ARTICOLO - Pubblicato da Il Sole 24 Ore il: 4 aprile 2017 - Da: G. Manzana E. Iori per il Sole 24 Ore
Nel caso in cui al colelgio sindacale sia demandato esclusivamente l'espletamento del la funzione di vigilanza sull'amministrazione e non anche la revisione legale, il colelgio sindacale è chiamato a svolgere sul bilancio d'esercizio esclulsivamente l'attività di vigilanza sull'osservanza della legge e dello statuto.
ARTICOLO - Pubblicato il: 01 marzo 2017- Da: G. Manzana E. Iori
I bilanci relativi all’esercizio 2016 devono rispettare l’applicazione della norma transitoria contenuta nell’articolo 12 del decreto legislativo 139/15.
La norma, dopo avere precisato che le nuove disposizioni entrano in vigore dal 1° gennaio 2016 e si applicano ai bilanci relativi agli esercizi finanziari che hanno inizio a partire da tale data, detta alcune disposizioni per la prima applicazione delle nuove regole contabili.
In particolare il comma 2 prevede che “Le modificazioni previste dal presente decreto all'articolo 2426, comma 1, numeri 1) [immobilizzazioni materiali], 6) [avviamento] e 8) [crediti], del codice civile, possono non essere applicate alle componenti delle voci riferite a operazioni che non hanno ancora esaurito i loro effetti in bilancio”.
L’Oic, nell’aggiornamento dei principi contabili ha previsto uno specifico paragrafo relativo alle “Disposizioni di prima applicazione”: in via generale, fatte salve le modifiche che devono essere applicate retroattivamente ai sensi dell’articolo 12 del decreto 139/15, il redattore del bilancio può scegliere di applicare il nuovo principio contabile prospetticamente.
Questa previsione si collega con il principio contabile Oic 29, in base al quale si ha
- “applicazione retroattiva” quando il nuovo principio contabile è utilizzato anche per eventi ed operazioni avvenute in esercizi precedenti a quello in cui interviene il cambiamento, come se il nuovo principio fosse stato sempre applicato, e
- “applicazione prospettica” quando il nuovo principio è applicato solo ad eventi e operazioni che si verificano dopo la data in cui interviene il cambiamento di principio contabile.
Questo significa che, fatte salve le citate eccezioni relative a costo ammortizzato e ammortamento dell’avviamento, le altre nuove disposizioni si devono applicare retroattivamente.
>> APPLICAZIONE PROSPETTICA
Il comma 2 facilita l’applicazione di alcuni criteri di valutazione, in particolare quella del
- costo ammortizzato per la valutazione di titoli, crediti e debiti e
- l’avviamento
consentendo di non applicare le nuove disposizioni alle componenti delle voci riferite a operazioni che non hanno ancora esaurito i loro effetti in bilancio.
>> APPLICAZIONE RETROATTIVA
Retroagisce:
- il divieto di ammortizzare le spese di pubblicità e quelle di ricerca e riguarda anche quelle presenti nel bilancio 2015 in corso di ammortamento. Già l’Oic 24, già nella versione revisionata nel 2014, non ne consentiva la capitalizzazione.
- la rilevazione in bilancio degli strumenti finanziari derivati e riguarda anche i contratti stipulati prima del 2016.
>> Lo storno delle spese di pubblicità, di ricerca e la rilevazione dei derivati avviene in contropartita del patrimonio netto e questo può causare una riduzione dello stesso.
>> L’applicazione retroattiva può fare emergere perdite in precedenza non evidenziate.
>> L’applicazione retroattiva si riflette anche sull’informazione comparativa in relazione al bilancio 2015 posto a confronto con quello del 2016 che, salvo non sia fattibile dopo avere fatto ogni ragionevole sforzo, deve essere riscritto tenendo conto delle nuove disposizioni, ovvero dell’effetto di competenza dell’esercizio precedente.
L’applicazione retroattiva riguarda anche la presentazione “comparativa” degli schemi di bilancio: pertanto, conto economico e stato patrimoniale relativi all’esercizio 2015 devono essere riscritti, nel confronto con quello 2016, tenendo conto dei nuovi schemi. Per esempio, il conto economico relativo al 2015 deve essere riscritto, tenendo conto dell’eliminazione della sezione straordinaria, ricollocando proventi e oneri straordinari nelle altre voci in base alla loro natura.
>> APPLICAZIONE RETROATTIVA FACOLTATIVA
Quando è prevista l’applicazione prospettica, nulla vieta di applicare retroattivamente le nuove norme: in particolare, il costo ammortizzato può essere applicato facoltativamente anche a crediti, debiti e titoli già iscritti in bilancio. Tuttavia, anche in questo caso deve essere effettuata l’imputazione nel patrimonio netto delle differenze derivanti dall’applicazione delle nuove disposizioni: questa disposizione si applica anche nei casi in cui il decreto 139/15 non impone di adottare le nuove regole contabili alle componenti delle voci riferite a operazioni che non hanno ancora esaurito i loro effetti in bilancio, ma l’impresa decide di non usufruire di tale facoltà.
ARTICOLO - Pubblicato il: 28 febbraio 2017- Da: G. Manzana E. Iori
È stato introdotto il nuovo n. 11-bis) che prevede, in linea generale, l’obbligo di rilevare gli strumenti finanziari derivati in base al fair value. L’utilizzo di tale metodo è esteso anche agli strumenti finanziari incorporati in altri titoli.
11-bis) gli strumenti finanziari derivati, anche se incorporati in altri strumenti finanziari, sono iscritti al fair value. Le variazioni del fair value sono imputate al conto economico oppure, se lo strumento copre il rischio di variazione dei flussi finanziari attesi di un altro strumento finanziario o di un'operazione programmata, direttamente ad una riserva positiva o negativa di patrimonio netto; tale riserva è imputata al conto economico nella misura e nei tempi corrispondenti al verificarsi o al modificarsi dei flussi di cassa dello strumento coperto o al verificarsi dell'operazione oggetto di copertura.
Gli elementi oggetto di copertura contro il rischio di variazioni dei tassi di interesse o dei tassi di cambio o dei prezzi di mercato o contro il rischio di credito sono valutati simmetricamente allo strumento derivato di copertura; si considera sussistente la copertura in presenza, fin dall'inizio, di stretta e documentata correlazione tra le caratteristiche dello strumento o dell'operazione coperti e quelle dello strumento di copertura.
Non sono distribuibili gli utili che derivano dalla valutazione al fair value degli strumenti finanziari derivati non utilizzati o non necessari per la copertura.
Le riserve di patrimonio che derivano dalla valutazione al fair value di derivati utilizzati a copertura dei flussi finanziari attesi di un altro strumento finanziario o di un'operazione programmata non sono considerate nel computo del patrimonio netto per le finalità di cui agli articoli 2412, 2433, 2442, 2446 e 2447 e, se positive, non sono disponibili e non sono utilizzabili a copertura delle perdite.
A tal fine i nuovi commi da 2 a 5 dell’art. 2426 dispongono che:
- va fatto riferimento ai Principi contabili internazionali (IAS / IFRS) per la definizione di “strumento finanziario”, “attività finanziaria” e “passività finanziaria”, “strumento finanziario derivato”, “costo ammortizzato”, “fair value”, “attività monetaria” e “passività monetaria”, “parte correlata” e “modello e tecnica di valutazione generalmente accettato”;
- ai fini in esame “sono considerati strumenti finanziari derivati anche quelli collegati a merci che conferiscono all’una o all’altra parte contraente il diritto di procedere alla liquidazione del contratto per contanti o mediante altri strumenti finanziari, ad eccezione del caso in cui si verifichino contemporaneamente le seguenti situazioni:
a) il contratto sia stato concluso e sia mantenuto per soddisfare esigenze previste dalla società che redige il bilancio di acquisto, di vendita o di utilizzo delle merci;
b) il contratto sia stato destinato a tale scopo fin dalla sua conclusione;
c) si prevede che il contratto sia eseguito mediante consegna della merce”;
>>La norma prevede un generale obbligo di valutazione degli strumenti derivati al fair value, anche se lo strumento derivato è inglobato in un altro strumento finanziario
>> Il fair value è determinato con riferimento al valore di mercato, se è facilmente individuabile un mercato attivo. Se ciò non è possibile, il valore di mercato può essere:
− derivato da quello dei componenti o di uno strumento analogo;
− stimato tramite l’applicazione di modelli e tecniche di valutazione generalmente accettati.
Solo se detti metodi non consentono di ottenere un risultato attendibile non si applica il fair value.
>>E’ previsto un regime differenziato di rilevazione a seconda che la copertura si riferisca al fair value
- di elementi presenti nel bilancio: variazioni contabilizzate nel conto economico. Le variazioni di fair value dello strumento di copertura e dell’elemento coperto sono rilevate nella sezione D del conto economico “Rettifiche di valore di attività e passività finanziarie” (voci D.18.d/D.19.d).),
- a flussi finanziari o operazioni di futura manifestazione: variazioni contabilizzate nel patrimonio netto.
>> La riserva è imputata al conto economico nella misura e nei tempi corrispondenti al verificarsi o al modificarsi dei flussi di cassa dello strumento coperto o al verificarsi dell'operazione oggetto di copertura.
>> Non sono distribuibili gli utili che derivano dalla valutazione al fair value degli strumenti finanziari derivati non utilizzati o non necessari per la copertura.
>>Le riserve di patrimonio che derivano dalla valutazione al fair value di derivati utilizzati a copertura dei flussi finanziari attesi di un altro strumento finanziario o di un'operazione programmata non sono considerate nel computo del patrimonio netto per le finalità di cui agli articoli 2412, 2433, 2442, 2446 e 2447 e, se positive, non sono disponibili e non sono utilizzabili a copertura delle perdite.
>>ESEMPIO
In data 30 giugno 2016, a fronte dell’aggiornamento del budget e della conseguente identificazione di un’esposizione al rischio di cambio, coerentemente con la strategia e la policy aziendale in materia, viene stipulato un contratto di vendita a termine di 100.000 dollari con scadenza 30 giugno 2017 per mitigare il rischio di cambio riveniente dal flusso di dollari generato da una fattura attiva di pari importo, con pagamento a vista, altamente probabile.
La società ha designato l’intero forward come strumento derivato di copertura, non scorporandone il valore temporale.
Durante l’esercizio 2017, viene effettivamente emessa la fattura attiva per 100.000 dollari alla data del 30 giugno 2017, come stimato alla data di stipula del contratto di vendita a termine dei dollari.
Sempre alla stessa data viene inoltre incassato il corrispettivo di tale fattura e viene regolato lo strumento finanziario derivato
Di seguito si riportano le principali assunzioni sottese allo sviluppo numerico del caso esemplificativo.
30/06/2016 | 31/12/2016 | 30/06/2017 | |
Cambio a pronti | 1.10 | 1.00 | 1.35 |
Cambio a termine (30/06/2017) | 1.30 |
1.25 |
1.35 |
Sulla base di tali assunzioni, il fair value dello strumento finanziario derivato di copertura alle diverse date, calcolato senza tenere in considerazione l’effetto temporale derivante dall'attualizzazione, risulta come di seguito riportato.
Il fair value dello strumento finanziario derivato di copertura alle diverse date, risulta come di seguito riportato.
30/06/2016 | 31/12/2016 | 30/06/2017 | |
Nominale | -3.077 | 2.849 |
Sulla base dello scenario sopra descritto, derivano le seguenti registrazioni contabili.
30/06/2016 – Nessuna
(d) | (a) |
31/12/2016 - Adeguamento del fair value dello strumento derivato (cash flow hedge model)
(d) Voce A) VII - riserva per operazioni di copertura | 3.077 | (a) Voce B)3) Strumenti finanziari derivati passivi | 3.077 |
Stato patrimoniale | |||
Voce C) IV 1) Depositi bancari e postali (ipotizzato) | 120.000 | Capitale sociale (ipotizzato) | 120.000 |
Voce A) VII - Riserva per operazioni di copertura | 3.077 | ||
Voce A) IX (perdita) dell’esercizio | 0 | ||
Voce B) 3) Strumenti finanziari derivati passivi | 3.077 | ||
Conto economico | |||
Voce A) 1) Ricavi delle vendite | 0 | ||
Voce 21 Utile (perdite) dell’esercizio | 0 |
30/06/2017
30/06/2017 - Adeguamento del fair value dello strumento derivato (cash flow hedge model)
(d) Voce C) III 5) Strumenti finanziari derivati attivi | 2.849 | (a) Voce A) VII- Riserva per operazioni di copertura |
2.849 |
Stato patrimoniale |
|||
Voce C) IV 1) Depositi bancari e postali (ipotizzato) | 120.000 | Capitale sociale (ipotizzato) | 120.000 |
Voce A) VII - Riserva per operazioni di copertura | 228 | ||
Voce A) IX (perdita) dell’esercizio | 0 | ||
Voce C) III 5) Strumenti finanziari derivati attivi | 2.849 | Voce B) 3) Strumenti finanziari derivati passivi |
3.077 |
Conto economico |
|||
Voce A) 1) Ricavi delle vendite | 0 | ||
Voce 21 Utile (perdite) dell’esercizio | 0 |
30/06/2017 – Emissione fattura
(d) Voce C) II 1) Crediti verso i clienti | 75.000 | (a) A) 1) Ricavi delle vendite | 75.000 |
30/06/2017 – Rigiro riserva per copertura
(d) A) 1) Ricavi delle vendite | 228 | a) Voce A) VII- Riserva per operazioni di copertura | 228 |
30/06/2017 – Regolamento strumento finanziario derivato di copertura
(d) Voce B) 3) Strumenti finanziari derivati passivi | 3.077 | (a) Voce C) III 5) Strumenti finanziari derivati attivi | 2.849 |
(a) Voce C) IV 1) Depositi bancari e postali | 228 |
30/06/2017 – Incasso fattura
(d) Voce C) IV 1) Depositi bancari e postali | 75.000 | a) Voce C) II 1) Crediti verso i clienti | 75.000 |
Stato patrimoniale | |||
Voce C) IV 1) Depositi bancari e postali (ipotizzato) | 120.000 | Capitale sociale (ipotizzato) | 120.000 |
Voce C) IV 1) Depositi bancari e postali (75.000-228) | 74.772 | ||
Voce A) VII - Riserva per operazioni di copertura | 0 | ||
Voce C) III 5) Strumenti finanziari derivati attivi | 0 | Voce B) 3) Strumenti finanziari derivati passivi | 0 |
Conto economico |
|||
Voce A) 1) Ricavi delle vendite (75.000-228) | 74.772 | ||
Voce 21 Utile (perdite) dell’esercizio | 0 |
ARTICOLO - Pubblicato il: 27 febbraio 2017 - Da: G. Manzana E. Iori per il Sole 24 Ore
Non può definirsi affitto di "ramo d'azienda" l'affitto dell'autorizzazione all'esercizio di attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti, di alcuni beni strumentali e della relativa porzione di immobile, poiché ciò non costituisce un complesso oragnizzato idoneo a costituire un'organizzazione autonoma.
ARTICOLO - Pubblicato il: 27 febbraio 2017 - Da: G. Manzana E. Iori per il Sole 24 Ore
Non si può parlare di cessione d'azienda dove solo un bene abbia una funzione principale e gli altri ne costituiscano dei meri accessori.
ARTICOLO - Pubblicato il: 27 febbraio 2017 - Da: G. Manzana E. Iori per il Sole 24 Ore
Non si può parlare di cessione d'azienda dove solo un bene abbia una funzione principale e gli altri ne costituiscano dei meri accessori.
ARTICOLO - Pubblicato il: 24 febbraio 2017- Da: G. Manzana E. Iori
Il contratto d’affitto d’azienda è regolato dagli articoli 2561 e 2562 del codice civile. L’articolo 2561 disciplina la fattispecie dell’usufrutto d’azienda, mentre il successivo articolo 2562 stabilisce che le norme relative all’usufrutto d’azienda “si applicano anche nel caso di affitto dell’azienda”.
Dal combinato disposto degli articoli sopra citati, si rileva che l’affittuario d’azienda “deve gestire l’azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti” (articolo 2561, comma 2).
Obbligo di conservazione dell’azienda e deducibilità degli ammortamenti
Il comma 8 dell’art. 102 T.U.I.R. dispone che “Per le aziende date in affitto o in usufrutto le quote di ammortamento sono deducibili nella determinazione del reddito dell’affittuario o dell’usufruttuario. omissis” ( ).
Tale particolare procedura di ammortamento si rende applicabile quando permangono a carico dell’usufruttuario e dell’affittuario gli obblighi di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili relativi all’azienda avuta in usufrutto o in locazione previsti dal comma 2 dell’art. 2561 cod. civ. per l’usufrutto di azienda (articolo richiamato dal successivo art. 2562 cod. civ. sull’affitto d’azienda). La precisazione era contenuta nel comma 2 dell’art. 14 del d.P.R. n. 42/1988 ed il “Decreto correttivo” (D.Lgs. n. 247/2005) ha provveduto ad integrare l’art. 102, comma 8 del T.U.I.R. al fine di recepire il contenuto di tale norma.
Al riguardo, la circolare n. 148/E del 26 luglio 2000 ha precisato che sotto il profilo fiscale dette quote, ancorché normativamente riferite all’ammortamento fiscale, non assolvono alla funzione economica, tipica del processo di ammortamento, di distribuire un costo pluriennale in diversi esercizi nel rispetto del principio di competenza, ma costituiscono accantonamenti (da stanziare, come detto, nella voce B13 del conto economico) atti alla creazione di un apposito fondo (da iscrivere alla voce B3 dello stato patrimoniale) destinato al ripristino di valore dei beni affittati.
Qualora le parti, dunque, convenissero per iscritto nel contratto di affitto di derogare all’obbligo civilistico, l’affittuario non può più procedere alla deduzione di tali quote di ammortamento dal proprio reddito d’impresa.
In tal caso, tuttavia, resta da stabilire se il proprietario dell’azienda possa fiscalmente dedurre egli stesso dal proprio reddito tali quote di ammortamento atteso che la deducibilità delle quote di ammortamento presuppone la presenza di un reddito d’impresa .
A tale proposito, si rileva che l’art. 67, comma unico, lett. h), considera redditi diversi quelli derivanti dall’affitto e dalla concessione in usufrutto di aziende. Pertanto, dal reddito che deriva dall’operazione non dovrebbe essere consentita la deducibilità di ammortamenti. Tuttavia, la citata lett. h) prosegue puntualizzando che l’affitto e la concessione in usufrutto dell’unica azienda da parte dell’imprenditore non si considerano fatti nell’esercizio di impresa. Ne deriva quindi che dal disposto di tali norme possa ricavarsi la seguente situazione:
- in caso di affitto dell’unica azienda l’imprenditore «perde» tale qualifica ai fini fiscali e, pertanto, il reddito che ne deriva è «reddito diverso» per il quale non è consentita la deducibilità di quote di ammortamento neppure in presenza di deroga all’obbligo di cui all’art. 2561, comma 2, cod. civ.;
- in caso di affitto di aziende nell’esercizio di imprese ed in presenza di deroga convenzionale alle norme dell’art. 2561 cod. civ., dal reddito d’impresa del concedente - alla cui determinazione concorre anche il canone proveniente dall’affitto o dall’usufrutto di azienda - possono dedursi le quote di ammortamento dei beni ammortizzabili relativi all’impresa la cui efficienza deve essere conservata a cura del concedente. Tale conclusione, peraltro, è stata raggiunta anche da parte di autorevole dottrina laddove viene affermato che in tal caso “le relative quote annue saranno deducibili nella determinazione del reddito d’impresa del concedente”.
Tale deducibilità non può invece essere messa in dubbio qualora il concedente sia una società commerciale il cui reddito, per presunzione assoluta, è sempre reddito d’impresa.
L’affittuario può procedere alla deduzione dal proprio reddito d’impresa anche delle quote di ammortamento dei beni immateriali per il rinvio contenuto nel comma 4 dell’art. 103 T.U.I.R..
Il parametro di commisurazione è il costo originario dei beni quale risulta dalla contabilità del concedente.
Secondo taluni, per contro, la circostanza che la norma faccia specifico riferimento al costo “originario” comporterebbe l’irrilevanza, ai fini del calcolo degli ammortamenti da parte dell’affittuario, di eventuali rivalutazioni operate dal concedente. Ma è opinione più convincente che la locuzione usata dal legislatore stia ad indicare più semplicemente la “provenienza” del costo de quo.
A tale parametro si applicano i coefficienti tabellari stabiliti con Decreto Ministeriale in relazione all’attività esercitata dall’affittuario.
Allo stato attuale della legislazione fiscale, l’affittuario ha l’obbligo di tenere il registro dei beni ammortizzabili e di compilarlo ricavando inizialmente i dati necessari dall’analogo registro tenuto dal concedente o, comunque, dalle risultanze contabili dello stesso.
Ai sensi dell’art. 14, comma 1, del D.P.R. n. 42/1988, se il concedente non ha regolarmente tenuto il registro dei beni ammortizzabili ed essendo a ciò obbligato perché in regime di contabilità ordinaria (o, se forfetario, per poter dedurre le quote di ammortamento ai sensi del comma 9, lett. c) dell’art. 2 del D.L. n. 853/84) l’affittuario, nel calcolare le proprie quote di ammortamento deducibili dovrà considerare come già dedotte dal concedente la metà delle pregresse quote relative al periodo di ammortamento già decorso.
Non si può ritenere che la disposizione che prevede tale vincolo possa trasformarsi da norma penalizzante in norma di favore nel caso in cui il concedente abbia dedotto a titolo di ammortamento un importo superiore alla quota che il legislatore ha voluto considerare comunque persa per il concessionario.
Infatti, la disposizione sopra riportata impone un limite non superabile nella deduzione delle quote di ammortamento che è rappresentato dal costo non ancora ammortizzato del bene ed oltre il quale, evidentemente, neppure il concessionario può procedere nella deduzione.
Una questione di particolare rilievo, nell’ambito delle obbligazioni contrattuali relative ad un contratto di affitto di azienda, attiene:
- in primo luogo, all’individuazione delle spese di manutenzione che pertengono al soggetto affittuario in virtù del disposto di cui all’art. 2561 del Codice civile che pone a carico di tale soggetto l’obbligo di conservare “l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte”;
- in secondo luogo, all’individuazione delle spese di manutenzione che pertengono al soggetto affittante in presenza di deroga contrattuale al menzionato art. 2561 del Codice civile.
La normativa civilistica contempla l’affitto di azienda all’art. 2562 del Codice civile prevedendo l’estensione a tale fattispecie del disposto di cui al precedente art. 2561 cod. civ. in materia di usufrutto di azienda, in virtù del quale “L’usufruttuario dell’azienda deve esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue. Egli deve gestire l’azienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione degli impianti e le normali dotazioni di scorte. Se non adempie a tale obbligo o cessa arbitrariamente dalla gestione dell’azienda, si applica l’art. 1015. La differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine dell’usufrutto è regolata in danaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto”.
Il soggetto affittuario, in buona sostanza, ha il potere-dovere di utilizzare l’azienda per l’esercizio dell’impresa, conservando immutata la sua destinazione economica e conservando altresì l’avviamento e il valore unitario della stessa in vista della restituzione al proprietario. Proprio al fine della conservazione dell’avviamento lo stesso ha il potere e l’obbligo di trasformare, alienare e ricostituire le scorte di materie prime nonché di sostituire gli impianti non più efficienti o tecnicamente superati e, in linea generale, tutti gli elementi aziendali la cui sostituzione è in linea con la prospettiva di conservazione dell’azienda.
In altre parole ciò significa che, in base al regime di cui all’art. 2561 cod. civ., risultano a carico del soggetto affittuario tutte le spese di manutenzione di natura ordinaria nonché quelle di natura straordinaria limitatamente però agli interventi di natura meramente conservativa della efficienza dell’azienda oggetto di contratto.
Ed é per ciò - come precisato sopra - che il legislatore fiscale, in apparente coerenza con tale impostazione ha previsto, con l’art. 102, comma 8 del T.U.I.R. che “Per le aziende date in affitto o in usufrutto le quote di ammortamento sono deducibili nella determinazione del reddito dell’affittuario o dell’usufruttuario” ed a complemento di ciò ha ulteriormente previsto che “Le disposizioni del Testo unico ............. non si applicano nei casi di deroga convenzionale alle norme dell’art. 2561 del Codice civile, concernenti l’obbligo di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili”.
In buona sostanza, in base al citato art. 102, comma 8 T.U.I.R. è il soggetto affittuario che - esercitando l’impresa per il tramite dell’azienda oggetto di affitto e sopportando gli oneri per il mantenimento della stessa in efficienza - ha il diritto di dedurre dal proprio reddito le quote di ammortamento dei relativi beni ammortizzabili. Tale meccanismo non trova peraltro applicazione nel caso in cui le parti, in deroga al citato art. 2561, comma 2 cod. civ., pongano a carico del proprietario l’obbligo di conservazione dell’efficienza dei beni facenti parte dell’azienda.
In tale ultima ipotesi, è pertanto quest’ultimo a doversi preoccupare delle spese di mantenimento di cui sopra, potendo peraltro continuare sia ai fini civilistici sia ai fini fiscali il normale procedimento di ammortamento dei beni locati (rectius, utilizzati dall’affittuario dell’azienda).
In mancanza di deroga la deducibilità degli accantonamenti ai fini Irap
A seguito delle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 50, lettera a), della legge n. 244/2007 (finanziaria per il 2008) all’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo n. 446 del 1997, gli accantonamenti ai fondi indicati nelle voci B12 e B13 del conto economico, ancorché deducibili ai fini Ires, non possono più concorrere a formare la base imponibile del tributo regionale.
Tuttavia, secondo la cir. 26/E del 2012 un’applicazione rigida di tale principio potrebbe comportare l’impossibilità di dedurre i predetti oneri in quanto, ad esempio, la società affittuaria, in sede di restituzione dell’unica azienda condotta in affitto, presumibilmente non dispone di un valore della produzione imponibile ai fini Irap così capiente da assorbire il componente negativo correlato all’utilizzo del fondo.
Al riguardo, la circolare osserva che l’accantonamento che viene stanziato annualmente in bilancio ha la funzione economica di contrapporre ai ricavi conseguiti nell’esercizio (derivanti dall’utilizzo dei beni aziendali affittati) l’onere relativo al ripristino di valore dei beni affittati maturato nel periodo stesso.
Assume inoltre fondamentale rilevanza la peculiarità di detti accantonamenti che sono effettuati a fronte di oneri sostenuti al momento della restituzione dell’azienda affittata. Tali accantonamenti, così come previsto dai principi contabili, devono essere effettuati “sulla base di elementi oggettivi e valida documentazione”, al fine di ripristinare i beni allo stato in cui devono essere restituiti al termine dell’affitto d’azienda (cfr. principio contabile OIC n. 19, paragrafo C.V.d.).
La determinazione degli accantonamenti risulta senz’altro sottratta alla discrezionalità degli amministratori laddove, ad esempio, le quote da accantonare siano stanziate sulla base delle aliquote di ammortamento previste dal decreto ministeriale 31 dicembre 1988.
In tal caso, pertanto la cir. 26/E del 2012 ritiene che tali oneri, rispondendo ad adempimenti specificamente e dettagliatamente previsti nei principi contabili e sfuggendo alla valutazione soggettiva degli amministratori, concorrono alla formazione del valore della produzione nell'esercizio di competenza. Di conseguenza fli accantonamenti in argomento, sebbene indicati in una voce non rilevanete ai fini IRAP, sono deducibili in ciascun periodo d'imposta attraverso l'effettuazione di una variazione in diminuzione in sede di dichiarazione.
ARTICOLO - Pubblicato il: 27 febbraio 2017- Da: G. Manzana E. Iori
Costi di impianto, di ampliamento e di sviluppo
Fino al 2016 | Dal 2016 |
Art. 2426 - Criteri di valutazioni (…) 5) i costi di impianto e di ampliamento, i costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità aventi utilità pluriennale possono essere iscritti nell'attivo con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale e devono essere ammortizzati entro un periodo non superiore a cinque anni.
Fino a che l'ammortamento non è completato possono essere distribuiti dividendi solo se residuano riserve disponibili sufficienti a coprire l'ammontare dei costi non ammortizzati; Art. 2426 - Criteri di valutazioni |
(…) 5) i costi di impianto e di ampliamento e i costi di sviluppo aventi utilità pluriennale possono essere iscritti nell'attivo con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale. I costi di impianto e ampliamento devono essere ammortizzati entro un periodo non superiore a cinque anni. I costi di sviluppo sono ammortizzati secondo la loro vita utile; nei casi eccezionali in cui non è possibile stimarne attendibilmente la vita utile, sono ammortizzati entro un periodo non superiore a cinque anni. Fino a che l'ammortamento dei costi di impianto e ampliamento e di sviluppo non è completato possono essere distribuiti dividendi solo se residuano riserve disponibili sufficienti a coprire l'ammontare dei costi non ammortizzati; |
OIC 24 – nn. 40-49
40. Gli oneri pluriennali possono essere iscritti nell’attivo dello stato patrimoniale solo se:
- è dimostrata la loro utilità futura;
- esiste una correlazione oggettiva con i relativi benefici futuri di cui godrà la società;
- è stimabile con ragionevole certezza la loro recuperabilità. Essendo la recuperabilità caratterizzata da alta aleatorietà, essa va stimata dando prevalenza al principio della prudenza.
L’utilità pluriennale è giustificabile solo in seguito al verificarsi di determinate condizioni gestionali, produttive, di mercato che al momento della rilevazione iniziale dei costi devono risultare da un piano economico della società. I costi di impianto e di ampliamento ed i costi, sviluppo sono iscrivibili solo con il consenso del Collegio sindacale, ove esistente.
Costi di impianto e di ampliamento
41. I costi di impianto e di ampliamento sono i costi che si sostengono in modo non ricorrente in alcuni caratteristici momenti del ciclo di vita della società, quali la fase pre-operativa (cosiddetti costi di start-up) o quella di accrescimento della capacità operativa.
42. La rilevazione iniziale dei costi di impianto e di ampliamento nell’attivo dello stato patrimoniale è consentita solo se si dimostra la congruenza ed il rapporto causa-effetto tra i costi in questione ed il beneficio (futura utilità) che dagli stessi la società si attende, nel rispetto dei requisiti specifici previsti al paragrafo 40. Ad esempio, i costi per la costituzione di una rete commerciale dovranno trovare correlazione logica nelle aspettative di vendita dei prodotti che a tale rete verranno affidati; la capitalizzazione dei costi inerenti un aumento di capitale sociale dovrà trovare giustificazione nell'atteso miglioramento della situazione finanziaria dell'impresa; i costi relativi alla costituzione della società troveranno ragione di capitalizzazione nella misura in cui le aspettative reddituali di tale nascente società siano positive. La facoltà concessa dalla norma civile di capitalizzare tali costi non è uno strumento per politiche di bilancio finalizzate all'alleggerimento, nel conto economico della società, di costi che potrebbero significativamente ridurre i risultati economici della stessa, né la capitalizzazione di questi costi è l’automatica conseguenza del fatto che gli stessi siano stati sostenuti.
43. I costi di start-up sono imputati al conto economico dell'esercizio in cui sono sostenuti; essi possono essere capitalizzati quando sono rispettate tutte le seguenti condizioni:
- i costi sono direttamente attribuibili alla nuova attività e sono limitati a quelli sostenuti nel periodo antecedente il momento del possibile avvio (i costi generali e amministrativi e quelli derivanti da inefficienze sostenute durante il periodo di start-up non possono essere capitalizzati);
- il principio della recuperabilità dei costi è rispettato, in quanto è ragionevole una prospettiva di reddito.
44. I costi di addestramento e di qualificazione del personale e dei lavoratori ad esso assimilabili sono costi di periodo e pertanto sono iscritti nel conto economico dell'esercizio in cui si sostengono. Essi possono essere capitalizzati soltanto @quando assimilabili ai costi di start-up e sostenuti in relazione ad una attività di avviamento di una nuova società o di una nuova attività. Tali costi sono altresì differibili @@se essi sono direttamente sostenuti in relazione ad un processo di riconversione o ristrutturazione industriale (o commerciale, nel caso si tratti di agenti), purché tale processo si sostanzi in un investimento sugli attuali fattori produttivi e purché comporti un profondo cambiamento nella struttura produttiva (cambiamenti dei prodotti e dei processi produttivi), commerciale (cambiamenti della struttura distributiva) ed amministrativa della società. Tali ristrutturazioni e riconversioni industriali e/o commerciali debbono risultare da un piano approvato dagli amministratori, da cui risulti la capacità prospettica della società di generare flussi di reddito futuri, sufficienti a coprire tutti i costi e le spese, ivi inclusi gli ammortamenti dei costi capitalizzati.
45. I costi straordinari di riduzione del personale (ad esempio, gli incentivi) per favorire l'esodo o la messa in mobilità del personale e dei lavoratori ad esso assimilabili, per rimuovere inefficienze produttive, commerciali o amministrative e simili, non sono capitalizzabili nell’attivo patrimoniale in quanto, oltre a sostanziarsi in una eliminazione di fattori produttivi, vengono sostenuti in contesti della vita della società nei quali l’aleatorietà della loro recuperabilità è talmente elevata da non soddisfare i requisiti per l’iscrizione enunciati al paragrafo 40.
Costi di sviluppo
46. Lo sviluppo è l’applicazione dei risultati della ricerca di base o di altre conoscenze possedute o acquisite in un piano o in un progetto per la produzione di materiali, dispositivi, processi, sistemi o servizi, nuovi o sostanzialmente migliorati, prima dell’inizio della produzione commerciale o dell’utilizzazione.
47. La ricerca di base è un’indagine originale e pianificata intrapresa con la prospettiva di conseguire nuove conoscenze e scoperte, scientifiche o tecniche, che si considera di utilità generica alla società. I costi di ricerca di base sono normalmente precedenti a quelli sostenuti una volta identificato lo specifico prodotto o processo che si intende sviluppare.
I costi sostenuti per la ricerca di base sono costi di periodo e sono addebitati al conto economico dell'esercizio in cui sono sostenuti, poiché rientrano nella ricorrente operatività dell'impresa e sono, nella sostanza, di supporto ordinario all’attività imprenditoriale della stessa.
48. I costi di sviluppo capitalizzati nell’attivo patrimoniale sono composti: dagli stipendi, i salari e gli altri costi relativi al personale impegnato nell’attività di sviluppo; dai costi dei materiali e dei servizi impiegati nell’attività di sviluppo; dall'ammortamento di immobili, impianti e macchinari, nella misura in cui tali beni sono impiegati nell’attività di sviluppo; dai costi indiretti, diversi dai costi e dalle spese generali ed amministrativi, relativi all’attività di sviluppo; dagli altri costi, quali ad esempio l'ammortamento di brevetti e licenze, nella misura in cui tali beni sono impiegati nell'attività di sviluppo.
49. La sola attinenza a specifici progetti di sviluppo non è condizione sufficiente affinché i relativi costi abbiano legittimità di capitalizzazione. Per tale finalità, essi debbono anche rispondere positivamente alle seguenti specifiche caratteristiche:
- essere relativi ad un prodotto o processo chiaramente definito, nonché identificabili e misurabili. Ciò equivale a dire che la società deve essere in grado di dimostrare, per esempio, che i costi di sviluppo hanno diretta inerenza al prodotto, al processo o al progetto per la cui realizzazione essi sono stati sostenuti. Nei casi in cui risulti dubbio se un costo di natura generica possa essere attribuito ad un progetto specifico, ovvero alla gestione quotidiana e ricorrente, il costo non sarà capitalizzato ma spesato al conto economico;
- essere riferiti ad un progetto realizzabile, cioè @tecnicamente fattibile, per il quale la società @possieda o possa disporre delle necessarie risorse. La realizzabilità del progetto è, di regola, frutto di un processo di stima che dimostri la fattibilità tecnica del prodotto o del processo ed è connessa all’intenzione della direzione di produrre e commercializzare il prodotto o utilizzare osfruttare il processo. La disponibilità di risorse per completare, utilizzare e ottenere benefici da un’attività immateriale può essere dimostrata, per esempio, da un piano della società che illustra le necessarie risorse tecniche, finanziarie e di altro tipo e la capacità della società di procurarsi tali risorse. In alcune circostanze, la società dimostra la disponibilità di finanziamenti esterni ottenendo conferma da un finanziatore della sua volontà di finanziare il progetto;
- essere recuperabili, cioè la società deve avere prospettive di reddito in modo che i ricavi che prevede di realizzare dal progetto siano almeno sufficienti a coprire i costi sostenuti per lo studio dello stesso, dopo aver dedotto tutti gli altri costi di sviluppo, i costi di produzione e di vendita che si sosterranno per la commercializzazione del prodotto.
Il OIC24 valevole fino al 2014 prevedeva:
La ricerca di base può essere definita come quell'assieme di studi, esperimenti, indagini e ricerche che non hanno una finalità definita con precisione, ma che è da considerarsi di utilità generica all'impresa. Ad esempio, una società che opera nel settore della tecnologia avanzata non può evitare di tenersi aggiornata, e di per sé stessa compiere studi, sullo stato dell'arte della materia oggetto dell'impresa; una società che opera nel settore della grande distribuzione non può evitare di svolgere in modo pressoché continuo indagini di mercato finalizzate all'analisi commerciale dei propri prodotti, eccetera.
La ricerca applicata o finalizzata ad uno specifico prodotto o processo produttivo consiste, invece, nell'assieme di studi, esperimenti, indagini e ricerche che si riferiscono direttamente alla possibilità ed utilità di realizzare uno specifico progetto.
Lo sviluppo è l'applicazione dei risultati della ricerca o di altre conoscenze possedute o acquisite in un progetto o programma per la produzione di materiali, strumenti, prodotti processi, sistemi o servizi
nuovi o sostanzialmente migliorati, prima dell'inizio della produzione commerciale o dell'utilizzazione.
Oic 24- 2014
>>I costi di ricerca, non sono più capitalizzabili, inclusi quelli in corso di ammortamento.
Oic 24 rivede le definizioni di ricerca e chiarisce che la ricerca di base, da imputare al conto economico dell’esercizio di sostenimento, è quella sostenuta in un periodo antecedente a quello in cui è chiaramente definito e identificato il prodotto o processo che s’intende sviluppare. Invece, lo sviluppo, che è capitalizzabile, è l’applicazione dei risultati della ricerca di base: e in tale ambito possono rientrare i costi di ricerca applicata in corso di ammortamento.
Sino al 2015 risultavano necessariamente da spesare nell’esercizio di sostenimento i soli costi della ricerca «di base» mentre la capitalizzazione poteva riguardare la ricerca «applicata» e lo sviluppo. Peraltro, spesso distinguere tra costi di ricerca applicata e costi di sviluppo veri e propri non era agevole.
Dai bilanci 2016 sono capitalizzabili solo i costi di sviluppo ma, anche in questo caso, l’Oic 24, per la fase transitoria, adotta una soluzione “flessibile” in quanto fa rientrare i costi di ricerca applicata in corso di ammortamento tra i costi di sviluppo, se soddisfano le condizioni richieste per le spese di sviluppo. In caso contrario, i costi di ricerca applicata vanno eliminati con applicazione retroattiva degli effetti.
>>I costi di pubblicità già capitalizzati in base all’Oic 24, revisionato nel 2014, possono essere riclassificati nella voce dei costi di impianto e ampliamento se soddisfano i requisiti ora previsti per la capitalizzazione degli stessi. Si deve quindi trattare di costi legati a una fase di start up o connessi a una nuova costituzione oppure sostenuti per un nuovo business, processo produttivo o differente localizzazione. Alle stesse condizioni sono capitalizzabili i costi sostenuti dal 2016. In caso contrario, i costi sostenuti prima del 2016 e capitalizzati devono essere eliminati e gli effetti dovranno essere rilevati in bilancio retroattivamente, ai sensi dell’Oic 29, con imputazione a patrimonio netto.
>> Il divieto di ammortizzare le spese di pubblicità e quelle di ricerca retroagisce e riguarda anche quelle presenti nel bilancio 2015 in corso di ammortamento. Art. 12 del Dlgs 139/2015 non le elenca tra le disposizioni per le quali ad applicazione prospettica.
Già l’Oic 24, già nella versione revisionata nel 2014, non ne consentiva la capitalizzazione.
>> Riguarda tutte le tipologie di bilancio.
>> Eliminazione dall’attivo dello Stato patrimoniale (e quindi non capitalizzabili) dei
- costi di ricerca e
- costi di pubblicità.
>> Lo storno delle spese di pubblicità, di ricerca e la rilevazione dei derivati avviene in contropartita del patrimonio netto e questo può causare una riduzione dello stesso.
>>Soltanto:
- i costi di impianto e ampliamento
- i costi di sviluppo
previo consenso del Collegio sindacale (se esistente)
se vi sono i presupposti, sono capitalizzabili e quindi iscrivibili nello Stato patrimoniale.
>> L’ammortamento dei costi:
- dei costi di impianto e ampliamento va effettuato in un periodo non superiore a 5 anni (in linea con situazione precedente);
- dei costi di sviluppo va effettuato in base alla vita utile. Solo nel caso in cui quest’ultima non è stimabile, l’ammortamento va effettuato in un periodo non superiore a 5 anni.
AVVIAMENTO
Fino al 2016 | Dal 2016 |
Art. 2426 - Criteri di valutazioni (…) 2) il costo delle immobilizzazioni, materiali e immateriali, la cui utilizzazione è limitata nel tempo deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione. Eventuali modifiche dei criteri di ammortamento e dei coefficienti applicati devono essere motivate nella nota integrativa; 3) l'immobilizzazione che, alla data della chiusura dell'esercizio, risulti durevolmente di valore inferiore a quello determinato secondo i numeri 1) e 2) deve essere iscritta a tale minore valore; questo non può essere mantenuto nei successivi bilanci se sono venuti meno i motivi della rettifica effettuata. (…) 6) l'avviamento può essere iscritto nell'attivo con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale, se acquisito a titolo oneroso, nei limiti del costo per esso sostenuto e deve essere ammortizzato entro un periodo di cinque anni. È tuttavia consentito ammortizzare sistematicamente l'avviamento in un periodo limitato di durata superiore, purché esso non superi la durata per l'utilizzazione di questo attivo e ne sia data adeguata motivazione nella nota integrativa; |
Art. 2426 - Criteri di valutazioni (…) 2) il costo delle immobilizzazioni, materiali e immateriali, la cui utilizzazione è limitata nel tempo deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione. Eventuali modifiche dei criteri di ammortamento e dei coefficienti applicati devono essere motivate nella nota integrativa; 3) l'immobilizzazione che, alla data della chiusura dell'esercizio, risulti durevolmente di valore inferiore a quello determinato secondo i numeri 1) e 2) deve essere iscritta a tale minore valore. Il minor valore non può essere mantenuto nei successivi bilanci se sono venuti meno i motivi della rettifica effettuata; questa disposizione non si applica a rettifiche di valore relative all'avviamento. (…) 6) l'avviamento può essere iscritto nell'attivo con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale, se acquisito a titolo oneroso, nei limiti del costo per esso sostenuto. L'ammortamento dell'avviamento è effettuato secondo la sua vita utile; nei casi eccezionali in cui non è possibile stimarne attendibilmente la vita utile, è ammortizzato entro un periodo non superiore a dieci anni. Nella nota integrativa è fornita una spiegazione del periodo di ammortamento dell'avviamento; |
OIC 24 – nn. 54-57
Avviamento
54. L'avviamento può essere generato internamente, ovvero può essere acquisito a titolo oneroso (in seguito all’acquisto di un’azienda o ramo d’azienda).
