la deduzione di questi oneri, l’erogazione di compensi di importo estremamente elevato non si presta attualmente a fenomeni di arbitraggio fiscale, considerando che il risparmio della società di capitali è limitato al 27,5% (gli emolumenti infatti non riducono l’imponibile Irap) mentre l’imposizione del manager (tra Irpef e addizionali) può arrivare al 43%, senza considerare gli oneri contributivi della società e dell’amministratore.

La Cassazione ha infine affermato che l’utilizzo del requisito di inerenza (richiamato dal Ministero nella risposta del 30 settembre 2010), al fine di verificare la deducibilità dei compensi in relazione all’importo, appare poco proficuo, dato che l’inerenza rileva sotto il profilo della qualità del componente reddituale piuttosto che della sua quantificazione.

Nell’attuale sistema, chiarisce infine la sentenza, la spettanza e la deducibilità dei compensi agli amministratori è dunque determinata dal consenso che si forma tra le parti o nell’ente (art. 2364 e art. 2389 c.c.), senza che al Fisco sia riconosciuto un potere specifico di valutazione di congruità.

È evidente il contrasto che emerge nella giurisprudenza della Suprema corte che ha prodotto diverse sentenze alternativamente ispirate alla tesi della sindacabilità e dell'insindacabilità dell'entità del compenso. La tesi che evidentemente appare più rispettosa del nuovo dato normativo, e l'unica in grado di spiegare il motivo per cui da un testo in cui era presente un parametro si è passati all'attuale norma priva di qualunque tetto di congruità, è quella che vede la misura del compenso quale decisione che spetta solo al l'organo sociale deputato a prenderla senza che il Fisco possa esercitare alcun sindacato di congruità. Quest’ultima tesi, peraltro, oltre che più recente, è sicuramente maggioritaria.

E è in tale contesto che si inserisce la ris. 113/E/2012 che sottolinea che in sede di controllo la deduzione può essere disconosciuta qualora i compensi risultino “insoliti, sproporzionai o strumentali all’ottenimento di indebiti vantaggi”, argomenti che riguardano questioni legate all’antieconomicità e dell'abuso del diritto (che peraltro sono vicende assolutamente distinte).

Quando il documento dell'Agenzia fa riferimento ai compensi "insoliti e sproporzionati" evidentemente allude alla vicenda dell'antieconomicità; quando, invece, il documento menziona l'"ottenimento di indebiti vantaggi" fa riferimento alla questione dell'abuso.

Per quanto concerne l'antieconomicità, il riferimento è a valori di spesa sproporzionate o "abnormi".

La questione dell'antieconomicità è da ricondurre all'inerenza, che è il principio che nella determinazione del reddito d'impresa coniuga quello (costituzionale) di capacità contributiva. La deduzione di una spesa o di un costo non è infatti una gentile concessione del legislatore (o dell'amministrazione), visto che il reddito d'impresa va assunto nella sua interezza, contrapponendo, in primo luogo, componenti positivi e componenti negativi inerenti. L'inerenza, che è questione prima economica e poi civilistica e fiscale, rappresenta quel collegamento tra un componente economico e l'attività esercitata, o da esercitarsi, da parte dell'imprenditore. Se non vi è questo collegamento, l'amministrazione deve ritenere indeducibili i componenti negativi (visto che è di quest'ultimi che si parla a proposito dell'inerenza). Chiaramente, quando l'Agenzia sostiene la sproporzionalità delle spese e non le ammette interamente in deduzione, deve giustificare le ragioni secondo le quali queste si ritengono non collegabili con la funzione economica dell'impresa. Non basta affermare che le spese sono troppo "alte". L'amministrazione ha l'onere di rappresentare i motivi per i quali quelle spese, in quanto sproporzionate, difettano del necessario collegamento con l'attività d'impresa (l'inerenza è questione sostanzialmente qualitativa e non quantitativa). In questo caso è sbagliato parlare di un onere di prova, riguardando quest'ultimo i fatti e non le valutazioni. L'inerenza è una questione di valutazione, quindi si può parlare di un onere di allegazione da parte dell'amministrazione delle motivazioni secondo le quali la spesa risulta non inerente. Invece, nei casi in cui l'Agenzia rettifica una spesa ritenuta troppo alta e la riduce di una determinata percentuale, si è in presenza di una presunzione semplice, per cui l'amministrazione deve portare (al giudice) degli elementi convincenti (gravi, precisi e concordanti) in grado di stabilire che l'ammontare della spesa non è, ad esempio, pari a 100 ma a 40. Ne consegue quindi che l'antieconomicità non può, da sola, costituire il "quadro accusatorio" della rettifica, ma solo un indizio che, unitamente ad altre considerazioni, può qualificare la presunzione a favore del Fisco e invertire l'onere della prova.