Ai fini della sua iscrizione e del suo trattamento contabile, l’avviamento rappresenta solo la parte di corrispettivo riconosciuta a titolo oneroso, non attribuibile ai singoli elementi patrimoniali acquisiti di un’azienda ma piuttosto riconducibile al suo valore intrinseco, che in generale può essere posto in relazione a motivazioni, quali: il miglioramento del posizionamento dell’impresa sul mercato, l’extra reddito generato da prodotti innovativi o di ampia richiesta, la creazione di valore attraverso sinergie produttive o commerciali, ecc.
55. L’avviamento è iscritto tra le immobilizzazioni immateriali se sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
- è acquisito a titolo oneroso (cioè deriva dall’acquisizione di un’azienda o ramo d’azienda oppure da un’operazione di conferimento, di fusione o di scissione);
- ha un valore quantificabile in quanto incluso nel corrispettivo pagato;
- è costituito all’origine da oneri e costi ad utilità differita nel tempo, che garantiscono quindi benefici economici futuri (ad esempio, conseguimento di utili futuri);
- è soddisfatto il principio della recuperabilità del relativo costo (e quindi non si è in presenza di un cattivo affare).
56. L’avviamento generato internamente non può pertanto essere capitalizzato tra le immobilizzazioni immateriali.
57. L'avviamento non è suscettibile di vita propria indipendente e separata dal complesso aziendale e non può essere considerato come un bene immateriale a sé stante, oggetto di diritti e rapporti autonomi: esso rappresenta una qualità dell’azienda.
58. Il valore dell'avviamento si determina per differenza fra il prezzo complessivo sostenuto per l'acquisizione dell'azienda o ramo d’azienda (o il valore di conferimento della medesima o il costo di acquisizione della società incorporata o fusa, o del patrimonio trasferito dalla società scissa alla società beneficiaria) ed il valore corrente attribuito agli altri elementi patrimoniali attivi e passivi che vengono trasferiti.
>> Applicazione prospettica. Il comma 2 dell’art. 12 del Dlgs 139/2015 facilita l’applicazione di alcuni criteri di valutazione, in particolare quella del costo ammortizzato per la valutazione di titoli, crediti e debiti e l’avviamento consentendo di non applicare le nuove disposizioni alle componenti delle voci riferite a operazioni che non hanno ancora esaurito i loro effetti in bilancio.
>>A seguito della modifica operata al n. 6) è previsto che l’avviamento iscritto nell’attivo di Stato patrimoniale (previo consenso del Collegio sindacale, se esistente) può essere ammortizzato in base alla vita utile. Soltanto nel caso in cui quest’ultima non è stimabile, l’ammortamento va effettuato in un periodo non superiore a 10 anni. (In precedenza 5 anni con facoltà di allungo + indicazione in Nota integrativa).
>>Nella Nota integrativa va fornita una “spiegazione” del piano di ammortamento adottato.
>>Va inoltre evidenziato che, a seguito dell’integrazione operata dal citato art. 6, il nuovo n. 3) vieta le riprese di valore sulle rettifiche di valore dell’avviamento, diversamente da quanto previsto per le immobilizzazioni.
ARTICOLO - Pubblicato il: 27 febbraio 2017- Da: G. Manzana E. Iori
Costi di impianto, di ampliamento e di sviluppo
Fino al 2016 | Dal 2016 |
Art. 2426 - Criteri di valutazioni (…) 5) i costi di impianto e di ampliamento, i costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità aventi utilità pluriennale possono essere iscritti nell'attivo con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale e devono essere ammortizzati entro un periodo non superiore a cinque anni.
Fino a che l'ammortamento non è completato possono essere distribuiti dividendi solo se residuano riserve disponibili sufficienti a coprire l'ammontare dei costi non ammortizzati; Art. 2426 - Criteri di valutazioni |
(…) 5) i costi di impianto e di ampliamento e i costi di sviluppo aventi utilità pluriennale possono essere iscritti nell'attivo con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale. I costi di impianto e ampliamento devono essere ammortizzati entro un periodo non superiore a cinque anni. I costi di sviluppo sono ammortizzati secondo la loro vita utile; nei casi eccezionali in cui non è possibile stimarne attendibilmente la vita utile, sono ammortizzati entro un periodo non superiore a cinque anni. Fino a che l'ammortamento dei costi di impianto e ampliamento e di sviluppo non è completato possono essere distribuiti dividendi solo se residuano riserve disponibili sufficienti a coprire l'ammontare dei costi non ammortizzati; |
OIC 24 – nn. 40-49
40. Gli oneri pluriennali possono essere iscritti nell’attivo dello stato patrimoniale solo se:
- è dimostrata la loro utilità futura;
- esiste una correlazione oggettiva con i relativi benefici futuri di cui godrà la società;
- è stimabile con ragionevole certezza la loro recuperabilità. Essendo la recuperabilità caratterizzata da alta aleatorietà, essa va stimata dando prevalenza al principio della prudenza.
L’utilità pluriennale è giustificabile solo in seguito al verificarsi di determinate condizioni gestionali, produttive, di mercato che al momento della rilevazione iniziale dei costi devono risultare da un piano economico della società. I costi di impianto e di ampliamento ed i costi, sviluppo sono iscrivibili solo con il consenso del Collegio sindacale, ove esistente.
Costi di impianto e di ampliamento
41. I costi di impianto e di ampliamento sono i costi che si sostengono in modo non ricorrente in alcuni caratteristici momenti del ciclo di vita della società, quali la fase pre-operativa (cosiddetti costi di start-up) o quella di accrescimento della capacità operativa.
42. La rilevazione iniziale dei costi di impianto e di ampliamento nell’attivo dello stato patrimoniale è consentita solo se si dimostra la congruenza ed il rapporto causa-effetto tra i costi in questione ed il beneficio (futura utilità) che dagli stessi la società si attende, nel rispetto dei requisiti specifici previsti al paragrafo 40. Ad esempio, i costi per la costituzione di una rete commerciale dovranno trovare correlazione logica nelle aspettative di vendita dei prodotti che a tale rete verranno affidati; la capitalizzazione dei costi inerenti un aumento di capitale sociale dovrà trovare giustificazione nell'atteso miglioramento della situazione finanziaria dell'impresa; i costi relativi alla costituzione della società troveranno ragione di capitalizzazione nella misura in cui le aspettative reddituali di tale nascente società siano positive. La facoltà concessa dalla norma civile di capitalizzare tali costi non è uno strumento per politiche di bilancio finalizzate all'alleggerimento, nel conto economico della società, di costi che potrebbero significativamente ridurre i risultati economici della stessa, né la capitalizzazione di questi costi è l’automatica conseguenza del fatto che gli stessi siano stati sostenuti.
43. I costi di start-up sono imputati al conto economico dell'esercizio in cui sono sostenuti; essi possono essere capitalizzati quando sono rispettate tutte le seguenti condizioni:
- i costi sono direttamente attribuibili alla nuova attività e sono limitati a quelli sostenuti nel periodo antecedente il momento del possibile avvio (i costi generali e amministrativi e quelli derivanti da inefficienze sostenute durante il periodo di start-up non possono essere capitalizzati);
- il principio della recuperabilità dei costi è rispettato, in quanto è ragionevole una prospettiva di reddito.
44. I costi di addestramento e di qualificazione del personale e dei lavoratori ad esso assimilabili sono costi di periodo e pertanto sono iscritti nel conto economico dell'esercizio in cui si sostengono. Essi possono essere capitalizzati soltanto @quando assimilabili ai costi di start-up e sostenuti in relazione ad una attività di avviamento di una nuova società o di una nuova attività. Tali costi sono altresì differibili @@se essi sono direttamente sostenuti in relazione ad un processo di riconversione o ristrutturazione industriale (o commerciale, nel caso si tratti di agenti), purché tale processo si sostanzi in un investimento sugli attuali fattori produttivi e purché comporti un profondo cambiamento nella struttura produttiva (cambiamenti dei prodotti e dei processi produttivi), commerciale (cambiamenti della struttura distributiva) ed amministrativa della società. Tali ristrutturazioni e riconversioni industriali e/o commerciali debbono risultare da un piano approvato dagli amministratori, da cui risulti la capacità prospettica della società di generare flussi di reddito futuri, sufficienti a coprire tutti i costi e le spese, ivi inclusi gli ammortamenti dei costi capitalizzati.
45. I costi straordinari di riduzione del personale (ad esempio, gli incentivi) per favorire l'esodo o la messa in mobilità del personale e dei lavoratori ad esso assimilabili, per rimuovere inefficienze produttive, commerciali o amministrative e simili, non sono capitalizzabili nell’attivo patrimoniale in quanto, oltre a sostanziarsi in una eliminazione di fattori produttivi, vengono sostenuti in contesti della vita della società nei quali l’aleatorietà della loro recuperabilità è talmente elevata da non soddisfare i requisiti per l’iscrizione enunciati al paragrafo 40.
Costi di sviluppo
46. Lo sviluppo è l’applicazione dei risultati della ricerca di base o di altre conoscenze possedute o acquisite in un piano o in un progetto per la produzione di materiali, dispositivi, processi, sistemi o servizi, nuovi o sostanzialmente migliorati, prima dell’inizio della produzione commerciale o dell’utilizzazione.
47. La ricerca di base è un’indagine originale e pianificata intrapresa con la prospettiva di conseguire nuove conoscenze e scoperte, scientifiche o tecniche, che si considera di utilità generica alla società. I costi di ricerca di base sono normalmente precedenti a quelli sostenuti una volta identificato lo specifico prodotto o processo che si intende sviluppare.
I costi sostenuti per la ricerca di base sono costi di periodo e sono addebitati al conto economico dell'esercizio in cui sono sostenuti, poiché rientrano nella ricorrente operatività dell'impresa e sono, nella sostanza, di supporto ordinario all’attività imprenditoriale della stessa.
48. I costi di sviluppo capitalizzati nell’attivo patrimoniale sono composti: dagli stipendi, i salari e gli altri costi relativi al personale impegnato nell’attività di sviluppo; dai costi dei materiali e dei servizi impiegati nell’attività di sviluppo; dall'ammortamento di immobili, impianti e macchinari, nella misura in cui tali beni sono impiegati nell’attività di sviluppo; dai costi indiretti, diversi dai costi e dalle spese generali ed amministrativi, relativi all’attività di sviluppo; dagli altri costi, quali ad esempio l'ammortamento di brevetti e licenze, nella misura in cui tali beni sono impiegati nell'attività di sviluppo.
49. La sola attinenza a specifici progetti di sviluppo non è condizione sufficiente affinché i relativi costi abbiano legittimità di capitalizzazione. Per tale finalità, essi debbono anche rispondere positivamente alle seguenti specifiche caratteristiche:
- essere relativi ad un prodotto o processo chiaramente definito, nonché identificabili e misurabili. Ciò equivale a dire che la società deve essere in grado di dimostrare, per esempio, che i costi di sviluppo hanno diretta inerenza al prodotto, al processo o al progetto per la cui realizzazione essi sono stati sostenuti. Nei casi in cui risulti dubbio se un costo di natura generica possa essere attribuito ad un progetto specifico, ovvero alla gestione quotidiana e ricorrente, il costo non sarà capitalizzato ma spesato al conto economico;
- essere riferiti ad un progetto realizzabile, cioè @tecnicamente fattibile, per il quale la società @possieda o possa disporre delle necessarie risorse. La realizzabilità del progetto è, di regola, frutto di un processo di stima che dimostri la fattibilità tecnica del prodotto o del processo ed è connessa all’intenzione della direzione di produrre e commercializzare il prodotto o utilizzare osfruttare il processo. La disponibilità di risorse per completare, utilizzare e ottenere benefici da un’attività immateriale può essere dimostrata, per esempio, da un piano della società che illustra le necessarie risorse tecniche, finanziarie e di altro tipo e la capacità della società di procurarsi tali risorse. In alcune circostanze, la società dimostra la disponibilità di finanziamenti esterni ottenendo conferma da un finanziatore della sua volontà di finanziare il progetto;
- essere recuperabili, cioè la società deve avere prospettive di reddito in modo che i ricavi che prevede di realizzare dal progetto siano almeno sufficienti a coprire i costi sostenuti per lo studio dello stesso, dopo aver dedotto tutti gli altri costi di sviluppo, i costi di produzione e di vendita che si sosterranno per la commercializzazione del prodotto.
Il OIC24 valevole fino al 2014 prevedeva:
La ricerca di base può essere definita come quell'assieme di studi, esperimenti, indagini e ricerche che non hanno una finalità definita con precisione, ma che è da considerarsi di utilità generica all'impresa. Ad esempio, una società che opera nel settore della tecnologia avanzata non può evitare di tenersi aggiornata, e di per sé stessa compiere studi, sullo stato dell'arte della materia oggetto dell'impresa; una società che opera nel settore della grande distribuzione non può evitare di svolgere in modo pressoché continuo indagini di mercato finalizzate all'analisi commerciale dei propri prodotti, eccetera.
La ricerca applicata o finalizzata ad uno specifico prodotto o processo produttivo consiste, invece, nell'assieme di studi, esperimenti, indagini e ricerche che si riferiscono direttamente alla possibilità ed utilità di realizzare uno specifico progetto.
Lo sviluppo è l'applicazione dei risultati della ricerca o di altre conoscenze possedute o acquisite in un progetto o programma per la produzione di materiali, strumenti, prodotti processi, sistemi o servizi
nuovi o sostanzialmente migliorati, prima dell'inizio della produzione commerciale o dell'utilizzazione.
Oic 24- 2014
>>I costi di ricerca, non sono più capitalizzabili, inclusi quelli in corso di ammortamento.
Oic 24 rivede le definizioni di ricerca e chiarisce che la ricerca di base, da imputare al conto economico dell’esercizio di sostenimento, è quella sostenuta in un periodo antecedente a quello in cui è chiaramente definito e identificato il prodotto o processo che s’intende sviluppare. Invece, lo sviluppo, che è capitalizzabile, è l’applicazione dei risultati della ricerca di base: e in tale ambito possono rientrare i costi di ricerca applicata in corso di ammortamento.
Sino al 2015 risultavano necessariamente da spesare nell’esercizio di sostenimento i soli costi della ricerca «di base» mentre la capitalizzazione poteva riguardare la ricerca «applicata» e lo sviluppo. Peraltro, spesso distinguere tra costi di ricerca applicata e costi di sviluppo veri e propri non era agevole.
Dai bilanci 2016 sono capitalizzabili solo i costi di sviluppo ma, anche in questo caso, l’Oic 24, per la fase transitoria, adotta una soluzione “flessibile” in quanto fa rientrare i costi di ricerca applicata in corso di ammortamento tra i costi di sviluppo, se soddisfano le condizioni richieste per le spese di sviluppo. In caso contrario, i costi di ricerca applicata vanno eliminati con applicazione retroattiva degli effetti.
>>I costi di pubblicità già capitalizzati in base all’Oic 24, revisionato nel 2014, possono essere riclassificati nella voce dei costi di impianto e ampliamento se soddisfano i requisiti ora previsti per la capitalizzazione degli stessi. Si deve quindi trattare di costi legati a una fase di start up o connessi a una nuova costituzione oppure sostenuti per un nuovo business, processo produttivo o differente localizzazione. Alle stesse condizioni sono capitalizzabili i costi sostenuti dal 2016. In caso contrario, i costi sostenuti prima del 2016 e capitalizzati devono essere eliminati e gli effetti dovranno essere rilevati in bilancio retroattivamente, ai sensi dell’Oic 29, con imputazione a patrimonio netto.
>> Il divieto di ammortizzare le spese di pubblicità e quelle di ricerca retroagisce e riguarda anche quelle presenti nel bilancio 2015 in corso di ammortamento. Art. 12 del Dlgs 139/2015 non le elenca tra le disposizioni per le quali ad applicazione prospettica.
Già l’Oic 24, già nella versione revisionata nel 2014, non ne consentiva la capitalizzazione.
>> Riguarda tutte le tipologie di bilancio.
>> Eliminazione dall’attivo dello Stato patrimoniale (e quindi non capitalizzabili) dei
- costi di ricerca e
- costi di pubblicità.
>> Lo storno delle spese di pubblicità, di ricerca e la rilevazione dei derivati avviene in contropartita del patrimonio netto e questo può causare una riduzione dello stesso.
>>Soltanto:
- i costi di impianto e ampliamento
- i costi di sviluppo
previo consenso del Collegio sindacale (se esistente)
se vi sono i presupposti, sono capitalizzabili e quindi iscrivibili nello Stato patrimoniale.
>> L’ammortamento dei costi:
- dei costi di impianto e ampliamento va effettuato in un periodo non superiore a 5 anni (in linea con situazione precedente);
- dei costi di sviluppo va effettuato in base alla vita utile. Solo nel caso in cui quest’ultima non è stimabile, l’ammortamento va effettuato in un periodo non superiore a 5 anni.
AVVIAMENTO
Fino al 2016 | Dal 2016 |
Art. 2426 - Criteri di valutazioni (…) 2) il costo delle immobilizzazioni, materiali e immateriali, la cui utilizzazione è limitata nel tempo deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione. Eventuali modifiche dei criteri di ammortamento e dei coefficienti applicati devono essere motivate nella nota integrativa; 3) l'immobilizzazione che, alla data della chiusura dell'esercizio, risulti durevolmente di valore inferiore a quello determinato secondo i numeri 1) e 2) deve essere iscritta a tale minore valore; questo non può essere mantenuto nei successivi bilanci se sono venuti meno i motivi della rettifica effettuata. (…) 6) l'avviamento può essere iscritto nell'attivo con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale, se acquisito a titolo oneroso, nei limiti del costo per esso sostenuto e deve essere ammortizzato entro un periodo di cinque anni. È tuttavia consentito ammortizzare sistematicamente l'avviamento in un periodo limitato di durata superiore, purché esso non superi la durata per l'utilizzazione di questo attivo e ne sia data adeguata motivazione nella nota integrativa; |
Art. 2426 - Criteri di valutazioni (…) 2) il costo delle immobilizzazioni, materiali e immateriali, la cui utilizzazione è limitata nel tempo deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione. Eventuali modifiche dei criteri di ammortamento e dei coefficienti applicati devono essere motivate nella nota integrativa; 3) l'immobilizzazione che, alla data della chiusura dell'esercizio, risulti durevolmente di valore inferiore a quello determinato secondo i numeri 1) e 2) deve essere iscritta a tale minore valore. Il minor valore non può essere mantenuto nei successivi bilanci se sono venuti meno i motivi della rettifica effettuata; questa disposizione non si applica a rettifiche di valore relative all'avviamento. (…) 6) l'avviamento può essere iscritto nell'attivo con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale, se acquisito a titolo oneroso, nei limiti del costo per esso sostenuto. L'ammortamento dell'avviamento è effettuato secondo la sua vita utile; nei casi eccezionali in cui non è possibile stimarne attendibilmente la vita utile, è ammortizzato entro un periodo non superiore a dieci anni. Nella nota integrativa è fornita una spiegazione del periodo di ammortamento dell'avviamento; |
OIC 24 – nn. 54-57
Avviamento
54. L'avviamento può essere generato internamente, ovvero può essere acquisito a titolo oneroso (in seguito all’acquisto di un’azienda o ramo d’azienda).
Ai fini della sua iscrizione e del suo trattamento contabile, l’avviamento rappresenta solo la parte di corrispettivo riconosciuta a titolo oneroso, non attribuibile ai singoli elementi patrimoniali acquisiti di un’azienda ma piuttosto riconducibile al suo valore intrinseco, che in generale può essere posto in relazione a motivazioni, quali: il miglioramento del posizionamento dell’impresa sul mercato, l’extra reddito generato da prodotti innovativi o di ampia richiesta, la creazione di valore attraverso sinergie produttive o commerciali, ecc.
55. L’avviamento è iscritto tra le immobilizzazioni immateriali se sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
- è acquisito a titolo oneroso (cioè deriva dall’acquisizione di un’azienda o ramo d’azienda oppure da un’operazione di conferimento, di fusione o di scissione);
- ha un valore quantificabile in quanto incluso nel corrispettivo pagato;
- è costituito all’origine da oneri e costi ad utilità differita nel tempo, che garantiscono quindi benefici economici futuri (ad esempio, conseguimento di utili futuri);
- è soddisfatto il principio della recuperabilità del relativo costo (e quindi non si è in presenza di un cattivo affare).
56. L’avviamento generato internamente non può pertanto essere capitalizzato tra le immobilizzazioni immateriali.
57. L'avviamento non è suscettibile di vita propria indipendente e separata dal complesso aziendale e non può essere considerato come un bene immateriale a sé stante, oggetto di diritti e rapporti autonomi: esso rappresenta una qualità dell’azienda.
58. Il valore dell'avviamento si determina per differenza fra il prezzo complessivo sostenuto per l'acquisizione dell'azienda o ramo d’azienda (o il valore di conferimento della medesima o il costo di acquisizione della società incorporata o fusa, o del patrimonio trasferito dalla società scissa alla società beneficiaria) ed il valore corrente attribuito agli altri elementi patrimoniali attivi e passivi che vengono trasferiti.
>> Applicazione prospettica. Il comma 2 dell’art. 12 del Dlgs 139/2015 facilita l’applicazione di alcuni criteri di valutazione, in particolare quella del costo ammortizzato per la valutazione di titoli, crediti e debiti e l’avviamento consentendo di non applicare le nuove disposizioni alle componenti delle voci riferite a operazioni che non hanno ancora esaurito i loro effetti in bilancio.
>>A seguito della modifica operata al n. 6) è previsto che l’avviamento iscritto nell’attivo di Stato patrimoniale (previo consenso del Collegio sindacale, se esistente) può essere ammortizzato in base alla vita utile. Soltanto nel caso in cui quest’ultima non è stimabile, l’ammortamento va effettuato in un periodo non superiore a 10 anni. (In precedenza 5 anni con facoltà di allungo + indicazione in Nota integrativa).
>>Nella Nota integrativa va fornita una “spiegazione” del piano di ammortamento adottato.
>>Va inoltre evidenziato che, a seguito dell’integrazione operata dal citato art. 6, il nuovo n. 3) vieta le riprese di valore sulle rettifiche di valore dell’avviamento, diversamente da quanto previsto per le immobilizzazioni.
ARTICOLO - Pubblicato il: 14 febbraio 2017- Da: E. Iori
La finanziaria per il 2017 (art. 1 co. 567 della Legge 232/2016) ha modificato l’art. 26, DPR n. 633/72 relativamente all’emissione delle note di variazione in caso di mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali / accordi di ristrutturazione dei debiti omologati / piani attestati pubblicati sul Registro delle Imprese.
ELIMINAZIONI
In particolare, per effetto dell’abrogazione dei commi 4, 6 e 11 e del secondo periodo del comma 5, dell’art. 26 del Dpr 633/1972 (introdotti dalla Finanziaria 2016 con effetto dal 1 gennaio 2017), la disciplina delle note di variazione nell’ambito di procedure concorsuali viene ricondotta alla disciplina contenuta nel comma 2 dello stesso articolo, con la conseguenza che non è più previsto:
- la possibilità di emissione della nota di varaizione a partire dalla data in cui l’acquirente / committente è assoggettato alla procedura; di conseguenza la nota di variazione potrà essere emessa soltanto alla chiusura della procedura;
- l’esonero, per l’acquirente / committente, di registrazione della nota di credito ricevuta.
Di fatto, le disposizioni “di favore” previste dalla Finanziaria 2016 non troveranno applicazione, posto che le stesse dovevano entrare in vigore dalle procedure concorsuali aperte dal 2017.
MOMENTO DELL’EMISSIONE DELLA NOTA DI ACCREDITO
Con il nuovo testo dell’art. 26 non si comprende quando, in presenza di una procedura, sia possibile emettere la nota di accredito.
Rifacendosi alla prassi precedente dell’agenzia delle Entrate (circolare n. 77/E/2000), implicitamente avvallata dalla Corte di cassazione (sentenza n. 27136/2011), si ha:
- in caso di fallimento: la rettifica opera solo quando la procedura si è rivelata infruttuosa («per insussistenza di somme disponibili, una volta ultimata la ripartizione dell’attivo») e, quindi, sostanzialmente al termine della medesima.
- in caso di concordato: l’infruttuosità, nel concordato preventivo, si manifesterebbe avendo riguardo non solo «alla sentenza di omologazione (art. 181) divenuta definitiva», ma anche «al momento in cui il debitore concordatario adempie agli obblighi assunti in sede di concordato». In tal senso anche la risp. n. 37 a Telefisco 2017. Tale interpretazione, oltre che scarsamente condivisibile, si manifesta incompatibile con l’evoluzione della norma. Questo slittamento in avanti della possibilità di recuperare l’imposta sul valore aggiunto si presenta tanto più ingiustificato oggi, dopo che, con l’art. 31 del decreto legislativo n. 175/2014, è stato consentito il recupero immediato (circolare n. 31/E/2014) in caso di piani attestati o accordi di ristrutturazione, che sulla definitività della perdita in nulla differiscono dal concordato preventivo.
- in caso di piani attestati o accordi di ristrutturazione: l’art. 31 del Dlgs n. 175/2014, modificando (allora) l’art. 26, co. 2 del Tuir, ne ha previsto il recupero immediato (in tal senso anche lacircolare n. 31/E/2014)
- in caso di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi: Con la modifica scompare, nel nuovo testo normativo, dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, precedentemente prevista al comma 11 ora abrogato. Con la conseguenza che potrebbe tornare d’attualità la presa di posizione dell’agenzia delle Entrate, secondo cui in presenza di tale procedura non sarebbe consentito il recupero dell’imposta sul valore aggiunto sui crediti insoluti, per carenza dei presupposti di cui all’art. 26 (si veda a questo proposito la circolare n. 77/2000). Ed anche in questo caso, non può non emergere la discrasia con le imposte sui redditi, in cui il decreto che dispone la procedura permette la deduzione della perdita (art. 101, comma 5, Tuir).
EFFETTI SULLE PROCEDURE
L’eliminazione dell’inciso (anch’esso inserito dalla l. n. 208/2015) secondo cui l’obbligo di liquidare a debito la nota di accredito ricevuta non sarebbe applicabile alle procedure concorsuali, potrebbe essere interpretata che, da ora in poi, il passivo fallimentare debba includere anche l’Iva di questi documenti, a svantaggio di tutti i creditori meno privilegiati.
Che non porta a tale conclusione il fatto che:
- i documenti potranno essere emessi solo ad uno stadio in cui la procedura è giunta al termine,
- dovrebbe essere confermata l’irrilevanza affermata in passato dall’agenzia delle Entrate (risoluzioni n. 155/E/2001 e n. 161/E/2001).
In tal senso la risp. n. 36 a Telefisco 2017secondo al quale “Gli organi della procedura sono tenuti ad annotare nel registro Iva la corrispondente variazione in aumento; tale adempimento, tuttavia, non determina l'inclusione del relativo credito IVA vantato dall’Amministrazione nel riparto finale, ormai definitivo, ma consente di evidenziare il credito eventualmente esigibile nei confronti del fallito tornato in bonis. Per quanto sopra, non sussistendo il debito a carico della procedura, il curatore fallimentare non è tenuto ad ulteriori adempimenti (cfr. ris. n. 155 del 2001)”.
ARTICOLO - Pubblicato il: 30 gennaio 2017- Da: G. Manzana E. Iori
In via opzionale è previsto l'invio trimestrale all'Agenzia delle entrate dei dati di tutte le fatture attive e passive (elettroniche o meno), emesse e ricevute, e delle relative variazioni.
I vantaggi che ne derivano sono:
- l’eliminazione comunicazione black list, della comunicazione e degli Intra-2 trimestrali (per i beni e i servizi) e mensili per i servizi, l’esonero dallo spesometro, l’accelerazione dei rimborsi Iva e
- la riduzione di due anni dei termini per i controlli fiscali.
Norme e provvedimenti
Dlgs 127/2015
DM 4/8/2016
Provv. 28/10/2016
Opzione Provv. 28/10/2016 – art. 3.2
L'opzione può essere esercitata, entro il 31 dicembre dell'anno precedente a quello di inizio della trasmissione dei dati.
Per il periodo d'imposta 2017 e seguenti, l'opzione può essere esercitata entro il 31 marzo 2017.
L'opzione ha effetto per l'anno solare in cui ha inizio la trasmissione dei dati e per i quattro anni solari successivi ad esso; se non revocata, l'opzione si estende di quinquennio in quinquennio. Per i soggetti che iniziano l'attività in corso d'anno e che intendono esercitare l'opzione sin dal primo giorno di attività, l'opzione ha effetto dall'anno solare in cui è esercitata.
Modalità di invio dei dati
Sono le stesse di quelle previste per l'invio obbligatorio (specifiche tecniche emanate il 13 gennaio 2017) e sono utilizzabili anche dai soggetti incaricati alla trasmissione telematica delle dichiarazioni (Caf e professionisti abilitati) (Comunicato stampa del 24 gennaio 2017).
Per chi svolge anche commercio al minuto o attività assimilate, deve anche optare, entro il 31 marzo 2017, per l'invio giornaliero alle Entrate dei corrispettivi (articolo 2, comma 1, Dlgs 127/2015). Questo sarà effettuato alla “chiusura giornaliera”, tramite il “registratore telematico” (articolo 3, provvedimento 28 ottobre 2016) e non sarà più possibile certificare i corrispettivi con le ricevute fiscali.
I dati che devono essere trasmessi sono quelli che risultano dalle registrazioni (dati identificativi dei soggetti coinvolti nelle operazioni, data e numero della fattura, base imponibile, aliquota applicata, imposta, tipologia dell'operazione); tuttavia, questi elementi diventano rilevanti in quanto sono contenuti nelle fatture, al di là della registrazione. Quindi l'effetto registrazione diventa pressoché ininfluente essendo rilevante, invece, il contenuto della fattura.
Infatti nella procedura “Fatture e Corrispettivi”, con un file verranno raccolte le fatture emesse nei confronti dello stesso cliente. Perciò i contribuenti possono scegliere se inviare un file contenente i dati relativi a ogni singola fattura emessa o ricevuta, se inviare un file contenente i dati relativi a più fatture emesse o ricevute, qualora facciano riferimento allo stesso cedente/prestatore e cessionario/committente o, in alternativa, un file in formato compresso contenente uno o più file dei tipi precedenti.
I dati da trasmettere devono essere rappresentati in formato XML e ciò richiede un adeguamento informatico importante; inoltre occorre trasmettere anche i corrispettivi da parte dei commercianti al minuto ed assimilati (adempimento che non previsto per gli obblighi ordinari di cui al Dl 193/2016).
Vantaggi
1. L’eliminazione comunicazione black list (dal 2016),
2. L’eliminazione comunicazione delle società di leasing e noleggio,
3. L’eliminazione degli Intra-2 trimestrali (per i beni e i servizi) e mensili per i servizi (non per i beni),
4. L’esonero dallo spesometro, (non l'invio delle liquidazioni periodiche Iva),
5. L’accelerazione dei rimborsi Iva (entro tre mesi dall'invio del modello Iva annuale) (anche senza i requisiti dell'articolo 30, comma 2, lettere a, b, c, d, e, dpr 633/1972), e
6. La riduzione di due anni dei termini per i controlli fiscali.
Per beneficiare della riduzione del periodo accertabile, tutti i contribuenti (non solo i dettaglianti) devono garantire la tracciabilità dei pagamenti e degli incassi, mediante bonifico, carta di debito o carta di credito, assegno bancario, circolare o postale (non trasferibili). È consentito l'uso del contante solo fino al limite indicato nell'articolo 2, comma 1, decreto 24 gennaio 2014, attualmente di 30 euro. Questo però dovrebbe essere portato a zero, in quanto questa norma è un decreto attuativo dell'articolo 15, comma 4, Dl 179/2012, emanato quando quest'ultimo consentiva di stabilire un importo minimo che non obbligava all'accettazione dei pagamenti con carte di debito. Dal 1° gennaio 2016, invece, la norma obbliga chi vende beni o presta servizi, anche professionali ad «accettare anche pagamenti effettuati attraverso carte di debito e carte di credito» di qualunque importo.
ARTICOLO - Pubblicato il: 20 gennaio 2017- Da: G. Manzana E. Iori
Aumenta l’ambito temporale, l’importo dello sconto fiscale e la tipologia di spese agevolabili. Invariata la modalità di determinazione del credito d’imposta, che resta legato al c.d. approccio incrementale.
È esteso fino al 2020 (in precedenza riguardava il periodo 2015-2019) il credito d’imposta riconosciuto per le spese relative agli investimenti incrementali per ricerca e sviluppo nell’ambito dell’attività d’impresa. Si tratta di una sola estensione temporale che non genera effetti nella modalità di determinazione del credito d’imposta spettante, che resta legato al cosiddetto approccio incrementale rispetto alla media degli investimenti R&S precedentemente effettuati.
Il credito d’imposta potrà essere utilizzato anche dalle imprese residenti (e dalle stabili di soggetti non residenti) che svolgono attività di ricerca su commissione di imprese residenti nella Ue o in Stati “collaborativi”. In precedenza in tal senso la le Entrate con la circolare 5/E/2016.
Il credito è riconosciuto a condizione che:
- le spese per attività di R&S del periodo d’imposta in relazione al quale si intende fruire dell’agevolazione siano complessivamente almeno pari a € 30.000 (valore rimasto invariato);
- si realizzi un incremento delle spese in esame rispetto al triennio precedente. Il credito è infatti riconosciuto, fino all’importo massimo annuo di 20 milioni (in precedenza 5 milioni)
- l’investimento sia effettuato in:
a) Strumenti ed attrezzature di laboratorio, competenze tecniche e privative industriali (invariato);
b) Personale impiegato nelle attività di ricerca e sviluppo (in precedenza personale altamente qualificato impiegato nelle attività di ricerca e sviluppo) e contratti di ricerca stipulati con Università / Enti e organismi di ricerca / altre imprese
La misura del credito è stabilita in:
a) Strumenti ed attrezzature di laboratorio, competenze tecniche e privative industriali: 50% della spesa incrementale (in precedenza 25%)
b) Personale impiegato nelle attività di ricerca e sviluppo (in precedenza personale altamente qualificato impiegato nelle attività di ricerca e sviluppo) e contratti di ricerca stipulati con Università / Enti e organismi di ricerca / altre imprese: 50% della spesa incrementale
Viene quindi eliminata la distinzione tra spese sostenute in beni strumentali per le quali era previsto un credito d’imposta pari al 25% della spesa incrementale e quelle sostenute per il personale impiegato nelle attività di ricerca e sviluppo (in precedenza personale altamente qualificato impiegato nelle attività di ricerca e sviluppo) per le quali il credito d’imposta era pari al 50% della spesa incrementale.
Con la modifica del comma 8 dell’art. 3, DL n. 145/2013, è previsto che il credito può essere utilizzato esclusivamente in compensazione “a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in cui i costi … sono stati sostenuti”. La modifica il dettato normativo al decreto attuativo (Dm 27 maggio 2015).
Le suddette disposizioni, ad eccezione della modifica riguardante l’utilizzo del credito che ha natura ricognitiva, “hanno efficacia a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2016”.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 gennaio 2017- Da: G. Manzana E. Iori
La legge finanziaria per il 2017 modifica la norma (art. 29 Dl 179/2012) che tratta degli sconti fiscali per i contribuenti che investono, direttamente o tramite di organismi di investimento collettivo, risorse finanziarie nel capitale di start up innovative riconosciute alla start up innovative (come definite dall’articolo 25, commi 2 e 3, del Dl 179/2012.
E’ stabilito che:
1) l’agevolazione diventa stabile;
2) per le persone fisiche la detrazione Irpef rapportata alle somme versate nel capitale sociale passa dal 19% al 30% con i limite annuo di somme detassabili che passa dal 500mila a un milione di euro. Così ad esempio, una persona fisica che nel 2017 versa un milione nel capitale sociale di start up innovative otterrà una minore Irpef da pagare per 300.000 euro (fino al 2016, invece, lo sconto massimo era di 95.000 euro);
3) per i soggetti Ires la deduzione dal reddito di impresa rapportata alle somme versate nel capitale sociale passa dal 20% al 30% con tetto di investimento annuo fermo a 1.800.000 euro. Così ad esempio, una società che nel 2017 che versa 1.800 mila euro nel capitale sociale di start up innovative otterrà una deduzione di 540mila euro e un risparmio Ires al 24% di 129.600 euro, rispetto ai precedenti 99.000;
4) il termine minimo, pena decadenza del beneficio, di detenzione delle partecipazioni attraverso cui si è realizzato l’investimento passa da 2 a 3 anni;
5) Sono definite al 30% anche le percentuali di detrazione (Irpef) e di deduzione (Ires) previste per le start up a vocazione sociale e per quelle che sviluppano servizi innovativi ad alto valore tecnologico in ambito energetico (prima rispettivamente 25% e 27%).
Cumulabilità con altre agevolazioni fiscali
Gli sconti fiscali per i contribuenti che investono in risorse finanziarie nel capitale di start up innovative sono cumulabili con:
- credito d’imposta per l’attività di ricerca e sviluppo
- benefici della nuova Sabatini
- super e iperammortamenti
- Ace
- Patent box.
Esempio
Un apporto di capitale di 1.000 mila euro se fatto in una Start up innovativa per la realizzazione di un brevetto che rende 100 mila euro ad anno comporta un risparmio fiscale di 1.200 mila euro, dovuto a: 300 mila di detrazione Irpef per agevolazione in Start up; 500 mila per credito d’imposta per l’attività di R&S; 140 mila per la deduzione delle spese e dei beni strumentali; 55 mila per super ammortamenti (ipotizzato un investimento in beni strumentali per 500 mila euro); 70 mila euro per deduzione Ace (considerato per 10 anni) e 140 mila euro per deduzione Patent Box (ipotizzato un rendimento di 100 mila euro ad anno del brevetto nei successivi 10 anni).
Investitore persona fisica, beneficia di una detrazione Irpef |
300.000 |
La società, beneficia di un credito d’imposta per l’attività di R&S (pari al 50% dell’investimento) |
500.000 |
La società, deduce, le spese e i beni strumentali destinati all’attività di R&S (pari a 500 mila per 28,9%) |
140.000 |
La società, per la parte che investe in bene che riconoscono super e iperammortamenti, beneficia di una deduzione rispettivamente del 40% e 150%. Così ipotizzando 500 mila euro di investimenti in beni strumentali, nel periodo di ammortamento dei beni, beneficia di un risparmio fiscale conseguente per super ammortamento pari a 55 mila (40% di 500 mila per 28,9%) |
55.000 |
La società, per l’aumento di capitale, beneficia dell’Ace per i successivi periodi d’imposta. Così ipotizzando un aliquota del 3% per la deduzione Ace, ipotizzando di beneficiare dell’agevolazione nei successivi 10 anni (ma l’agevolazione continua anche negli esercizi sucessivi), beneficia di un risparmio fiscale pari a 70 mila euro (il 24% del 3% di 1.000 mila euro per 10 anni)70.000 La società, sul reddito conseguente all’utilizzo del brevetto, beneficia della Patent Box. Così ipotizzando un rendimento di 100 mila euro ad anno del brevetto realizzato, ipotizzando di beneficiare della Patent box nei successivi 10 anni (ma la deduzione continua anche negli esercizi successivi), ne deriva un risparmio fiscale pari a 140 mila euro (100 mila per la metà di 28,9% per 10 anni) |
140.000 |
Totale |
1.200.000 |
ARTICOLO - Pubblicato il: 12 gennaio 2017- Da: G. Manzana E. Iori
Le misure sanzionatorie minime premiali - consistenti nella possibilità di evitare 1) il raddoppio dei termini per l’accertamento dei redditi e per contestare le violazioni relative alla compilazione del quadro RW (anche in presenza di reati tributari che comportino l’obbligo di denuncia penale alla magistratura); 2) il raddoppio delle sanzioni (sui redditi e sul quadro RW e sulla detenzione di attività finanziarie); 3) l’applicazione della presunzione reddituale degli assets black list - operano anche quando sia entrato in vigore prima della vigenza della nuova legge
1. un accordo che consenta un effettivo scambio di informazioni tra amministrazioni finanziarie ai sensi dell’articolo 26 del modello di convenzione contro le doppie imposizioni predisposto dall’Ocse.
2. un accordo conforme al modello di accordo per lo scambio di informazioni elaborato nel 2002 dall’Ocse e denominato Tax information exchange agreement (Tiea).
Quindi oltre alla Svizzera al Liechtenstein, Monaco Singapore e Mauritius che erano inseriti nella precedente lista di Paesi collaborativi ai fini della procedura ora entrano anche Andorra , Hong Kong , le isole Cayman, le isole Cook, Guernsey, Gibilterra, l’isola di Man e lo Stato di Jersey.
Panama è in dubbio: la ratifica della convenzione per evitare le doppie imposizioni è stata pubblicata la legge 3 novembre 2016 n. 208 e è entrata in vigore con la sua pubblicazione in Gazzetta, quindi prima della vigenza della nuova legge, ma le disposizioni dell’accordo saranno pienamente efficaci il primo giorno del quarto mese successivo alla data in cui si è perfezionata la reciproca notificazione degli strumenti di ratifica.
ARTICOLO - Pubblicato il: 30 dicembre 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Il credito d’imposta per l’attività di ricerca e sviluppo, i benefici della nuova Sabatini, la deduzione per super e iperammortamenti, l’agevolazione Ace, la deduzione per Patent box e la detrazione per investimenti in start up innovative sono tra loro cumulabili e si aggiungono all’ordinaria deduzione delle spese e dei beni strumentali.
La somma degli sconti fiscali può portare a un importo anche superiore al valore dell’investimento.
Così un apporto di capitale di 1.000 mila euro per attività di R&S che porta a un nuovo brevetto, realizza uno sconto di 900 mila euro che diventa 1.200 mila in caso di start up innovativa: 500 mila per credito d’imposta per attività di R&S; 55 mila per super ammortamenti (ipotizzato un investimento in beni strumentali per 500 mila), 70 mila per Ace (considerato la deduzione per 10 anni), 140 mila per Patent Box (ipotizzato un rendimento del brevetto di 100 mila euro ad anno per 10 anni), 140 mila per la deduzione delle spese e dei beni strumentali e 300 mila per detrazione Irpef per agevolazione in start up innovative (30% di detrazione come da ultimo previsto con la Finanziaria per il 2017).
CONVEGNO - Pubblicato il: 30 novembre 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Il Convegno analizza i dati della Voluntary 1.0 gestite dallo Studio entrando nel merito della tipologia dei patrimoni regolarizzati, dei costi fiscali e sostenuti e delle problematiche risolte. Della Voluntary 2.0 ne analizza l'opportunità partendo dalla considerazione del nuovo contesto internazionale dettato dagli articoli per lo scambio di informazioni e dalle problematiche di carattere penale.