Si può ben comprendere che elusione e abuso sono temi assolutamente contigui: l'abuso "allarga" semplicemente il concetto di elusione, che il legislatore aveva confinato a fattispecie casistiche.

Anche per l'abuso del diritto, va detto che probabilmente è sbagliato parlare di un onere di prova. Normalmente nell'abuso non si è in presenza di fatti da provare e mai di presunzioni. L'abuso è una questione di valutazione dei fatti, per la quale l'amministrazione ha l'onere di allegare i motivi per i quali il contribuente avrebbe conseguito un vantaggio fiscale indebito (Cfr. Compensi eccessivi, niente sconti, D.Deotto, Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2013).

La deducibilità del compenso in caso di mancanza di delibera assembleare

Ci si potrebbe chiedere se la deducibilità fiscale delle remunerazioni erogate agli amministratori sia condizionata dalla regolarità civilistica della procedura adottata dalla società per l'assunzione dell'obbligo e del relativo pagamento.

Sul piano civilistico il compenso agli amministratori è regolato, tra gli altri, dagli artt. 2364, 2389, 2432 e 2421, Codice civile; in particolare, tali norme prevedono che la determinazione del compenso agli amministratori compete all'assemblea dei soci. Il problema si pone nel caso in cui difetti una delibera: perché non si sia provveduto alla verbalizzazione di una deliberazione effettivamente adottata o perché non si sia deliberato alcunché. In materia societaria vige uno statuto speciale che fissa termini di decadenza assai ristretti per impugnare gli atti societari, spirati i quali una delibera (trasfusa in un verbale di assemblea) in ipotesi viziata, non è più impugnabile.

Cass. sentenza n. 2832/2001

Sul tema, su un piano squisitamente civilistico, è intervenuta la Cassazione con la sentenza n. 3774/1995, pronunciata su un motivo di ricorso proposto nei confronti di una sentenza che aveva dichiarato l'illegittimità della ratifica, mediante approvazione del bilancio, dei compensi che gli amministratori di una società per azioni si erano autodeterminati, senza preventiva delibera dell'assemblea (e pertanto con affermazioni che ne costituiscono la ratio decidendi e non mero obiter dictum), il compenso «può essere inserito in bilancio, in quanto sia stato deliberato dalla assemblea con un'autonoma decisione, che non può essere implicita nella approvazione del bilancio stesso».  Cass. sentenza n. 3774/1995

Di contro, con la sentenza n. 2832/2001 la Cassazione ha affermato che l'approvazione del bilancio nel quale figuri iscritta la voce relativa al compenso ha valore giuridico di approvazione e ratifica dell'operato dell'amministratore che si sia attribuito tale compenso   senza   che l'assemblea lo abbia previamente deliberato. L'approvazione del bilancio, infatti, costituirebbe manifestazione di volontà specificamente diretta all'approvazione di tale attribuzione, perchè non costituirebbe una mera presa d'atto di dati contabili, ma   rappresenterebbe   un   atto   di appropriazione del rapporto da parte della società e pertanto una ratifica.