ARTICOLO - Pubblicato il: 14 novembre 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
La rottamazione delle cartelle di pagamento previste dall’art. 6 del Dl 193/2016 (ante conversione) prevede lo stralcio delle sanzioni amministrative e degli interessi di mora (applicati dall’agente della riscossione qualora il debitore non paghi le somme dovute entro il termine di 60 giorni dalla notifica della cartella esattoriale).
Sono pertanto dovute le somme dovute a titolo di capitale (imposte o contributi previdenziali) e di interessi da ritardata iscrizione a ruolo, applicati dall’agenzia delle Entrate unitamente agli avvisi di accertamento o a seguito di liquidazioni automatiche della dichiarazione o di altri interessi applicati da altri Enti impositori. Sono inoltre dovuti l’aggio della riscossione, calcolato però sugli importi effettivamente da corrispondere (e, quindi, non anche sulle sanzioni amministrative), le eventuali spese di esecuzione maturate e le spese di notifica della cartella.
Carichi dal 2000 al 2015
Rientrano nella rottamazione tutti i carichi (intesi come ruoli, comprese le somme riportate in avvisi di accertamento esecutivi emessi dall’agenzia delle Entrate o quelle riportate in avvisi di addebito emessi dall’Inps) affidati agli Agenti della riscossione tra il 1° gennaio 2000 e il 31 dicembre 2015.
Occorre però prestare attenzione: al fine di comprendere quali carichi rientrano nella definizione agevolata, bisogna fare riferimento alla data di consegna del ruolo da parte dell’ente impositore all’Agente della riscossione e non alla data di emissione o di notifica della cartella di pagamento. Tuttavia, poiché il dato sulla consegna del ruolo non è contenuto nella cartella, in caso di dubbio è opportuno recarsi presso gli sportelli di Equitalia al fine di conoscere con esattezza la data di affidamento delle somme soprattutto qualora la cartella di pagamento sia stata notificata all’inizio del 2016.
Dilazioni in corso
La sanatoria non è preclusa qualora il contribuente abbia una precedente dilazione, sia che sia decaduta sia che sia ancora presente. Solo per le rateazioni pendenti, inoltre, sussiste l’obbligo del pagamento delle rate in scadenza dal 1° ottobre al 31 dicembre 2016.
A tale scopo, occorre guardare alla data di concessione della dilazione. Se si tratta di dilazione concessa prima del 22 ottobre 2015, la decadenza avveniva con il mancato pagamento di 8 rate. A partire dalle rateazioni accordate da tale data sono sufficienti 5 rate non pagate.
Contenzioso
La definizione agevolata non è preclusa neanche nel caso di contenzioso pendente (in qualsiasi grado del giudizio), anche se, in tale ipotesi, il contribuente deve impegnarsi a rinunciare ai giudizi in corso.
Ammessi e esclusi
Sotto il profilo delle entrate ammesse alla definizione, rientrano tutte quelle riscosse tramite ruolo, di natura sia patrimoniale che tributaria, compresa l’Iva. Non vi sono distinzioni neppure in ordine all’ente impositore, perché vi rientrano, tra l’altro, anche i tributi comunali e regionali.
Sono espressamente esclusi:
le risorse comunitarie, come i dazi e le accise;
l’Iva all’importazione;
le somme dovute a seguito di recupero di aiuti di Stato dichiarati incompatibili con la normativa dell’Unione europea
i crediti da condanna della Corte dei conti;
le sanzioni pecuniarie di natura penale;
le sanzioni per violazioni al Codice della strada (per queste la definizione è ammessa ma unicamente in relazione alle somme aggiuntive alla sanzione).
Inoltre, sembrano escluse anche le entrate riscosse dagli Enti locali in proprio e dai concessionari mediante ingiunzione fiscale.
Quali cartelle
Con il comunicato stampa del 4 novembre 2016, dal facsimile di istanza che dovrà essere utilizzato per l’ammissione alla definizione agevolata dei ruoli, si evince che spetta al contribuente decidere quali carichi definire, anche in relazione alla singola cartella di pagamento o avviso esecutivo o avviso di addebito.
L’iter
La procedura è piuttosto semplice, poiché si risolve nella presentazione di un’istanza, redatta su un modulo apposito, entro il 23 gennaio 2017 (il 22 è domenica e il termine slitta al giorno successivo). Successivamente, l’agente della riscossione comunica entro il 22/4/2017 al debitore gli importi dovuti, suddivisi nel numero di rate da questi prescelto, in un massimo di quattro.
La procedura di rottamazione si perfezionerà soltanto con il pagamento dell’intera somma dovuta. In caso di mancato perfezionamento, invero, saranno nuovamente dovuti gli interessi di mora e le sanzioni amministrative e il carico, per espressa previsione del Dl 193/2016, non potrà essere oggetto di dilazione.
Pagamento rateizzato
Quattro rate: lae prime due rate sono ciascuna pari ad un terzo e la terza e la quarta ciascuna pari ad un sesto delle somme dovute, la scadenza della terza rata non puo' superare il 15 dicembre 2017 e la scadenza della quarta rata non puo' superare il 15 marzo 2018.
Stop alle ipoteche
Con la presentazione della domanda si inibisce l’adozione di nuove misure cautelari (fermo e ipoteca) o esecutive. I fermi e le ipoteche già iscritti restano salvi. Come pure l’istanza è inefficace nei riguardi di procedure esecutive che siano nella fase finale. Possono invece essere rottamati anche i debiti per i quali vi è stata la segnalazione di una Pubblica amministrazione, ai sensi dell’articolo 48-bis del Dpr 602/1973.
ARTICOLO - Pubblicato il: 11 novembre 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Rispetto della normativa antiriciclaggio sia per i professionisti che per gli intermediari che assistono i contribuenti nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria: la norma ribadisce ciò che già la prassi amministrativa aveva previsto (circolari Mef e Uif).
Dichiarazione del cliente che attesta che l’origine di tali valori non deriva da condotte diverse da reati tributari presupposti [omessa o infedele dichiarazione di cui agli articoli 4 e 5, all’omesso pagamento di Iva di cui all’articolo 10 ter e ritenute (10 bis), all’utilizzo di fatture per prestazioni inesistenti (articolo 2) e alla dichiarazione fraudolenta articolo 3 del Dlgs 74/2000].
Ora viene espressamente richiesto, quale obbligo aggiuntivo in occasione degli adempimenti previsti per l’adeguata verifica della clientela, che i contribuenti dichiarino le modalità e le circostanze di acquisizione dei contanti e valori al portatore oggetto della procedura.
In merito:
- Per questo obbligo antiriciclaggio l’articolo 21 e 55 commi 2 e 3 del Dlgs 231/2007 prevede che le false indicazioni del cliente sono soggette a sanzione penale.
- Per questo obblio vi è l’introduzione di un nuovo reato, per chiunque fraudolentemente si avvale della procedura di voluntary disclosure al fine di far emergere attività finanziarie e patrimoniali, contanti provenienti da reati diversi da quelli tributari è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni, ferma restando la possibilità di applicare a tali soggetti i reati di riciclaggio e autoriciclaggio, impiego di denaro di provenienza illecita, trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori.
I contribuenti che vorranno sanare i contanti, come era già anche previsto nelle circolari interpretative dell’agenzia delle Entrate, dovranno altresì provvedere, entro la data di presentazione della relazione e dei documenti allegati, all’apertura e all’inventario in presenza di un notaio, che ne accerti il contenuto all’interno di un verbale, di eventuali cassette di sicurezza presso le quali i valori oggetto di collaborazione volontaria sono custoditi.
Versamento dei contanti e al deposito valori al portatore presso intermediari finanziari, a ciò abilitati, su una relazione vincolata fino alla conclusione della procedura, il tutto da farsi entro la data di presentazione della relazione e dei documenti.
Il deposito vincolato è una figura contrattuale nella prassi internazionale nota come Escrow Account è utilizzata da istituti italiani ed esteri per garantire determinate operazioni soggette a condizione ovvero dalle società fiduciarie che vengono incaricate, come soggetto terzo, ad adempiere determinati pagamenti a seguito di avverate condizioni.
ARTICOLO - Pubblicato il: 4 novembre 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Riapertura dei termini della voluntary del 2015 (nuovo art. 5-octies, DL n. 167/9 che prevede nuovamente l’applicazione degli artt. da 5-quater a 5-septies). Oltre ai precedenti esimenti (ispezioni, verifiche, accertamento o procedimenti penali relativi all'ambito di applicazione della procedura in esame) non è accessibile per chi abbia già aderito alla precedente procedura.
Può essere utilizzata anche dai contribuenti diversi: 1) da quelli indicati dall’art. 4, comma 1, DL n. 167/90 (persone fisiche, enti non commerciali e società semplici); 2) dai soggetti che hanno adempiuto correttamente agli obblighi del c.d. “monitoraggio fiscale”(compilazione quadro RW).
L’istanza va presentata entro il 31 luglio 2017; la documentazione integrativa entro il 30 settembre 2017.
Le violazioni sanabili sono quelle commesse fino al 30 settembre 2016 (periodo d’imposta 2015);
Proroga dei termini d’accertamento (sembrerebbe per chi si avvale della procedura) scadenti dal 1° gennaio 2015 (quindi accertabile dal periodo d’imposta 2010) fino al 31 dicembre 2018, ma solo per le attività e i redditi inclusi nella procedura.
Proroga fino al 30 giugno 2017 per la liquidazione delle istanze presentate nel 2015.
Se nella relazione il contribuente indicherà anche i dati per il quadro RW relativo al 2016 e alla frazione di periodo 2017 fino all’effettivo rimpatrio, liquidando le relative imposte, vi sarà esonero dalla compilazione del quadro RW e dei quadro reddituali.
A livello sanzionatorio sembrerebbe prevista l’applicazione del cumulo giuridico per le violazioni del quadro RW.
Si deve provvedere a autoliquidare le imposte, le sanzioni e gli interessi entro il 30 settembre 2017. In caso di autoliquidazione insufficiente, se invece il contribuente verserà l’integrazione spontaneamente sarà applicata solo una maggiorazione, in misura graduata, sull’ammontare dell’integrazione (dal 3% al 10%). In caso di mancato “spontaneo” versamento entro le sanzioni ex art. 5, comma 2, DL n. 167/90 (dal 3% al 15%) non sono ridotte, ai sensi dell’art. 5-quinquies, comma 4, al 50% ma sono fissate dal 60% all’85% del minimo.
L’ammontare derivante dall’adesione alla procedura (imposte, ritenute, contributi, interessi e sanzioni) va versato in unica soluzione entro il 30.9.2017 o in 3 rate mensili (la prima entro il 30.9.2017) senza possibilità di compensazione ex art. 17, D.Lgs. n. 241/97.
La sanzione del 3% (riducibile di fatto allo 0,5%) sul quadro RW si applica non solo per le attività detenute in Paesi che hanno firmato un accordo per lo scambio d’informazioni entro il 1° marzo 2015, ma a tutti i Paesi per i quali l’accordo è entrato in vigore entro il 24 ottobre, data di entrata in vigore del Dl 193/2016. Dovrebbe trattarsi in sostanza dei Paesi attualmente inclusi nella White list (fra i quali, ad esempio, Jersey, penalizzata dalla precedente edizione). Per quanto riguarda Montecarlo, la sanzione ridotta trova comunque fondamento nell’originaria versione dell’articolo 5 quinquies, comma 7.
Al ricorrere delle condizioni sopra elencate e in presenza di rimpatrio giuridico o materiale oppure del rilascio del waiver, non si applica il raddoppio dei termini, come in passato.
Il contribuente, per le attività oggetto della “nuova” collaborazione volontaria, non è punito per i reati previsti dall’art. 648-ter, C.p. (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita);
Se ha ad oggetto contanti o valori al portatore il contribuente deve:
• dichiarare che i valori oggetto di collaborazione volontaria non derivano da reati diversi da quelli previsti dalla voluntary disclosure;
• provvedere entro la data di presentazione della relazione e dei documenti allegati:
- all’apertura ed all’inventario, in presenza di un Notaio, delle cassette di sicurezza presso le quali i valori oggetto di collaborazione volontaria sono custoditi;
- al versamento dei contante ed al deposito dei valori al portatore “su una relazione vincolata fino alla conclusione della procedura” presso intermediari finanziari abilitati.
Il professionista che assiste il contribuente nella gestione della “nuova” collaborazione volontaria è assoggettato, analogamente a quanto previsto per la precedente, al rispetto degli obblighi antiriciclaggio.
Viene prevista l’applicazione dell’aliquota Irpef nella misura massima per i proventi dei fondi comuni d’investimento diversi da quelli conformi alla direttiva 2009/65/Ue (cioè diversi dai fondi non armonizzati), mentre l’articolo 10 ter della legge 77 del 1983 prevede che l’aliquota progressiva si applichi solo sui proventi dei fondi non conformi alla direttiva 2011/61/Ue cioè diversi da quelli istituiti nella Ue o in Stati See White list o il cui gestore non sia soggetto a vigilanza nel proprio Stato di residenza.
ARTICOLO - Pubblicato il: 31 ottobre 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
L'adempimento dell'imposta secondo il meccanismo dell'inversione contabile o reverse charge, applicato ai sensi dell'art. 17 quinto comme del Dpr 633/72, comporta che gli obblighi relativi all'applicazione dell'Iva debbano essere adempiuti dal soggetto passivo (cessionario/committente), in luogo soggetto attivo (cedente/prestatore).
ARTICOLO - Pubblicato il: 14 ottobre 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
In base alla normativa sul transfer pricing (articolo 110, comma 7, del Tuir), i componenti di reddito derivanti da operazioni intercompany con società non residenti sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti. L’eventuale differenza tra il valore normale dei beni e/o dei servizi e il ricavo o costo contabilizzato va indicata tra le variazioni in aumento in Unico 2016 (RF31, codice 15).
Il Dlgs 147/2015 ha previsto che (…)
2. La disposizione di cui all'articolo 110, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si interpreta nel senso che la disciplina ivi prevista non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato.
>> La norma di interpretazione autentica sembrerebbe affermare un principio che risulta sostanzialmente pacifico nelle norme, nella prassi e nella giurisprudenza !?!?!?
>> Nella bozza originaria del Testo unico era stata prevista una norma che sanciva il principio del transfer pricing interno, che era stata, però, eliminata nel testo definitivo (come proposto dalla Commissione parlamentare dei Trenta).
>> Nella relazione di accompagnamento è precisato che si è inteso accogliere l’osservazione contenuta nel parere della commissione Finanze della Camera (punto 7, secondo alinea), che aveva chiesto di «chiarire con norma espressa che il cosiddetto transfer pricing interno non è compatibile con l’attuale impianto del Tuir».
>> Del resto è pur vero che non vi è mai stata chiarezza sul punto.
Nella risoluzione 9/198 del 1982 e nella circolare ministeriale 32 del 1980 era stata originariamente affermata la possibilità per gli uffici di contestare sulla base del valore normale la congruità dei corrispettivi stabiliti nell’ambito delle transazioni infragruppo domestiche.
Tale orientamento era stato, però, superato dalla circolare delle Finanze 53 del 1999, in cui si è sancita l’impossibilità di applicare il transfer pricing estero e affermato che se il ricorso ad altre disposizioni (come l’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973 sull’accertamento analitico-induttivo) fosse risultato di difficile praticabilità, si sarebbe valutata la possibilità «di suggerire proposte normative».
Anche la Cassazione ha affermato (nelle sentenze 10802/2002, 23551/2012 e 17955/2013) l’inapplicabilità alle operazioni effettuate tra società residenti in Italia della disposizione sul transfer pricing estero.
Ma la stessa Cassazione, pur riconoscendo la non applicazione dell’art. 110 ai gruppi nazionali (nelle sentenze 10802/2002, 23551/2012 e 17955/2013), ha anche affermato nelle sentenze 17955/2013, 8849/2014, 12502/2014, 23124/2014 e 12844/2015) che il principio del valore normale - richiamato anche dall’articolo 110, comma 7, del Tuir - costituirebbe una “clausola antielusiva” di portata generale che consentirebbe alle Entrate di rettificare i corrispettivi delle transazioni infragruppo non in linea con il valore di mercato dei beni o servizi.
>>Ma la disposizione dell’articolo 9 del Tuir, che contiene la definizione del «valore normale»,
- non è uno strumento generale di controllo dei corrispettivi,
- ma un criterio da usare in presenza di componenti reddituali “in natura” e negli altri casi in cui è espressamente richiamato da altre norme.
D’altra parte, questa ricostruzione interpretativa della Suprema corte non appare condivisibile. Se fosse corretta, infatti, non si capirebbe perché il legislatore abbia espressamente sancito nell’articolo 110 del Tuir la regola del transfer pricing e l’abbia limitata ai corrispettivi delle operazioni infragruppo che vedono coinvolto un soggetto non residente, facendo rinvio al valore normale soltanto ai fini della valutazione di tali corrispettivi. Al contrario, il valore normale può “sostituire” il corrispettivo soltanto in limitati casi, normativamente previsti, nei quali quest’ultimo manca o c’è l’esigenza di evitare arbitraggi fiscali. L’affermazione della Cassazione finirebbe, altrimenti, per contrastare con il principio di derivazione contabile del reddito d’impresa, stabilito anche a tutela della certezza del rapporto tributario.
>>Del resto, senza invocare il valore normale, è comunque possibile la rettifica dei corrispettivi risultanti dai contratti e dalla contabilità in base al principio secondo il quale - in presenza di comportamenti “antieconomici” dei contribuenti - gli uffici possono contestare la congruità degli importi (abuso): principio che la Corte ha spesso applicato ai costi correlati ai servizi infragruppo (sentenze 9497/2008, 9469 e 11154/2010, 16642/2011, 12502 e 21184/2014, 6972 e 10319/2015). Devono, però, sussistere situazioni di arbitraggio fiscale, in cui si verifica un risparmio di imposta in conseguenza, ad esempio, di differenze di aliquote o delle differenti modalità di tassazione di chi sostiene il costo e di chi consegue il componente positivo. In particolare, è necessario che:
- il comportamento del contribuente venga valutato tenendo conto della complessiva situazione contrattuale e aziendale, perché una operazione che, isolatamente considerata, può apparire antieconomica potrebbe invece risultare pienamente conforme ai canoni dell’economia se inquadrata alla luce della complessiva strategia imprenditoriale;
- siano evitate duplicazioni impositive: l’Agenzia ha correttamente affermato, nella nota 55440/2008, che «se ad un costo dedotto si contrappone un ricavo integralmente ed effettivamente tassato in capo ad un altro soggetto, la plausibilità del rilievo perderà inevitabilmente di consistenza».
Va, altresì, considerata l’eventuale partecipazione delle società interessate al regime del consolidato fiscale, in presenza del quale il transfer pricing interno non assume, di regola, rilevanza ai fini reddituali, nonostante l’abrogazione della disposizione che consentiva di applicare il regime di neutralità fiscale ai trasferimenti di beni tra le società che avevano optato per tale regime.
A prescindere dal giudizio sull’orientamento giurisprudenziale che riconosceva sufficiente l’applicazione anche al transfer pricing interno dell’art. 9 del Tuir, è ora chiaro che se si vogliono contrastare operazioni elusive realizzate attraverso operazioni di transfer pricing interno non si può certamente applicare l’articolo 110, comma 7, del Tuir perché la norma di interpretazione autentica lo impedisce e non si può semplicemente richiamare l’articolo 9 del Tuir in chiave antiabuso perché, a tale riguardo, occorre operare mediante la clausola antielusiva generale del nuovo articolo 10-bis dello Statuto del contribuente (legge 212/2000). Quindi, occorre che gli uffici finanziari dimostrino il vantaggio fiscale indebito, e cioè il vantaggio disapprovato dal sistema. E a tale riguardo è palese che all’interno dei gruppi il vantaggio indebito non sussiste tutte le volte in cui a fronte di un aumento di reddito in capo a un soggetto si ha la riduzione in capo a un altro con irrilevanza dell’operazione per le casse erariali in quanto il gruppo, nella sua globalità, non consegue alcun risparmio.
Non sarà più sufficiente dimostrare che vi sarebbe stato un maggior reddito in presenza di un valore normale superiore ai corrispettivi, come previsto dall’articolo 110, comma 7, del Tuir, ma l’amministrazione dovrà attivare i “meccanismi” dell’articolo 10-bis dello Statuto, ivi inclusa la disciplina di carattere probatorio. È auspicabile, quindi, che i giudici di legittimità non “scomodino” più l’articolo 9 del Tuir per contrastare operazioni elusive realizzate mediante transfer pricing interno ma prendano atto della nuova clausola generale antiabuso.
ARTICOLO - Pubblicato il: 13 ottobre 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
INDIVIDUAZIONE DEGLI STATI “BLACK LIST” Va innanzitutto evidenziato che l’art. 10 del Decreto in esame ha abrogato l’art. 168-bis, TUIR, che prevede(va) l’individuazione di 2 liste (c.d. “white list”), peraltro mai predisposte, riferite rispettivamente:
• agli Stati che consentono un adeguato scambio di informazioni (co. 1);
• agli Stati che consentono un adeguato scambio d’informazioni e nei quali il livello di tassazione non è sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia (co. 2).
Ora, con decorrenza dal periodo d‘imposta in corso al 7.10.2015 (in generale, dal 2015), è stabilito che, quando leggi, regolamenti, decreti o altre norme fanno riferimento a:
• Stati che consentono un adeguato scambio di informazioni di cui al co. 1 dell’abrogato art. 168-bis, va fatto riferimento alla nuova lett. c) del co. 4 dell’art. 11, D.Lgs. n. 239/96, che demanda al MEF di stabilire, con uno o più Decreti, l’elenco di tali Stati;
• Stati diversi da quelli che consentono un adeguato scambio d’informazioni e nei quali il livello di tassazione non è sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia di cui al co. 2 dell’abrogato art. 168-bis, va fatto riferimento al DM ed al Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate che saranno emanati in attuazione dell’art. 167, co. 4, TUIR.
Le modifiche a tal riguardo intervenute sugli artt. 47 co. 4, 68 co. 4, 87 co. 1 lett. c e 89 co. 3 del Tuir con efficacia a partire dal periodo d’impsota 2015, riguardanti sia soggetti IRPEF che i soggetti IRES e sia i dividendi che le plusvalenze, prevedono che (Cir. 35/E/2016 p.60) occorre avere riguardo alla rispettiva provenienza da “Stati o territori a regime fiscale privilegiato inclusi nel decreto o nel provvedimento emanati ai sensi dell'articolo 167, comma 4” del TUIR.
Fino al 2015
Cir. 35/E/2016 Il comma 4 dell’articolo 167 del TUIR, nella formulazione vigente fino al 31 dicembre 2015, prevedeva che
- “Si considerano privilegiati i regimi fiscali di Stati o territori individuati, con decreti del Ministro delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale (...)” nonché
- “Si considerano in ogni caso privilegiati i regimi fiscali speciali che consentono un livello di tassazione inferiore al 50 per cento di quello applicato in Italia”.
Per il 2015, il richiamo contenuto negli articoli 47, comma 4, 68, comma 4, 87, comma 1, lettera c) e 89, comma 3, del TUIR all’articolo 167, comma 4, del TUIR, deve essere inteso nella sua formulazione vigente fino al 31 dicembre 2015, in base alla quale sono regimi fiscali privilegiati quelli:
a) individuati con decreti del Ministro delle Finanze in ragione del livello di tassazione inferiore al 50 per cento di quello applicato in Italia, della mancanza di un adeguato scambio di informazioni ovvero di altri criteri equivalenti; ovvero
b) che, in ogni caso, consentono un livello di tassazione inferiore al 50 per cento di quello applicato in Italia.
Riguardo ai decreti del Ministro delle Finanze, rimane applicabile, sino al 31 dicembre 2015, il DM 21 novembre 2001, recante l’individuazione degli Stati o territori a regime fiscale privilegiato ai fini dell’articolo 167, comma 4, del TUIR.
Come già rilevato, nel corso del 2015, quest’ultimo decreto è stato modificato proprio al fine di armonizzarlo con i criteri di individuazione degli Stati a fiscalità privilegiata fissati dalla legge di stabilità 2015.
Il Dm 21 novembre 2001 è stato modificato con:
- Dal 11/5/2015 dal Dm 30/3/2015 che ha escluso dalla lista Filippone, Malesia e Singapore e ha abrogato l’art. 3 del Dm 21 novembre 2001 Stati e territori limitatamente a dato soggetti date attività
- Dal 30/11/2015 dal Dm 18/11/2015 ha escluso dalla lista Hong Kong
Pertanto, per l’anno d’imposta 2015, al fine di verificare la provenienza del reddito da un Paese non a fiscalità privilegiata occorre preliminarmente accertare se lo Stato o territorio di localizzazione della società partecipata non sia incluso nella lista contenuta nel d.m. 21 novembre 2001, vigente al momento in cui gli utili sono stati percepiti o le plusvalenze sono state realizzate dal socio italiano.
Ciò detto, secondo la Cir. 35/E/2015, tenuto conto che l’articolo 3 del d.m. 21 novembre 2001 individuava gli Stati o territori da considerare a fiscalità privilegiata limitatamente ai determinati regimi ivi previsti e che tale articolo è stato abrogato dal d.m. 30 marzo 2015, per i dividendi percepiti nell’esercizio 2015, occorre operare la seguente distinzione:
- (FINO 11/5/2015) i dividendi percepiti entro l’entrata in vigore del predetto d.m. 30 marzo 2015 saranno considerati provenienti da Stati o territori a fiscalità ordinaria se provenienti da Paesi non inclusi nel d.m. 21 novembre 2001;
- (DAL 12/5/2015) per i dividendi percepiti dopo l’entrata in vigore del d.m. 30 marzo 2015, non è sufficiente che i medesimi non provengano da Stati o territori non inclusi nella citata black list, ma il contribuente avrà l’onere di verificare anche l’eventuale carattere speciale del regime fiscale applicato nell’ordinamento estero. In altri termini, ai fini della parziale esclusione dall’imponibile del soggetto residente, è necessario che gli utili percepiti non provengano da una società estera comunque assoggettata a un’imposizione inferiore del 50 per cento rispetto a quella italiana in virtù di “regimi speciali”.
Dal 2016
Il comma 4 dell’articolo 167 del TUIR, nella formulazione vigente dal 2016 , prevede che “I regimi fiscali, anche speciali, di Stati o territori si considerano privilegiati laddove il livello nominale di tassazione risulti inferiore al 50 per cento di quello applicabile in Italia”.
Cir. 35/E/2016 p.62 Pertanto, a partire dal 1° gennaio 2016, il criterio impiegato per individuare sia gli Stati o territori a fiscalità privilegiata che i regimi fiscali speciali attiene al livello nominale di tassazione inferiore al 50 per cento di quello applicabile in Italia.
La provenienza dell’utile o della plusvalenza sarà, pertanto, determinata con riferimento al momento di percezione, con la conseguenza che:
1. nel caso in cui gli utili o le plusvalenze si debbano qualificare, sulla base delle disposizioni in vigore ratione temporis - al momento della percezione o della realizzazione in capo al socio italiano - come provenienti da un regime fiscale privilegiato, gli stessi saranno assoggettati al regime di integrale concorrenza al reddito imponibile, salvo che il contribuente dimostri la ricorrenza, sin dall’inizio del periodo di possesso della partecipazione, dell’esimente di cui all’articolo 167, comma 5, lettera b), del TUIR;
2. nel caso in cui gli utili o le plusvalenze si debbano qualificare, sulla base delle disposizioni in vigore ratione temporis - al momento della percezione o realizzazione in capo al socio italiano - come non provenienti da un regime fiscale privilegiato, potranno beneficiare del regime di parziale esclusione, salvo il riscontro della sussistenza del requisito stesso anche rispetto al momento di effettiva formazione dell’utile distribuito.
(…)Cir. 35/E/2016 p.65 In altri termini, ai fini del riconoscimento del parziale concorso al reddito, è necessario che i dividendi siano distribuiti da una partecipata estera che,
1. sulla base del criterio vigente al momento della percezione degli stessi, non si possa considerare localizzata in un paradiso fiscale e
2. tale criterio deve essere soddisfatto anche rispetto all’esercizio di maturazione dell’utile oggetto di distribuzione.
(…)Cir. 35/E/2016 p.63 Occorre, infine, precisare che il regime di integrale tassazione di dividendi e plusvalenze non riguarda dividendi e plusvalenze originati in Stati membri dell’Unione europea o aderenti allo Spazio economico europeo (SEE) che garantiscono lo scambio di informazioni.
DIVIDENDI (SOGGETTI IRPEF e IRES)
Le modifiche intervengono sugli artt. 47, co. 4 e 89, co. 3, TUIR e riguardano sia soggetti IRPEF che i soggetti IRES. Peraltro, stante il richiamo operato dall’art. 59, TUIR al citato art. 47, le stesse sono applicabili anche alle società di persone / imprenditori individuali.
Cir. 35/E/2016 p.53. Nella formulazione attuale degli articoli 47, comma 4, e 89, comma 3, del TUIR, il regime di integrale tassazione si applica ai dividendi relativi a:
a) partecipazioni dirette in società localizzate in Stati o territori a regime fiscale privilegiato;
b) partecipazioni indirette nelle società sub a), detenute per il tramite di partecipazioni di controllo, diretto o indiretto, anche di fatto, in una o più società intermedie che non siano localizzate in Stati o territori a regime fiscale privilegiato.
La nozione di provenienza è stata, pertanto, circoscritta dal legislatore entro un perimetro definito che prevede:
- una partecipazione diretta (SEMPRE), anche se non di controllo, nella società assoggettata al regime fiscale privilegiato, ovvero
- una partecipazione indiretta, anche non di controllo, in quest’ultima, attraverso l’esercizio del controllo su una società interposta localizzata in uno Stato o territorio a regime fiscale ordinario(IN CAOSO DI CONTROLLO DIRETTO O INDIRETTO NELLA SOCIETA’ INTERPOSTA).
Di conseguenza, come evidenziato nella Relazione illustrativa al Decreto in esame, il regime di imponibilità integrale è applicabile “alle situazioni in cui il socio detenga una partecipazione diretta in una società localizzata in Stati o territori a fiscalità privilegiata, oppure, in caso di partecipazione indiretta, sia titolare – anche indirettamente – di una partecipazione di controllo in una o più società intermedie non … black list che conseguono, a loro volta, utili da partecipate – anche non di controllo – in Stati o territori a fiscalità privilegiata: soltanto in queste ipotesi infatti il socio italiano è in grado di conoscere la provenienza degli utili e di agire come dominus dell’investimento partecipativo nella società … black list”.
Requisito del controllo Cir. 35/E/2016 p.56. Peraltro, il dettato normativo fa genericamente riferimento alla sussistenza di un “controllo anche di fatto, diretto o indiretto, in altre società residenti all’estero”, senza specificare riferimenti normativi da cui ricavare una nozione più puntuale.
Nel silenzio del legislatore, si ritiene che la nozione di controllo rilevante ai fini dell’applicazione della norma sia quella dell’articolo 2359, primo e secondo comma, del codice civile.
Pertanto, assumono rilevanza sia il controllo in termini di diritti di voto, computando anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta, sia il controllo integrato da un’influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali.
Esempio 3.a) | Esempio 3.b) |
Si ipotizzi il caso di una catena partecipativa verticale, in cui il socio A, residente in Italia, detiene il controllo di tutte le società interposte (B e C) localizzate in Paesi a fiscalità ordinaria, sino ad arrivare alla partecipata (X) localizzata in uno Stato a regime fiscale privilegiato. |
Si ipotizzi il caso di una catena partecipativa verticale, in cui il socio A, residente in Italia, detiene il controllo soltanto della prima società interposta (B), mentre ha una partecipazione minoritaria in C che, a sua volta, controlla la società X localizzata in un Paese a regime fiscale privilegiato. |
In questo caso, i dividendi provenienti dal Paese a regime fiscale privilegiato sono soggetti a tassazione integrale. |
In questo caso, i dividendi provenienti dal Paese a regime fiscale privilegiato non sono soggetti a integrale tassazione. |
Entità della partecipazione considerata black list Cir. 35/E/2016 p.59. In caso di partecipazione indiretta nella società localizzata nello Stato o territorio a regime fiscale privilegiato, il socio residente deve individuare quanta parte di dividendi è riferibile a tale partecipazione.
Solo i dividendi provenienti da regimi fiscali privilegiati, infatti, saranno integralmente assoggettati a tassazione, mentre la distribuzione riferibile agli utili della controllata interposta potrà beneficiare del regime di parziale concorso alla formazione del reddito imponibile.
A tale fine, come chiarito nella citata circolare n. 51/2010, il contribuente deve provvedere a una ricostruzione analitica della provenienza degli utili distribuiti, supportata da adeguata documentazione che consenta all’Amministrazione finanziaria di risalire la catena distributiva.
In mancanza di un riscontro documentale, si presumono distribuiti al socio residente, in via prioritaria e fino a concorrenza, gli utili provenienti da Stati o territori a regime fiscale privilegiato.
CASI DI ESCLUSIONE DALL’IMPONIBILITÀ INTEGRALE
L’imponibilità integrale non opera in caso di:
1. applicazione della disciplina delle Controlled Foreign Companies (CFC) ex art. 167, co. 1, TUIR, ossia di distribuzioni di utili già imputati per trasparenza;
2. dimostrazione, “anche” a seguito di interpello ex art. 167, co. 5, lett. b), TUIR, della sussistenza dell’esimente di cui all’art. 87, co. 1, lett. c), TUIR (c.d. seconda esimente), ossia che dalla partecipazione non sia stato conseguito, sin dall’inizio del periodo di possesso, l’effetto di localizzare i redditi in Stati “black list”.
>> Con l’inserimento della dicitura “anche”, l’interpello diventa facoltativo.
>>Cir. 35/E/2016 p. 68 La retroattività della dimostrazione non incide sui criteri da prendere in considerazione per valutare la mancanza di intenti ed effetti elusivi sin dall'inizio del periodo di possesso della partecipazione.
Infatti, il mutato orientamento del legislatore nel valutare il disvalore dei regimi fiscali privilegiati implica necessariamente un aggiornamento della seconda circostanza esimente alle valutazioni attuali.
Ciò significa che, la verifica della congruità del carico fiscale complessivamente gravante sugli utili distribuiti deve retroagire, utilizzando i medesimi criteri, per ciascun anno, fino ad arrivare al primo esercizio di possesso della partecipazione.
In ipotesi di utili distribuiti dal 2015 in poi, e prescindendo dalle ipotesi espressamente individuate nell'articolo 5, comma 3, del decreto attuativo n. 429/2001, il contribuente può dimostrare alternativamente che, per ciascun esercizio, sin dall'inizio del periodo di possesso:
1. il livello di tassazione effettiva scontata nel Paese di residenza della partecipata è superiore al 50 per cento della tassazione nominale italiana;
2. la tassazione effettiva subita dalla partecipata estera è superiore al 50 per cento di quella che avrebbe effettivamente scontato in Italia.
PLUSVALENZE DA CESSIONE DI PARTECIPAZIONI “BLACK LIST” (SOGGETTI IRPEF e IRES)
Le modifiche apportate alle plusvalenze rispecchiano quelle previste per i dividendi e, interessando gli artt. 68 e 86, TUIR, riguardano sia soggetti IRPEF che i soggetti IRES. Peraltro, stante il richiamo operato dall’art. 58, co. 2, TUIR al citato art. 87, le nuove disposizioni sono applicabili anche alle società di persone / imprenditori individuali.
In particolare, fermo restando che le plusvalenze realizzate mediante la cessione di partecipazioni in soggetti “black list” concorrono integralmente (100%) alla formazione del reddito imponibile, salva la dimostrazione della sussistenza delle condizioni di cui al citato art. 87, co. 1, lett. c), ora, analogamente a quanto previsto per i dividendi, ai fini di detta dimostrazione è prevista la facoltatività dell’interpello ex art. 167, co. 5, lett. b), TUIR.
Requisiti PEX
Ai sensi dell’art. 87, co. 1, lett. c), TUIR, può essere dimostrato, anche a seguito di interpello, che dalla partecipazione non sia stato conseguito l’effetto di localizzare i redditi in Stati “black list”.
Ora, con un’integrazione alla citata lett. c), è stabilito che qualora il contribuente intenda far valere tale dimostrazione ma:
• non abbia presentato l’interpello;
ovvero
• pur avendo presentato l’interpello non abbia ottenuto risposta favorevole;
le plusvalenze realizzate devono essere “segnalate” nel mod. UNICO.
SEGNALAZIONE NEL MOD. UNICO
È ora prevista la necessità, da parte del socio residente, di segnalare nel mod. UNICO gli utili percepiti / plusvalenze realizzate riferiti a partecipazioni in soggetti “black list”, qualora intenda far valere le citate condizioni di cui alla citata lett. c) del co. 1 dell’art. 87, ma:
• non abbia presentato l’interpello;
• pur avendo presentato l’interpello, non abbia ricevuto risposta favorevole.
Di consegenza:
Presentazione interpello Risposta Indicazione mod. UNICO | Risposta | Indicazione mod. UNICO |
SI | Favorevole | NO |
NON favorevole | SI | |
NO | ----- | Si |
L’omessa / incompleta indicazione di tali utili / plusvalenze nel mod. UNICO comporta l’applicazione della sanzione di cui al nuovo co. 3-ter dell’art. 8, D.Lgs. n. 471/97, pari al 10% dei dividendi / plusvalenze conseguiti e non indicati, con un minimo di € 1.000 ed un massimo di € 50.000.
CREDITO D’IMPOSTA
Al socio residente è riconosciuto un credito d’imposta (c.d. credito d’imposta indiretto) qualora lo stesso dimostri, ai sensi dell’art. 167, co. 5, lett. a), TUIR, (c.d. prima esimente) lo svolgimento da parte della società / ente non residente, come principale attività, di un’effettiva attività industriale / commerciale.
In particolare, l’articolo 3, comma 1, lettere a) ed e), del decreto internazionalizzazione ha introdotto negli articoli 47, comma 4, e 89, comma 3, del TUIR, rispettivamente relativi ai soggetti IRPEF e ai soggetti IRES, una nuova disposizione in base alla quale, in caso di dimostrazione dell’esimente di cui all’articolo 167, comma 5, lettera a), del TUIR, “è riconosciuto al soggetto controllante residente, ovvero alle sue controllate percipienti gli utili, un credito d’imposta ai sensi dell’art. 165 in ragione delle imposte assolte dalla società partecipata sugli utili maturati durante il periodo di possesso della partecipazione, in proporzione degli utili conseguiti e nei limiti dell’imposta italiana relativa a tali utili”.
Detto credito spetta:
1. per le imposte assolte dalla società partecipata sugli utili maturati durante il periodo di possesso della partecipazione (in quanto è riconosciuto in ragione delle imposte pagate all’estero non dal contribuente beneficiario del credito stesso, ma dalla società partecipata dalla quale provengono gli utili tassati in Italia);
2. in proporzione agli utili conseguiti / partecipazioni cedute;
3. nei limiti dell’imposta italiana relativa a tali utili / plusvalenze.
Gli articoli 47, comma 4, e 89, comma 3, del TUIR, rispettivamente relativi ai soggetti IRPEF e ai soggetti IRES, continuano che “Ai soli fini dell'applicazione dell'imposta, l'ammontare del credito d'imposta di cui al periodo precedente è computato in aumento del reddito complessivo. Se nella dichiarazione è stato omesso soltanto il computo del credito d'imposta in aumento del reddito complessivo, si può procedere di ufficio alla correzione anche in sede di liquidazione dell'imposta dovuta in base alla dichiarazione dei redditi”.
Quindi detto credito:
4. è computato in aumento del reddito complessivo e detratto dall’imposta italiana.
5. Qualora nel mod. UNICO sia omessa soltanto detta indicazione, l’Ufficio procede alla correzione, anche in sede di liquidazione ex art. 36-bis, DPR n. 600/73, dell’imposta dovuta;
6. è riconosciuto per le imposte pagate dalla società controllata a partire “dal quinto periodo d’imposta precedente a quello in corso” al 7.10.2015, ossia generalmente dal 2010.
>> Cir. 35/E/2015 pg. 72. La sussistenza della prima esimente deve ricorrere
sia nel periodo d’imposta in cui gli utili sono stati realizzati dalla società controllata estera,
sia nel periodo d’imposta, eventualmente successivo, in cui sono distribuiti e tassati in capo al socio (con fruizione del credito indiretto).
>> RATIO. Cir. 35/E/2015 pg. 70. La sussistenza di tale circostanza (cd. prima esimente), disciplinata dall’articolo 167, comma 5, lettera a), del TUIR, infatti, se da una parte consente al contribuente di disapplicare la tassazione per trasparenza dei redditi conseguiti dalla CFC, non esplica alcuna rilevanza ai fini del regime ordinario di tassazione, per l’intero ammontare, dei dividendi provenienti da Stati o territori a fiscalità privilegiata. NO CFC_SI TAX INTEGRALE DIVIENDI_SI CREDITO
Sotto questo profilo, come noto, la prima esimente si distingue dalla seconda esimente di cui all’articolo 167, comma 5, lettera b), del TUIR, in quanto quest’ultima rileva, oltre che per la disapplicazione della disciplina CFC, anche per la disapplicazione del concorso integrale alla formazione del reddito dei dividendi, purché la dimostrazione che dalla partecipazione non consegua “l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a regime fiscale privilegiato” sia fornita con riferimento a tutto il periodo di possesso della partecipazione stessa. NO CFC_NO TAX INTEGRALE DIVIENDI_SI CREDITO
La Relazione illustrativa al decreto internazionalizzazione chiarisce che l’attribuzione al socio di controllo di un credito d’imposta indiretto in presenza della prima circostanza esimente ha la finalità di ovviare agli effetti distorsivi connessi alle differenze tra il trattamento fiscale degli utili provenienti da una CFC i cui redditi - in virtù di una norma antielusiva - siano tassati per trasparenza in Italia e quello dei dividendi provenienti da una CFC che costituisce un’effettiva realtà imprenditoriale nel Paese di insediamento.
Nel primo caso, infatti, il contribuente residente ha diritto alla detrazione delle imposte pagate all’estero dalla società controllata dall’imposta italiana dovuta sui redditi imputati per trasparenza; inoltre, l’eventuale distribuzione degli utili della CFC, ai sensi del comma 7 dell’articolo 167 del TUIR, è esclusa da tassazione fino a concorrenza dell’ammontare del reddito assoggettato a tassazione per trasparenza, anche negli esercizi precedenti. Al riguardo, è opportuno ricordare che l’imputazione per trasparenza al socio italiano del reddito della CFC esaurisce il prelievo fiscale in relazione a tale reddito, con la conseguenza che gli utili distribuiti dalla CFC sono totalmente esclusi da tassazione al momento della distribuzione e ciò a prescindere dalla circostanza che l’ammontare degli stessi non coincida con il reddito già assoggettato a tassazione separata in Italia, per effetto delle variazioni in aumento o in diminuzione operate ai fini della determinazione di quest’ultimo (cfr. circolare 51 del 2010, par. 8.3).
Nel secondo caso, invece, gli utili provenienti dalla CFC concorrono integralmente alla formazione del reddito del socio di controllo, con la conseguenza che quest’ultimo, in assenza di un credito d’imposta, potrebbe scontare una tassazione più onerosa di quella che avrebbe subito in caso di tassazione per trasparenza dei redditi della medesima società estera.