Affermando tale principio la sentenza richiama la Cassazione n. 6935/1983 la quale, pronunciando in una fattispecie in cui un   soggetto   poi   nominato amministratore di una società di capitali, in epoca antecedente alla costituzione, aveva stipulato un contratto di locazione, ha ritenuto che la delibera di approvazione del bilancio, in cui sia incluso il debito per i relativi canoni, non costituendo una mera dichiarazione di scienza, nè un semplice atto unilaterale ed interno, ma un atto in cui rileva la volontà che sta alla base della formazione della deliberazione stessa, ove sia provata la conoscenza dell'instaurazione del rapporto locativo da parte dell'assemblea, costituisce un atto di appropriazione di tale rapporto da parte della società e vale come ratifica dell'atto posto in essere da chi ha agito in nome della società stessa senza averne il potere.

Cass. sentenze n. 28243/2005 e n. 11490/2007.

Il principio affermato con la sentenza n. 2832 del 2001, è stato condiviso, in modo espresso e mediante rinvio esplicito, dalla successiva sentenza n. 28243/2005, e implicitamente da Cassazione n. 11490/2007, che tuttavia ha negato che, allo scopo di valutare la possibilità di sanare l'autoattribuzione di   compensi   da   parte   dell'amministratore,   non preventivamente   deliberata   dall'assemblea,   mediante   delibera   di approvazione di bilancio, sia sufficiente l'affermazione del principio di diritto astratto di cui alla decisione del 2001, essendo necessario che in concreto siano indicati gli elementi probatori dai quali risulti che la specifica spesa era stata acquisita al bagaglio istruttorio della delibera relativa al bilancio.

   La stessa duplicità di orientamenti evidenziata all'interno della giurisprudenza di legittimità si è registra anche nella giurisprudenza di merito e nella dottrina.

Cass. Sezione Unite con la sentenza del 29 agosto 2008, n. 21933.

In tempi successivi alle sentenze sopra riportate è intervenuta la Cassazione a Sezione Unite con la sentenza del 29 agosto 2008, n. 21933. Viene detto che i compensi degli amministratori devono essere determinati con una delibera societaria specifica in quanto non si può pensare che questa delibera possa essere implicita in quella che ha approvato il bilancio.

Nella sostanza le Sezioni unite per arrivare alla conclusione più restrittiva sottolineano innanzitutto che il tema della remunerazione degli amministratori delle società di capitali (che, sulla base della riforma del 2003 può essere costituita in tutto o in parte da partecipazioni agli utili o dall'attribuzione del diritto di sottoscrivere a prezzo predefinito azioni di futura emissione) è tra i più importanti nell'ambito delle problematiche del governo societario. Tanto che la Commissione europea è più volte intervenuta sul punto e il Testo unico sull'intermediazione finanziaria è stato modificato in alcuni aspetti, sempre alla ricerca di un equilibrio tra gli interessi dei soggetti che hanno compiti di direzione delle società e quelli degli azionisti.

L'articolo del Codice civile che disciplina la materia, il 2389, nella lettura delle Sezioni unite, ha una natura imperativa e inderogabile «sia perché, in generale, le discipline della struttura e del funzionamento delle società regolari sono dettate (anche) nell'interesse pubblico al regolare svolgimento dell'attività commerciale e industriale del Paese, sia perché la loro violazione, in particolare la percezione di compensi non previamente deliberati dall'assemblea era prevista dall'articolo 2630, 2° comma n. 1, del Codice civile (...) come delitto che non poteva essere certo scriminato dall'approvazione del bilancio successiva alla consumazione».