Il riconoscimento del credito d’imposta in esame nelle ipotesi di sussistenza della prima esimente rappresenta, quindi, un rimedio ai descritti effetti distorsivi che hanno determinato un’eccessiva penalizzazione di investimenti “genuini” in soggetti esteri che rappresentano delle effettive realtà imprenditoriali nello Stato di localizzazione.
ARTICOLO - Pubblicato il: 12 ottobre 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Novità Dl 147/2015 L’art. 15, D.Lgs. n. 147/2015, c.d. “Decreto Internazionalizzazione”, in attuazione della Riforma fiscale contenuta nella Legge n. 23/2014, sono state apportate alcune modifiche alla disciplina sopra accennata finalizzate ad estendere a tutti i contribuenti le previsioni di cui ai commi 5 (in precedenza applicabile solo alle stabili organizzazioni all’estero / società aderenti al consolidato mondiale) e 6 (in precedenza applicabile solo alle imprese titolari di reddito d’impresa prodotto all’estero), ossia:
- il riconoscimento per competenza del credito d’imposta; si estende a tutti i contribuenti la facoltà (in precedenza prevista per le sole So) di effettuare la detrazione del credito nell’anno di competenza del reddito estero purché il versamento dell’imposta avvenga entro il termine del modello Unico relativo all’esercizio successivo.
- la possibilità di riporto “avanti e indietro” dell’eccedenza d’imposta. Si prevede poi, sempre per tutti i contribuenti, la possibilità di riporto all’indietro (fino a otto esercizi) o in avanti (in caso di incapienza pregressa) della eccedenza di imposta estera rispetto a quella italiana. Questa operazione (attualmente consentita solo alle imprese) si effettua quando l’imposta pagata all’estero supera la corrispondente italiana sul reddito estero.
Dette modifiche, come specificato nella Relazione illustrativa al Decreto in esame, consentono di “eliminare disparità di trattamento presenti nel sistema”. Entrambe le correzioni si applicano già dall’esercizio 2015. Con una norma di natura interpretativa è stata inoltre chiarita la tipologia di imposte estere rilevanti ai fini in esame.
Meccanismo di tassazione dei redditi di fonte estera
Cir. 9/E/2015 La doppia imposizione internazionale è generata dal sovrapporsi di pretese impositive, tra loro concorrenti, di più Stati che radicano le rispettive potestà tributarie sulla base di criteri non coordinati tra loro.Tale conflitto tipicamente si verifica tra Stato della fonte e Stato della residenza, laddove il primo applichi il principio di territorialità e il secondo adotti un approccio di tassazione del reddito mondiale (il cosiddetto “worldwide principle”).
Ai sensi dell’art. 3, co. 1, TUIR, i redditi dei soggetti fiscalmente residenti in Italia prodotti all’estero concorrono a formare il relativo reddito complessivo. Infatti: “L’imposta si applica sul reddito complessivo del soggetto, formato per i residenti da tutti i redditi posseduti …”.
I rimedi alla doppia imposizione che vengono comunemente adottati dagli Stati consistono nel metodo dell’esenzione e in quello del credito d’imposta. Entrambi sono previsti come alternativi nel Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni, all’articolo 23, lettere A e B, che concede agli Stati la libera scelta del metodo con cui sanare la doppia imposizione.
L’ordinamento fiscale italiano ha adottato il credito d’imposta (c.d. “foreign tax credit”) sui redditi prodotti all’estero dai propri residenti, già disciplinato dall’articolo 15 del TUIR e ora dall’art. 165 che riconosce un credito d’imposta (ai fini IRES / IRPEF) per le imposte pagate all’estero.
In particolare, al contribuente è riconosciuta la possibilità di scomputare, in dichiarazione dei redditi, un credito per le imposte pagate a titolo definitivo allo Stato estero correlate ai redditi ivi prodotti.
Tale sistema - a differenza del diverso metodo dell’esenzione, che consolida sempre le imposte del Paese in cui il reddito è prodotto - rende definitivo il livello di imposizione più elevato (quello del Paese della fonte o quello del Paese di residenza).
Con tale metodo, infatti, quando l’imposta estera, rispetto a quella dovuta in Italia (Paese di residenza del contribuente) è:
- inferiore, occorre versare all’Erario italiano la differenza;
- superiore, non si dà luogo a “restituzione” dell’eccedenza, in quanto il credito – come meglio si chiarirà – compete solo fino a concorrenza dell’imposta italiana relativa al reddito estero.
La disciplina del credito d’imposta in esame è stata oggetto di una serie di chiarimenti da parte dell’Agenzia delle Entrate con la Circolare 5.3.2015, n. 9/E.
INDIVIDUAZIONE DEL CREDITO D’IMPOSTA
Ai sensi del comma 1 dell’articolo 165 del TUIR, 1. Se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi prodotti all'estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione dall'imposta netta dovuta fino alla concorrenza della quota d'imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all'estero ed il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d'imposta ammesse in diminuzione.
Le tre condizioni richieste dalla disposizione in commento sono:
1) la produzione di un reddito all’estero;
2) il concorso di quel reddito estero alla formazione del reddito complessivo del residente;
3) il pagamento di imposte estere a titolo definitivo.
1) Il reddito prodotto all’estero
Ai sensi del comma 2 dell’articolo 165 del TUIR, “i redditi si considerano prodotti all’estero sulla base di criteri reciproci a quelli previsti dall’articolo 23 per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato”.
L’ordinamento accoglie, pertanto, il cosiddetto criterio della lettura “a specchio”, secondo cui i redditi si considerano prodotti all’estero sulla base dei medesimi criteri di collegamento enunciati dall’articolo 23 del TUIR per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato.
La definizione interna di “reddito prodotto all’estero” si rende applicabile solo nei casi in cui non sia in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni tra l’Italia e lo Stato della fonte del reddito.
Quindi:
1. In presenza di Convenzione: i criteri di collegamento non operano in presenza di una Convenzione che contenga una disposizione analoga a quella di cui all’articolo 23B del Modello OCSE, che elimina la doppia imposizione con il metodo del credito,consentendo al contribuente di detrarre dall’imposta sul reddito dovuta nello Stato di residenza le imposte pagate all’estero sui redditi ivi prodotti. In applicazione della norma convenzionale, pertanto, il diritto al credito viene riconosciuto in riferimento a qualsiasi elemento di reddito che lo Stato della fonte ha assoggettato ad imposizione conformemente alla specifica Convenzione applicabile.
2. In mancanza di una Convenzione: occorre fare riferimento all’articolo 23 del TUIR secondo cui, ai fini dell’applicazione dell’imposta nei confronti dei non residenti, un reddito è da considerare come prodotto nel territorio dello Stato, quando sia possibile stabilirne il collegamento con una fonte produttiva situata in Italia, sulla base di precisi parametri che il legislatore interno ha tipizzato. Reciprocamente, ai sensi del comma 2 dell’articolo 165 del TUIR, un reddito si considera prodotto all’estero (ai fini dell’attribuzione del foreign tax credit ai residenti) soltanto nelle ipotesi esattamente speculari a quelle previste dai commi 1 e 2 dell’articolo 23 del TUIR, a prescindere dai criteri di collegamento adottati dallo Stato della fonte.
La cir. 9/E/2015 affronta delle criticità che possono porsi a seguito della lettura a specchio dell’art. 23 nei casi di:
- singoli elementi di reddito (interssi, dividendi, royalties) conseguiti all’estro da società ed enti commerciali residenti senza stabile organizzazione: il principio del trattamento isolato dei radditi sancito dall’art. 152 co. 2 del Tuir – secondo il quale per le imprese estere senza stabile organzzazione il reddito si determini dalla sommatoria delle singole categorie di reddito e non si trasformi in reddito d’impresa – trova applicazione anche pe i snogli ementi reddituali prodotti all’estero dalle imprese sendenti in assenza di stabile organizzazione.
- una impresa residente produce all’estero redditi che non sono riducibili a una della singole categorie dell’art. 23:le imposte estere che difettano del presupposto applicativo dell’articolo 165 del TUIR possono essere considerate componenti negativi deducibili ai fini della determinazione del reddito complessivo in quanto costi inerenti l’attività d’impresa, conformemente alle indicazioni della risalente risoluzione 12 marzo 1979, n. 416.
- particolari ipotesi che l’articolo 23 del TUIR esclude da tassazione in Italia. Si tratta di specifiche fattispecie che, pur essendo riconducibili a categorie di reddito (redditi di capitale o redditi diversi) considerate imponibili in capo a soggetti non residenti, costituiscono una deroga al principio di territorialità. Al riguardo, si evidenziano:
1. gli “interessi e gli altri proventi derivanti da depositi e conti correnti bancari e postali”, che, ai sensi dell’ultimo periodo del comma 1, lettera b), del citato articolo 23 del TUIR, non costituiscono redditi prodotti nel territorio nazionale se percepiti da non residenti, nonostante siano corrisposti da soggetti residenti o da stabili organizzazioni nel territorio stesso di soggetti non residenti;
2. i redditi diversi di cui ai numeri da 1 a 3 della lettera f), comma 1, dell’articolo 23 del TUIR, che non sono da considerare come “prodotti” nel territorio dello Stato se percepiti da non residenti. Si tratta delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni non qualificate in società residenti negoziate in mercati regolamentati; delle plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso ovvero da rimborso di titoli non rappresentativi di merci e di certificati di massa negoziati in mercati regolamentati, nonché da cessione o da prelievo di valute estere rivenienti da depositi e conti correnti; dei redditi di cui alle lettere c-quater) e c-quinquies) dell’articolo 67 del TUIR, derivanti da contratti conclusi, anche attraverso l’intervento di intermediari, in mercati regolamentati.
L’esclusione dall’ambito applicativo dell’articolo 23 del TUIR dei predetti redditi, determinata da scelte di opportunità operate dal legislatore, non modifica, tuttavia, il collegamento oggettivo tra la fonte produttiva dei medesimi e il territorio dello Stato. Secondo la Cir. 9/E/2016 tale esclusione non pregiudichi il diritto al credito per le imposte estere pagate da soggetti residenti in relazione ad analoghe tipologie reddituali che siano state assoggettate a tassazione nel Paese della fonte, in conformità a parametri di collegamento coerenti con quelli affermati dall’articolo 23 del TUIR.
2) Il concorso di quel reddito estero alla formazione del reddito complessivo del residente
Cir. 9/E/2015 p.13 Per beneficiare del credito d’imposta previsto dall’articolo 165 del TUIR è necessario che i redditi prodotti all’estero concorrano alla formazione del reddito complessivo del soggetto residente.
L’istituto non è quindi applicabile in presenza di redditi assoggettati a ritenuta a titolo
- di imposta,
- a imposta sostitutiva o
- a imposizione sostitutiva operata dallo stesso contribuente in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi ai sensi dell’articolo 18 del TUIR.
Sulla base di tale disposizione, infatti, i redditi di capitale corrisposti da soggetti non residenti e percepiti direttamente all’estero senza l’intervento di un sostituto d’imposta sono soggetti, a cura del contribuente, in occasione della presentazione della dichiarazione dei redditi, ad imposizione sostitutiva nella stessa misura delle ritenute a titolo d’imposta che sarebbero applicate se tali redditi fossero corrisposti da sostituti d’imposta o intermediari italiani.
In relazione a tali redditi, la norma dispone, inoltre, che “il contribuente ha facoltà di non avvalersi del regime di imposizione sostitutiva ed in tal caso compete il credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero”.
Tuttavia, ai sensi di quanto disposto dall’articolo 4, comma 2, del d.lgs. n. 239 del 1996, non possono comunque usufruire dell’imposizione ordinaria le persone fisiche, le società semplici e i soggetti equiparati, gli enti pubblici e privati, inclusi i trust, residenti in Italia che non hanno quale oggetto principale l’esercizio di attività commerciali, nonché i soggetti esenti da IRES, in relazione agli interessi, ai premi e agli altri frutti derivanti da obbligazioni e titoli similari esteri per i quali il contribuente, in sede di dichiarazione dei redditi, è tenuto obbligatoriamente ad autoliquidare l’imposta sostitutiva ivi prevista.
Inoltre, in applicazione dell’articolo 27, comma 4, del DPR n. 600/1973, non possono usufruire dell’imposizione ordinaria neanche gli utili di cui all’articolo 44, comma 2, lettera a), ultimo periodo, del TUIR, relativi a partecipazioni non qualificate in soggetti esteri, nonché i proventi derivanti da contratti di associazione in partecipazione e cointeressenza di cui all’articolo 109, comma 9, lettera b) del TUIR stipulati con soggetti esteri e caratterizzati da apporti diversi da opere e servizi e di natura “non qualificata”.
Mentre, per esplicita disposizione dell’articolo 26-ter del DPR n. 600/1973, i redditi di cui all’articolo 44, comma 1, del TUIR, lettere g-quater) (i redditi compresi nei capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione) e g-quinquies) (i redditi derivanti dai rendimenti delle prestazioni pensionistiche di cui alla lettera h-bis) del comma 1 dell’articolo 50 del TUIR erogate in forma periodica e delle rendite vitalizie aventi funzione previdenziale), percepiti direttamente dall’estero, possono usufruire in sede di dichiarazione dei redditi dell’imposizione sostitutiva o, in alternativa, dell’imposizione ordinaria.
Le imposte estere che danno diritto al credito
Cir. 9/E/2015 p.15 Le imposte pagate all’estero a titolo definitivo, come evidenziato dall’Agenzia nella citata Circolare n. 9/E, sono rappresentate dai “tributi stranieri che si sostanziano in un’imposta sul reddito o, quanto meno, in tributi di natura similare”.
Posto che l’individuazione dei tributi accreditabili a tali fini non è sempre agevole, l’Agenzia ha chiarito che:
- rientrano senz’altro tra i tributi aventi tale natura quelli oggetto della Convenzione contro le doppie imposizioni tra lo Stato estero e l’Italia;
- qualora sussista incertezza circa la natura del tributo è consentito presentare un’istanza di interpello.
Con una disposizione di natura interpretativa il co. 2 dell’art. 15 del Dl 147/2016 chiarisce che: “sono ammesse in detrazione sia le imposte estere oggetto di una convenzione contro le doppie imposizioni in vigore tra l’Italia e lo Stato estero in cui il reddito che concorre alla formazione dell’imponibile è prodotto sia le altre imposte o gli altri tributi esteri sul reddito. Nel caso in cui sussistano obiettive condizioni di incertezza in merito alla natura di un tributo estero non oggetto delle anzidette convenzioni, il contribuente può inoltrare all’amministrazione finanziaria istanza d’interpello …”.
Di conseguenza, le imposte che attribuiscono il diritto al credito d’imposta sono rappresentate:
• dalle imposte estere oggetto della Convenzione contro le doppie imposizioni;
• dalle altre imposte / tributi esteri sul reddito.
Relativamente alle imposte non ricomprese nella Convenzione, in presenza di obiettive condizioni di incertezza, il contribuente può presentare un’istanza di interpello ex art. 11, Legge n. 212/2000.
A tale ultimo proposito va evidenziato che la disciplina degli interpelli è stata rivista con il D.Lgs. n. 156/2015.
3) La definitività delle imposte pagate all’estero
Cir. 9/E/2015 p.16 Come già affermato nella circolare del 12 giugno 2002, n. 50, la definitività dell’imposta pagata all’estero coincide con la sua “irripetibilità”, ossia con la circostanza che essa non è più suscettibile di modificazione a favore del contribuente.
>>Al contrario, rimane irrilevante il fatto che l’imposta possa essere modificata in peius a sfavore del contribuente, come nel caso in cui la stessa si riferisca a redditi ancora assoggettabili ad accertamento da parte delle Amministrazioni fiscali degli Stati esteri.
>>Come già era stato affermato con circolare 8 febbraio 1980, n. 3, la correlazione esistente tra imposta pagata in via definitiva e il relativo reddito non esclude che l’imposta possa essere considerata “definitiva” anche qualora il reddito sia ancora suscettibile di verifica nello Stato estero in cui viene prodotto.
>>Non possono, invece, considerarsi definitive le imposte pagate in acconto o in via provvisoria e quelle per le quali è prevista, sin dal momento del pagamento, la possibilità di rimborso totale o parziale, anche mediante “compensazione” con altre imposte dovute nello Stato estero.
Per quanto riguarda le imposte suscettibili di parziale rimborso, queste possono essere comunque detratte, al netto del rimborso spettante, sempre che si possa considerare certo il relativo ammontare alla data di presentazione della dichiarazione dei redditi in Italia.
Si chiarisce, inoltre, che le imposte estere devono considerarsi “pagate a titolo definitivo” nel periodo d’imposta in cui le stesse sono state versate al Fisco estero, a nulla rilevando il periodo d’imposta in cui il beneficiario del reddito estero è venuto in possesso della relativa certificazione. La certificazione, infatti, ha valenza meramente probatoria e, pertanto, non determina la definitività del pagamento del tributo. Sarà, quindi, premura del contribuente munirsi tempestivamente della documentazione idonea a dimostrare il pagamento dell’imposta nello Stato estero.
Al riguardo, si ritiene che, ai fini della verifica della detrazione spettante, il contribuente è tenuto a conservare i seguenti documenti:
- un prospetto recante l’indicazione, separatamente Stato per Stato, dell’ammontare dei redditi prodotti all’estero, l’ammontare delle imposte pagate in via definitiva in relazione ai medesimi, la misura del credito spettante, determinato sulla base della formula di cui al primo comma dell’articolo 165 del TUIR ( RE/RCN x Imposta Italiana);
- la copia della dichiarazione dei redditi presentata nel Paese estero, qualora sia ivi previsto tale adempimento;
- la ricevuta di versamento delle imposte pagate nel Paese estero;
- l’eventuale certificazione rilasciata dal soggetto che ha corrisposto i redditi di fonte estera;
- l’eventuale richiesta di rimborso, qualora non inserita nella dichiarazione dei redditi.
Un’ulteriore condizione di non detraibilità si ha nel caso di imposte eventualmente corrisposte in via provvisoria in pendenza di un procedimento contenzioso estero. In tale caso specifico, il requisito della definitività delle imposte estere si realizza nel periodo d’imposta in cui si conclude in via definitiva il contenzioso.
Nel caso in cui un soggetto residente in Italia produca reddito in uno Stato con cui è in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni, è possibile computare il credito per le imposte pagate all’estero nel limite della ritenuta convenzionale. Se lo Stato estero ha applicato una ritenuta più alta di quella convenzionale, la differenza, non accreditabile in Italia, potrà essere oggetto di rimborso nello Stato estero, secondo le modalità ivi previste.
LA DETERMIANZIONE DEL CREDITO D’IMPOSTA
Cir. 9/E/2015 p.20 Il comma 1 dell’articolo 165 del TUIR prevede la regola generale per il calcolo del foreign tax credit, stabilendo che le imposte estere pagate a titolo definitivo sono detraibili dall’imposta netta dovuta, nei limiti della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi esteri e il reddito complessivo, al netto delle perdite dei precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione.
Quanto sopra può essere reso con la seguente formula:
RE x imposta italiana
RCN
dove RE è il reddito estero e
RCN è il reddito complessivo al netto delle perdite dei pregressi periodi d’imposta.
>>l’accreditamento delle imposte estere non può essere superiore alla quota d’imposta italiana (di seguito, anche “LIMITE 1”), corrispondente al rapporto sopra indicato, da assumere – in ogni caso – nei limiti dell’imposta netta (nel prosieguo, anche “LIMITE 2”) dovuta per il periodo d’imposta in cui il reddito estero ha concorso al complessivo reddito imponibile.
>> Secondo la Cir. 9/E/2015 il rapporto in esame, tra il reddito estero (RE) e il reddito complessivo al netto delle perdite di esercizi precedenti (RCN), può risultare superiore ad “1” quando le perdite, coeve e/o pregresse, sono così elevate da assorbire interamente il reddito di fonte italiana e parte di quello estero. In tal caso, come conferma anche la Relazione al decreto legislativo n. 344 del 2003, e come già chiarito nelle istruzioni ai modelli di dichiarazione, il rapporto si considera pari a “1”, non potendo l’imposta relativa al reddito estero essere riconosciuta in misura superiore all’imposta effettivamente dovuta, poiché, altrimenti, si determinerebbe un finanziamento delle imposte estere.
Si ipotizzi, al riguardo, la seguente situazione di un soggetto IRES:
Esempio n. 1 - Contribuente con reddito di fonte estera di ammontare superiore al reddito complessivo netto
Reddito di fonte estera (RE) 100
Reddito di fonte italiana 200
Perdite pregresse 250
Reddito complessivo netto (RCN) 50
Ires (aliquota del 27,5%) 13,75
Imposta estera (aliquota del 30%) 30
In tal caso, applicando, senza correttivo, la formula già vista, avremmo:
100(RE) = 2 x 13,75 (imposta italiana)=27,5
50 (RCN)
Il rapporto RE/RCN, che nell’esempio è uguale a “2”, dovrà intendersi acquisito in misura tale da non superare l’unità e l’imposta estera sarà detraibile solo nei limiti di quella italiana, che nell’esempio è pari a 13,75.
Peraltro, qualora si tratti di reddito d’impresa prodotto all’estero, resta ferma la possibilità di recuperare l’imposta estera eccedente la quota d’imposta italiana - nei limiti dell’imposta netta dovuta di periodo - con il meccanismo del riporto delle eccedenze, di cui al comma 6 dell’articolo 165 del TUIR.
I singoli elementi del rapporto
Cir. 9/E/2015 p.22 Il numeratore del rapporto (RE) di cui al comma 1 è rappresentato dal reddito estero che ha concorso a formare il reddito complessivo in Italia.
>> E’ rideterminato in base alle disponibili fiscali italiane
>> Il reddito estero, diverso da quelli d’impresa e di lavoro autonomo, va computato al lordo dei costi sostenuti per la sua produzione. Ciò, secondo la Cir. 9/E/2015, in ragione delle obiettive difficoltà nella determinazione e nel controllo dei costi effettivamente imputabili a singoli elementi reddituali. La diversa composizione del numeratore (reddito estero al lordo dei costi) rispetto al denominatore del rapporto (reddito complessivo al netto dei costi di produzione), potrebbe essere strumentalizzata mediante operazioni finalizzate a un’indebita “monetizzazione” del credito d’imposta. Spetta sempre all’Amministrazione il diritto al suo disconoscimento in forza della norma antielusiva (prima) abuso del dirtto ora.
Quanto al denominatore del rapporto (RCN), il reddito complessivo è assunto “al netto” delle perdite dei precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione, e non più “al lordo” come nella previgente disciplina, secondo cui l’imposta italiana veniva determinata in modo virtuale e assunta per un ammontare pari non a quello effettivo, bensì a quello che sarebbe stato dovuto in relazione al reddito complessivo aumentato delle perdite pregresse.
Con riferimento all’attuale disciplina, invece, la Relazione illustrativa al decreto legislativo n. 344 del 2003 evidenzia che “l’imposta italiana va considerata per il suo ammontare effettivo senza dover procedere, come per il passato, alla ricostruzione virtuale della medesima al fine di evitare l’effetto derivante dal riporto delle perdite pregresse”.
IL PERIODO D’IMPOSTA IN CUI SPETTA IL CREDITO
..4 La detrazione di cui al co. 1 deve essere calcolata nella dichiarazione relativa al periodo d'imposta cui appartiene il reddito prodotto all'estero al quale si riferisce l'imposta di cui allo stesso co. 1, a condizione che il pagamento a titolo definitivo avvenga prima della sua presentazione. Nel caso in cui il pagamento a titolo definitivo avvenga successivamente si applica quanto previsto dal co. 7.
7. Se l'imposta dovuta in Italia per il periodo d'imposta nel quale il reddito estero ha concorso a formare l'imponibile è stata già liquidata, si procede a nuova liquidazione tenendo conto anche dell'eventuale maggior reddito estero, e la detrazione si opera dall'imposta dovuta per il periodo d'imposta cui si riferisce la dichiarazione nella quale è stata richiesta.
Se è già decorso il termine per l'accertamento, la detrazione è limitata alla quota dell'imposta estera proporzionale all'ammontare del reddito prodotto all'estero acquisito a tassazione in Italia.
Il comma 4 dell’articolo 165 del TUIR stabilisce la regola generale secondo cui
- la detrazione deve essere calcolata nella dichiarazione relativa al periodo cui “appartiene” il reddito prodotto all’estero al quale si riferisce l’imposta,
- a condizione che il pagamento a titolo definitivo avvenga prima della sua presentazione.
Pertanto, se il reddito estero ha concorso alla formazione del reddito complessivo del soggetto residente nel periodo d’imposta 2016, la detrazione spetta dall’imposta dovuta per il 2016, sempre che il pagamento a titolo definitivo dell’imposta estera si verifichi prima della presentazione della relativa dichiarazione dei redditi.
>> Tale principio trova applicazione anche nel caso in cui il contribuente presenti la dichiarazione tardivamente, purché entro i novanta giorni successivialla scadenza dell’ordinario termine. Ciò in quanto, ai sensi dell’articolo 2, comma 7, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, la dichiarazione presentata con ritardo non superiore ai novanta giorni dalla scadenza dell’ordinario termine di presentazione si considera valida, salva la sanzione applicabile per il ritardo.
In questa evenienza, la detrazione potrà essere operata in tale sede, a condizione che l’imposta estera sia stata già pagata a titolo definitivo.
>> Resta inteso che qualora il pagamento a titolo definitivo delle imposte estere avvenga in un periodo precedente a quello in cui il reddito prodotto all’estero concorre alla formazione del reddito complessivo del residente, la detrazione deve essere calcolata nella dichiarazione relativa al periodo di appartenenza in Italia di tale reddito estero.
Nel caso in cui, invece, il suddetto pagamento si verifichi successivamente alla presentazione della dichiarazione relativa al periodo in cui il reddito estero ha concorso a formare l’imponibile in Italia, occorrerà procedere, ai sensi del comma 7 dell’articolo 165 del TUIR, a una nuova liquidazione dell’imposta dovuta per tale periodo. In tal caso, il credito spettante dovrà essere richiesto in detrazione nella prima dichiarazione utile rispetto al momento in cui si renderà definitiva l’imposizione all’estero, fermo restando che la quota d’imposta italiana e l’imposta netta dovuta, rilevanti ai fini del computo della detrazione, saranno quelle relative al periodo d’imposta in cui il reddito estero ha concorso alla formazione del reddito complessivo.
Esempio n. 2 – Definitività dell’imposta estera in un periodo successivo a quello in cui il reddito estero ha concorso a formare il reddito complessivo
Periodo d’imposta N :
Reddito di fonte estera Stato A (RE)100
Reddito di fonte italiana 200
Reddito complessivo netto (RCN) 300
Imposta netta dovuta in Italia 82,5
Imposta estera pagata a titolo definitivo 0
Periodo d’imposta N + 2:
Reddito di fonte estera Stato A (RE) 0
Reddito di fonte italiana 200
Reddito complessivo netto (RCN) 200
Imposta netta dovuta in Italia 55
Imposta estera pagata a titolo definitivo sul RE che ha concorso nel periodo N 20
Nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo N +2, nel corso del quale è stata pagata a titolo definitivo un’imposta estera pari a 20, relativa al reddito di 100 che ha concorso alla formazione dell’imponibile nel periodo d’imposta N, potrà essere richiesto il credito per le imposte pagate nello Stato A, sulla base dei dati del periodo N, di appartenenza del reddito:
Limite credito d’imposta calcolato in riferimento ai dati del periodo N:
-Quota d’imposta italiana relativa al reddito estero = 100 x 82,5 = 27,5
300
-Detrazione spettante = 20 (20 < 27,5)6
La detrazione spettante potrà essere operata dall’imposta, pari a 55, dovuta nel periodo N + 2.
>> Quanto alla nozione di “appartenenza” di un reddito a un determinato periodo di imposta, si ritiene che debba essere intesa nel senso che a ciascuna categoria reddituale o singolo elemento di reddito si applicano le relative regole d’imputazione temporale previste dal testo unico delle imposte sui redditi. E così – ad esempio – i redditi di lavoro autonomo o di capitale o le royalties, percepite da un soggetto residente al di fuori dell’esercizio di impresa “appartengono” al periodo in cui devono essere assoggettati a tassazione secondo il criterio di cassa. Diversamente, il reddito d’impresa prodotto all’estero tramite una stabile organizzazione appartiene al periodo in cui, secondo il principio di competenza, concorrerà all’imponibile al pari dei singoli elementi di reddito (interessi o royalties) conseguiti nell’esercizio di impresa da un soggetto residente, anche senza stabile organizzazione. Fanno eccezione i dividendi che concorrono a formare il reddito d’impresa nel periodo in cui sono percepiti, ai sensi degli articoli 59 e 89 del TUIR.
>> In virtù del primo comma dell’articolo 165 del TUIR, l’imposta netta dovuta nel periodo di appartenenza del reddito estero costituisce il limite massimo entro cui può essere concesso il credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero. Tale disposizione non è contraddetta, né derogata dall’articolo 11, comma 4, del TUIR, che testualmente prevede che “dall’imposta netta si detrae l’ammontare dei crediti di imposta spettanti al contribuente a norma dell’art. 165. Se l’ammontare dei crediti di imposta è superiore a quello dell’imposta netta il contribuente ha diritto, a sua scelta, di computare l’eccedenza in diminuzione dell’imposta relativa al periodo d’imposta successivo o di chiederne il rimborso in sede di dichiarazione dei redditi”. La disposizione, che si coordina con quella dell’articolo 22, comma 1, lettera a) del TUIR, lascia, infatti, impregiudicate le modalità di determinazione del credito previste dall’articolo 165 del TUIR.
Con il citato articolo 11 del TUIR, il legislatore ha inteso regolare l’ipotesi in cui l’imposta netta del periodo in cui il tributo estero diviene definitivo e, quindi, scomputabile, sia inferiore a quella del periodo in cui il reddito estero ha concorso alla formazione del reddito e che rileva ai fini della determinazione dell’imposta estera detraibile. In tal caso, potrebbe accadere che il credito o i crediti d’imposta per i redditi prodotti all’estero maturati nel periodo di produzione del reddito non siano integralmente assorbiti dall’imposta netta del periodo in cui il tributo estero è detraibile. A tale fine, il legislatore ha previsto la possibilità per il contribuente di scegliere tra il computo dell’eccedenza in diminuzione dell’imposta relativa al periodo successivo e la richiesta di rimborso, da effettuare in sede di dichiarazione dei redditi. Inoltre, tale differenza potrà essere utilizzata in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241.
Il periodo d’imposta in cui può essere operata la detrazione
5. La detrazione di cui al co. 1 può essere calcolata dall'imposta del periodo di competenza anche se il pagamento a titolo definitivo avviene entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al primo periodo d'imposta successivo. L'esercizio della facoltà di cui al periodo precedente è condizionato all'indicazione, nelle dichiarazioni dei redditi, delle imposte estere detratte per le quali ancora non è avvenuto il pagamento a titolo definitivo.
Il D.Lgs. n. 147/2015 ha esteso anche ai soggetti diversi dai titolari di reddito d’impresa prodotto all’estero tramite stabile organizzazione / società aderenti al consolidato mondiale la possibilità di scomputare il credito d’imposta dalle imposte dovute anche nel caso in cui le imposte estere siano divenute definitive entro il termine di presentazione del mod. UNICO del primo periodo d’imposta successivo.
Tale facoltà, ora consentita a tutti i contribuenti, è subordinata all’indicazione, nella dichiarazione dei redditi, delle imposte estere detratte per le quali non è ancora intervenuto il pagamento a titolo definitivo.
Come stabilito dal co. 3 del citato art. 15, le novità in esame sono applicabili “a decorrere dal periodo l’imposta in corso alla data di entrata in vigore del … decreto”.
La norma prevede che la detrazione del foreign tax credit possa essere operata dall’imposta del periodo di competenza anche se il pagamento a titolo definitivo avviene entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al primo periodo d’imposta successivo. L’esercizio di tale facoltà è condizionato all’indicazione, nella dichiarazione dei redditi, delle imposte estere detratte per le quali non è ancora avvenuto il pagamento a titolo definitivo.
>> A differenza di quanto chiarito a commento del comma 4 dell’articolo 165 del TUIR, il termine previsto dal comma 5 è il termine di scadenza stabilito per la presentazione della dichiarazione relativa al primo periodo d’imposta successivo a quello di competenza.
Ad esempio, per i soggetti con l’esercizio coincidente con l’anno solare, l’ultima data utile per i redditi prodotti nel 2014 è il 30 settembre 2016, anche nel caso in cui la dichiarazione dei redditi venga presentata successivamente, con ritardo non superiore ai 90 giorni. Ciò si desume dal tenore letterale della disposizione contenuta nel comma 5 che richiede che il pagamento si verifichi entro il “termine di presentazione della dichiarazione” e non, invece, “prima della presentazione” della dichiarazione, come previsto nel precedente comma 4.
>> La norma subordina la legittimità della detrazione del credito per competenza alla condizione che il pagamento definitivo delle imposte estere avvenga nei termini previsti. Il mancato pagamento delle imposte estere entro il termine indicato comporta il venir meno retroattivamente degli effetti dell’opzione e rende indebita la detrazione operata. A seguito di controllo formale della dichiarazione, l’imposta indebitamente detratta è, pertanto, iscritta a ruolo ai sensi dell’articolo 36-ter del D.P.R. n. 600 del 1973, così come la sanzione per omesso versamento di cui all’articolo 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 e gli interessi, calcolati a partire dal giorno successivo a quello di scadenza del pagamento fino alla data di consegna al concessionario del ruolo.
>> Inoltre, il contribuente può avvalersi della facoltà prevista dall’articolo 2, comma 8, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, in base al quale la dichiarazione dei redditi può essere integrata per correggere errori od omissioni mediante una successiva dichiarazione da presentare non oltre i termini di decadenza dell’azione di accertamento e, quindi, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la prima dichiarazione. In tal caso, il contribuente, ricorrendone i presupposti, può avvalersi del ravvedimento operoso disciplinato dall’articolo 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, beneficiando della riduzione delle sanzioni.
Le modalità di calcolo delle eccedenze e il riporto all’indietro (carry back) e in avanti (carry forward)
6. L'imposta estera pagata a titolo definitivo su redditi prodotti nello stesso Stato estero eccedente la quota di imposta italiana relativa ai medesimi redditi esteri, costituisce un credito d'imposta fino a concorrenza della eccedenza della quota d'imposta italiana rispetto a quella estera pagata a titolo definitivo in relazione allo stesso reddito estero, verificatasi negli esercizi precedenti fino all'ottavo. Nel caso in cui negli esercizi precedenti non si sia verificata tale eccedenza, l'eccedenza
dell'imposta estera può essere riportata a nuovo fino all'ottavo esercizio successivo ed essere utilizzata quale credito d'imposta nel caso in cui si produca l'eccedenza della quota di imposta italiana rispetto a quella estera relativa allo stesso reddito di cui al primo periodo del presente co.. Le disposizioni di cui al presente co. relative al riporto in avanti e all'indietro dell'eccedenza si applicano anche ai redditi d'impresa prodotti all'estero dalle singole società partecipanti al consolidato nazionale e mondiale, anche se residenti nello stesso Paese, salvo quanto previsto
dall'art. 136, co. 6.
Il D.Lgs. n. 147/2015 ha previsto l’estensione del riporto in avanti e indietro anche in presenza di reddito non rientrante tra quello “d’impresa prodotto, da imprese residenti, nello stesso Paese estero”.
Di conseguenza detta possibilità è ora consentita a tutti i contribuenti.
Come stabilito dal co. 3 del citato art. 15, le novità in esame sono applicabili “a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del … decreto”.
Per quanto attiene alla pratica applicazione dell’istituto, il comma 6 prevede la rilevazione di due opposte eccedenze:
- dell’imposta estera pagata a titolo definitivo che eccede la quota di imposta italiana relativa al reddito prodotto nel medesimo Paese (indicata, negli esempi, come “Ecc IE”, che confluisce nel relativo basket);
- della quota d’imposta italiana che eccede le imposte estere pagate su tale reddito Paese (indicata, negli esempi, come “Ecc II”, che confluisce nel relativo basket).
Tramite il riporto avanti (“carry forward”) e indietro (“carry back”) è consentita la compensazione delle predette eccedenze.
In particolare, l’eccedenza d’imposta estera può essere computata a credito fino a concorrenza dell’eccedenza d’imposta italiana.
Quanto residua (o l’intero ammontare se nel periodo di riferimento non si è formata eccedenza d’imposta italiana) può essere riportato a nuovo fino all’ottavo esercizio successivo ed essere utilizzato quale credito al verificarsi, nello Stato estero, dell’opposta eccedenza della quota d’imposta italiana.
Alla scadenza dell’ultimo periodo in cui è consentito il riporto, l’ammontare residuo viene azzerato e non può essere portato a riduzione del reddito del soggetto residente né altrimenti recuperato in Italia.
Omessa dichiarazione redditi prodotti all’estero - art. 165, comma 8, del TUIR e dichiarazione integrativa
8. La detrazione non spetta in caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione dei redditi prodotti all'estero nella dichiarazione presentata.
Il comma 8 dell’articolo 165 del TUIR nega il diritto alla detrazione delle imposte pagate all’estero in caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione dei redditi prodotti all’estero. In base a tale disposizione, il contribuente non può fruire del credito di cui all’articolo 165 del TUIR qualora la dichiarazione relativa all’annualità oggetto di controllo sia omessa (o debba essere considerata tale) o il reddito estero non sia stato dichiarato.
Con specifico riferimento alle ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione, si rammenta che ai sensi dell’articolo 2, comma 7, ultimo periodo, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, si considerano omesse le dichiarazioni presentate con un ritardo superiore a novanta giorni. Pertanto al contribuente spetta il credito di imposta in caso di presentazione tardiva della dichiarazione se tale presentazione avviene entro i novanta giorni successivi al termine ordinario.
Diversamente, il comma 8 dell’articolo 165 del TUIR preclude la detrazione delle imposte pagate all’estero nel caso di dichiarazioni presentate con un ritardo superiore a novanta giorni, dal momento che queste ultime sono da ritenersi omesse, benché costituiscano titolo per la riscossione degli imponibili in esse indicati.
Per quanto riguarda, invece, le ipotesi di omessa indicazione nella dichiarazione presentata in Italia dei redditi prodotti all’estero, è opportuno chiarire, in via preliminare, che tale fattispecie si verifica nel caso in cui nella predetta dichiarazione non risulti indicato un reddito estero derivante dalla medesima fonte produttiva e appartenente alla medesima categoria reddituale. Ciò significa che il comma 8 dell’articolo 165 del TUIR non è applicabile ad un soggetto residente che, ad esempio, abbia parzialmente dichiarato il reddito di impresa prodotto da una propria stabile organizzazione all’estero.
Inoltre, la disposizione in commento deve essere coordinata con l’articolo 2, comma 8, del citato D.P.R. 322 del 1998 che prevede la possibilità per il contribuente di integrare la dichiarazione dei redditi per correggere errori od omissioni, mediante una successiva dichiarazione da presentare, utilizzando modelli conformi a quelli approvati per il periodo d’imposta al quale si riferisce la dichiarazione, non oltre i termini stabiliti per l’accertamento.
Tale possibilità, quindi, consente al contribuente di dichiarare un reddito estero non indicato nella dichiarazione originaria e di sanare, in tal modo, la violazione commessa.
In questo caso, il reddito oggetto di integrazione deve ritenersi, comunque, dichiarato e conseguentemente al contribuente spetta la detrazione delle imposte pagate all’estero.
Parziale concorso del reddito estero alla formazione del reddito complessivo e misura del credito
10. Nel caso in cui il reddito prodotto all'estero concorra parzialmente alla formazione del reddito complessivo, anche l'imposta estera va ridotta in misura corrispondente.
Il comma 10 dell’articolo 165 del TUIR stabilisce che quando il reddito estero concorre parzialmente alla formazione del reddito complessivo, l’imposta estera detraibile deve essere ridotta in misura corrispondente.
>>La riduzione dell’imposta estera detraibile, nei limiti della quota imponibile del reddito estero, non riguarda le ipotesi in cui – per effetto di differenti modalità di determinazione del reddito nei vari ordinamenti – l’ammontare del reddito estero assoggettato a tassazione in Italia non corrisponda al quantum tassato nello Stato estero. Ciò si verifica, ad esempio, per il reddito delle stabili organizzazioni all’estero o per il reddito di lavoro dipendente prestato all’estero diverso da quello determinato ai sensi dell’articolo 51, comma 8-bis, del TUIR, essendo diverse le regole di determinazione vigenti nei vari Paesi.
Es: caso di dividendi di fonte estera. Gli articoli 89 e 47 del TUIR prevedono una parziale esclusione dei dividendi percepiti da residenti, che sono assoggettati a imposta nei limiti del 5 per cento e del 49,72 per cento, a seconda che il percettore sia rispettivamente un soggetto IRES o una persona fisica titolare di partecipazioni qualificate. Le imposte pagate all’estero in via definitiva su tali redditi devono essere assunte, ai fini del calcolo del credito spettante, in misura pari al 5 o al 49,72 per cento del loro ammontare, ossia nella stessa percentuale nella quale i dividendi concorrono - avuto riguardo alla natura del socio - alla formazione del reddito.
Es: redditi derivanti da attività di lavoro subordinato prestata all’estero in via continuativa di cui al citato articolo 51, comma 8-bis, del TUIR, determinati in base alle retribuzioni convenzionali definite annualmente con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. L’articolo 36, comma 30, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, infatti, ha introdotto una norma di interpretazione autentica secondo la quale in caso di reddito calcolato convenzionalmente in misura ridotta in base alle disposizioni dell'articolo 51, comma 8-bis, del TUIR, il prestatore di lavoro all'estero fruisce, per le imposte ivi pagate, di un credito d'imposta non pieno, ma proporzionale al reddito determinato ai sensi del predetto articolo 51, comma 8-bis, del TUIR. In tal caso, l'imposta estera deve essere rimodulata sulla base del rapporto tra la retribuzione convenzionale ed il reddito di lavoro dipendente che sarebbe stato tassabile in via ordinaria - e non in misura convenzionale - in Italia.
Utili distribuiti da entità estere trasparenti
Nell’ordinamento interno la società in questione non è considerata trasparente in quanto viene ricompresa tra i soggetti IRES (articolo 73, comma 1, lettera d), del TUIR) con la conseguenza che il reddito che il residente italiano ritrae dalla partecipazione in detta società assume rilevanza, ai fini fiscali, solo al momento della distribuzione. Tale reddito viene tassato in Italia come reddito di capitale oppure concorre alla formazione del reddito d’impresa se percepito da un soggetto IRES o da un soggetto IRPEF in regime di impresa. In ogni caso la tassazione avviene in ossequio al principio di cassa.
>>Cir. 9/E/2016 Per questo motivo, coerentemente con il disposto dell’articolo 73, comma 1, lettera d) del TUIR, che stabilisce, ai fini del trattamento fiscale interno, una finzione di “opacità” per le entità estere trasparenti, si ritiene che gli utili che queste ultime distribuiscono ai soci residenti debbano essere quantificati con modalità analoghe a quelle dei dividendi distribuiti da una società estera “realmente” opaca.
Conseguentemente, per effetto della predetta finzione di opacità, le imposte estere pagate dal socio residente sulla quota di utili a lui spettanti sono considerate come imposte pagate dalla società e saranno scomputate, ai fini della tassazione in Italia, dall’ammontare lordo al medesimo distribuito. Tale scomputo comporta che il dividendo tassato in Italia in capo al socio di un’entità estera trasparente sia costituito, al pari dei dividendi derivanti da partecipazioni in entità opache, da una grandezza netta, che tiene conto delle imposte pagate all’estero sugli utili oggetto di distribuzione.
In altri termini, se la società estera distribuisce l’utile dell’anno N, il dividendo rilevante fiscalmente in Italia in capo al socio è da quantificare al netto delle imposte pagate, in via definitiva, sul reddito che gli è stato imputato per trasparenza nella medesima annualità (anno N).
ARTICOLO - Pubblicato il: 10 ottobre 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
La disciplina dell’articolo 110, comma 10, del Tuir introdotta per il 2015 dal dl 147/2015 ribalta la precedente disciplina stabilendo un tetto entro al quale tutti i costi risultano deducibili. Quindi
- non più una norma di indeducibilità relativa, salvo dimostrare la sussistenza di esimenti,
- bensì una norma di deducibilità relativa.
Valore normale quale parametro di deducibilità.
Fino al 2014
La disciplina dei costi black list fino al periodo d’imposta 2014, era caratterizzata da una presunzione di indeducibilità, a meno che il contribuente non dimostrasse che le imprese estere che avevano concretamente effettuato la cessione di beni e le prestazioni di servizio svolgevano una prevalente attività commerciale effettiva ovvero che le operazioni poste in essere rispondevano ad un effettivo interesse economico. Inoltre, i contribuenti erano obbligati a dichiarare tali costi in modo separato in dichiarazione.
Paesi black list. Elenco dei Paesi contenuto nel d.m. 23 gennaio 2002.
Per il 2015
Per il periodo d’imposta 2015 la regola della presunzione di indeducibilità viene sostituita da una deducibilità degli stessi nei limiti del loro valore normale.
Secondo la Cir. 39/E/2016, il valore normale però, dovrebbe, comunque, essere provato dal contribuente (questa interpretazione invero svilisce, al meno in parte la portata innovativa della norma).
Se il contribuente vuole far valere un valore superiore a quello normale in base al comma 11 dell’at. 110 deve dimostrare la seconda esimente dell’interesse economico (per il quale restano attuali i chiarimenti forniti con la circolare 51/E/2010) ovvoerosia che “le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione”. Non è più richiesta (in quanto abrogata) la prima esimente, ovverosia che “le imprese estere svolgono prevalentemente un'attività commerciale effettiva”.
Per il periodo di imposta 2015, pertanto, la regola del valore normale interessa non solo i componenti – positivi e negativi – di reddito derivanti da operazioni con società del gruppo non residenti (ai sensi della normativa sul transfer pricing - articolo 110, comma 7, del Tuir), ma anche i costi provenienti da soggetti – del gruppo o terzi – residenti in Stati black list.
Anche per il 2015 resta in vigore l’obbligo di indicazione separata dei predetti costi in dichiarazione.
In attuazione della disposizione contenuta nel comma 678 della legge di stabilità per il 2015, il Ministro dell’economia e delle Finanze, con d.m. del 27 aprile 2015 e d.m. 18 novembre 2015 ha ridisegnato la lista dei Paesi black list interessati alla limitazione della deduzione dei costi, modificando l’elenco dei Paesi contenuto nel d.m. 23 gennaio 2002.
Per dare attuazione alla modifica normativa dell’articolo 1, comma 678, della legge di stabilità 2015, sono stati emanati i seguenti due decreti ministeriali:
- d.m. 27 aprile 2015, pubblicato in G.U. n. 107 del 11 maggio 2015, che ha rimosso dalla black list i seguenti Stati: Alderney (Isole del Canale), Anguilla, ex Antille Olandesi, Aruba, Belize, Bermuda, Costarica, Emirati Arabi Uniti, Filippine, Gibilterra, Guernsey (Isole del Canale), Herm (Isole del Canale), Isola di Man, Isole Cayman, Isole Turks e Caicos, Isole Vergini britanniche, Jersey (Isole del Canale), Malesia, Mauritius, Montserrat, Singapore;
- d.m. 18 novembre 2015, pubblicato in G.U. n. 279 del 30 novembre 2015, che ha espunto dalla black list anche Hong Kong.
In merito all’efficacia di tali modifiche, si fa presente che la disciplina di cui all’articolo 110, comma 10, del TUIR continua a trovare applicazione in relazione alle operazioni commerciali con gli Stati espunti dalla black list intercorse entro il giorno precedente l’entrata in vigore del relativo decreto modificativo. Più precisamente, i costi derivanti da operazioni con soggetti localizzati nei seguenti Stati: i) Alderney (Isole del Canale), Anguilla, ex Antille Olandesi, Aruba, Belize, Bermuda, Costarica, Emirati Arabi Uniti, Filippine, Gibilterra, Guernsey (Isole del Canale), Herm (Isole del Canale), Isola di Man, Isole Cayman, Isole Turks e Caicos, Isole Vergini britanniche, Jersey (Isole del Canale), Malesia, Mauritius, Montserrat, Singapore, rientrano nell’ambito applicativo della disciplina in esame se sostenuti entro il 10 maggio 2015; ii) Hong Kong, sono considerati costi black list se sostenuti fino al 29 novembre 2015.
Dal 2016
La legge finanziaria per il 2016 (legge 208/2015), all’art. 1 co. 142-144 ha previsto che dal 2016 (a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015) sono abrogati i commi da 10 a 12-bis dell’art. 110, TUIR, che prevede(va) l’indeducibilità dei costi sostenuti dalle imprese italiane relativamente ai beni / servizi acquistati da soggetti domiciliati in Stati “black list”, salva la ricorrenza delle c.d. circostanze esimenti.
Di conseguenza i costi in esame saranno equiparati a quelli relativi ad operazioni interne con applicazione delle ordinarie disposizioni presenti nel TUIR.
La deducibilità dei costi black list segue le regole ordinarie dell’inerenza, competenza e determinabilità di cui all’articolo 109 del Tuir, senza più bisogno della loro separata indicazione in dichiarazione.
Le norme convenzionali
In relazione al rapporto tra le regole di indeducibilità interna e norme convenzionali (in particolare con riferimento ai periodi d’imposta ante 2015) la circolare 39/E/2016 considera, a differenza di alcune pronunce di merito, che la norma nazionale non è in contrasto con lo spirito delle regole internazionali, in quanto in entrambi i casi la deducibilità del costo era garantita quando non era abusiva e quando rispondeva a una delle esimenti previste.
Dichiarazioni e sanzioni
Dal periodo d’imposta 2016, come già evidenziato, non è più necessaria la separata indicazione in dichiarazione e i costi si deducono secondo le regole ordinarie. Il problema che si poneva è se l’intervenuta modifica non rendesse più applicabili per i periodi d’imposta antecedenti al 2016 le relative sanzioni per omessa separata indicazione e per infedele dichiarazione. In effetti, la circolare 39/E/2016 specifica che le sanzioni restano applicabili e che non è possibile invocare il favor rei.
Paesi black list
Dal periodo d’imposta 2016 non assume più rilevanza l'individuazione dei paesi a fiscalità privilegiata e in particolare non ha più valore la lista contenura nel Dm del 23 gennaio 2002.
ARTICOLO - Pubblicato il: 10 ottobre 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
CONTROLLATE “BLACK LIST” – co. 1, 2 E 3
1. Se un soggetto residente in Italia detiene, direttamente o indirettamente, anche tramite società fiduciarie o per interposta persona, il controllo di un'impresa, di una società o altro ente, residente o localizzato in Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al comma 4, diversi da quelli appartenenti all'Unione europea ovvero da quelli aderenti allo Spazio economico europeo con i quali l'Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni, i redditi conseguiti dal soggetto estero controllato sono imputati, a decorrere dalla chiusura dell'esercizio o periodo di gestione del soggetto estero controllato, ai soggetti residenti in proporzione alle partecipazioni da essi detenute. Tale disposizione si applica anche per le partecipazioni di controllo in soggetti non residenti relativamente ai redditi derivanti da loro stabili organizzazioni assoggettati ai predetti regimi fiscali privilegiati.
2. Le disposizioni del comma 1 si applicano alle persone fisiche residenti e ai soggetti di cui agli articoli 5 e 87, comma 1, lettere a), b) e c)(2).
3. Ai fini della determinazione del limite del controllo di cui al comma 1, si applica l'articolo 2359 del codice civile, in materia di società controllate e società collegate.
INDIVIDUAZIONE DEGLI STATI “BLACK LIST” – co. 4
L’art. 10 del Dlgs 147/2015 abrogato l’art. 168-bis si riporponeva di di individuare i Paesi white list: pertanto, quelli esclusi sarebbero rientrati tra gli Stati o territori a regime fiscale privilegiato. Prevedeva l’individuazione di 2 liste (c.d. “white list”), peraltro mai predisposte, riferite rispettivamente:
- agli Stati che consentono un adeguato scambio di informazioni (co. 1);
- agli Stati che consentono un adeguato scambio d’informazioni e nei quali il livello di tassazione
non è sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia (co. 2).
L’art. 8, co. 1 del Dlgs147/2015, si occupa di recepire la soppressione (operata dal successivo art. 10) dell’art. 168-bis del Tuir prevedendo che l’individuazione degli Stati “paradisiaci” torna a essere affidata all’art. 167, co. 4 del Tuir.
Con la legge 208/2015 è stata modificata la parte del co. 4 dell’art.167 che prevede che sono considerati privilegiati i regimi fiscali, anche speciali, di Stati nei quali il livello nominale di tassazione è inferiore al 50% di quello applicabile in Italia. Viene eliminato il riferimento, per l’individuazione del regime fiscale privilegiato, alla mancanza di un adeguato scambio di informazioni nonché ad “altri criteri equivalenti”.
Quanto al buco normativo lasciato dalla sopressione dell’art. 168-bis, con decorrenza dal periodo d’imposta in corso al 7.10.2015 (in generale, dal 2015), è stabilito che nel caso in cui una norma richiami agli:
- Stati che consentono un adeguato scambio di informazioni di cui al co. 1 dell’abrogato art. 168-bis, va fatto riferimento alla nuova lett. c) del co. 4 dell’art. 11, D.Lgs. n. 239/96, che demanda al MEF di stabilire, con uno o più Decreti, l’elenco di tali Stati. Finché non sarà individuato detto elenco va fatto riferimento alla lista di cui al DM 4.9.96;
- Stati diversi da quelli che consentono un adeguato scambio d’informazioni e nei quali il livello di tassazione non è sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia di cui al co. 2 dell’abrogato art. 168-bis, va fatto riferimento al DM ed al Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate emanati in attuazione dell’art. 167, co. 4, TUIR (lista di cui al DM 21.11.2011, così come aggiornata dal DM 27.4.2015 e, recentemente, dal DM 18.11.2015 che ha espunto Hong Kong dagli Stati “black list”).
Fino al 2015
Il comma 4 dell’articolo 167 del TUIR, nella formulazione vigente fino al 31 dicembre 2015, prevedeva che
- “Si considerano privilegiati i regimi fiscali di Stati o territori individuati, con decreti del Ministro delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale (...)” nonché
- “Si considerano in ogni caso privilegiati i regimi fiscali speciali che consentono un livello di tassazione inferiore al 50 per cento di quello applicato in Italia”.
Per dare attuazione alla modifica normativa il Dm 21 novembre 2001 è stato modificato con:
- Dm 30/3/2015 (entrata in vigore 11/5/2015) che ha abrogato l’articolo 3 del d.m. 21 novembre 2001 (ove erano elencati gli Stati e i territori facenti parte della black list limitatamente a determinati soggetti ed attività) e che ha rimosso dall’articolo 1 della black list tre Stati: Filippine, Malesia e Singapore;
- Dm 18/11/2015 (entrata in vigore 30/11/2015) ha escluso dalla lista Hong Kong
>> Cir. 35/E/2016 p.15Occorre, inoltre, evidenziare che l’articolo 167, comma 1, del TUIR individua espressamente nel momento di “chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto estero partecipato” il termine a decorrere dal quale si rende applicabile la disciplina CFC, attraverso l’imputazione dei redditi conseguiti dal medesimo soggetto estero partecipato ai soggetti residenti che li controllano in proporzione delle partecipazioni detenute. Si ricorda che l’articolo 1, comma 3, del d.m. 21 novembre 2001, n. 429 stabilisce, altresì, che ai fini della verifica della sussistenza del requisito del controllo “rileva la situazione esistente alla data di chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto estero controllato”.
Ciò significa che i presupposti di applicazione della disciplina CFC, vale a dire il controllo della partecipata estera e la sua localizzazione in uno Stato a fiscalità privilegiata, vanno verificati di anno in anno, con riferimento alla chiusura dell’esercizio del soggetto controllato estero.
Ne consegue che le controllate con esercizio coincidente con l’anno solare, residenti in uno dei suddetti Stati o territori espunti dalla black list con i citati decreti ministeriali del 30 marzo 2015 e del 18 novembre 2015, si considerano escluse dal d.m. 21 novembre 2001 per l’intero periodo d’imposta 2015.
>> Come accennato, i soggetti residenti o localizzati in Paesi inclusi nel d.m. 21 novembre 2001 non esauriscono l’ambito soggettivo di applicazione dell’articolo 167 del TUIR.
Infatti, a prescindere dall’inclusione nel d.m. 21 novembre 2001 (unica lista, ad oggi, emanata ai fini della CFC rule), il comma 4 dell’articolo 167 del TUIR stabilisce che deve considerarsi “in ogni caso” privilegiato un regime speciale che determini un livello di imposizione inferiore di oltre il 50 per cento rispetto a quello applicato in Italia, nonostante l’aliquota ordinaria dello Stato o territorio sia superiore alla metà di quella italiana.
Da quanto precede, risulta che, in relazione all’esercizio 2015, è onere del socio residente in Italia verificare se, indipendentemente dalla presenza nella black list del Paese interessato, l’entità controllata sia localizzata in uno Stato o territorio dove è assoggettata a un regime fiscale speciale nel senso prima chiarito.
Periodo | Fino al 31 dicembre 2014 | Dal 1° gennaio 2015 al 31 dicembre 2015 | Dal 1° gennaio 2016 in poi |
Criterio di individuazione dei regimi fiscali privilegiati |
Inclusione nel D.M. 21 novembre 2001 (black list) |
Inclusione nel D.M. 21 novembre 2001*; Regime speciale che preveda un livello di tassazione inferiore al 50 per cento di quello applicato in Italia Esclusione dei Paesi UE e SEE |
Livello nominale di tassazione inferiore al 50 per cento di quello applicabile in Italia; Regimi speciali; Esclusione dei Paesi UE e SEE |
* come modificato dal d.m. 30 marzo 2015 e dal d.m. 18 novembre 2015
Dal 2016
Il comma 4 dell’articolo 167 del TUIR, nella formulazione vigente dal 2016, prevede che “I regimi fiscali, anche speciali, di Stati o territori si considerano privilegiati laddove il livello nominale di tassazione risulti inferiore al 50 per cento di quello applicabile in Italia”.
Cir. 35/E/2016 p.15In sostanza, con le modifiche apportate dalla legge di stabilità 2016, a partire dal 1° gennaio 2016 si considerano privilegiati:
a) i regimi in cui “il livello nominale di tassazione risulti inferiore al 50 per cento di quello applicabile in Italia”;
b) i regimi “speciali”.
Cir. 35/E/2016 p.15 La legge di stabilità 2016, intervenendo sull’articolo 167, comma 1, del TUIR ha escluso espressamente dalla nozione di “Stati o territori a regime fiscale privilegiato” gli Stati appartenenti all'Unione europea ovvero quelli aderenti allo Spazio economico europeo con i quali l'Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni.
Al riguardo, si precisa che, ai fini dell’applicazione delle disposizioni in commento, tra i Paesi SEE trasparenti, oltre all’Islanda e alla Norvegia, può essere incluso anche il Liechtenstein.
>>Cir. 35/E/2016 p.16 Gli Stati membri dell’Unione europea e gli Stati SEE possono essere, comunque, coinvolti dall’applicazione della CFC rule in virtù del comma 8-bis del TUIR, al ricorrere delle condizioni ivi previste.
Sub a) – regimi in cui il livello nominale di tassazione risulti inferiore al 50 per cento di quello applicabile in Italia
Cir. 35/E/2016 p.16 Ai fini del confronto dei livelli di tassazione nominali, dal lato italiano, in linea con i tradizionali criteri di individuazione della black list, seguiti per la redazione del d.m. 21 novembre 2001, rileva l’aliquota IRES, vigente nel periodo d’imposta in cui si riscontra il requisito del controllo, senza considerare eventuali addizionali. Rileva, altresì, l’IRAP, di cui si prende in considerazione l’aliquota ordinaria (attualmente pari al 3,9 per cento).
Specularmente, dal lato estero, rilevano le imposte sui redditi applicate nell’ordinamento fiscale di localizzazione, da individuare facendo riferimento, qualora esistente, alla Convenzione per evitare le doppie imposizioni vigente con lo Stato di volta in volta interessato, tenendo conto anche delle eventuali imposte di natura identica o analoga intervenute in sostituzione di quelle menzionate espressamente nella medesima Convenzione.
Nell’eventualità in cui nello Stato di residenza o di localizzazione della società controllata sia prevista un’imposta progressiva a scaglioni occorrerà calcolare la media aritmetica ponderata delle aliquote vigenti nell’ordinamento estero.
A tal fine, viene individuato, in via convenzionale, un parametro reddituale pari a Euro 1 milione, da utilizzare sempre per la ponderazione.
Esempio 1 La società A, interamente partecipata dal socio residente in Italia X, è localizzata nello Stato S, il cui regime fiscale prevede che l’imposta sul reddito delle società sia basata su un sistema progressivo a scaglioni: -fino a 30.000 euro: aliquota del 12 per cento -da 30.001 euro a 60.000 euro: aliquota del 20 per cento; -da 60.001 euro in poi: aliquota del 30 per cento. L’aliquota calcolata sulla base della media aritmetica ponderata, assumendo sempre, in via convenzionale, un reddito massimo di 1.000.000 di euro è pari al 29 per cento. Essa è ottenuta effettuando il seguente calcolo: [(30.000 – 0) * 0,12 + (60.000 – 30.001) * 0,20 + (1.000.000 – 60.001)*0,30]/1.000.000 Il criterio dell’aliquota media ponderata può essere utilizzato anche nel caso in cui il sistema fiscale estero adotti una progressività per detrazione. |
Esempio 2 Nello Stato S vige un’aliquota nominale di imposizione del 20 per cento che trova, però, applicazione solo per i redditi superiori a 100.000 euro. L’aliquota media ponderata, supponendo un reddito massimo di 1.000.000 di euro, è pari a: (100.000 – 0) * 0 + (1.000.000 – 100.001) * 0,20 / 1.000.000 = 17 per cento |
Sub b) – regimi speciali
Cir. 35/E/2016 p.23 Oltre alle ipotesi in cui il livello nominale di tassazione nell’ordinamento estero sia inferiore a oltre la metà di quello italiano, la disciplina CFC trova applicazione anche in ipotesi di regimi speciali.
>>In coerenza con la ratio dell’articolo 167, comma 4, del TUIR e in continuità rispetto alla previgente individuazione dei regimi speciali ad opera dal legislatore, si considerano tali tutti i regimi fiscali di favore che, in linea di principio, presentano i seguenti requisiti:
a) si applicano alla generalità dei contribuenti che integrano i requisiti soggettivi o oggettivi richiesti dalla norma istitutiva del regime;
b) determinano una riduzione delle aliquote d’imposta applicabili ovvero, pur non incidendo direttamente sull’aliquota, prevedono esenzioni o altre riduzioni della base imponibile idonee a ridurre sostanzialmente il prelievo nominale.
Si tratta di regimi che concedono un trattamento agevolato strutturale, risolvendosi in un’imposizione inferiore alla metà di quella italiana.
A titolo esemplificativo, possono essere inclusi nei regimi speciali di cui al comma 4 dell’articolo 167 del TUIR quelli che concedono una riduzione di aliquota rispetto a particolari settori o aree territoriali (zone franche o free zone), ovvero in relazione a determinate attività (come quelle finanziarie, agricole, turistiche) o destinate a particolari categorie di soggetti (ad esempio, le micro imprese o le piccole medie imprese), oppure per un determinato arco temporale (come, talvolta, avviene nella fase di avvio dell’attività), o fino al conseguimento di una soglia minima di reddito imponibile, ovvero ancora quelli che garantiscano la detassazione dei redditi derivanti da attività svolte all’estero. Analogamente, si ritiene che rientrino nell’accezione di “regimi speciali” i regimi fiscali che prevedono deduzioni nozionali che, seppur incidendo formalmente sulla base imponibile, si traducono in una riduzione dell’aliquota sul reddito prodotto dalla CFC. |
Al fine di individuare in maniera agevole i regimi fiscali privilegiati, è possibile consultare le aliquote nominali vigenti sui siti internet istituzionali dei vari ordinamenti esteri oppure nella banca dati dell’OCSE sul sito:
http://stats.oecd.org//Index.aspx?QueryId=58204 sul sito internet della Banca Mondiale o di altri istituti o centri di studio e ricerca internazionali.
DETERMINAZIONE DELL’ESIMENTE – co. 5 - invariato
Il comma 5 dell’articolo 167 del TUIR, rimasto invariato prevede che 5. Le disposizioni del comma 1 non si applicano se il soggetto residente dimostra, alternativamente, che:
a) la società o altro ente non residente svolga un'effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel mercato dello Stato o territorio di insediamento; per le attività bancarie, finanziarie e assicurative quest'ultima condizione si ritiene soddisfatta quando la maggior parte delle fonti, degli impieghi o dei ricavi originano nello Stato o territorio di insediamento;(7) PRIMA ESIMENTE
b) dalle partecipazioni non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al comma 4. Ai fini del presente comma, il contribuente può interpellare l'amministrazione ai sensi dell'articolo 11, comma 1, lettera b), della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante lo Statuto dei diritti del contribuente (6). (3) SECONDA ESIMENTE 5-bis. La previsione di cui alla lettera a) del comma 5 non si applica qualora i proventi della società o altro ente non residente provengono per più del 50% dalla gestione, dalla detenzione o dall'investimento in titoli,
partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie, dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica, nonché dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l'ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l'ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari.(8)
In aggiunta alla precisazioni contenute nella Cir. cir. 51/E del 2010.
Cir. 35/E/2016 p.27 In considerazione del basso livello di tassazione nominale ovvero del regime speciale di cui gode la CFC, si ritiene che l’investimento sia stato dettato non da genuine ragioni economico-commerciali ma da motivazioni di natura fiscale.
Tale presunzione può essere superata dimostrando che il carico fiscale è almeno pari al 50 per cento di quello che sarebbe stato scontato laddove la controllata fosse stata residente in Italia. Verificandosi questa condizione, non si riscontrano intenti o effetti elusivi che possano aver determinato l’investimento estero.
La soglia del 50 per cento è ritenuta congrua in considerazione delle modifiche normative apportate dalle leggi di stabilità 2015 e 2016.
Siffatta dimostrazione non può, però, prescindere da una verifica della tassazione effettivamente scontata sui redditi realizzati dalla controllata estera soggetta alla disciplina CFC.
Nel caso di redditi prodotti in Stati diversi da quello di localizzazione della CFC, si tiene conto dell’imposizione ivi subita per calcolare il tax rate effettivo.
Il tax rate è dato, come chiarito nella citata circolare n. 51/E del 2010, dal rapporto tra la somma delle imposte scontate dalla società controllata sui redditi prodotti, a prescindere dallo Stato di imposizione, e l’utile ante imposte della stessa.
Dopo aver calcolato il tax rate effettivo estero, occorre operare un giudizio di congruità. Questo si effettua comparando il medesimo tax rate con il 50 per cento dell’aliquota nominale vigente in Italia oppure, nel caso di fallimento di questo test, si compara il tax rate con il 50 per cento della tassazione virtuale domestica (Cfr. Esempio n. 5).
In altri termini, la dimostrazione dell’esimente presuppone che il tax rate effettivo estero venga preliminarmente confrontato con l’aliquota nominale italiana, data dalla sommatoria dell’aliquota IRES e dell’aliquota ordinaria IRAP. Se il tax rate estero risulta superiore al 50 per cento dell’aliquota nominale italiana, così determinata, l’esimente si considera dimostrata.
Nell’eventualità in cui dal confronto risulti, invece, un’imposizione effettiva estera inferiore alla metà di quella italiana, la sussistenza dell’esimente può essere comunque provata attraverso il raffronto con l’imposizione che la controllata avrebbe effettivamente scontato qualora fosse stata residente in Italia (tax rate virtuale domestico). L’esimente si considera dimostrata quando il tax rate effettivo è superiore al 50 per cento del tax rate virtuale domestico.
DETERMINAZIONE DEL REDDITO DEL SOGGETTO NON RESIDENTE e TASSAZIONE SEPARATA – co. 6
Il comma 6 dell’articolo 167 del TUIR, nella formulazione vigente dal 2016, prevede che I redditi del soggetto non residente, imputati ai sensi del comma 1, sono assoggettati a tassazione separata con l'aliquota media applicata sul reddito complessivo del soggetto residente e, comunque, non inferiore all'aliquota ordinaria dell'imposta sul reddito delle società. I redditi sono determinati in base alle disposizioni applicabili ai soggetti residenti titolari di reddito d'impresa, ad eccezione dell'articolo 86, comma 4. Dall'imposta così determinata sono ammesse in detrazione, ai sensi dell'articolo 15 (4), le imposte pagate all'estero a titolo definitivo.(10)(15)
Determianzione del reddito
Il novellato co. 6 dell’art. 167 dispone che il reddito del soggetto controllato non residente è determinato “in base alle disposizioni applicabili ai soggetti residenti titolari di reddito d’impresa, ad eccezione dell’art. 86, co. 4” (rateizzazione plusvalenze patrimoniali).
Come evidenziato nella Relazione illustrativa “nella determinazione del reddito dei soggetti esteri controllati, si applicano tutte le regole di determinazione del reddito complessivo previste per le imprese residenti (anche non comprese nel TUIR), ad eccezione della disposizione riguardante la rateizzazione delle plusvalenze (…). Viene garantita, in questo modo, una maggiore equivalenza della base imponibile del reddito estero, imputato per trasparenza in capo al socio italiano, rispetto a quella del reddito prodotto in Italia, ferma restando la modalità separata di tassazione del primo”.
>>La precedente formulazione del citato co. 6 prevedeva la determinazione del reddito in base alle regole, applicabili ai soggetti IRES, contenute nel TUIR. Nella circolare 35/E/2016 è chiarito che non rilevano in nessun caso le norme relative al reddito d’impresa riferibili ai soggetti Irpef, a prescindere della forma giuridica del soggetto estero (ciò come in precedenza);
>> Nella circolare 35/E/2016 è confermata l’applicazione della normativa di comodo (come già affermata nella circolare 23/E del 2011, paragrafo 2.9).
>>Nella circolare 35/E/2016 è confermata l’applicazione, per esempio, dell’Ace. Non è chiara la decorrenza: se prendendo a riferimento le movimentazioni del patrimonio netto e le operazioni ricadenti nella normativa anti elusione verificatesi a partire dall’esercizio 2011, ovvero dall’esercizio 2015, da cui essa risulta applicabile alle Cfc (come sembra più corretto).
>>Si ritiene che, benché non citata nella circolare, sia applicabile anche la deduzione degli ammortamenti al 140 per cento.
>>Nella medesima circolare 35/E è chiarito che dal novero delle disposizioni speciali extra Tuir applicabili alla Cfc devono invece essere escluse quelle che prevedono l’adozione di strumenti di tipo presuntivo, quali gli studi di settore e i parametri.
Tassazione separata
Con la legge 208/2015 è stata modificata la parte del co. 6 dell’art.167 che prevede che i redditi del soggetto non residente “sono assoggettati a tassazione separata con l’aliquota media applicata sul reddito complessivo del soggetto residente, comunque non inferiore all’aliquota ordinaria sul reddito delle società” quindi ordinaria IRES (in precedenza detto limite era fisso, al 27%). L’effetto è dal periodo successivo a quello in corso al 31.12.2015.
Cir. 35/E/2015 p. 32. Resta inteso che il reddito della CFC sarà tassato per trasparenza applicando l’aliquota del socio residente, maggiorata delle eventuali addizionali (come nel caso delle banche) e, nell’ipotesi di soggetto IRPEF, in base all’aliquota media applicata sul suo reddito complessivo (se non inferiore all’aliquota ordinaria dell’imposta sul reddito delle società).
TASSAZIONE DEGLI UTILI – co. 7 – invariato
7. Gli utili distribuiti, in qualsiasi forma, dai soggetti non residenti di cui al comma 1 non concorrono alla formazione del reddito dei soggetti residenti fino all'ammontare del reddito assoggettato a tassazione, ai sensi del medesimo comma 1, anche negli esercizi precedenti. Le imposte pagate
all'estero, sugli utili che non concorrono alla formazione del reddito ai sensi del primo periodo del presente comma, sono ammesse in detrazione, ai sensi dell'articolo 15 (4), fino a concorrenza delle imposte applicate ai sensi del comma 6, diminuite degli importi ammessi in detrazione per effetto
del terzo periodo del predetto comma.
DECRETO ATTUATIVO – co. 8 – invariato
8. Con decreto del Ministro delle finanze, da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono stabilite le disposizioni attuative del presente articolo(16)(17).
DISAPPLICAZIONE E INTERPELLO – 8 quater e 8 quinques
8-quater. L'Amministrazione finanziaria, prima di procedere all'emissione dell'avviso di accertamento d'imposta o di maggiore imposta, deve notificare all'interessato un apposito avviso con il quale viene concessa al medesimo la possibilità di fornire, nel termine di novanta giorni, le prove per la disapplicazione delle disposizioni del comma 1 o del comma 8-bis. Ove l'Amministrazione finanziaria non ritenga idonee le prove addotte, dovrà darne specifica motivazione nell'avviso di accertamento. Fatti salvi i casi in cui la disciplina del presente articolo sia stata applicata ovvero non lo sia stata per effetto dell'ottenimento di una risposta favorevole
all'interpello, il socio residente controllante deve comunque segnalare nella dichiarazione dei redditi la detenzione di partecipazioni in imprese estere controllate di cui al comma 1 e al comma 8-bis. In tale ultimo caso l'obbligo di segnalazione sussiste solo al ricorrere delle condizioni di cui
alle lettere a) e b) del medesimo comma 8-bis.(12) 8-quinquies. Le esimenti previste nel comma 5 e nel comma 8-ter non devono essere dimostrate in sede di controllo qualora il contribuente abbia ottenuto risposta positiva al relativo interpello, fermo restando il potere delle informazioni e degli elementi di prova forniti in tale sede.(12)
Viene modificato l’art. 167 del Tuir eliminando l’obbligo dell’interpello preventivo (da ora interpello “probatorio”) previsto dall’art. 167 del Tuir per le controllate.
Viene prevista una particolare procedura di controllo da parte dell’Ufficio che si basa nel nuovo vincolo dichiarativo di indicare le società controllate in Unico.
Disapplicazione della normativa (non variata)
Il co. 5 dell’art. 167, TUIR prevede la disapplicazione della disciplina della tassazione per trasparenza in capo al soggetto residente relativamente alle partecipazioni in imprese estere controllate localizzate in Stati “black list” se lo stesso dimostra alternativamente che:
- il soggetto non residente svolge un’effettiva attività industriale / commerciale come principale attività;
- dalle partecipazioni non è conseguito l’effetto di localizzare i redditi in Stati “black list”.
Interpello facoltativo
L’interpello CFC risulta inquadrabile nella categoria degli interpelli cd. probatori (prevista, per l’appunto, dall’articolo 11, comma 1, lett. b) dello Statuto del contribuente, così come novellato dal decreto interpelli).
Tramite la proposizione di un’istanza di interpello probatorio, i contribuenti posso rivolgersi all’amministrazione “per ottenere una risposta riguardante fattispecie concrete e personali relativamente a ( ...) la sussistenza delle condizioni e la valutazione della idoneità degli elementi probatori richiesti dalla legge per l’adozione di specifici regimi fiscali nei casi espressamente previsti”.
A differenza da quanto accadeva in passato, a partire dal 2016 l’istanza di disapplicazione della disciplina CFC può essere utilmente proposta all’amministrazione finanziaria entro il termine ordinario di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta cui si riferisce l’istanza medesima. In altri termini, in relazione al periodo d’imposta 2015, sarà considerata preventiva l’istanza inoltrata dal contribuente entro la scadenza della relativa dichiarazione dei redditi (30 settembre 2016).
Il contribuente residente deve allegare alla propria istanza la documentazione necessaria per dimostrare le esimenti di cui al comma 5 o al comma 8-ter dell’articolo 167 del TUIR. Per quanto concerne i documenti allegabili, si rimanda a quanto chiarito dall’amministrazione finanziaria nelle sue precedenti circolari (cfr., fra tutte, la già citata circolare 51/2010).
L’amministrazione risponde alle istanze di interpello CFC nel termine di centoventi giorni, fatta salva la possibilità di richiedere, una sola volta, un’integrazione dei documenti presentati dal contribuente. Ricevuta la documentazione integrativa, l’amministrazione dovrà quindi rendere il proprio parere entro sessanta giorni.
Si rileva, infine, che ai sensi dell’articolo 6, comma 1 del decreto interpelli: “Le risposte alle istanze di interpello di cui all’articolo 11 della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante lo Statuto dei diritti del contribuente, non sono impugnabili” (fatta eccezione per le risposte alle istanze presentate ai sensi del comma 2 del medesimo articolo 11, vale a dire le risposte agli interpelli cosiddetti disapplicativi).
Ora, ai suddetti fini, per effetto della modifica della lett. b) del citato co. 5, viene meno l’obbligo di proporre interpello ex art. 11, Legge n. 212/2000. La presentazione dell’interpello ha quindi natura facoltativa. Di fatto, quindi, il contribuente può scegliere se richiedere la disapplicazione delle disposizioni in esame in sede di interpello preventivo ovvero, successivamente, in sede di controllo.
>>L’interpello può essere utilmente presentato entro il termine ordinario di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta cui esso si riferisce.
>>La risposta dell’amministrazio
ne deve essere resa entro 120 giorni, fatta salva la possibilità di richiedere, una sola volta, un’integrazione dei documenti presentati dal contribuente. Ricevuta la documentazione integrativa, l’amministrazione dovrà rendere il proprio parere entro 60 giorni.
In presenza di una risposta favorevole da parte dell’amministrazione finanziaria all’interpello pervenuta successivamente al termine ultimo di presentazionesarà necessario ripresentare la dichiarazione, e nel caso si sia già proceduto al versamento prudenziale dell’imposta separata, sarà necessario riportare a nuovo il credito, compensarlo orizzontalmente nel limite annuale di 700mila euro, cederlo alla consolidante nel medesimo limite o chiederlo a rimborso.
>>Al riguardo, anche in assenza dell’interpello preventivo, le Entrate, con le circolari 32/E/2010, 51/E/2010 e 23/E/2011, aveva già riconosciuto la possibilità di dimostrare anche successivamente la sussistenza delle cosiddette esimenti.
Contradditorio “anticipato”
In assenza di interpello, la norma prevede l’istituzione di una procedura di contradditorio simile a quella una volta stabilita per i costi black list. L’ufficio, prima di emettere un avviso di accertamento, avrà l’onere di notificare al contribuente un avviso per richiedere di fornire le prove per il riconoscimento delle esimenti.
Qualora il contribuente (nuovo co. 8-quater art. 167):
- non presenti l’interpello per la disapplicazione della disciplina sulle “CFC”; ovvero
- abbia presentato l’interpello, ottenendo risposta non favorevole;
è ora disposto che l’Ufficio, prima di notificare l’avviso di accertamento dell’imposta / maggiore imposta, deve concedere all’interessato la possibilità di fornire le prove, entro 90 giorni dalla comunicazione, della sussistenza dei requisiti per la disapplicazione delle disposizioni in esame.
Se le prove addotte dal contribuente non risultano idonee, nell’avviso di accertamento deve
essere fornita una specifica motivazione.
(nuovo co. 8-quinqus art. 167) Il contribuente che riceve risposta positiva all’interpello presentato ai fini previsti dai citati commi 5 e 8-ter, non deve dimostrare la sussistenza delle esimenti in sede di controllo, ferma restando la facoltà dell’Ufficio di controllare la veridicità e completezza delle informazioni fornite in detta sede.
Indicazione nel mod. Unico e sanzioni
Al socio residente è richiesta la segnalazione nel mod. UNICO della detenzione di partecipazioni in società controllate “black list” (co. 8) e “non black list” (co. 8-bis). In quest’ultimo caso l’obbligo sussiste solo al ricorrere delle condizioni previste dalle predette lett. a) e b) del co. 8-bis.
La segnalazione non è richiesta qualora la disciplina in esame sia applicata ovvero non lo sia a seguito della risposta favorevole all’interpello.
In caso di omessa / incompleta indicazione nel mod. UNICO è applicabile la sanzione, prevista dal nuovo co. 3-quater dell’art. 8, D.Lgs. n. 471/97, pari al 10% “del reddito conseguito dal soggetto estero partecipato e imputabile nel periodo d’imposta, anche solo teoricamente, al soggetto residente in proporzione alla partecipazione detenuta”, con un minimo di € 1.000 ed un massimo di € 50.000.
La sanzione, nella misura minima, è applicabile anche se la controllata estera ha conseguito una perdita.
Come evidenziato nella Relazione al Dlgs 147/2015 “l’omessa segnalazione in dichiarazione di partecipazioni di controllo rientranti nell’ambito applicativo della disciplina CFC non preclude al contribuente la possibilità di dimostrare la sussistenza delle esimenti”.
>>Nella circolare 35/E è tuttavia precisato che la sanzione è commisurata al risultato di esercizio conseguito dal soggetto estero partecipato (e non al reddito); sembrerebbe dunque che essa sia commisurata all’importo indicato nel rigo FC2. La sanzione nella misura minima si applica anche nel caso in cui il risultato di esercizio (indicato nel Rigo FC3) della controllata estera sia negativo. L’obbligo di segnalazione delle Cfc white list scatta alla verifica dei presupposti di cui all’articolo 167, comma 8-bis (tassazione effettiva inferiore al 50% di quella virtuale domestica e prevalenza di passive income).
CONTROLLATE WHITE LIST - co. 8-bis, 8-ter
8-bis. La disciplina di cui al comma 1 trova applicazione anche nell'ipotesi in cui i soggetti controllati ai sensi dello stesso comma sono localizzati in Stati o territori diversi da quelli ivi richiamati o in Stati appartenenti all'Unione europea ovvero a quelli aderenti allo Spazio economico europeo con i quali l'Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni, qualora ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: (14)
a) sono assoggettati a tassazione effettiva inferiore a più della metà di quella a cui sarebbero stati soggetti ove residenti in Italia;
b) hanno conseguito proventi derivanti per più del 50% dalla gestione, dalla detenzione o dall'investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie, dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica nonché dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l'ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l'ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari. Con provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle entrate sono indicati i criteri per determinare con modalità semplificate l'effettivo livello di tassazione di cui alla precedente lettera a), tra cui quello
dell'irrilevanza delle variazioni non permanenti della base imponibile. (19)(9)
8-ter. Le disposizioni del comma 8-bis non si applicano se il soggetto residente dimostra che l'insediamento all'estero non rappresenta una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale. Ai fini del presente comma il contribuente può interpellare l'Amministrazione finanziaria secondo le modalità indicate nel comma 5. Per i contribuenti che aderiscono al regime dell'adempimento collaborativo l'interpello di cui al precedente periodo può essere presentato indipendentemente dalla verifica delle condizioni di cui alle lettere a) e b) del comma 8-bis.(11)
Come stabilito dal co. 8-bis dell’art. 167, la tassazione per trasparenza del reddito è applicabile anche ai soggetti controllati localizzati in Stati non “black list” qualora, in capo agli stessi, ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:
a) assoggettamento a tassazione effettiva inferiore a più della metà di quella a cui sarebbero stati soggetti se residenti in Italia;
b) conseguimento di proventi derivanti per più del 50% dalla gestione, detenzione, investimento in titoli / partecipazioni / crediti / altre attività finanziarie, dalla cessione / concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, lett.ria o artistica nonché dalla prestazione di servizi a soggetti che direttamente o indirettamente controllano il soggetto non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla il soggetto non residente, compresi i servizi finanziari.
Per effetto del Dl 147/2015:
- è demandata all’Agenzia delle Entrate l’individuazione, con uno specifico Provvedimento, dei “criteri per determinare con modalità semplificate l’effettivo livello di tassazione” applicato alla società estera, “tra cui quello dell’irrilevanza delle variazioni non permanenti della base imponibile”; intervenuto con il Provvedimento n. 143239 del 16/09/2016.
Cir. 35/E/2016 p.42. Si tratta del confronto tra la tassazione effettiva estera e quella “virtuale” domestica in cui assume rilevanza, coerentemente con quanto previsto nella relazione di accompagnamento all’articolo 13 del d.l. 78 del 2009, il “carico effettivo di imposizione (e non l’aliquota nominale di imposizione societaria) gravante sulla società estera” e, dunque, il calcolo del rapporto tra l’imposta corrispondente al reddito imponibile e l’utile ante imposte della controllata.
- è eliminato l’obbligo di proporre interpello, ex art. 11, Legge n. 212/2000 (che ora assume natura facoltativa), previsto dal co. 8-ter del citato art. 167 ai fini della disapplicazione del regime “CFC” con la dimostrazione che l’insediamento all’estero non rappresenta una costruzione artificiosa per conseguire un indebito vantaggio fiscale.
I soggetti che aderiscono al regime dell’adempimento collaborativo, introdotto dagli artt. da 3 a 7, D.Lgs. n. 128/2015 contenente la disciplina dell’abuso del diritto, possono presentare l’interpello indipendentemente dalla verifica delle condizioni di cui alle suddette lett. a) e b).
Con la legge 208/2015 è stata modificata la parte del co. 8bis dell’art.167 che prevede che l’applicazione delle disposizioni in materia di CFC è estesa ai soggetti controllati localizzati oltre che in Stati non “black list”, anche in Stati UE / SEE al ricorrere delle condizioni di cui al comma 8-bis del citato art. 167. L’effetto è dal periodo successivo a quello in corso al 31.12.2015.
TASSAZIONE SOCIETÀ COLLEGATE “BLACK LIST” – art. 168 - abrogato
E’ abrogato l’art. 168 del Tuir relativo alla presunzione di elusività per le collegate estere ubicate in un paradiso fiscale.Le società collegate ubicate in un paradiso fiscale fuoriescono definitivamente dalla presunzione di elusività stabilita dall’abrogato art. 168 del Tuir.
Cir. 35/E/2016 p. 34. Ai sensi del comma 4 dell’articolo 8 del decreto internazionalizzazione, l’abrogazione dell’articolo 168 del TUIR ha effetto “a decorrere dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto”, ossia per i soggetti con esercizio coincidente con l’anno solare, a partire dal periodo d’imposta 2015.