Le delibere di approvazione del bilancio e di determinazione del compenso degli amministratori hanno poi oggetti chiaramente diversi. La prima è indirizzata a controllare la legittimità di un atto di competenza degli amministratori, approvandolo o no, mentre l'altra ha la funzione di determinare o stabilire la la remunerazione dei manager. In ogni caso, mette ancora in evidenza la sentenza, anche a volere ipotizzare l'ammissibilità di una ratifica tacita della autodeterminazione del compenso da parte dell'amministratore sarebbe necessaria la prova che, approvando il bilancio, l'assemblea è a conoscenza del vizio ha espresso la volontà di fare proprio l'atto compiuto dall'organo privo di potere non potendo invece essere considerata sufficiente una generica delibera di approvazione.

Prendendo poi in considerazione le pronunce sia di merito sia di legittimità che hanno seguito un indirizzo diverso, le Sezioni unite ricordano che si è di solito trattato di sentenze che non hanno riguardato la violazione di norme imperative come avviene invece nel caso di quelle sui compensi degli amministratori. La stessa dottrina ritiene poi che l'ammissibilità di delibere tacite o implicite sia in contrasto con le regole di formazione della volontà della società e in particolare con la disciplina del Codice civile che stabilisce l'indicazione esplicita dell'ordine del giorno degli argomenti sui quali deliberare in maniera tale da permettere la partecipazione all'assemblea di soci preparati.

Per le Sezioni unite, infine, va conservata la distinzione tra approvazione del bilancio e degli atti gestori a esso sottostanti; distinzione che deve trovare un riflesso anche nella separata indicazione nell'ordine del giorno tra i punti da trattare. L'unica possibilità di un'approvazione dei compensi contestualmente al bilancio è nella prova che l'assemblea dopo avere licenziato il rendiconto ha affrontato e approvato in maniera esplicita il nodo della retribuzione.

La posizione degli organi verificatori è spesso improntata alla valorizzazione, anche sotto il profilo fiscale, della carenza di deliberazione. Gli argomenti utilizzati sono riconducibili essenzialmente al difetto di certezza del costo sostenuto, anche sotto il profilo della mancanza di data certa; e, ancor prima, alla carenza di un idoneo titolo di pagamento. Secondo alcuni, l'eccessiva asprezza di questa conclusione (che cozza anche contro ragioni di "simmetria" fiscale nel caso di regolare tassazione dell'emolumento da parte dell'amministratore) invita a valutare interpretazioni alternative, che però non possono prescindere dal superamento di un ostacolo significativo: la carenza di una delibera determina l'inesistenza del titolo giuridico che legittima il pagamento. In questo caso, infatti, la società mantiene in astratto il diritto alla ripetizione dall'amministratore delle somme "indebitamente" versate. Se il diritto alla restituzione viene non attivato dalla società, si potrebbe configurare una liberalità e, come tutte le donazioni, un onere non rilevante nei rapporti con il Fisco (Cfr.G. Maccagnani e G.P. Ranocchi, Delibera anche retroattiva, Il Sole 24 Ore 27 marzo 2006).

In questa prospettiva va segnalato che nulla impedisce alla società di adottare una delibera dotata di tutti i crismi formali che "sani" la situazione con efficacia espressamente retroattiva (si badi a scanso di equivoci che la delibera in ratifica sarebbe adottata al momento, ad esempio, della verifica fiscale; e si tenga anche nel giusto conto, dell'orientamento ministeriale e giurisprudenziale, a proposito della non utilizzabilità in sede contenziosa dei documenti non esibiti nel corso della verifica). All'eccezione del Fisco secondo cui in questo caso il requisito della certezza sarebbe difettoso perché acquisito posteriormente alla data di deduzione del costo, potrebbe obiettarsi, che sussistono plurimi elementi oggettivamente incardinati nel tempo (ad esempio l'annotazione dei movimenti nelle scritture contabili, i versamenti periodici delle ritenute, il rilascio delle certificazioni, gli elementi risultanti dai bilanci approvati e depositati), indirettamente ma inequivocabilmente idonei a conferire, pur a posteriori, la certezza oggettiva del costo, tale da renderlo fiscalmente deducibile.

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