Dal medesimo periodo d’imposta, i soggetti residenti non saranno tenuti neppure a segnalare in dichiarazione dei redditi la partecipazione detenuta nella collegata estera ma solo gli eventuali utili provenienti dalla società localizzata in un paradiso fiscale.
E’ solo il caso di evidenziare che, ai fini della decorrenza dell’abrogazione della norma in esame, occorre far riferimento al periodo d’imposta del soggetto residente, a nulla rilevando l’esercizio della partecipata estera.
Il successivo comma 4 dell’articolo 8 del Dl 147/2015 ha dettato specifiche disposizioni transitorie al fine di gestire il passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina. Nonostante la fuoriuscita dal regime CFC delle società collegate, la norma precisa che “per gli utili distribuiti dal soggetto non residente a decorrere dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi le disposizioni dell'art. 3, commi 3 e 4, del decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 7 agosto 2006, n. 268 (decreto attuativo dell’articolo 168 del TUIR). Ai soli fini del precedente periodo, gli utili distribuiti dal soggetto non residente si presumono prioritariamente formati con quelli assoggettati a tassazione separata”.
Cir. 35/E/2016 p. 38. L’articolo 3, comma 3, del citato decreto attuativo che stabilisce che gli utili distribuiti dal soggetto non residente, e già tassati per trasparenza, non concorrono a formare il reddito complessivo del soggetto partecipante al momento della loro effettiva percezione.
In tale ipotesi, il decreto reca una norma di favore prevedendo che gli utili percepiti dal socio residente si presumono prioritariamente formati con quelli conseguiti dall’impresa, società o ente localizzato nello Stato o territorio con regime fiscale privilegiato che risultino precedentemente posti in distribuzione e che, dunque, non concorrono a formare il reddito complessivo del percipiente.
Nel medesimo comma 3 del decreto attuativo è previsto che le eventuali imposte pagate all’estero a titolo definitivo dal soggetto partecipante sui dividendi percepiti (ad esempio, una ritenuta in uscita applicata nel Paese di residenza della CFC) e riferiti agli utili già tassati per trasparenza, sono accreditabili nei limiti delle imposte complessivamente applicate a titolo di tassazione separata. A tal fine, tuttavia, occorre tener conto delle somme già ammesse in detrazione dall’imposta dovuta al momento della tassazione “per trasparenza” del reddito della collegata e riferibili alle imposte che la stessa ha assolto all’estero sul medesimo reddito.
Inoltre, ai sensi del successivo comma 4: “Il costo della partecipazione nell'impresa, società o ente non residente è aumentato dei redditi imputati ai sensi dell'articolo 1 e diminuito, fino a concorrenza di tali redditi, degli utili distribuiti”.
>>L’eliminazione ha posto fine a una norma che disciplinava una presunzione di elusività che mal si conciliava con il concetto di collegamento e, inoltre, di difficile applicazione in quanto poteva risultare non agevole ottenere i dati necessari dato il tipo di rapporto.
Inoltre, il riferimento all’utile ante imposte previsto per le collegate e non al reddito imponibile calcolato in base alla normativa italiana (valido per le controllate) comportava un trattamento deteriore rispetto all’ipotesi di controllo dal momento che il risultato di bilancio non poteva costituire oggetto di rettifiche a fronte di proventi esclusi o esenti.
>>Dall’abrogazione dell’art. 168 del Tuir, consegue,
in primis, l’imputazione del reddito per trasparenza solamente in presenza di un rapporto di controllo.
In secondo luogo, viene finalmente risolta la tematica delle joint venture (laddove ciascun soggetto detiene una partecipazione del 50%). In precedenza, infatti, in assenza di un soggetto che esercitasse il controllo, doveva essere applicata la disciplina delle Cfc “collegate” con effetti, a volte, imprevedibili (il reddito del soggetto non residente oggetto di imputazione, infatti, era il maggiore fra utile ante imposte e reddito induttivamente determinato sulla base di coefficienti di rendimento da applicare ai beni detenuti dalla collegata estera).
Posto che le nuove disposizioni operanodal 2015, è previsto un regime transitorio in base al quale per gli utili distribuiti dal 2015 da società collegate continuano a trovare applicazione le disposizioni dell’art. 3, commi 3 e 4, DM 7.8.2006, n. 268, e pertanto:
- gli stessi non concorrono a formare il reddito complessivo del partecipante residente per la quota corrispondente all’ammontare dei redditi assoggettati a tassazione per trasparenza;
- a seguito della distribuzione di utili già tassati per trasparenza, si determina la riduzione del costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione.
Sono considerati prioritariamente distribuiti gli utili formati con quelli assoggettati a tassazione separata.
ARTICOLO - Pubblicato il: 8 settembre 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
L’art. 8 del Decreto 147/2015 interviene sulle disposizioni in materia di società controllate e collegate estere, ossia di “Controlled Foreign Compagnies” (c.d. “CFC”), contenute negli artt. 167 e 168, TUIR.
Le novità trovano applicazione a decorrere dal periodo di imposta in corso al 7.10.2015 (per i soggetti con esercizio coincidente con l’anno solare, dal 2015).
Successivamente i commi da 142 a 144 della legge 208/2015 intervengono apportando ulteriori modifiche le quali si applicano a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015.
Nel merito è poi intervenuta l’Agenzia delle entrate con la Cir. 35/E/2016.
TASSAZIONE SOCIETÀ COLLEGATE “BLACK LIST”
E’ abrogato l’art. 168 del Tuir relativo alla presunzione di elusività per le collegate estere ubicate in un paradiso fiscale. Le società collegate ubicate in un paradiso fiscale fuoriescono definitivamente dalla presunzione di elusività stabilita dall’abrogato art. 168 del Tuir.
>>L’eliminazione ha posto fine a una norma che disciplinava una presunzione di elusività che mal si conciliava con il concetto di collegamento e, inoltre, di difficile applicazione in quanto poteva risultare non agevole ottenere i dati necessari dato il tipo di rapporto.
Inoltre, il riferimento all’utile ante imposte previsto per le collegate e non al reddito imponibile calcolato in base alla normativa italiana (valido per le controllate) comportava un trattamento deteriore rispetto all’ipotesi di controllo dal momento che il risultato di bilancio non poteva costituire oggetto di rettifiche a fronte di proventi esclusi o esenti.
>>Dall’abrogazione dell’art. 168 del Tuir, consegue,
in primis, l’imputazione del reddito per trasparenza solamente in presenza di un rapporto di controllo.
In secondo luogo, viene finalmente risolta la tematica delle joint venture (laddove ciascun soggetto detiene una partecipazione del 50%). In precedenza, infatti, in assenza di un soggetto che esercitasse il controllo, doveva essere applicata la disciplina delle Cfc “collegate” con effetti, a volte, imprevedibili (il reddito del soggetto non residente oggetto di imputazione, infatti, era il maggiore fra utile ante imposte e reddito induttivamente determinato sulla base di coefficienti di rendimento da applicare ai beni detenuti dalla collegata estera).
Posto che le nuove disposizioni operanodal 2015, è previsto un regime transitorio in base al quale per gli utili distribuiti dal 2015 da società collegate continuano a trovare applicazione le disposizioni dell’art. 3, commi 3 e 4, DM 7.8.2006, n. 268, e pertanto:
- gli stessi non concorrono a formare il reddito complessivo del partecipante residente per la quota corrispondente all’ammontare dei redditi assoggettati a tassazione per trasparenza;
- a seguito della distribuzione di utili già tassati per trasparenza, si determina la riduzione del costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione.
Sono considerati prioritariamente distribuiti gli utili formati con quelli assoggettati a tassazione separata.
DISAPPLICAZIONE E INTERPELLO
Viene modificato l’art. 167 del Tuir eliminando l’obbligo dell’interpello preventivo (da ora interpello “probatorio”) previsto dall’art. 167 del Tuir per le controllate.
Viene prevista una particolare procedura di controllo da parte dell’Ufficio che si basa nel nuovo vincolo dichiarativo di indicare le società controllate in Unico.
Disapplicazione della normativa (non variata)
Il co. 5 dell’art. 167, TUIR prevede la disapplicazione della disciplina della tassazione per trasparenza in capo al soggetto residente relativamente alle partecipazioni in imprese estere controllate localizzate in Stati “black list” se lo stesso dimostra alternativamente che:
- il soggetto non residente svolge un’effettiva attività industriale / commerciale come principale attività;
- dalle partecipazioni non è conseguito l’effetto di localizzare i redditi in Stati “black list”.
Interpello facoltativo
Ora, ai suddetti fini, per effetto della modifica della lett. b) del citato co. 5, viene meno l’obbligo di proporre interpello ex art. 11, Legge n. 212/2000. La presentazione dell’interpello ha quindi natura facoltativa. Di fatto, quindi, il contribuente può scegliere se richiedere la disapplicazione delle disposizioni in esame in sede di interpello preventivo ovvero, successivamente, in sede di controllo.
>>L’interpello può essere utilmente presentato entro il termine ordinario di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta cui esso si riferisce.
>>La risposta dell’amministrazione deve essere resa entro 120 giorni, fatta salva la possibilità di richiedere, una sola volta, un’integrazione dei documenti presentati dal contribuente. Ricevuta la documentazione integrativa, l’amministrazione dovrà rendere il proprio parere entro 60 giorni.
È chiaro che in presenza di una risposta favorevole da parte dell’amministrazione finanziaria all’interpello pervenuta successivamente al termine ultimo di presentazione sarà necessario ripresentare la dichiarazione, e nel caso si sia già proceduto al versamento prudenziale dell’imposta separata, sarà necessario riportare a nuovo il credito, compensarlo orizzontalmente nel limite annuale di 700mila euro, cederlo alla consolidante nel medesimo limite o chiederlo a rimborso.
>>Al riguardo, anche in assenza dell’interpello preventivo, le Entrate, con le circolari 32/E/2010, 51/E/2010 e 23/E/2011, aveva già riconosciuto la possibilità di dimostrare anche successivamente la sussistenza delle cosiddette esimenti).
Contradditorio “anticipato”
In assenza di interpello, la norma prevede l’istituzione di una procedura di contradditorio simile a quella una volta stabilita per i costi black list. L’ufficio, prima di emettere un avviso di accertamento, avrà l’onere di notificare al contribuente un avviso per richiedere di fornire le prove per il riconoscimento delle esimenti.
Qualora il contribuente (nuovo co. 8-quater art. 167):
- non presenti l’interpello per la disapplicazione della disciplina sulle “CFC”; ovvero
- abbia presentato l’interpello, ottenendo risposta non favorevole;
è ora disposto che l’Ufficio, prima di notificare l’avviso di accertamento dell’imposta / maggiore imposta, deve concedere all’interessato la possibilità di fornire le prove, entro 90 giorni dalla comunicazione, della sussistenza dei requisiti per la disapplicazione delle disposizioni in esame.
Se le prove addotte dal contribuente non risultano idonee, nell’avviso di accertamento deve
essere fornita una specifica motivazione.
(nuovo co. 8-quinqus art. 167) Il contribuente che riceve risposta positiva all’interpello presentato ai fini previsti dai citati commi 5 e 8-ter, non deve dimostrare la sussistenza delle esimenti in sede di controllo, ferma restando la facoltà dell’Ufficio di controllare la veridicità e completezza delle informazioni fornite in detta sede.
Indicazione nel mod. Unico e sanzioni
Al socio residente è richiesta la segnalazione nel mod. UNICO della detenzione di partecipazioni in società controllate “black list” (co. 8) e “non black list” (co. 8-bis). In quest’ultimo caso l’obbligo sussiste solo al ricorrere delle condizioni previste dalle predette lett. a) e b) del co. 8-bis.
La segnalazione non è richiesta qualora la disciplina in esame sia applicata ovvero non lo sia a seguito della risposta favorevole all’interpello.
In caso di omessa / incompleta indicazione nel mod. UNICO è applicabile la sanzione, prevista dal nuovo co. 3-quater dell’art. 8, D.Lgs. n. 471/97, pari al 10% “del reddito conseguito dal soggetto estero partecipato e imputabile nel periodo d’imposta, anche solo teoricamente, al soggetto residente in proporzione alla partecipazione detenuta”, con un minimo di € 1.000 ed un massimo di € 50.000.
La sanzione, nella misura minima, è applicabile anche se la controllata estera ha conseguito una perdita.
Come evidenziato nella citata Relazione “l’omessa segnalazione in dichiarazione di partecipazioni di controllo rientranti nell’ambito applicativo della disciplina CFC non preclude al contribuente la possibilità di dimostrare la sussistenza delle esimenti”.
>>Nella circolare 35/E è tuttavia precisato che la sanzione è commisurata al risultato di esercizio conseguito dal soggetto estero partecipato (e non al reddito); sembrerebbe dunque che essa sia commisurata all’importo indicato nel rigo FC2. La sanzione nella misura minima si applica anche nel caso in cui il risultato di esercizio (indicato nel Rigo FC3) della controllata estera sia negativo. L’obbligo di segnalazione delle Cfc white list scatta alla verifica dei presupposti di cui all’articolo 167, comma 8-bis (tassazione effettiva inferiore al 50% di quella virtuale domestica e prevalenza di passive income).
DETERMINAZIONE DEL REDDITO DEL SOGGETTO NON RESIDENTE
Il novellato co. 6 dell’art. 167 in esame dispone che il reddito del soggetto controllato non residente è determinato “in base alle disposizioni applicabili ai soggetti residenti titolari di reddito d’impresa, ad eccezione dell’art. 86, co. 4” (rateizzazione plusvalenze patrimoniali).
Come evidenziato nella Relazione illustrativa “nella determinazione del reddito dei soggetti esteri controllati, si applicano tutte le regole di determinazione del reddito complessivo previste per le imprese residenti (anche non comprese nel TUIR), ad eccezione della disposizione riguardante la rateizzazione delle plusvalenze (…). Viene garantita, in questo modo, una maggiore equivalenza della base imponibile del reddito estero, imputato per trasparenza in capo al socio italiano, rispetto a quella del reddito prodotto in Italia, ferma restando la modalità separata di tassazione del primo”.
La precedente formulazione del citato co. 6 prevedeva la determinazione del reddito in base alle regole, applicabili ai soggetti IRES, contenute nel TUIR.
>>Nella circolare 35/E/2016 è chiarito che non rilevano in nessun caso le norme relative al reddito d’impresa riferibili ai soggetti Irpef, a prescindere della forma giuridica del soggetto estero (ciò come in precedenza);
>>Nella circolare 35/E/2016 è confermata l’applicazione, per esempio, dell’Ace. Non è chiara la decorrenza: se prendendo a riferimento le movimentazioni del patrimonio netto e le operazioni ricadenti nella normativa anti elusione verificatesi a partire dall’esercizio 2011, ovvero dall’esercizio 2015, da cui essa risulta applicabile alle Cfc (come sembra più corretto).
>>Si ritiene che, benché non citata nella circolare, sia applicabile anche la deduzione degli ammortamenti al 140 per cento.
>>Nella medesima circolare 35/E è chiarito che dal novero delle disposizioni speciali extra Tuir applicabili alla Cfc devono invece essere escluse quelle che prevedono l’adozione di strumenti di tipo presuntivo, quali gli studi di settore e i parametri.
Con la legge 208/2015 è stata modificata la parte del co. 6 dell’art.167 che prevede che i redditi del soggetto non residente “sono assoggettati a tassazione separata con l’aliquota media applicata sul reddito complessivo del soggetto residente, comunque non inferiore all’aliquota ordinaria sul reddito delle società” quindi ordinaria IRES (in precedenza detto limite era fisso, al 27%). L’effetto è dal periodo successivo a quello in corso al 31.12.2015.
CONTROLLATE WHITE LIST co. 8-bis
Come stabilito dal co. 8-bis dell’art. 167, la tassazione per trasparenza del reddito è applicabile anche ai soggetti controllati localizzati in Stati non “black list” qualora, in capo agli stessi, ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:
a) assoggettamento a tassazione effettiva inferiore a più della metà di quella a cui sarebbero stati soggetti se residenti in Italia;
b) conseguimento di proventi derivanti per più del 50% dalla gestione, detenzione, investimento in titoli / partecipazioni / crediti / altre attività finanziarie, dalla cessione / concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, lett.ria o artistica nonché dalla prestazione di servizi a soggetti che direttamente o indirettamente controllano il soggetto non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla il soggetto non residente, compresi i servizi finanziari.
Per effetto del Decreto in esame:
- è demandata all’Agenzia delle Entrate l’individuazione, con uno specifico Provvedimento, dei “criteri per determinare con modalità semplificate l’effettivo livello di tassazione” applicato alla società estera, “tra cui quello dell’irrilevanza delle variazioni non permanenti della base imponibile”;
- è eliminato l’obbligo di proporre interpello, ex art. 11, Legge n. 212/2000 (che ora assume natura facoltativa), previsto dal co. 8-ter del citato art. 167 ai fini della disapplicazione del regime “CFC” con la dimostrazione che l’insediamento all’estero non rappresenta una costruzione artificiosa per conseguire un indebito vantaggio fiscale.
I soggetti che aderiscono al regime dell’adempimento collaborativo, introdotto dagli artt. da 3 a 7, D.Lgs. n. 128/2015 contenente la disciplina dell’abuso del diritto, possono presentare l’interpello indipendentemente dalla verifica delle condizioni di cui alle suddette lett. a) e b).
Con la legge 208/2015 è stata modificata la parte del co. 8bis dell’art.167 che prevede che l’applicazione delle disposizioni in materia di CFC è estesa ai soggetti controllati localizzati oltre che in Stati non “black list”, anche in Stati UE / SEE al ricorrere delle condizioni di cui al comma 8-bis del citato art. 167. L’effetto è dal periodo successivo a quello in corso al 31.12.2015.
>>Il Dlgs 147/2015 prevedeva l’emanazione di un provvedimento del direttore delle Entrate, che definisse anche il criterio dell’irrilevanza delle variazioni non permanenti della base imponibile. Nell’attesa, e non essendo presenti delle indicazioni nella circolare 35/2016, va ricordato che già la circolare 23/E/2011 (par. 2.4) sottolineava il possibile effetto distorsivo derivante dalla fiscalità differita sulle differenze temporanee nel conteggio dell’effective tax estero, prevedendo però che tali effetti sarebbero stati adeguatamente valutati in sede di interpello (allora obbligatorio).
>>Nella circolare 35/E/2016 è chiarisce poi l’ipotesi in cui, con riferimento ad una specifica Cfc, possano contemporaneamente applicarsi sia la disciplina black list, sia quella white list (rispettivamente previste dai commi 4 e 8-bis dell’articolo 167); in tale ipotesi è chiarito che sia prioritariamente applicabile la disciplina black list, con la conseguenza che il socio residente potrà scongiurare la tassazione per trasparenza solo in presenza di una delle due più stringenti esimenti previste dal successivo comma 5.
INDIVIDUAZIONE DEGLI STATI “BLACK LIST”
L’art. 10 del Dlgs 147/2015 abrogato l’art. 168-bis si riporponeva di di individuare i Paesi white list: pertanto, quelli esclusi sarebbero rientrati tra gli Stati o territori a regime fiscale privilegiato. Prevedeva l’individuazione di 2 liste (c.d. “white list”), peraltro mai predisposte, riferite rispettivamente:
- agli Stati che consentono un adeguato scambio di informazioni (co. 1);
- agli Stati che consentono un adeguato scambio d’informazioni e nei quali il livello di tassazione
non è sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia (co. 2).
L’art. 8, co. 1 del Dlgs147/2015, si occupa di recepire la soppressione (operata dal successivo art. 10) dell’art. 168-bis del Tuir prevedendo che l’individuazione degli Stati “paradisiaci” torna a essere affidata all’art. 167, co. 4 del Tuir.
Con la legge 208/2015 è stata modificata la parte del co. 4 dell’art.167 che prevede che sono considerati privilegiati i regimi fiscali, anche speciali, di Stati nei quali il livello nominale di tassazione è inferiore al 50% di quello applicabile in Italia. Viene eliminato il riferimento, per l’individuazione del regime fiscale privilegiato, alla mancanza di un adeguato scambio di informazioni nonché ad “altri criteri equivalenti”.
Quanto al buco normativo lasciato dalla sopressione dell’art. 168-bis, con decorrenza dal periodo d’imposta in corso al 7.10.2015 (in generale, dal 2015), è stabilito che nel caso in cui una norma richiami agli:
- Stati che consentono un adeguato scambio di informazioni di cui al co. 1 dell’abrogato art. 168-bis, va fatto riferimento alla nuova lett. c) del co. 4 dell’art. 11, D.Lgs. n. 239/96, che demanda al MEF di stabilire, con uno o più Decreti, l’elenco di tali Stati. Finché non sarà individuato detto elenco va fatto riferimento alla lista di cui al DM 4.9.96;
- Stati diversi da quelli che consentono un adeguato scambio d’informazioni e nei quali il livello di tassazione non è sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia di cui al co. 2 dell’abrogato art. 168-bis, va fatto riferimento al DM ed al Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate emanati in attuazione dell’art. 167, co. 4, TUIR (lista di cui al DM 21.11.2011, così come aggiornata dal DM 27.4.2015 e, recentemente, dal DM 18.11.2015 che ha espunto Hong Kong dagli Stati “black list”).
ARTICOLO - Pubblicato il: 30 agosto 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
La presunzione sui prelevamenti La Corte Cost., 228/2014 ha ritenuto che le somme prelevate dal conto corrente (così come quelle su questo versate) non possono costituire ex se compensi assoggettabili a tassazione, nemmeno se non sono annotate nelle scritture contabili o se non sono indicati i soggetti beneficiari dei pagamenti: è arbitrario e quindi incostituzionale ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito.
Ha così ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di tale estensione prevista dall'articolo 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del Dpr 600/1973, come novellato dalla legge 311/2004 (Finanziaria 2005), che tale presunzione ha introdotto, per altro, con effetto retroattivo, in evidente violazione del principio dell'affidamento del contribuente.
La presunzione sui versamenti La Cassazione è di recente tornata a occuparsi delle conseguenze della sentenza 228/2014 della Corte costituzionale, che aveva stabilito l’illegittimità della presunzione sui prelievi dei professionisti.
Nelle sentenze 12779 e 12781 del 2016 è stato infatti affermato (richiamando la pronuncia 23041/2015) che la decisione della Consulta avrebbe eliminato anche la presunzione relativa ai versamenti sui conti. In tal senso anche la sentenza numero 16440 depositata il 5 agosto 2015.
Tale orientamento non appare tuttavia del tutto condivisibile, perché la motivazione della sentenza della Corte costituzionale si è incentrata soltanto sulla presunzione relativa ai prelievi. La stessa Cassazione aveva in precedenza fatto riferimento solo a quest’ultima, nelle sentenze 25295/2014, 1008, 4585, 9721 e 12021 del 2015 e 6093/2016, uniformandosi a quanto stabilito dalla Consulta.
Nella decisione 6093 del 2016, in particolare, la Suprema corte ha giustamente affermato che la sentenza costituzionale – sopprimendo le parole «o compensi» nell’articolo 32 del Dpr – non ha inteso «escludere in toto l’operatività, nei confronti dei lavoratori autonomi, della presunzione legale basata sugli accertamenti bancari; dalla motivazione della sentenza risulta che la dichiarazione di illegittimità costituzionale espressa nel dispositivo è riferita unicamente alla presunzione di maggior reddito basata “sui prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo”, ferma restando la legittimità della imputazione a compensi delle somme risultanti da operazioni bancarie attive di versamento».
E a prender atto che tale orientamento non è condivisibile è la stessa Cassazione, sentenza 16697 del 9 agosto 2016. Nella sentenza viene detto che «con riferimento ai versamenti effettuati dai predetti soggetti sui propri conti correnti resta, quindi, invariata la presunzione legale posta dalla predetta disposizione a favore dell’Erario, che data la fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’articolo 2729 Cc per le presunzioni semplici, superabile da prova contraria fornita dal contribuente (Cassazione n. 6237 del 2015 e n. 9078 del 2016), “il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili” (Cassazione sentenza n. 18081/10; sentenza n. 22179/08 e n. 26018/14)».
L’agenzia delle entrate, nella circolare 16/E del 28 aprile 2016, ha invitato gli uffici ad applicare le presunzioni a salvaguardia della pretesa erariale «secondo logiche di proporzionalità e ragionevolezza» e senza rigidi automatismi, quale quello di considerare tutti i versamenti come compensi.
ARTICOLO - Pubblicato il: 30 agosto 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Per contrastare le «presunzioni» legali (per l’appunto «relative»), la «migliore» prova è quella «documentale». Non va infatti dimenticato che «Nel processo tributario, nel caso in cui l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, è onere del contribuente, a carico del quale si determina una inversione dell’onere della prova, dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non siano riferibili ad operazioni imponibili, mentre l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, per legge, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti» (cfr. Cass., Sentenza 31 marzo 2010, n. 7813).
In alcune pronunce di legittimità era stato inizialmente affermato che alla presunzione di legge va contrapposta una prova e non un’altra presunzione. In seguito è però prevalso l’orientamento favorevole all’ammissibilità della prova presuntiva, sia perché la stessa «è ad ogni effetto una prova, sia perché, salvo espresse previsioni legislative in contrario, vige nel nostro ordinamento il principio di libertà dei mezzi di prova, sia infine perché non risulta ricavabile dal sistema un principio in base al quale la prova contraria ad una presunzione legale non possa essere fornita per presunzioni» (sentenza 25502/2011, confermata dalle decisioni 13500/2012, 17250/2013, 1118/2013 e 1560/2015).
Tale orientamento appare condivisibile ed è stato ribadito dalla sentenza 18125/2016, nella quale è stato anche precisato che la prova contraria fornita dal contribuente deve essere attentamente valutata dal giudice di merito, che «è tenuto a individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purché grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo» (in questo senso si erano espresse le pronunce 4585 e 1560/2015).
Corte di Cassazione con la sentenza n. 18125 del 15 Settembre 2015 e 18125/ 2016, ha chiarito che la prova, che deve essere specifica (non potendo contrapporsi affermazioni generiche), può fondarsi anche su presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti. Il contribuente quindi per soddisfare l’onere probatorio, può anche avvalersi di presunzioni semplici le quali però devono essere attentamente verificate dal giudice. Egli deve correlare ogni indizio (purchè grave preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati ed il risultato va valutato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo.
A tale riguardo l’agenzia delle Entrate ha precisato, nella circolare 28/E del 2006, che i contribuenti sono sollevati dall’onere di fornire la prova contraria in relazione ai prelevamenti che, «avuto riguardo all’entità del relativo importo ed alle normali esigenze personali e familiari, possono essere ragionevolmente ricondotti nella gestione extra-professionale» e tale orientamento è stato ribadito nella circolare 32/E dello stesso anno, nella quale è stato affermato che il contribuente può fornire la dimostrazione, «anche di natura presuntiva, che trattasi di spese non aventi rilevanza fiscale sia per la loro esiguità, sia per la loro occasionalità e, comunque, per la loro coerenza con il tenore di vita rapportato al volume d'affari dichiarato».
La via di fuga del contribuente passa quindi inevitabilmente per un duplice obbligo:
- confutare analiticamente ciascuna operazione e
- corredare la giustificazione con idonea documentazione.
La C.M. 32/E/2006, ai fini della prova, a ritenuto validi (tra gli altri) gli atti e i documenti che provengono:
- dalla pubblica Amministrazione;
- da soggetti aventi fede pubblica (quali per es.: notai, pubblici ufficiali e sim.);
- da soggetti terzi in qualità di parte dei rapporti contrattuali di diversa natura (rimborsi, risarcimenti, mutui, prestiti ecc.).
Anche la giurisprudenza (in più riprese, con orientamenti non sempre lineari) ha specifi¬cato che:
- la dimostrazione che i movimenti bancari in entrata di un lavoratore dipendente costituiscono reddito di lavoro autonomo «non dichiarato» spetta ai verificatori (Cass. 11 novembre 2009, n. 23852);
- le dichiarazioni sostitutive di atti notori (e le autocertificazioni) hanno validità solo in alcune procedure amministrative, ma non hanno efficacia specifica nel processo tributario (Cass. 19 marzo 2010, n. 6755);
- le dichiarazioni rese da terzi non costituiscono di per sé elementi sufficienti per vincere le presunzioni tipiche delle indagini finanziarie, costituendo meri elementi indiziari (Cass. 22 giugno 2010, n. 14960).
- al fine di evitare l’operatività delle presunzioni, il contribuente non si deve limitare a prospettare una spiegazione logica alternativa, «essendo invece necessario che tale spiegazione logica alternativa del fatto appaia come l’unica possibile» (Cass. ordinanza 24933/2009 depositata il 26 novembre 2009, in senso conforme, Cass. 12 febbraio 2008, n. 3267).
Tuttavia, se è possibile provare, con relativa facilità, eventuali «giroconti» o introiti da cessioni di beni personali o da indennizzi assicurativi, non sarà facile dimostrare (documentalmente) le «causali» di «movimentazioni finanziarie» (in accredito/versamento o in addebito/prelevamento) avvenute per contanti: tanto più che eventuali dichiarazioni o attestazioni scritte rilasciate da terzi (indicati, ad esempio, come «beneficiari» di somme «prelevate» in contanti) non hanno il valore probatorio di una «testimonianza»; e in un eventuale giudizio costituirebbero elementi «indiziari» liberamente apprezzabili dal giudice.
Si ritiene, peraltro, che possa esser valorizzata dagli uffici (in sede di contraddittorio) o dal giudice (in caso di giudizio) tutta una serie di comportamenti che – obiettivamente considerati – porti a ritenere inattendibili (in concreto) le presunzioni legali: si può pensare a prelevamenti di importo ridotto (fino a 300 o 500 euro), anche perché non è facile ricostruire – a distanza di qualche anno – «operazioni» così modeste; o a prelevamenti a cadenza regolare (es. settimanali), perchè possono giustificarsi con le ordinarie esigenze di mantenimento del nucleo familiare; o, ancora a prelevamenti a favore di un figlio che frequenta l’università in un’altra città, ecc. L’importante, in assenza di vere «prove» è che le circostanze e gli elementi di fatto, debitamente esposti e valutati, rendano verosimili e, soprattutto, convincenti le difese del contribuente, facendole assurgere da mere «asserzioni» a dichiarazioni attendibili.
Ciò significa che per superare la prova contraria il contribuente potrà opporre una presunzione «grave, precisa e concordante», ma anche una presunzione semplice (come viene ammesso dalla più recente giurisprudenza di legittimità - Cassazione 1118/2013 e 18125/ 2016); ciò a condizione che il giudice sia in grado di correlare gli elementi probatori forniti dal contribuente ai movimenti contestati: da cui la necessità di documentare il più possibile le argomentazioni difensive.
Da ultimo, per la difesa il contribuente può anche procedere ad acquisire dichiarazioni di terzi che sono ammesse nel processo tributario quali elementi indiziari (e non prove testimoniali): per rafforzali potrebbe richiedere il riscontro al Giudice, anche con apposito incarico di raccolta delle dichiarazioni da conferire alla Guardia di finanza, come ammesso da un decennio dalla giurisprudenza di legittimità (Cassazione n. 4423/2003). Tale previsione è stata ribadita, dalla stessa corte con la sentenza 7707/2013. Viene detto che nel processo tributario è possibile introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale. Queste hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, i quali possono concorrere a formare il convincimento del giudice. Ne consegue che, come l'amministrazione utilizza legittimamente le dichiarazioni di terzi soggetti sotto le più svariate forme (risposte a questionario, dichiarazioni in verbali, eccetera), anche il contribuente può acquisire a proprio favore dichiarazioni di terzi per supportare la propria difesa.
Da segnalare che la Suprema Corte con l'ordinanza 16575 depositata il 2/7/2013 ha affermato un importante principio, se non altro nuovo rispetto al passato. Ha chiarito che per applicare le presunzioni in tema di accertamenti bancari e, in particolare, sui prelevamenti, il giudice di merito deve argomentare le ragioni per le quali non ritiene convincente quanto addotto dal contribuente, non potendosi limitare a generiche considerazioni sul valore delle presunzioni in materia. Questa pronuncia va accolta con estremo favore perché richiama l'attenzione dei giudici di merito sulla necessità di argomentare determinate decisioni ancorché apparentemente sorrette dall'esistenza di una presunzione legale. In questi anni si è spesso assistito da parte dell'amministrazione alla contestazione quasi automatica, di prelevamenti e versamenti rimettendo l'idoneità della giustificazione addotta, al buon senso del verificatore, e, dall'altro da parte dei giudici, alla conferma conseguente della presunzione prevista in materia, senza valutare la fondatezza di tali giustificazioni.
Da ultimo, non va dimenticato che secondo la Cass., 12 dicembre 2003 n. 19062, gli strumenti presuntivi non possono avere effetti automatici contrastanti con il dettato costituzionale, ma richiedono un confronto con la situazione concreta. L’intento del Legislatore è rinvenibile nel fornire agli Uffici finanziari «uno strumento agevolato, non già persecutorio del contribuente infedele, ma finalizzato alla determinazione della reale consistenza del reddito imponibile da lui prodotto, in modo da ragguagliare ad esso l’imposta effettivamente dovuta, nel cui esercizio l’ufficio pubblico è tenuto al pieno rispetto del principio costituzionale della capacità contributiva del soggetto d’imposta (…) nonché di quello che impone la correttezza dell’azione amministrativa».
La Ctr del Piemonte (sentenza n. 150/1/2013) ha ritenuto che la pretesa che ogni singola movimentazione o accredito debba trovare giustificazione contabile documentale non pare sostenibile se la ricostruzione offerta dal contribuente è comunque plausibile e in parte documentata, perché non può chiedersi una prova impossibile o estremamente difficile da reperire quando vi sono concreti indizi e prove documentali di serietà e veridicità delle affermazioni del contribuente.
E ancora la circolare 25/E/2014 ha ribadito che «le presunzioni fissate dalla norma a salvaguardia della pretesa erariale devono essere applicate dall’ufficio secondo logiche di proporzione e ragionevolezza avulse da un acritico automatismo».
ARTICOLO - Pubblicato il: 25 agosto 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
La necessità che la motivazione dell'atto rechi, ineludibilmente, le ragioni per le quali l'ufficio titolare del potere di accertamento non ha ritenuto meritevoli di accoglimento, né in toto né in parte, quanto addotto dal contribuente trova fondamento nel fatto che, diversamente, l'atto è tacciabile senza dubbio di nullità insanabile per difetto di motivazione, e ciò anche nel caso in cui l'ufficio procedente si limita all'evidenza della classica "clausola di stile" quale, ad esempio, «vista la memoria illustrativa ex art. 12, comma 7, Legge 212/2000 presentata dalla Parte il .....”.
Sul punto si è già avuto modo di richiamare sia la Cass., 7 ottobre 1987, n. 7495 sia la Corte costituzionale ordinanza n. 244 del 24 luglio 2009 (in merito si veda quanto detto trattando di termine di 60 giorni per l’emanazione dell’avviso d’accertamento).
In particolare è opportuno rammentare la previsione dell'articolo 12, comma 7, e dunque la facoltà del contribuente di produrre la memoria dopo la consegna del processo verbale di constatazione, sia qualificabile come una forma di contraddittorio precontenzioso, che richiama quello previsto dall'art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689, articolo che, in tema di sanzioni amministrative, prevede che entro 30 giorni dalla contestazione della violazione (e prima dell'emanazione dell'atto amministrativo che recepisce le risultanze della contestazione medesima) l'interessato può depositare scritti difensivi o documenti. La Corte di Cassazione, in relazione all'art. 18 appena citato, ha fatto notare che l'irrogazione della sanzione prima del decorso di tale termine comporta la nullità insanabile dell'ordinanza ingiunzione che «ratifica» le contestazioni contenute nel verbale (Cass., 7 ottobre 1987, n. 7495).
In questo solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità, mutatis mutandis, si inserisce anche la giurisprudenza di merito che ha avuto modo di affermare come la mancata specifica valutazione delle deduzioni difensive del contribuente travolga la legittimità dell'avviso di accertamento (Commissione Tributaria Provinciale di Milano, Sez. I, Sentenza 20 aprile 2009, n. 233).
A supporto di tale conclusione è opportuno richiamare la giurisprudenza che si è sviluppata in relazione al citato art. 18 della legge n. 689/1981, atteso che, in effetti, il meccanismo procedurale alla base dell'art. 18 e dell'art. 12 della legge n. 212/2000 è lo stesso: redazione del verbale, presentazione di scritti difensivi, valutazione degli stessi da parte dell'organo competente, emanazione del provvedimento (sia esso avviso di accertamento od ordinanza-ingiunzione di pagamento) modificativo della sfera giuridica del destinatario.
Ecco allora che sembra pertinente richiamare quanto precisato dalla Suprema Corte di Cassazione in relazione all'art. 18: «l'autorità amministrativa(…) ha il dovere sia di sentire gli interessati che ne abbiano fatto richiesta, sia di esaminare il contenuto della memoria difensiva, se essi hanno esercitato la facoltà difensiva anche nella forma scritta. (…) L'inosservanza dei doveri correlati all'esercizio delle facoltà difensive dell'interessato costituisce un vizio del procedimento amministrativo predisposto dalla legge per l'esercizio della potestà sanzionatoria, con la conseguente illegittimità (per violazione di legge) della ordinanza-ingiunzione che ha applicato la sanzione amministrativa» (Cass. 17 settembre 1992, n. 10658).
Del resto, anche in ambito tributario il fatto che nell'avviso di accertamento si debba dar conto dell'iter logico-giuridico seguito per "rigettare", in tutto o in parte, gli elementi addotti dal contribuente è oramai un principio consolidato e non solo sotto il profilo del rispetto del diritto di difesa.
Anzi, la conclusione della Cassazione circa l'illegittimità dell'atto emanato in violazione della norma appare ancora più corretta nel caso dello Statuto del contribuente. Mentre, infatti, l'art. 18 della legge n. 689/1981 richiede che gli scritti difensivi siano “esaminati” , l'art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000 impone che le osservazioni difensive vengano «valutate» da parte dell'Ufficio competente. «Valutazione» non può che significare accurata verifica della rilevanza delle osservazioni difensive rispetto ai rilievi del processo verbale di constatazione, con specifica menzione delle ragioni che hanno spinto l'Ufficio a non accogliere le doglianze del contribuente, sì che deve ritenersi emesso in violazione di legge anche l'avviso di accertamento oggetto di impugnazione che si è limitato, come detto, a formulare una classica "clausola di stile", semplicemente a menzionare - senza, appunto, valutare - le osservazioni difensive. In definitiva, l'obbligo di valutazione delle osservazioni difensive presentate dal contribuente costituisce una forma di integrazione e completamento dell'obbligo di motivazione previsto dall'art. 7 della legge n. 212/2000.
Se quindi le osservazioni e le richieste del contribuente non vengono prese in considerazione e “specificamente valutate dall'Ufficio, prima della confezione dell'avviso di accertamento e se in questo non ne fosse fatto analitico riferimento” anche secondo autorevole Dottrina «si verterebbe evidentemente in un difetto di motivazione dell'atto che ne sancirebbe l’illegittimità» (Nanula, Le osservazioni e richieste del contribuente dopo la chiusura della verifica fiscale, in il fisco, 2004, pag. 1401).
Pertanto, seppure non sia attualmente pacifico il dibattito riguardo l'applicabilità in ambito tributario dello schema della cosiddetta "illegittimità derivata” , caratterizzante la categoria del procedimento amministrativo cui appartiene anche la sequenza accertativa tributaria, a me sembra che cui laddove vengano a determinarsi lesioni di posizioni giuridiche soggettive qualificate del contribuente e violazioni alle disposizioni poste a presidio del buon andamento e del regolare svolgimento del procedimento tributario, non può che derivare una declaratoria di illegittimità dell'atto fondato sulle risultanze di tali elementi.
Peraltro, sulla centralità del contraddittorio cosiddetto endoprocedimentale, di recente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, affrontando il tema della valenza probatoria di. parametri accettativi e studi di settore, hanno affermato come «il contraddittorio deve ritenersi un elemento essenziale e imprescindibile (anche in assenza di una espressa revisione normativa) del giusto procedimento che legittima l'azione amministrativa (in questo caso vedi Casa. n. 2816 del 2008, sulla base di argomentazioni che il collegio condivide e conferma)» per cui «la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel mero rilievo del predetto scostamento dai parametri ma deve essere integrata (anche sotto il profilo probatorio) con le ragioni per le quale sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio» (Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza 10 dicembre 2009, n. 26635).
Pertanto, a fronte di una sanzione di invalidità dell'atto, sposta in via generale dall'articolo 21-septies della legge n. 241 del 1990, prevista nei casi in cui il provvedimento amministrativo risulti privo di un elemento essenziale quale la motivazione, è pressoché automatico far derivare la nullità dello stesso in ragione dell'espressa sanzione prevista sia nell'articolo 42, secondo e terzo comma, del Dpr n. 600/1973 sia nell'articolo 56, quinto comma, del Dpr n. 633 del 1972, per quanto rispettivamente attiene all'ambito della imposi dirette e dell'Iva.
In merito si veda anche quanto detto trattando del decorso del termine di 60 giorni per l’emanazione dell’avviso d’accertamento.
CASO: IIlegittimo l’accertamento che non tiene conto delle osservazioni del contribuente.
All'assenza di valutazione da parte degli uffici delle osservazioni del contribuente è equiparabile il rigetto delle stesse con clausole di mero stile e, cioè, con formule di rito che formalmente fanno riferimento alle memorie difensive ma che, nella sostanza, evitano all'ufficio di confrontarsi nel merito delle osservazioni formulate dal contribuente. È il caso, ad esempio, della generica espressione «Le osservazioni non sono condivisibili e le richieste avanzate non possono essere accolte in quanto non sono suffragate da idonea documentazione» (Ctr Lombardia, Sez. I, sentenza 27 giugno 2014, n. 3467).
L'ufficio, quindi, non può eludere il confronto e nulla dire in merito alle specifiche eccezioni della parte ricorrente le quali possono assumere significato dirimente agli effetti della controversia. In caso contrario, il diritto di difesa del contribuente sarebbe totalmente privo di significato, come se la norma non esistesse; è evidente, infatti, che non avrebbe senso disciplinare una forma di partecipazione del contribuente se poi l'amministrazione potesse tranquillamente ignorare le osservazioni dello stesso. E la forma di partecipazione prevista dallo Statuto ha tutti i connotati del contraddittorio in quanto va osservato che il contribuente può non solo presentare osservazioni ma anche fare richieste; si tratta, nel secondo caso, di una forma sostanziale di interlocuzione che garantisce il contribuente ma che consente, allo stesso tempo, all'amministrazione finanziaria di migliorare l'esercizio della potestà impositiva attraverso un vaglio critico delle ragioni dei contribuenti.
ARTICOLO - Pubblicato il: 26 luglio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
1. La motivazione negli atti dell'amministrazione finanziaria è indispensabile e costituisce la naturale conseguenza di due principi di rilevanza costituzionale quali il principio della certezza del diritto e quello alla difesa. La natura impositiva, anche degli avvisi di liquidazione, genera la necessità di tutela delle ragioni del contribuente che deve essere posto nella condizione di conoscere, attraverso l'atto impositivo, le disposizioni di legge che si assumono violate e l'iter logico-giuridico seguito dall'amministrazione per giungere alle conclusioni che si concretano nell'affermata evasione di tributi.
Già da tempo, a livello generale, il Consiglio di Stato - con parere del 30 marzo 1984 n. 170 (in Foro Amm. 1984, 408) così si esprimeva: «la motivazione di un provvedimento amministrativo è necessaria in tutti i casi in cui gli atti dell'autorità amministrativa comportino sacrifici delle posizioni dei privati».
La necessità e l’obbligatorietà della motivazione, quale elemento caratterizzante la legittimità dell'atto amministrativo, è stata poi sottolineata dalla L. n. 241 del 7.8.1990 che all'art. 3 - primo comma che espressamente dispone: «ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato» ed ancora: «la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione».
Successivamente l’art. 7 della L. 212/2000 (c.d. «Statuto dei diritti del contribuente»), ha previsto che «gli atti dell’Amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’Amministrazione».
Ne deriva, quindi, che affinchè il diritto alla difesa possa essere consentito effettivamente e che quindi sia garantito in concreto il costituzionale diritto alla difesa è indispensabile
- che l'atto amministrativo sia motivato,
- che la motivazione non sia di mero stile e
- che la motivazione sia non carente di contenuti ma fondata su notizie certe e non già su presunzioni semplici o indizi.
Aspetti questi, di cui non si trova compiuta traccia nell’atto dell’Ufficio (sull'argomento si veda Giuliani - manuale della procedura tributaria 1987, II, 1510 - Moschetti - Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino in Dir. e Prat. Tributaria 1983 - in Giurisprudenza Comm. Trib. Il Grado Milano del 21.1.88 in B.T.I. 1988 pag. 1549 - Comm. Trib. I Grado di Milano del 22.6.1988 in Rass. Trib. 1989, II. 216 - Comm. Trib. Centrale 3.6.87 n. 4853 in 11 Fisco n. 23/87 pag. 3858).
2. L'inosservanza è sanzionata con l'invalidità dell'atto, in via generale, dall'articolo 21-septies della legge n. 241/90 (che prevede la sanzione per l'atto privo di un elemento essenziale quale quello della motivazione), e in via particolare dagli articoli 42 del Dpr 600/73 (per gli accertamenti sulle imposte sui redditi) e 56 del Dpr n. 633/72 (per gli accertamenti in materia di Iva) che richiedono a pena di nullità la motivazione in ordine ai presupposti di fatto e alle ragioni di diritto che hanno determinato l'accertamento.
3. Relativamente alla questione procedurale, non è consentita all’Ente impositore (né al Giudice tributario) l’«integrazione» della motivazione dell’atto, attraverso la produzione (o la acquisizione d’ufficio) di documenti da cui sia possibile ricostruire dal procedimento di calcolo adottato, qualora gli stessi non siano stati previamente conosciuti dal contribuente.
4. CASO: Illegittimo l’accertamento che rinvia a indagini di mercato senza che tali elementi fossero allegati o adeguatamente riscritti nella motivazione.
Con l’ordinanza n. 15348 del 25/7/2016 i giudici di legittimità, ricordando un orientamento consolidato, hanno innanzitutto precisato che l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ossia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale. In quest’ultima ipotesi, occorre che siano riportate le parti (come oggetto, contenuto e destinatari) necessarie e sufficienti per sostenere il provvedimento emesso.
Il contribuente ed il giudice, in sede di eventuale sindacato giurisdizionale, devono essere posti nella condizione di individuare i punti specifici di dove si trovano le parti a supporto della quantificazione del maggior imponibile indicata nella motivazione del provvedimento.
Ne consegue così che l’omessa allegazione ovvero il mancato riporto degli elementi essenziali impedisce di esaminare il merito della pretesa fiscale, escludendo peraltro che il giudice adito possa sostituire la propria valutazione a quella dell’Amministrazione in ordine alla sussistenza del presupposto impositivo.
Sulla base di tale principio, la Cassazione ha ritenuto illegittimo l’accertamento tributario che rinviava ad indagini di mercato ed annunci pubblicitari senza che tali elementi fossero adeguatamente riscritti nella motivazione ovvero allegati.
5. CASO: IIlegittimo l’accertamento che non tiene conto delle osservazioni del contribuente.
All'assenza di valutazione da parte degli uffici delle osservazioni del contribuente è equiparabile il rigetto delle stesse con clausole di mero stile e, cioè, con formule di rito che formalmente fanno riferimento alle memorie difensive ma che, nella sostanza, evitano all'ufficio di confrontarsi nel merito delle osservazioni formulate dal contribuente. È il caso, ad esempio, della generica espressione «Le osservazioni non sono condivisibili e le richieste avanzate non possono essere accolte in quanto non sono suffragate da idonea documentazione» (Ctr Lombardia, Sez. I, sentenza 27 giugno 2014, n. 3467). L'ufficio, quindi, non può eludere il confronto e nulla dire in merito alle specifiche eccezioni della parte ricorrente le quali possono assumere significato dirimente agli effetti della controversia. In caso contrario, il diritto di difesa del contribuente sarebbe totalmente privo di significato, come se la norma non esistesse; è evidente, infatti, che non avrebbe senso disciplinare una forma di partecipazione del contribuente se poi l'amministrazione potesse tranquillamente ignorare le osservazioni dello stesso. E la forma di partecipazione prevista dallo Statuto ha tutti i connotati del contraddittorio in quanto va osservato che il contribuente può non solo presentare osservazioni ma anche fare richieste; si tratta, nel secondo caso, di una forma sostanziale di interlocuzione che garantisce il contribuente ma che consente, allo stesso tempo, all'amministrazione finanziaria di migliorare l'esercizio della potestà impositiva attraverso un vaglio critico delle ragioni dei contribuenti.
ARTICOLO - Pubblicato il: 1 luglio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Il disposto del co. 7 dell’art. 12, l. 212/2000 attribuisce al contribuente, nel rispetto del principio di cooperazione con l’amministrazione finanziaria, il diritto di comunicare osservazioni, considerazioni, eccezioni e richieste agli uffici finanziari entro 60 giorni dalla notifica del processo verbale di chiusura delle operazioni di verifica.
A fronte di tale diritto del contribuente, l’Ufficio ricevente ha due obblighi:
- attendere il decorso del termine dilatorio di 60 giorni per l’emanazione dell’avviso d’accertamento;
- valutare le eventuali osservazioni espresse dal contribuente.
In merito a tali aspetti si veda quando viene detto dopo.
La finalità di tale disposizione è quella di imporre all’ufficio accertatore un’attività di lettura critica del processo verbale e, ove necessario, ad intervenire con l’integrazione delle risultanze acquisite.
Il diritto del contribuente di esporre considerazioni ed eccezioni, da far risultare nel processo verbale finale di constatazione, era previsto già dalle norme che regolavano l’attività di verifica, ma lo statuto compie un nuovo passo in avanti, partendo dalla considerazione secondo la quale, durante la notifica del verbale, il contribuente non sempre dispone del necessario tempo e, soprattutto, non ha la necessaria lucidità e serenità nel valutare i rilievi mossi e, conseguentemente, esprimere le sue eccezioni.
L’intervento del contribuente, da attuarsi con rilievi e osservazione, è aspetto delicato e di particolare importanza per due ordini di motivi.
Il primo trova fondamento in quanto previsto dalla Corte di Cassazione, Sez. trib., 26 gennaio 2004, nella sentenza n. 1286, la quale ha stabilito che la partecipazioni alle operazioni di verifica senza contestazioni, vale a dire senza rilievi e osservazioni prodotte dal contribuente nella fase finale della verifica, equivale sostanzialmente alla accettazione della stessa e dei loro risultati. Non occorre per questo un’accettazione espressa, ma soltanto la mancanza di contestazioni, in quanto, sostiene la Corte, se il contribuente avesse avuto qualcosa da constatare alle operazioni di verifica, che concernevano, vale inteso, la materialità dei fatti e non considerazioni tecniche o giuridiche, il contribuente avrebbe dovuto, e potuto fornire immediatamente, seduta stante, il proprio dissenso e pretendere che le proprie contestazioni fossero riportato nel verbale.
Il secondo riguarda il diritto del contribuente a partecipare al procedimento. La legge n. 241 del 1990 — che all'articolo 9, rubricato "Intervento nel procedimento", sancisce come “qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento” e all'articolo 10, rubricato “Diritti dei partecipanti al procedimento” afferma come gli aventi diritto possono “prendere visione degli atti del procedimento, salvo quanto previsto dall'articolo 24» nonché “presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione finanziaria ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all'oggetto del procedimento”.
Quindi, un contraddittorio che rivela la sua portata "garantiste" e "difensiva" proprio per la capacità che ha, ove incidente sul processo formativo delle determinazioni della Pubblica Amministrazione, di condizionare l'esito delle stesse: una "valutazione", insomma, indotta dall'azione del cittadino alla quale deve corrispondere — la legge n. 241 parla appunto di "obbligo" — la giusta reazione del soggetto pubblico. D'altronde, i criteri di imparzialità, efficienza ed economicità della Pubblica amministrazione non sono soltanto contemplati a livello costituzionale — l'articolo 97, in proposito, è il presidio della Carta — ma anche tra i principi generali dell'attività amministrativa – all’art. 1, atteso che questa “persegue i fini determinati dalla legge ed è retta la criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre che disciplinano singoli provvedimenti, nonché dai principi dell'ordinamento comunitario”. In merito si veda anche quanto detto dopo trattando di memorie.
ARTICOLO - Pubblicato il: 13 luglio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori per il Sole 24 Ore
Per utilizzabilità degli elementi acquisiti da indagini eseguite nei confronti di terzi occorre considerare il differente rapporto esistente tra il contribuente e il terzo. La norma, ma soprattutto la giurisprudenza, si è pronunciata diversamente a seconda che si faccia riferimento a situazioni nelle quali il contribuente ha una legittima disponibilità, rispetto a caso di rapporti intestati a terzi e, nell'ambito di questi, se vi sia o meno un rapporto di familiarità tra il contribuente l'intestatario della posizione.
ARTICOLO - Pubblicato il: 13 luglio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori per il Sole 24 Ore
Per utilizzabilità degli elementi acquisiti da indagini eseguite nei confronti di terzi occorre considerare il differente rapporto esistente tra il contribuente e il terzo. La norma, ma soprattutto la giurisprudenza, si è pronunciata diversamente a seconda che si faccia riferimento a situazioni nelle quali il contribuente ha una legittima disponibilità, rispetto a caso di rapporti intestati a terzi e, nell'ambito di questi, se vi sia o meno un rapporto di familiarità tra il contribuente l'intestatario della posizione.
ARTICOLO - Pubblicato il: 1 luglio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
La tassazione (società e socio) previste dalla norma e commentate dall’Agenzia nella Cir. 26/E/2016 è in linea con quella delle precedente assegnazione (e già oggetto di interpretazione dell’Agenzia nella Cir. 40/E/2002 par. 1.4.3 e seguenti).
I ragionamenti e le esemplificazioni fornite ruotano attorno a due concetti principali:
- la società applica l’imposta sostitutiva su un ammontare dato dalla differenza tra il valore dell’immobile (normale o catastale) assunto come riferimento e il costo fiscalmente riconosciuto del bene assegnato. Questo ammontare è fiscalmente neutrale per il socio, e ciò si ottiene attraverso l’incremento, per un pari importo, del costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione.La circostanza che è stata pagata una imposta sostitutiva (e quindi definitiva) dalla società ha infatti indotto l’agenzia delle Entrate a ritenere che nel limite dell’imponibile su cui è stata versata l’imposta sostitutiva non si abbia alcuna altra tassazione in capo al socio.
- l’eccedenza rispetto al valore (pari, sostanzialmente al costo fiscalmente riconosciuto del bene presso la società), se esiste, costituisce potenzialmente materia imponibile per il socio.
La tassazione in capo al socio
Per comprendere se e in che modo è tassato il socio occorre considerare quali sono le riserve che con l’assegnazione vengono annullate.
Se sono riserve di utili, l’assegnazione comporta una tassazione quale riserve di utili.
Se sono riserve di capitali, l’assegnazione, prima facie, non comporta tassazione in capo al socio andando a ridurre il fiscalmente riconosciuto della partecipazione.
Il caso del sottozero
Qualora però la restituzione (assegnazione) ecceda il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione, tale differenza è tassabile in capo al socio e è da tassarsi quale utile.
Tale principio, riportato nella Cir. 26/E/2016 par. 6, è stato espressamente previsto dall’Agenzia delle entrate anche nella Cir. di commento alla riforma fiscale. Al par. 3.1 della Cir. 26/E/2004 a commento dell’art. 47, co.3 del Tuir viene previsto che” l’eventuale somma (o valore dei beni) ricevuta dal socio eccedente il costo fiscale della partecipazione si qualifica come utile, trattandosi di un reddito derivante dall’impiego di capitale e non derivante da un evento realizzativo della partecipazione inquadrabile come tale tra le fattispecie che danno luogo a redditi diversi di natura finanziaria”.
Il costo fiscale della partecipazione
In caso di distribuzione di riserve di capitali, particolare rilevanza viene quindi ad assumere il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione, il cui onere di quantificazione incombe sul contribuente (art. 68, co. 5, 7 periodo).
In base all’art. 68, co. 6 del Tuir è il costo ovvero il valore d’acquisto, aumentato di ogni onere inerente alla sua produzione (bolli e altre imposte indirette, commissioni, spese notarili, ecc), con l’esclusione degli interessi passivi.
Deve intendersi comprensivo anche dei versamenti in denaro o in natura, a fondo perduto o in conto capitale, nonché della rinuncia ai crediti vantati nei confronti della società da parte dei soci o partecipanti.
Ai sensi dell’art. 47, comma 5 del Tuir, sono portati in diminuzione del valore di acquisto le somme ed il valore normale di beni ricevuti dai soci di società soggette all’Ires, a titolo di ripartizione di riserve o altri fondi costituiti con sovrapprezzi di emissione di azioni o quote, con interessi di conguaglio versati dai sottoscrittori di nuove azioni o quote, con versamenti fatti dai soci a fondo perduto o in conto capitale o e con saldi di rivalutazione monetaria esenti da imposta.
Il costo unitario di acquisto di azioni, quote od altre partecipazioni acquisite a seguito di delibere di aumento gratuito di capitale è determinato, per espressa disposizione del predetto comma 6 dell’art. 68 del Tuir, ripartendo il costo originario sul numero complessivo delle azioni quote o partecipazioni di compendio; vale a dire quelle acquistate prima dell’aumento e quelle acquistate dopo.
Relativamente alle partecipazioni nelle società indicate nell’art. 5 del Tuir, il vigente comma 6 dell’art. 68 del Tuir prevede per tutti i tipi di società personali (ivi comprese quelle immobiliari e finanziarie) che, ai fini della determinazione delle plusvalenze o delle minusvalenze, il costo o valore d’acquisto debba essere aumentato o diminuito dei redditi e delle perdite imputate al socio e che dal costo si scomputino, fino a concorrenza dei redditi già imputati, gli utili distribuiti al socio.
Tale criterio trova applicazione anche in caso di cessione di quote di partecipazione in società che abbiano optato per il regime di trasparenza fiscale di cui all’ art. 116 del Tuir (in merito si veda il comma 12 dell’art. 115 del Tuir).
Nel caso in cui l’acquisto della partecipazione sia avvenuto tramite donazione, il costo fiscalmente riconosciuto è il costo del donante (art. 68, comma 6, terzo periodo, del Tuir).
Nel caso in cui la partecipazione sia stata ricevuta a seguito di successione mortis causa, si assume come costo il valore definito o, in mancanza, quello dichiarato agli effetti dell'imposta di successione, nonché, per i titoli esenti da tale imposta, il valore normale alla data di apertura della successione. Il valore affrancato delle partecipazioni con le varie leggi di affrancamento che si sono susseguite dal 2001 ad oggi non assume rilevanza ai fini dell'assegnazione essendo espressa previsione normativa (art. 5 legge 448/2001) tale valore rileva ai fini della cessione delle partecipazioni (ex art. 67 del Tuir) e non anche ai fini dell'assegnazione.
ARTICOLO - Pubblicato il: 1 luglio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
L’ art. 39 comma 4 del Testo Unico Bancario prevede che "le ipoteche a garanzia dei finanziamenti non sono assoggettate a revocatoria fallimentare quando siano state iscritte dieci giorni prima della pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento. L'articolo 67 della legge fallimentare non si applica ai pagamenti effettuati dal debitore a fronte di crediti fondiari”.
In operazioni c.d. di consolido, al creditore banca - vista anche la sua natura di soggetto “sofisticato”, al quale si applica uno standard di diligenza professionale elevato, e al quale difficilmente potrà dimostrare la non conoscenza dello stato di insolvenza del debitore – si aggiungono poi le previsioni dell’art. 67, comma 1, n. 3 o 4 della legge fallimentare.
Queste prevedono:
- la revocabilità della garanzia data nell’anno antecedente il fallimento, se il debito garantito non era scaduto (art. 67, co.1. n. 3);
- la revocabilità della garanzia data nei sei mesi antecedenti il fallimento, se il debito garantito era scaduto (art. 67, co.1. n. 4).
È proprio il caso che lo spirito della norma intende colpire: il creditore comprende che il debitore è in difficoltà e si fa dare una garanzia su un debito pre-esistente, a discapito di tutti gli altri creditori.
Si segnala poi che, secondo un orientamento giurisprudenziale, in questo caso la garanzia concessa non contestualmente al sorgere dell’obbligazione potrebbe essere addirittura riconducibile alla categoria degli atti a titolo gratuito e quindi soggetti ad inefficacia ai sensi dell’art. 64 co. 4 della legge fallimentare. L’inefficacia può essere dichiarata nei confronti degli atti compiuti nei due anni antecedenti il fallimento.
Operazioni di consolido
Può essere astrattamente realizzato in due modi principali.
1. semplice capitalizzazione, accompagnata da una rateizzazione del debito con concessione di garanzia reale al creditore, di regola un’ipoteca immobiliare
Nel primo caso (“non novativa”), si immagini che la società Alfa abbia un debito nei confronti della Banca Beta di Euro 1.000.000, per scoperto di conto corrente derivante da un’apertura di credito (sia essa a termine o a tempo indeterminato) che il debitore non è in grado di rimborsare. Alla complessiva determinazione del debito, hanno concorso sia i prelievi dal conto corrente operati dalla società a valere sull’apertura di credito, che gli interessi e le commissioni via via maturati. L’origine del debito in conto corrente può essere, in realtà, anche diversa; ad esempio, può essere dovuta all’addebito di insoluti derivanti da anticipi SBF di fatture poi non pagate dai debitori di Alfa a scadenza, ma il punto non è questo.
Il debitore Alfa non è in grado di restituire immediatamente l’intero debito di un milione e, allora, chiede ed ottiene dal suo creditore Beta di rimborsare in via rateale tale importo. Ad esempio, Alfa ottiene dalla Banca Beta di rimborsare il milione dovuto in cinque anni, con dieci rate semestrali di Euro 100.000 ciascuna; sul debito complessivo così rateizzato, il debitore corrisponderà ogni semestre anche un interesse. A garanzia della restituzione del proprio debito, Alfa concede a Beta un’ipoteca su un proprio bene immobile.
Va detto che tale fattispecie è, in realtà, la meno frequente delle due; anticipando un attimo le conclusioni di questo lavoro, si può dire che emerga “ictu oculi” la circostanza che l’ipoteca non è contestuale al debito garantito e che la garanzia è concessa proprio per rafforzare la posizione del creditore in presenza di difficoltà finanziarie del debitore, con le conseguenze che poi vedremo in materia di caso di successivo fallimento di Alfa.
2. mediante un rifinanziamento del debito originario con concessione, da parte del debitore, di una garanzia reale al creditore, di regola un’ipoteca immobiliare
Nel secondo caso ( “novativa”), Alfa chiede ed ottiene dalla Banca Beta un mutuo ipotecario di un milione. Il mutuo viene erogato da Beta dopo l’iscrizione di ipoteca sul bene posto da Alfa a garanzia; nel caso di un mutuo avente le caratteristiche per essere qualificato come “fondiario” ai sensi degli articoli 38 e seguenti del Testo Unico Bancario1, l’erogazione avviene dopo dieci giorni dall’iscrizione dell’ipoteca, nella convinzione che dopo tale periodo l’ipoteca benefici dell’impossibilità di assoggettamento a revocatoria fallimentare prevista dall’articolo 39, comma 4, del Testo Unico Bancario.
All’atto dell’erogazione, il mutuo viene contestualmente utilizzato dal debitore per estinguere il debito sul conto corrente, che quindi viene azzerato. Spesso la banca, per ovvie ragioni di cautela, imposta quest’operazione condizionando l’erogazione del mutuo alla consegna, da parte del debitore (nonché mutuatario) di un ordine irrevocabile di giroconto del netto ricavo del mutuo stesso2 dal conto sul quale viene erogato al conto nel quale è contabilizzato il debito da estinguere.
ARTICOLO - Pubblicato il: 1 luglio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
La legge sul “dopo di noi”, approvata in via definitiva dalla Camera il 14 giugno 2016 consente di segregare beni e diritti a favore di una persona disabile per tutto l’arco di vita conferendo il patrimonio in un trust, beneficiando dell’esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni, e dell’applicazione delle imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura fissa.
La ratio della norma è quella di non gravare del tributo successorio il patrimonio destinato all’assistenza del disabile, fintanto che questi è in vita, stabilendo l’insorgere del presupposto impositivo solo una volta venuto meno il principale scopo del trust, evitando possibili abusi.
Il trattamento fiscale previsto per il «dopo di noi» conferma indirettamente che l’imposta sulle donazioni e successioni si applica in via ordinaria al momento dell’entrata dei beni nel patrimonio del trust, avallando la posizione sostenuta dall’agenzia delle Entrate, rispetto a quella di talune commissioni di merito secondo le quali, invece, il tributo dovrebbe applicarsi solo in uscita.
Lo stesso trattamento fiscale è esteso anche ai vincoli di destinazione previsti all’articolo 2645-ter del Codice civile, per i quali è prevista l’applicazione del tributo successorio alla morte del beneficiario. La previsione conferma indirettamente che, al di fuori dei casi qui disciplinati, l’imposta sulle successioni si applica al momento del decesso del soggetto che ha costituito il vincolo.
Il tenore letterale della norma permette, inoltre, argomentando a contrario, di superare la posizione restrittiva di recente assunta dalla Cassazione con la sentenza 4482/2016, sebbene con riferimento a un trust cosiddetto autodichiarato, stando alla quale i vincoli di destinazione costituirebbero autonomo presupposto impositivo.
La legge estende le esenzioni fiscali anche ai fondi speciali composti di beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratti di affidamento fiduciario.
Il fondo può essere gestito da soggetti qualificati, in particolare da società fiduciarie od Onlus che operano nella beneficienza.
Prevista, inoltre, l’esenzione dal tributo successorio, nonchè l’applicazione delle imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura fissa, in caso di premorienza della persona con disabilità grave laddove, dopo il decesso, i beni siano trasferiti nuovamente in capo al soggetto che ha istituito il trust o il vincolo.
L’esenzione è concessa a condizione che l’atto istitutivo di trust, il contratto di affidamento fiduciario e l’atto di costituzione del vincolo di destinazione, oltre a essere redatti per atto pubblico prevedano, come unica finalità, l’assistenza del disabile. L’atto istitutivo dovrà indicare in maniera esplicita gli obblighi e le modalità di rendicontazione in capo al trustee, al fiduciario o al gestore dei beni oggetto di segregazione, individuando un soggetto preposto al controllo delle obbligazioni imposte dai disponenti a favore del disabile grave.
ARTICOLO - Pubblicato il: 26 giugno 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
L’ art. 39 comma 4 del Testo Unico Bancario prevede che "le ipoteche a garanzia dei finanziamenti non sono assoggettate a revocatoria fallimentare quando siano state iscritte dieci giorni prima della pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento. L'articolo 67 della legge fallimentare non si applica ai pagamenti effettuati dal debitore a fronte di crediti fondiari”.
In operazioni c.d. di consolido, al creditore banca - vista anche la sua natura di soggetto “sofisticato”, al quale si applica uno standard di diligenza professionale elevato, e al quale difficilmente potrà dimostrare la non conoscenza dello stato di insolvenza del debitore – si aggiungono poi le previsioni dell’art. 67, comma 1, n. 3 o 4 della legge fallimentare.
Queste prevedono:
- la revocabilità della garanzia data nell’anno antecedente il fallimento, se il debito garantito non era scaduto (art. 67, co.1. n. 3);
- la revocabilità della garanzia data nei sei mesi antecedenti il fallimento, se il debito garantito era scaduto (art. 67, co.1. n. 4).
È proprio il caso che lo spirito della norma intende colpire: il creditore comprende che il debitore è in difficoltà e si fa dare una garanzia su un debito pre-esistente, a discapito di tutti gli altri creditori.
Si segnala poi che, secondo un orientamento giurisprudenziale, in questo caso la garanzia concessa non contestualmente al sorgere dell’obbligazione potrebbe essere addirittura riconducibile alla categoria degli atti a titolo gratuito e quindi soggetti ad inefficacia ai sensi dell’art. 64 co. 4 della legge fallimentare. L’inefficacia può essere dichiarata nei confronti degli atti compiuti nei due anni antecedenti il fallimento.
Operazioni di consolido
Può essere astrattamente realizzato in due modi principali.
1. semplice capitalizzazione, accompagnata da una rateizzazione del debito con concessione di garanzia reale al creditore, di regola un’ipoteca immobiliare
Nel primo caso (“non novativa”), si immagini che la società Alfa abbia un debito nei confronti della Banca Beta di Euro 1.000.000, per scoperto di conto corrente derivante da un’apertura di credito (sia essa a termine o a tempo indeterminato) che il debitore non è in grado di rimborsare. Alla complessiva determinazione del debito, hanno concorso sia i prelievi dal conto corrente operati dalla società a valere sull’apertura di credito, che gli interessi e le commissioni via via maturati. L’origine del debito in conto corrente può essere, in realtà, anche diversa; ad esempio, può essere dovuta all’addebito di insoluti derivanti da anticipi SBF di fatture poi non pagate dai debitori di Alfa a scadenza, ma il punto non è questo.
Il debitore Alfa non è in grado di restituire immediatamente l’intero debito di un milione e, allora, chiede ed ottiene dal suo creditore Beta di rimborsare in via rateale tale importo. Ad esempio, Alfa ottiene dalla Banca Beta di rimborsare il milione dovuto in cinque anni, con dieci rate semestrali di Euro 100.000 ciascuna; sul debito complessivo così rateizzato, il debitore corrisponderà ogni semestre anche un interesse. A garanzia della restituzione del proprio debito, Alfa concede a Beta un’ipoteca su un proprio bene immobile.
Va detto che tale fattispecie è, in realtà, la meno frequente delle due; anticipando un attimo le conclusioni di questo lavoro, si può dire che emerga “ictu oculi” la circostanza che l’ipoteca non è contestuale al debito garantito e che la garanzia è concessa proprio per rafforzare la posizione del creditore in presenza di difficoltà finanziarie del debitore, con le conseguenze che poi vedremo in materia di caso di successivo fallimento di Alfa.
2. mediante un rifinanziamento del debito originario con concessione, da parte del debitore, di una garanzia reale al creditore, di regola un’ipoteca immobiliare
Nel secondo caso ( “novativa”), Alfa chiede ed ottiene dalla Banca Beta un mutuo ipotecario di un milione. Il mutuo viene erogato da Beta dopo l’iscrizione di ipoteca sul bene posto da Alfa a garanzia; nel caso di un mutuo avente le caratteristiche per essere qualificato come “fondiario” ai sensi degli articoli 38 e seguenti del Testo Unico Bancario1, l’erogazione avviene dopo dieci giorni dall’iscrizione dell’ipoteca, nella convinzione che dopo tale periodo l’ipoteca benefici dell’impossibilità di assoggettamento a revocatoria fallimentare prevista dall’articolo 39, comma 4, del Testo Unico Bancario. All'atto di erogazione, il mutuo viene contestualmente utilizzato dal debitore per estinguere il debito sul conto corrente, che quindi viene azzerato. Spesso la banca, per ovvie ragioni di cautela, imposta quest'operazione condizionando l'erogazione del mutuo alla consegna, da parte del debitore (nonchè mutuatario) di un ordine irrevocabile di giroconto del netto ricavo de mutuo stesso dal conto sul quale viene erogato al conto ne quale è contabilizzato il debito da estinguere.
ARTICOLO - Pubblicato il: 24 giugno 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
La patent box è un regime di tassazione agevolata dei redditi derivanti dall’utilizzo di asset immateriali (intesi come software, brevetti industriali, marchi d'impresa, disegni e modelli, processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico).
L’agevolazione è introdotta nel nostro ordinamento fiscale a regime.
La norma che la prevede è contenuta all’art. 1 co. da 37 a 45 della Legge 190/2014 (Decreto attuativo – Ministero dello sviluppo economico 30 luglio 2015).
Condizioni:
a) gli asset devono avere un riconoscimento, inteso: i software devono essere protetti da copyright, i bervetti devono avere una concessione, i marchi i disegni e modelli devono essere registrati, e delle informazioni aziendali riservate deve essere rilasciata una dichiarzione sostitutiva comprovante la loro natura;
b) siano svolte attività di ricerca e sviluppo al fine del mantenimento ovvero accrescimento di tali asset.
Consiste nell’esclusione del 50% del reddito prodotto dal loro utilizzo (40% per il 2016) e nell’esclusione integrale delle plusvalenze derivanti dalla cessione di detti beni.
Così ad esempio se dall’utilizzo di un dato marchio ovvero di un processo ne deriva un reddito annuo di 1.000.000 euro, oggetto di tassazione, al posto di 1.000.000 sarà 500.000.
Così ad esempio se dalla vendita di un dato marchio ovvero di un processo di proprietà ne deriva una plusvalenza di 1.000.000 euro, questa sarà interamente esente da imposta.
Presuppone:
a) conteggi complessi per l’individuazione del reddito derivante dall’utilizzo degli asset che tengono anche conto dell’attività di ricerca e sviluppo svolte nei vari anni.
b) l’esercizio di una opzione (da rinnovare ogni 5 anni) e, in caso di utilizzo diretto o nell’ambito del gruppo degli asset immateriali agevolabili, una procedura di ruling, al fine della definizione dei suoi contenuti.
ARTICOLO - Pubblicato il: 24 giugno 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Come modificato dagli artt. da 1 a 14 D.lgs 158/2015 - modifiche finalizzate a estendere la fattispecie generale della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e mitigare il regime sanzionatorio per i fatti oggettivamente privi dei connotati della fraudolenza.
ARTICOLO - Pubblicato il: 18 maggio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Le SNC, le SAS, le SRL e SPA entro il 30 settembre 2016 assegnano o cedono ai soci beni immobili, diversi da quelli indicati nell'articolo 43 comme 2 primo periodo del TUIR, o beni mobili iscritti in pubblici registri non utilizzati conme beni strumentali nell'attività proria dell'impresa.
ARTICOLO - Pubblicato il: 17 marzo 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Secondo la sentenza n. 16606 depositata il 7 agosto 2015 un’unica sottofatturazione non legittima l’accertamento induttivo. Occorre, infatti, che le irregolarità siano gravi, ripetute e numerose. La Suprema Corte, in accoglimento dell’impugnazione, ha innanzitutto rilevato che secondo costante giurisprudenza in presenza di scritture contabili formalmente regolari, è ammissibile il metodo induttivo solo nell’ipotesi in cui l’ufficio fornisca la dimostrazione della complessiva inattendibilità delle scritture stesse. Devono sussistere, infatti, così come previsto dalla norma, gravi, numerose e ripetute omissioni e false o inesatte indicazioni relative agli elementi indicati nella dichiarazione e risultanti dal verbale di ispezione. Nella specie, però, difettavano tutti e tre i presupposti stante che come aveva rilevato la stessa commissione tributaria centrale, si trattava di un unico episodio di sottofatturazione del professionista. La contabilità quindi non poteva ritenersi inattendibile e l’ufficio non poteva ricorrere all’accertamento induttivo. Da quanto enunciato dalla Cassazione, dunque, ne consegue che l’amministrazione deve dimostrare la complessiva inattendibilità delle scritture.
Secondo la sentenza 24313/2014 della Cassazione depositata il 14 novembre 2014, è legittimo all'accertamento induttivo nei confronti dell'imprenditore che dichiara un reddito inferiore alla soglia Istat di povertà assoluta.
La vicenda trae origine da un avviso di accertamento con il quale l'agenzia delle Entrate ha rettificato induttivamente il reddito di un imprenditore, applicando una diversa percentuale di ricarico rispetto a quella desumibile dai dati dichiarati. L'ufficio ha poi ravvisato l'inattendibilità delle scritture contabili poiché l'utile conseguito era eccessivamente basso e inverosimile per la natura lucrativa di ogni attività commerciale.
Il contribuente ha impugnato l'avviso di accertamento ma in appello è stata confermata la correttezza della pretesa tributaria. Ne è scaturito così il ricorso per Cassazione. Il collegio di legittimità ha, però, confermato la sentenza di secondo grado e ha affermato che un reddito dichiarato inferiore alla soglia di povertà è un indizio di per sé sufficiente a giustificarne la rettifica, poiché denota una situazione commerciale anomala.
Esiti antieconomici, non ragionevoli e contrari ai canoni imprenditoriali rappresentano, infatti, comportamenti che possono disattendere l'attendibilità della contabilità. Pertanto l'ufficio è legittimato a un rettifica sulla base di presunzioni semplici. Spetta poi al contribuente provare l'effettiva sussistenza degli scarsi risultati conseguiti.
Inoltre l'ordinanza 24278/2014 (anch'essa depositata ieri) ha affermato che se l'amministrazione finanziaria sostiene l'inattendibilità delle scritture obbligatorie deve fornire un qualche elemento indiziario, quali studi di settore o medie di ricarico, in base ai quali può induttivamente quantificare la pretesa.
Secondo la Cass. sentenza 19602/2015 depositata il 1 ottobre 2015 la perdita d’esercizio risultante dal bilancio potrebbe convincere il giudice tributario dell’infondatezza dell’accertamento anche in caso di dichiarazione omessa. Nel respingere il ricorso, la Cassazione ha innanzitutto precisato che, in presenza di presunzioni «supersemplici», il giudice tributario ha l’onere di verificare l’operato dell’ufficio: deve così riscontrare se i fatti utilizzati come indizi siano compatibili con il criterio della normalità. Qualora rilevasse incongruenze e contrasti con principi di ragionevolezza, può giungere a diverse conclusioni.
La Ctr, sebbene con una succinta motivazione, aveva comunque operato una valutazione di merito priva di vizi. I giudici di appello, infatti, avevano spiegato che i valori determinati dall’ufficio si mostravano del tutto irragionevoli: secondo l’accertamento il reddito imponibile dell’esercizio doveva essere pari a circa 620milaeuro, mentre il bilancio prodotto dalla contribuente mostrava una perdita di quasi 775mila euro. Tale dato era supportato con il fallimento della società pochi mesi dopo la chiusura del periodo d’imposta verificato. In altre parole, quindi, secondo il collegio di merito appariva del tutto inverosimile che una società con un reddito di circa 600mila euro dopo pochi mesi fallisse.
Di conseguenza la perdita indicata nel bilancio, pur non essendo di per sé prova del reddito effettivo, è resa verosimile dai fatti che sono seguiti e il giudice, valutando quindi l’intero quadro probatorio, può disattendere i risultati dell’ufficio.
Più in generale la Cassazione con giurisprudenza ormai costante ha affermato che la contabilità può essere considerata inattendibile se risulta confliggere con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente (si vedano, da ultimo, le sentenze 9968/2015 e 3279/2016).
Tra i comportamenti ritenuti dalla giurisprudenza di legittimità assolutamente contrari ai canoni nell’economia figurano:
- produzione di perdite o di redditi di scarsa entità per più anni (sentenze 21536/2007, 24436/2008, 26167/2011, 13468/2015);
- dichiarazione di utili irrisori a fronte di ricavi di notevole entità (2613/2012);
- sproporzione per difetto dei ricavi rispetto ai costi (16642/2011);- incongruità della percentuale di ricarico dichiarata (2613/2012);
- consumi di energia elettrica medi delle apparecchiature e il raffronto tra il reddito dichiarato dall’imprenditore e quello del dipendente (843/2016).
Una volta contestata dall’ufficio delle Entrate l’antieconomicità del comportamento posto in essere dal contribuente, in quanto ritenuto contrario ai canoni dell’economia, incombe su quest’ultimo l’onere di fornire le necessarie spiegazioni. L’Agenzia delle entrate ha infatti affermato, nella nota 55440/2008, che in presenza di comportamenti antieconomici incombe sul contribuente l’onere di provare la logicità ed economicità del proprio comportamento. Anche la Cassazione ha costantemente affermato lo stesso principio, precisando che il contribuente può avvalersi a tal fine di presunzioni analoghe a quelle utilizzate dall’Amministrazione finanziaria. Ad esempio, è stato ritenuto che possa essere presa in considerazione la presenza di forti investimenti negli anni precedenti, «determinati dalla finalità di introdurre un nuovo modo di gestire l’attività (cd. telemarketing); nello specifico: spese (ad utilità pluriennale) di ricerca, sviluppo e pubblicità, che avevano negativamente condizionato gli esercizi successivi» e che avevano più avanti comportato un ritorno in termini di utili (sent. 13468/2015). È stata, inoltre, considerata verosimile la dichiarazione di una perdita in caso di successivo fallimento della società che l’aveva dichiarata e ritenuto che l’accertamento induttivo fosse qui in contrasto con «il criterio della normalità» (sent. 19602/2015). Nella sentenza 26113/2015 è stata invece ritenuta non provata l’antieconomicità del comportamento del contribuente perché la prevalenza dei costi sui ricavi potrebbe derivare da «incapacità gestionale».
Il giudice di merito deve, però, sempre esplicitare i motivi per i quali vengono disattese le ragioni formulate dall’ufficio per dimostrare l’inattendibilità della contabilità (sent. 3279/2016).
Non sono invece stati ritenute situazioni di antieconomicità:
- Incapacità imprenditoriale. (Cass. sentenza 26113/2015).
- Investimenti in perdita. Effettuazione di forti investimenti in spese di ricerca, sviluppo e pubblicità che provocano perdite e redditi di modesto importo negli anni successivi. È logico, dal punto di vista economico, sostenere in alcuni anni investimenti tali da consentire, a fronte di un’iniziale produzione di perdite, di conseguire poi maggiori ricavi (Cassazione, 13468/2015)
- Vendita sottocosto. Acquisto da parte della concessionaria di veicoli usati ad un prezzo superiore a quello della successiva rivendita. È legittima la sopravvalutazione dei veicoli usati acquisiti in permuta, perché va inquadrata nel contesto complessivo dell'operazione, che ha condotto a un risultato economico positivo
(Cassazione 19408/15 e 6337/02)
- Vendita sottocosto. L'impresa effettua vendite o rende servizi sottocosto per incentivare la diffusione dei prodotti o per motivi di penetrazione del mercato.L’operato è legittimo perché la economicità va valutata prendendo in considerazione la complessiva situazione contrattuale e aziendale (Assonime circolare 16/2009)
- Prezzi bassi. L'impresa applica prezzi di vendita delle proprie merci inferiori rispetto a quelli praticati dalle imprese concorrenti. La riduzione dei margini di guadagno non contrasta con i criteri di economicità e ragionevolezza se è dettata dalla necessità di fidelizzare e mantenere i clienti in tempi di crisi
(Ctp Milano, 7546/1/2015)
- Concessione di beni in comodato. L'impresa concede in comodato gratuito i macchinari con i quali il comodatario deve svolgere l'attività a favore dello stesso comodante. Non è antieconomica l’operazione che punta a incrementare le vendite e a realizzare il programma economico del comodante
(Circolare 9/2320 del 1981. Ris. 225/E/2002 e 196/E/2008. Cassazione 16730/2015)
Nella sentenza 26113/2015 è stata invece ritenuta non provata l’antieconomicità del comportamento del contribuente perché la prevalenza dei costi sui ricavi potrebbe derivare da «incapacità gestionale».
ARTICOLO - Pubblicato il: 17 marzo 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
La riclassificazione dello stato patrimoniale in secondo criteri finanziari presuppone che le poste vengano classificate secondo il grado di liquidità e di esigibiità, distinguendo cioè le singole voci a seconda della loro più o meno breve “permanenza” all’interno dell’impresa.
Questo metodo, utile per le analisi dell’equilibrio tra tipi di impieghi (a breve e a lungo termine) e tipi di finanziamento (a breve e consolidati), trova impiego nelle analisi volte a valutare la solvibilità a breve termine dall’azienda. In altre parole, permette di valutare la capacità dell’azienda di far fronte agli impegni.
Stato patrimoniale riclassificato secondo il criterio finanziario
ATTIVO IMMOBILIZZATO - immobilizzazioni tecniche - immobilizzazioni immateriali - immobilizzazioni finanziarie ATTIVO CIRCOLANTE - liquidità immediata - liquidità differita - disponibilità |
PASSIVITA’ A BREVE PATRIMONIO NETTO E UTILE PASSIVITA’ A MEDIO / LUNGO TERMINE |
ATTIVO IMMOBILIZZATO
Comprende le voci relative alle immobilizzazioni (ad eccezione delle azioni proprie, più opportunamente da portare in diminuzione del patrimonio netto) ovviamente al netto dei relativi fondi di ammortamento e di tutte le eventuali poste rettificative. Si tratta quindi degli investimenti a lunga permanenza nell’impresa. Si può distinguere tra:
- immobilizzazioni tecniche (sono compresi in questa categoria gli immobili civili e quelli strumentali; i primi, stante il presumibile superiore rado di liquidità, potrebbero essere considerati alla stregua di attività disponibili),
- immobilizzazioni finanziarie (che potrebbero comprendere anche eventualidisaggi su prestiti), e
- immobilizzazioni immateriali
ATTIVO CIRCOLANTE
Comprende le rimanenze, i crediti, le attività finanziarie non costituenti immobilizzazioni (eccetto le azioni proprie), le disponibilità liquide e i ratei e risconti attivi (ovviamente per la sola quota parte relativa agli importi esigibili entro l’esercizio successivo, dovendo considerarsi quelle in scadenza più protratta alla stregua di immobilizzazioni).
Sono quindi considerate tali quelle attività di facile e rapido realizzo (o rotazione), che possono così distinguersi:
- liquidità immediata comprende le sole disponibilità liquide potenzialmente trasformabili in moneta in tempi molto rapidi (ad es. titoli di facile realizzabilità);
- liquidità differite, che comprendono i crediti, le attività finanziarie e i ratei e risconti;
- disponibilità che accolgono i valori del magazzino.
Il magazzino è la voce meno “liquida” tra quelle considerate. La possibilità per l’azienda di trasformare in liquidità le scorte dipende infatti dalla sua capacità di vendere tali scorte in tempi brevi e di incassarne il prezzo. Si tratta di una manovra che potrebbe non essere agevole, vuoi per il tipo di prodotto vuoi per il rischio di compromettere la continuità del processo produttivo.
Gli anticipi a fornitori per acquisti di merci devono essere correttamente computati in aumento delle scorte, poiché si tratta di importi che si trasformano in scorte entro breve. Per lo stesso motivo, dal magazzino deve sottrarsi quanto ricevuto dai clienti a titolo di acconto su ordini di prossima evasione.
PATRIMONIO NETTO
Accoglie le voci relative al patrimonio netto, opportunamente ridotte delle azioni proprie (anche se queste potrebbero rimanere a formare le poste dell’attivo immobilizzato, in quanto espressione di un precisa scelta di destinazione dell’impresa, che ha evidentemente voluto investire in questo modo con quote di utile regolarmente formate e accantonate). Si tratta pertanto di poste legate all’azienda in modo pressoché permanente, con l’esclusione delle riserve, di cui l’assemblea potrebbe deliberare la distribuzione, e del risultato di esercizio che, nel caso sia positivo, potrebbe essere distribuito. La quota di utile di esercizio destinato alla distribuzione va in effetti evidenziata tra le passività a breve termine.
PASSIVITA’ A MEDIO – LUNGO PERIODO
Sono ricompresi
- i debiti da rimborsarsi non prima di un anno,
- il trattamento di fine rapporto, almeno per la quota non in scadenza nei 12 mesi e
- i fondi per rischi e oneri, se non direttamente imputabili a voci dell’attivo, nonché
- le quote relative ad aggio sui prestiti.
PASSIVITA’ A BREVE TERMINE
Comprendono
- la quota parte dei debiti da estinguersi entro l’anno dalla data di riferimento del bilancio,
- i ratei e risconti ed eventualmente la quota parte dei fondi (TFR e rischi ed oneri) in scadenza entro i dodici mesi,
- i debiti tributari, almeno per quanto attiene gli impegni da onorare nei confronti dell’Erario entro pochi mesi dalla scadenza dell’esercizio.
Sarebbe opportuno individuare quelle voci di debito facilmente rinnovabili alla scadenza: per esse infatti la catalogazione tra le passività a breve termine potrebbe essere discutibile: è il caso delle aperture di credito in conto corrente, di fatto rinnovabili, a condizione che l’andamento aziendale non sia tale da indurre qualche preoccupazione nell’intermediario.
La differenza tra le attività circolanti e le passività a breve termine determina il capitale circolante netto (CCN), cui spesso si assegna un significato improprio ai fini dell’analisi.
Si è soliti infatti distinguere due casi:
- se il capitale circolante netto è positivo (e quindi le attività a breve superano le passività a breve), l’impresa è presumibilmente in grado di fare fronte ai prossimi impegni in scadenza senza intaccare l’attivo immobilizzato e senza dover accedere a nuovo indebitamento. Tale dato a prima vista andrebbe considerato in modo positivo, nel senso che da indicazione che per fronteggiare gli impegni relativi alle prossime scadenze, l’impresa dispone della liquidità riveniente dalle attività a breve scadenza.
- se il capitale circolante netto è negativo (e quindi le attività a breve sono inferiori alle passività a breve), l’impresa potrebbe avere difficoltà a fare fronte agli impegni di prossima scadenza. Tale dato a prima vista andrebbe considerato in modo negativo, nel senso che, per fronteggiare gli impegni relativi alle prossime scadenze, all’azienda non è sufficiente la liquidità riveniente dalle attività disponibili, rendendosi necessario realizzare parte dell’attivo immobilizzato, con pesanti conseguenze in termini di tempi di realizzo e di operatività futura.
Queste affermazioni si ritiene siano in parte criticabili, perché sembrano assegnare valore eccessivo al concetto di scadenza, oggi assolutamente privo del suo probabile significato originario. In particolare, è assai poco probabile che si verifichi la effettiva necessità di onorare gli impegni di cui alle voci del passivo a breve termine, stante la loro capacità di “rinnovarsi” continuamente quindi di fatto non obbligando mai ad un effettivo realizzo delle attività corrispondenti.
E’ piuttosto vero invece che il significato del CCN>O sia da considerare positivo in quanto la logica conseguenza è che è che il valore dell’attivo immobilizzato e inferiore del valore del passivo a medio/lungo termine aumentato del patrimonio netto: principio molto caro alla stragrande maggioranza degli analisti, i quali guardano con timore l’impresa che ricorra ad investimenti durevoli per il tramite di fonti di raccolta diverse dal patrimonio netto e, in subordine, dal passivo a medio/lungo termine.
E’ questo un principio condivisibile, in quanto l’attivo immobilizzato è generatore di tensione finanziaria (richiede un impegno all’esborso immediato, a fronte di benefici effetti monetari diluiti nel tempo per il tramite del “recupero” sugli ammortamenti).
ARTICOLO - Pubblicato il: 17 marzo 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
La riclassificazione dello Stato Patrimoniale eseguita secondo il criterio funzionale mira da un lato al superamento del principio rigoroso di scadenza delle voci, tipico della riclassificazione precedente, e dall’altra all’identificazione delle fonti di raccolta distinte tra finanziarie e patrimonio netto, a ben evidenziare l’alternatività tipica cui si trova di fronte l’impresa nel momento in cui necessita di risorse finanziarie (e quindi deve operare la scelta tra mezzi propri e mezzi di terzi).
Tale riclassiflcazione può essere condotta a due livelli, a seconda del grado di complessità dell’attività dell’azienda indagata da un lato e della importanza della gestione accessoria dall’altro.
Ad un primo livello la distinzione tra le singole categorie di voci può essere operata nel modo seguente:
Stato patrimoniale riclassificato secondo il criterio funzionale
ATTIVO IMMOBILIZZATO (1) ATTIVO COMMERCIALE NETTO (2) LIQUIDITÀ (3) ATTIVITÀ ACCESSORIE |
PATRIMONIO NETTO (4) PASSIVO COMMERCIALE (5) PASSIVO FINANZIARIO (6) |
In una seconda fase, si potrebbero compattare le voci relative alla liquidità (che verrebbe portata in diminuzione del passivo finanziario), del capitale commerciale (con le passività portate in riduzione delle attività), così giungendo alla seguente formulazione sintetica:
Stato patrimoniale riclassificato secondo il criterio funzionale
ATTIVO IMMOBILIZZATO (1) ATTIVO COMMERCIALE NETTO (2-5) c.d. Net Working Capital (NWC) ATTIVITÀ ACCESSORIE |
PATRIMONIO NETTO (4) POSIZIONE FINANZIARIA NETTA (6-3) |
In questo seconda fase la compattazione delle voci agevola l’analisi successiva, ma ovviamente potrebbe fare perdere informazioni di rilievo: è pertanto consigliabile procedere in sequenza, e se del caso evitare di compattare le voci relative alla gestione commerciale e alla liquidità- passivo finanziario, nel caso possa ritenersi utile una loro esposizione separata.
Si noti che in entrambi i casi vengono comunque evidenziate le attività accessorie, espressione di quegli impieghi di risorse non strettamente collegati all’attività operativa dell’impresa (così, ad esempio, sarà da considerarsi operativo l’impiego in un fabbricato adibito alla produzione delle merci oggetto dell’attività, ed invece extra-operativo un fabbricato civile utilizzato dall’impresa con il solo fine di produrre reddito addizionale).
ATTIVO IMMOBILIZZATO E PATRIMONIO NETTO
Hanno la stessa natura di quelli esaminati a riclassiflcazione precedente, ad eccezione del fatto che il valore del trattamento di fine rapporto, del trattamento di quiescenza e gli altri fondi relativi alle immobilizzazioni (ad es. un fondo per il rinnovamento degli impianti) vengono portati in diminuzione del valore delle immobilizzazioni (si potrebbe anche considerare tali fondi tra le componenti del passivo commerciale, ma poiché la loro natura è in genere di passività consolidata, si ritiene utile inserirle tra le immobilizzazioni).
ATTIVITA’ ACCESSORIA
Accoglie le voci di impiego relative ad investimenti estranei dalla gestione tipica dell’impresa; potrebbe pertanto accogliere voci tipicamente immobilizzazioni non operative (ad esempio una partecipazione “speculativa” o fabbricati non di uso: industriale) o anche attività finanziarie che non abbiano natura di immobilizzazione, ma che comunque non siano considerabili alla stregua di una liquidità immediata generatrice di proventi finanziari imputabili appunto alla gestione finanziaria del conto economico.
ATTIVO COMMERCIALE NETTO
Accoglie la differenza tra le componenti di attivo circolante relative a rimanenze, crediti (a prescindere dalla loro scadenza e con inclusione delle sole componenti legate a rapporti commerciali) e ratei e risconti (con esclusione del disaggio su prestiti, che ha natura di attivo immobilizzato) da un lato e acconti, debiti verso fornitori, debiti rappresentati da titoli di credito (se commerciali), verso imprese controllate, collegate e controllanti (se relativi a rapporti commerciali) debiti tributari, debiti verso istituti di previdenze e di sicurezza sociale, altri debiti commerciali e ratei e risconti dall’altro (con esclusione dell’aggio su prestiti, che ha natura di passivo finanziario).
POSIZIONE FINANZIARIA NETTA
Accoglie le voci relative a obbligazioni (anche convertibili) debiti v/banche, debiti verso altri finanziatori, altri debiti di natura finanziaria eventualmente anche rappresentati da titoli di credito, aggio su prestiti, al netto di attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni, disponibilità liquide ed eventualmente del disaggio su prestiti.
Sia l’attivo commerciale netto che il passivo finanziario possono assumere valore positivo o negativo.
L’ATTIVO COMMERCIALE NETTO c.d. Net Working Capital (NWC)
- attivo commerciale netto > O (se quindi l’attivo commerciale supera il passivo commerciale) esprime il fabbisogno di risorse da reperire, principalmente sui mercati finanziari, per fronteggiare l’esigenza di finanziamento generata dall’attività di acquisto/trasformazione/vendita; in pratica, in questo caso, a prescindere dalle voci generalmente di minore rilievo, l’investimento in crediti verso la clientela e il magazzino supera il finanziamento ottenuto da fornitori.
- un attivo commerciale netto < O (se quindi il passivo commerciale superala l’attivo commerciale) esprime l’eccedenza di risorse che è possibile impiegare in altri ambiti gestionali, da quelli più tradizionali per il rafforzamento dell’attività operativa (ad esempio incrementando le immobilizzazioni realizzando nuovi investimenti) a quelle ritenute pro-tempore più convenienti.
Il valore dell’attivo commerciale netto è di notevole interesse non solo nella sua definizione puntuale, ma anche considerando la variazione intervenuta da un periodo all’altro; calcolando la variazione di attivo commerciale netto (definita anche variazione di capitale commerciale, o di capitale circolante in senso stretto, per distinguerla da quella ottenuta con la riclassificazione precedente) si ottiene infatti una immediata percezione:
- delle risorse investite, se l’attivo commerciale netto è aumentato: se infatti cresce nel periodo, l’impresa è obbligata a reperire (e a pagare) le risorse finanziarie necessarie alla copertura del fabbisogno. Un tipico esempio di aumento dell’attivo commerciale netto si riscontra nelle imprese in crescita: in questo caso infatti l’espansione dell’attività potrebbe provocare un aumento dei crediti verso clienti e del magazzino, solo in parte compensata dall’aumento dei debiti nei confronti dei fornitori. L’impresa sarebbe pertanto obbligata a reperire, tipicamente sul mercato dei capitali, le risorse sufficienti a coprire il fabbisogno generato dalla crescita;
- delle risorse disinvestite, se l’attivo commerciale netto è diminuito: vale in questo caso un ragionamento simmetrico al precedente, nel senso che la riduzione dell’attivo commerciale netto consente all’impresa di liberare risorse finanziarie. La riduzione potrebbe essere positivo sintomo di una accresciuta capacità contrattuale nei confronti dei clienti e dei fornitori, che si trasforma in una riduzione dei tempi di incasso e in un allungamento di quelli di pagamento, ma anche preoccupante segnale di una riduzione del volume di attività, con conseguente alleggerimento degli impegni nei confronti di clienti e fornitori, e con progressivo svuotamento del magazzino.
POSIZIONE FINANZIARIA NETTA
- se il passivo finanziario è > O, ciò evidenzia il necessario ricorso al finanziamento esterno per fare fronte al fabbisogno generato dall’attività, sia sotto forma di immobilizzazioni che eventualmente di attivo commerciale (si tratta ad evidenza dell’ipotesi più frequente)
se il passivo finanziario è < O, ciò evidenzia la capacità dell’impresa di generare risorse finanziarie eccedenti destinabili ad investimenti di altra natura, quali tipicamente liquidità ovvero impieghi di tipo “accessorio”.
ARTICOLO - Pubblicato il: 17 marzo 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Attraverso tale riclassificazione è possibile evidenziare tre indicatori fondamentali relativi all’attività operativa, vale a dire:
- il valore della produzione;
- il valore aggiunto;
- il margine operativo lordo.
Lo schema è il seguente:
CONTO ECONOMICO A VALORE DELLA PRODUZIONE E VALORE AGGIUNTO
Valore della produzione
+ Ricavi delle vendite e delle prestazioni (al netto delle relative rettifiche);
+ variazione del magazzino prodotti in corso di lavorazione, semilavorati eprodotti finiti;
+ variazione di lavori in corso su ordinazione
+ incrementi di immobilizzazioni per lavori interni;
- Acquisti di prodotti finiti destinati alla commercializzazione
- acquisti dell’esercizio
- variazione magazzino materie prime, sussidiarie di consumo e merci
- spese generali
= Valore aggiunto
- costo del personale
= margine operativo lordo (M.O.L.)
- Ammortamenti e accantonamenti
= Reddito operativo
+ o - risultato della gestione finanziaria
+ o - risultato della gestione accessoria
+ o - risultato della gestione straordinaria
= Reddito Ante Imposte
- Gestione fiscale
= Reddito Netto
Le singole categorie di voci sono composte, ricordando lo schema di cui all’at 2425 del codice civile, nel modo seguente:
Valore della produzione
E’ dato da:
+ +Ricavi delle vendite e delle prestazioni (al netto delle relative rettifiche);
+ +variazione del magazzino prodotti in corso di lavorazione, semilavorati eprodotti finiti;
+ +variazione di lavori in corso su ordinazione
+incrementi di immobilizzazioni per lavori interni;
- Acquisti di prodotti finiti destinati alla commercializzazione.
Tale valore è quindi calcolato in modo analogo a quanto esposto nello schema civilistico di conto economico, ad eccezione della voce relativa ad altri ricavi e proventi, che come sopra evidenziato finisce con il confluire nella gestione accessoria ed eventualmente in quella straordinaria ed inoltre della componente di acquisti di beni destinati direttamente alla commercializzazione (in pratica è necessario isolare, all’interno della voce relativa agli acquisti, questa componente, in modo che sia possibile portarla in diretta diminuzione del valore della produzione).
~ Il valore della produzione è di notevole importanza per l’impresa. Esso indica, meglio del fatturato, quanto essa ha lavorato e prodotto: in effetti il fatturato potrebbe essere artificiosamente elevato da una componente di mera “commercializzazione” di prodotti finiti (tipico caso dell’impresa che si trova talvolta a “trattare” partite di merce senza che le sia richiesto di intervenire nella trasformazione), ovvero contenuto in quei periodi in cui si è lavorato per il magazzino, sfruttando magari momenti favorevoli per quanto attiene l’approvvigionamento di materia prima e la successiva vendita sul mercato. Con ciò non si vuole sminuire l’enorme portata segnaletica ed informativa del fatturato, che rappresenta, unitamente al reddito, un elemento di grande attenzione da parte dell’analista: semplicemente si vuole ricordare che in certi casi tale contenuto informativo è notevolmente ridotto o addirittura fuorviante.
Ovviamente una produzione elevata in periodi di fatturato decrescente deve opportunamente destare l’attenzione dell’analista, chiamato a riconoscere i motivi sottostanti a tale situazione, che potrebbero ad esempio essere sintomatici di una chiara difficoltà dell’impresa sul mercato di sbocco delle merci (per cui la produzione “per il magazzino” è di fatto una produzione “forzata”) ovvero della capacità di sfruttare le già citate favorevoli condizioni di approvvigionamento. Il valore della produzione assume notevole e diverso significato a seconda del tipo di impresa oggetto di analisi.
Nelle imprese industriali la produzione è determinata in parte da beni venduti, valorizzati in base ai prezzi di vendita, e in altra parte da beni in giacenza e da costruzioni interne, valorizzati in base ai costi di produzione: si crea pertanto una commistione tra elementi espressi secondo diversi criteri di valorizzazione, e pertanto si avrà:
- una stima prudenziale del valore della produzione ogni volta che i processi produttivi hanno alimentato il magazzino di prodotti finiti
- una stima meno prudenziale qualora si sia proceduto allo smantellamento del magazzino esistente all’inizio del periodo, non procedendo ad una sua
Nelle imprese commerciali dove non si realizza un processo di trasformazione, la produzione corrisponde semplicemente alla differenza fra il fatturato e il costo delle merci vendute. In questo tipo di imprese il significato della produzione è assai elevato, rappresentando il primo importante margine di redditività.
Acquisti dell’esercizio
In questa voce sono accolti gli acquisti di materie prime, sussidiarie di consumo e merci (con evidente eccezione di quelle destinate alla commercializzazione), ad espressione dell’incidenza del costo della materia prima.
Variazione magazzino materie prime, sussidiarie di consumo e merci
Deve essere indicata la variazione del magazzino materie prime, sussidiarie di consumo e merci, necessaria affinché sia possibile, unitamente alla voce precedente relativa agli acquisti, valutare l’incidenza del costo della materia prima nel processo di trasformazione. In tale componente possono riscontrarsi vistosi fenomeni legati alla stagionali, nel caso in cui gli acquisti non possano essere adeguati con immediatezza alle esigenze del ciclo produttivo spese generali: accolgono tutti gli altri oneri della produzione, oltre all’acquisto della materia prima, sostenuti “all’esterno”, e quindi i costi per servizi, per godimento di beni di terzi e gli oneri diversi di gestione.
VALORE AGGIUNTO
L’impresa attraverso la propria capacità produttiva trasforma le materie prime e i materiali e servizi acquistati all’esterno in prodotti/servizi vendibili sul mercato o utilizzabili all’interno; la differenza tra il valore della produzione e i costi a tal fine sostenuti costituisce il valore che l’impresa aggiunge a detti prodotti e/o servizi, appunto definito valore aggiunto. La sua adeguatezza si misura nella capacità di remunerare i fattori produttivi seguenti, vale a dire in primis il lavoro incorporato nei prodotti, espresso dal costo del lavoro nella sua globalità, quello del capitale immobilizzato per il tramite degli ammortamenti, quello del capitale di terzi espresso dagli oneri finanziari e quello del capitale proprio attraverso il reddito netto.
Solitamente l’analisi del valore aggiunto diventa rilevante anche ai fini della valutazione del grado di integrazione verticale dell’impresa, perché è presumibile che ad elevati gradi di integrazione verticale si accompagnino elevati livelli di valore aggiunto (l’impresa integrata svolge all’interno la maggior parte della lavorazione, sfrattando il differenziale tra produzione e costi di approvvigionamento per fare fronte a notevoli costi del lavoro e ammortamenti; al contrario, un minor livello di valore aggiunto esprime in genere, a parità di altre condizioni, un minor grado di integrazione verticale, poiché l’impresa decide in questo caso di fare ricorso a produzioni esterne; tale scelta sarà evidentemente dettata dalla prospettiva di risparmiare, in termini di costo del lavoro e ammortamenti, quanto inevitabilmente si perde a livello di valore aggiunto), e pertanto tale indicatore diventa spesso di grande importanza anche ai fini della valutazione della politica industriale per l’impresa ovvero per il settore di appartenènza. Il valore aggiunto è elevato ogni volta che il margine sui costi di acquisto è elevato: l’analisi delle componenti successive permette di valutare se l’ampiezza di tale margine è dovuta ad un notevole ricorso al fattore lavoro o al fattore capitale, o non sia invece semplicemente sintomo della capacità dell’impresa di occupare spazi competitivi di grande interesse economico, ad esempio applicando forti maggiorazioni di prezzo grazie alla notorietà dei marchi disponibili.
Costo del lavoro
In questa voce vengono accolti tutti gli oneri relativi al costo del personale e quindi salari e stipendi, oneri sociali, trattamento di fine rapporto, trattamento di quiescenza e simili e gli altri costi; si noti che gli accantonamenti al fondo TFR vengono qui inseriti benché nello schema sia evidenziata la voce ammortamenti e accantonamenti in modo separato; ciò è dovuto alla necessità di evidenziare il costo del lavoro nel suo valore complessivo, a prescindere dalla monetarietà immediata ovvero differita degli oneri relativi.
MARGINE OPERATIVO LORDO
da un punto di vista economico esso esprime la redditività dell’impresa a prescindere dagli ammortamenti e accantonamenti effettuati, sulla cui definizione possono essere di forte impatto sulle scelte adottate in sede di stesura del bilancio d’esercizio (a questo riguardo va segnalato che in molti casi si sostiene che gli accantonamenti dovrebbero essere imputati prima del MOL, che quindi sarebbe espressione del reddito operativo al lordo dei soli ammortamenti; in questa sede, per i motivi che sarà facile individuare di seguito, si ritiene più utile operare compatendo le voci relative ad ammortamenti e accantonamenti).
Il MOL ha però anche un importante significato dal punto di vista finanziario, ed è definibile come un “quasi” flusso di cassa. Esso infatti esprime la differenza tra i ricavi e i costi operativi in gran parte di natura monetaria, anche se la reale consistenza monetaria del MOL finisce con l’essere pesantemente influenzata dalle politiche di incasso-pagamento e gestione delle scorte adottate (che determinano il naturale sfasamento tra cosi di acquisto e pagamenti da un lato e i ricavi di vendita e incassi dall’altro) nonché dalla presenza di componenti non monetarie, quali ad esempio gli accantonamenti al TFR o gli incrementi di immobilizzazioni per lavori interni. Ovviamente poi, la “distanza” tra il MOL e il reale flusso monetario complessivo sarà tanto maggiore quanto più intensi sono stati gli altri interventi di investimento/disinvestimento e raccolta e rimborso di capitale e, in genere, tutte le scelte di natura extra-operativa.
Ammortamenti e accantonamenti
Vengono inserite le voci relative a ammortamenti e svalutazioni (e quindi anche le svalutazioni dei crediti compresi nell’attivo circolante e delle disponibilità liquide), gli accantonamenti per rischi e gli altri accantonamenti. Si tratta di voci sulle quali l’influenza delle politiche di bilancia è spesso marcata: ciò giustifica ulteriormente l’individuazione di un indicatore di redditività operativa, il MOL appunto, che ne prescinde completamente.
E’ opportuno sottolineare alcuni tratti caratteristici degli ammortamenti:
- essendo computati sui valori storici d’acquisto la dinamica monetaria ne svilisce progressivamente il valore;
- sebbene un bene sia stato completamente ammortizzato può comunque mantenere una sua utilità e partecipare al processo produttivo pur senza essere più ammortizzato nel conto economico;
- benché siano stati elaborati molteplici criteri per il calcolo delle quote di ammortamento, non esiste un metodo che sia oggettivamente esatto; ne consegue che nel calcolo degli ammortamenti entra sempre una grossa componente di discrezionalità;
- il valore degli ammortamenti dovrebbe riflettere da un lato la perdita di valore subita dalle immobilizzazioni per effetto dei processi congiunti di obsolescenza e senescenza, dall’altro la possibilità di ricostruire la capacità finanziaria per fare fronte ai nuovi investimenti; in realtà, il valore iscritto in bilancia riprende spesso semplicemente quanto definito e ammesso dalla normativa fiscale (e questo svilisce ulteriormente l’analisi portandola a semplificazioni talvolta fuorvianti).
Per quanto attiene i valori di reddito operativo, gestione finanziaria, accessoria, straordinaria e delle imposte sul reddito valgono le considerazioni sviluppate in precedenza riguardo l’altro modello di riclassificazione.
ARTICOLO - Pubblicato il: 17 marzo 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
In economia aziendale il conto economico, secondo l'ordinamento giuridico, è il documento del bilancio d'esercizio che, contrapponendo i costi e i ricavi di cometenza del periodo amministrativo, illustra il risultato economico della gestione del periodo considerato.
Lo schema è il seguente:
CONTO ECONOMICO A RICAVI NETTI E COSTO DEL VENDUTO
+ Ricavi netti
- Costo del Venduto
+ rimanenze iniziali (indipendentemente dalla tipologia)
+ costi della produzione per materie prime
+ costi per servizi acquisiti per l’esercizio dell’attività produttiva
+ costi per il godimento di beni di terzi impiegati nell’attività produttiva
+ costi del personale coinvolto nell’attività produttiva
+ ammortamenti e svalutazioni di beni legati all’attività produttiva
+ accantonamenti per rischi e altri accantonamenti legati all’attività produttiva
+ oneri diversi di gestione legati all’attività produttiva
- variazioni dei lavori in corso
- incrementi di immobilizzazioni per lavori interni
- rimanenze finali (indipendentemente dalla tipologia)
= Risultato Industriale
- costi generali e amministrativi
- costi commerciali e distributivi
= Reddito Operativo
+o - risultato della gestione finanziaria
+o - risultato della gestione accessoria
+o - risultato della gestione straordinaria
= Reddito Ante Imposte
- Gestione fiscale
= Reddito Netto
Grazie a tale schema è possibile evidenziare in maniera particolareggiata tutte le aree gestionali, vale a dire:
- gestione operativa
Comprende tutte i costi e ricavi inerenti i processi di acquisizione, trasformazione, vendita dei prodotti e/o servizi tipici dell’attività aziendale;
- gestione accessoria
Ha per oggetto tutte quelle attività svolte con continuità ma estranee alla gestione tipica dell’impresa (è tipico il caso della riscossione di affitti attivi su immobili non strumentali all’esercizio di impresa, dove il concetto di strumentalità deve essere inteso non in senso fiscale, quanto in senso operativo, e quindi in questo caso fare riferimento al fatto che l’attività operativa può essere svolta anche a prescindere dalla disponibilità di tali immobili; un altro tipico esempio è costituito dalla gestione degli investimenti finanziari, quando questi non appartengono all’ambito dell’attività operativa dell’impresa;
- gestione finanziaria
E’ rappresentata dai costi e dai ricavi collegati alla struttura dei finanziamenti e degli investimenti aziendali, ossia dagli oneri e dai proventi finanziari (tipicamente interessi passivi su conti correnti o su mutui in essere, ovvero interessi attivi sulla liquidità impiegata);
- gestione straordinaria
Ha per oggetto quelle operazioni che determinano componenti di costo o di ricavo la cui manifestazione non ha carattere di prevedibilità e di ricorrenza, in genere quindi non attribuibili alle combinazioni produttive dell’esercizio (ad esempio plus e minusvalenze o ancora sopravvenienze attive o passive);
- la gestione fiscale
Da intendersi come l’insieme del carico fiscale relativo alle sole imposte sul reddito, trovando le altre posizioni nei confronti dell’erario naturale allocazione tra gli oneri di carattere più specificatamente operativo.
Tale riclassificazione, interessa in modo particolare le imprese che svolgono un’attività produttiva, di trasformazione industriale, ed è invece di scarso imparo per aziende di servizi o commerciali. Attraverso la presente riclassificazione si vuole cercare di capire, infatti, l’incidenza del costo della produzione venduta, nonché della gestione commerciale e amministrativa.
Le singole categorie di voci sono composte, ricordando lo schema di cui all’art. 2425 c.c., nel modo seguente:
Ricavi netti
Comprendono ricavi delle vendite e delle prestazioni, espressi al netto di eventuali elementi correttivi quali abbuoni, sconti e ribassi;
Costo del venduto
Il costo del venduto esprime il costo dei fattori produttivi utilizzati per ottenere il prodotto posto sul mercato ed è costituito dalla somma algebrica delle seguenti voci:
+ rimanenze iniziali (indipendentemente dalla tipologia)
+ costi della produzione per materie prime
+ costi per servizi acquisiti per l’esercizio dell’attività produttiva
+ costi per il godimento di beni di terzi impiegati nell’attività produttiva
+ costi del personale coinvolto nell’attività produttiva
+ ammortamenti e svalutazioni di beni legati all’attività produttiva
+ accantonamenti per rischi e altri accantonamenti legati all’attività produttiva
+ oneri diversi di gestione legati all’attività produttiva
- variazioni dei lavori in corso
- incrementi di immobilizzazioni per lavori interni
- rimanenze finali (indipendentemente dalla tipologia)
Gli incrementi di immobilizzazioni per lavori interni sono una tipica voce il cui significato contabile e economico è indiscutibile, ma la cui influenza in sede di analisi potrebbe essere eccessiva, poiché si rischia di non riuscire a neutralizzare l’effetto dei costi operativi sostenuti in modo ed esauriente. Si noti che un’eventuale svalutazione/rivalutazione di partecipazioni considerata operativa e finalizzata all’esercizio dell’attività produttiva dovrebbe essere inserita tra gli elementi di composizione del costo del venduto, così come un ricavo generato da una partecipazione operativa potrebbe essere assimilato ai ricavi di vendita tradizionali (in realtà vi sono voci di conto economico la cui imputazione è assai poco chiaramente definibile con certezza);
RISULTATO INDUSTRIALE
Di notevole importanza per l’analisi, esprime la capacità o l’incapacità dell’impresa, relativamente all’area gestionale di pertinenza, di svolgere in modo conveniente l’attività di trasformazione, e quindi di generare risorse sufficienti a sostenere gli oneri indotti dalla gestione amministrativa e commerciale, nonché a remunerare i prestatori e i sottoscrittori di capitale (oltre che ovviamente a far fronte alle gestioni accessoria, straordinaria e fiscale).
Un risultato industriale negativo esprime la probabile incapacità dell’impresa di stare sul mercato a condizioni vantaggiose, ed è tipico di situazioni in cui ad esempio al calo del fatturato non si è riusciti a porre rimedio attraverso un’adeguata e corrispondente contrazione degli oneri di trasformazione. Ciò è tutt’altro che improbabile, perché sono proprio gli oneri di produzione quelli più frequentemente caratterizzati da condizioni di rigidità (i c.d. costi dello stabilimento) che se in periodi di congiuntura positiva consentono all’impresa di generare margini via via crescenti (perché la loro crescita è in genere meno che proporzionale), altrettanto in periodi di tensione sul fatturato ribadiscono la loro sostanziale staticità provocando appunto una forte contrazione del risultato industriale. L’ipotesi di un risultato industriale minore di zero è quindi al contempo monito e stimolo per il management dell’impresa, costretto a rivedere analiticamente le procedure di acquisto/trasformazione/vendita che hanno condotto ad un simile risultato;
Costi generali e amministrativi
Comprendono costi per servizi, per il godimento di beni di terzi, del personale, ammortamenti e svalutazioni, accantonamenti per rischi e altri accantonamenti, oneri diversi di gestione tutti imputabili all’area amministrativa e delle spese generali (sono genericamente definibili come i costi “d’ufficio”). L’imputazione corretta di tali voci implica ovviamente la disponibilità degli opportuni riferimenti contabili;
Costi commerciali e distributivi
Comprendono costi per servizi, per il godimento di beni di terzi, del personale, ammortamenti e svalutazioni, accantonamenti per rischi e altri accantonamenti, oneri diversi di gestione tutti imputabili all’area commerciale e distributiva (sono genericamente definibili come i costi di vendita, e anche in questo caso è necessaria una loro possibile identificazione “contabile”);
REDDITO OPERATIVO
E’ sicuramente l’indicatore che meglio sintetizza la capacità di svolgere in modo conveniente la propria attività tipica; valori di RO>O esprimono la superiorità dei ricavi operativi rispetto all’insieme dei costi coinvolti nell’attività tradizionale, e quindi prescindendo dall’esercizio di eventuali attività accessorie, dal conseguimento di oneri/proventi straordinari, dalla destinazione di impiego ovvero dalla raccolta di capitale finanziario (sintetizzato nella gestione finanziaria) e dal peso delle imposte sul reddito. Ovviamente non significa che un RO>O sia sufficiente a remunerare in modo adeguato il capitale di rischio attraverso il reddito netto; è piuttosto vero il contrario, e quindi che un RO<O deve rappresentare un importante elemento di valutazione delle scelte aziendali. Se a tale risultato hanno contribuito elementi di forte contingenza (ad es. repentine fluttuazioni nei prezzi di acquisto ovvero di vendita) si può ragionevolmente pensare che la situazione possa rapidamente cambiare; livelli di RO non casualmente negativi devono invece portare a più serie e definite riflessioni sulla compatibilità dell’area di attività esercitata, e se del caso anche ad una riconversione da parte dell’impresa.
Il reddito operativo rappresenta un elemento di grande rilievo nel confronto tra aziende operanti negli stessi comparti: valori di RO più elevati (in percentuale sul fatturato, o sul capitale investito) evidenziano la migliore capacità competitiva dell’ impresa, che potrebbe peraltro essere vanificata per la remunerazione del capitale finanziano. Redditi operativi molto elevati sono in genere caratteristici di alcuni tipi di aziende, tra cui quelle industriali con ingenti capitali investiti. D’altro canto esistono aziende che possono permettersi un reddito operativo negativo in quanto la loro attività le porta a conseguire redditi attraverso la gestione finanziaria (ad esempio le imprese della grande distribuzione).
In condizioni di acquisto e di vendita normali il reddito operativo esprime il reddito che l’impresa produce dalla sua attività caratteristica a prescindere da come essa sia finanziata.
Quando, peraltro, l’impresa concede più credito del normale o utilizza più debiti commerciali rispetto al normale il reddito operativo risente molto delle componenti finanziarie. In particolare si possono presentare due situazioni:
- il maggior credito commerciale concesso o goduto genera un incremento dei ricavi o dei costi (per gli oneri finanziari impliciti contenuti) che si riflette sul reddito operativo stesso; in altri termini, l’impresa che vende con forti dilazioni di pagamento, e che riesce a farsi riconoscere questa posizione dal cliente, registrerà ricavi superiori al normale, e di conseguenza avrà un maggiore livello di reddito operativo;
- il maggior credito commerciale concesso o goduto non genera incrementi di ricavi o di costi (per il potere contrattuale dei clienti o dell’impresa nei confronti dei suoi fornitori), per cui a parità di reddito operativo si modificherà il reddito netto a causa rispettivamente di maggiori o minori oneri finanziari (in pratica se l’impresa non riesce a modificare il valore della vendita con pagamento dilazionato, si troverà a dover fare fronte ad un maggiore livello di oneri finanziari).
Ciò porta di fatto ad una commistione tra le gestioni operativa e finanziaria, di cui si è già detto parlando delle riclassificazioni dello stato patrimoniale, che spesso genera qualche problema interpretativo in fase di analisi.
Risultato della gestione finanziaria
Tale valore accoglie con segno positivo o negativo a seconda dei casi i proventi e gli oneri finanziari.
Si tratta di un risultato molto importante, che esprime la capacità dell’impresa di fare fronte alle scelte di raccolta ed eventualmente di impiego delle risorse finanziarie in modo conveniente, vale a dire privilegiando quelle forme la cui onerosità ovvero il tasso di rendimento si presenta come più conveniente. La gestione finanziaria è spesso fonte di distorsioni nell’analisi di bilancio, per il verificarsi di alcuni fenomeni; sarebbe infatti opportuno distinguere:
- gli oneri finanziari derivanti dalle scelte di statura finanziaria, e quindi dalla maggiore o minore incidenza dell’indebitamento (in genere, mutui o finanziamenti a fronte di investimenti in immobilizzazioni);
- gli oneri finanziari derivanti dal fabbisogno generato dalIa normale e ricorrente attività di acquisto-trasformazione-vendita: questi sono giustamente censiti come oneri finanziari; in sede di analisi però, ed eventualmente di comparazione con i risultati di precedenti periodi, si dovrebbe ricordare la loro natura operativa, e quindi la loro diretta influenza sulla determinazione del reddito operativo. Ad esempio, accade che alcune operazioni di acquisto/vendita vengano concordate a prezzi diversi da quelli correnti per compensare le maggiori dilazioni. Nel caso di una cessione di servizi con forte dilazione di pagamento, l’azienda venditrice contabilizzerà minori redditi finanziari (o maggiori oneri, se già comunque indebitata) rispetto a quelli che avrebbe registrato se l’operazione fosse stata regolata per contanti, l’azienda acquirente invece contabilizzerà maggiori oneri finanziari (o minori oneri, se già comunque indebitata).
Un’altra situazione che genera difficoltà interpretative riguarda la presenza di canoni di leasing: tali canoni infatti incorporano tanto la componente di ammortamento che quella di onere finanziario, ma vengono iscritti per intero tra i costi operativi. E evidente che il confronto tra due aziende, delle quali solo una facesse ricorso ai contratti di leasing, sarebbe in parte fuorviante se non tenesse in conto anche questo fenomeno (al riguardo una possibile soluzione è rappresentata dalla scissione del canone nelle due componenti di quota interessi e quota capitale, con quest’ultima assimilata a costo di natura operativa; in pratica parte del canone di leasing verrebbe estrapolato dalla voce spese per il godimento di beni di terzi e diversamente allocato).
Un altro caso di difficile interpretazione del valore degli oneri finanziari riguarda le differenze di cambio; sulle monete corrono infatti tassi di interesse sostanzialmente diversi, a fronte dei quali vi sono anche prospettive di variazione del rapporto di cambio. Così, se un’azienda si finanziasse contraendo un debito denominato in una valuta su cui gravano interessi contenuti, dovrebbe di norma alla scadenza registrare la presumibile perdita su cambi subita alla stregua di onere finanziano.
Risultato della gestione accessoria
Accoglie la voce relativa ad alti ricavi e proventi, con esclusione dei contributi in conto capitale (che, se presenti con carattere di straordinarietà, come presumibile, a tale gestione andrebbero ricondotti) ed eventualmente i costi a tali ricavi collegati, che andranno estrapolati tra le categorie di costi operativi di cui sopra; inoltre, a tale gestione vengono imputate le risultanze economiche (rivalutazioni e svalutazioni comprese) di quegli impieghi la cui natura è definibile come non collegata all’attività operativa dell’impresa.
La gestione accessoria dovrebbe accogliere quindi componenti di scarso peso relativo sulle altre voci di conto economico: qualora si riscontrasse il contrario, sarebbe opportuno procedere ad un’indagine riguardo alla capacità di affrontare ambiti operativi ormai anche molto diversi da quelli tradizionali. Ciò quindi a ricordare che un peso elevato della gestione accessoria e dei suoi componenti non deve a priori essere rigettato, ma certo implica la capacità di svolgere operazioni diverse a quelle classiche di acquisto-trasformazione e vendita, e forse denota che con il passare del tempo si è realizzata una sorta di inversione tra quella che erano le attività operativa e accessoria, con una prevalenza di quest’ultima, la quale ragionevolmente deve allora considerarsi la “vera” attività operativa (è il caso delle imprese per le quali nel tempo assume rilievo l’investimento immobiliare, e che si trovano appunto a svolgere tale attività con preminenza, o di quelle che sfruttando ad esempio condizioni vantaggiose negli elementi di incasso e pagamento realizzano la possibilità di destinare ingenti somme a investimenti di vario tipo, non collegati con l’attività tradizionale).
Risultato della gestione straordinaria
Le voci di cui ai punti 20 e 21 dello schema di conto economico, e quindi proventi e oneri straordinari. Benché tale aggettivo lasci presumere l’assoluta eccezionalità di tali poste, è raro trovare un bilancio che ne sia privo.
Volendo esaminare in maniera corretta la natura delle voci che le compongono, si potrebbe sostenere che plusvalenze e minusvalenze di fatto esprimono la
scorrettezza delle politiche di ammortamento adottate negli anni precedenti, soprattutto se la loro entità è elevata e la loro presenza sistematica, e quindi si dovrebbe giungere ad un “ripensamento” delle politiche di ammortamento (sottinteso, dal punto di vista civilistico).
Quanto alle sopravvenienze attive o passive, esse sono spesso collegate al venire meno di posizioni rispettivamente debitorie ovvero creditorie, e forse sarebbe più opportuno ricondurne la destinazione tra le componenti di carattere operativo, anche se si tratta di una prassi assolutamente poco utilizzata. Un peso elevato delle componenti straordinarie deve comunque portare ad una riflessione da un lato in merito alle politiche contabili adottate nel corso degli anno, e dall’altro alla caratteristica di scarsa ripetitività dell’attività tipica d’azienda.
REDDITO ANTE IMPOSTE
Viene calcolato col solo fine di evidenziare in modo separato l’incidenza della variabile fiscale; diventa un riferimento importante, qualora confrontato con il reddito operativo, per valutare il peso delle gestioni finanziarie, accessoria e straordinaria.
Imposte sul reddito
Tale voce accoglie le sole imposte sul reddito, la cui procedura di calcolo, implica il passaggio attraverso una ricostruzione del reddito assoggettato a tassazione. Tale voce deve inoltre contenere l’imposizione differita (attiva o passiva).
REDDITO NETTO
Benché attraverso la riclassificazione sia possibile evidenziare anche e altri importanti indicatori di redditività, rappresenta sempre il riferimento imprescindibile di un’analisi di bilancio a qualsiasi livello condotta. E’ nota al riguardo l’influenza delle politiche seguite nella stesura, e dei margini di discrezionalità che possono portare a valori anche sostanzialmente diversi per la stessa azienda a seconda dei principi che si intende seguire. Ciò nonostante il reddito netto è l’indicatore più immediatamente “osservato” dall’analista, che ricondurrà a questa voce anche eventuali elementi di costo imputati con finalità fiscali (si pensi a compensi per gli amministratori-proprietari in misura eccedente rispetto al loro contributo lavorativo) di tipo “accessorio”.
ARTICOLO - Pubblicato il: 3 marzo 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Per l'utilizzabilità degli elementi acquisiti da indagini eseguite nei confronti di terzi occorre considerare il differente rapporto esistente tra il contribuente e il terzo. La norma, ma soprattutto la giurisprudenza si è pronunciata diversamente a seconda che si faccia riferimento a situazioni nelle quali il contribuente ha una legittima disponibilità, rispetto a caso di rapporti intestati a terzi e, nell’ambito di questi, se vi sia o meno un rapporto di familiarità tra il contribuente l’intestatario della posizione.
Rapporti sui quali il contribuente ha una legittima disponibilità
Per i rapporti sui quali il contribuente ha una legittima disponibilità (si pensi al conto del figlio o della moglie su cui il contribuente ha una delega), l'utilizzabilità è condizionata al fatto che il Fisco provi che le operazioni compiute sono ascrivibili direttamente al contribuente (Cass. 8826 del 28 giugno 2001).
Rapporti intestati a terzi
Per i rapporti esclusivamente intestati a terzi l'utilizzabilità dei risultati scatta solo se il Fisco prova l'interposizione fittizia con sostanziale imputabilità al contribuente (Cassazione n. 1728/1999).
Infatti, in via di principio, le indagini trovano applicazione unicamente ai rapporti intestati o cointestati al contribuente sottoposto a controllo. Le stesse potestà si applicano anche relativamente ai rapporti intestati e alle operazioni effettuate esclusivamente da soggetti terzi, specialmente se legati al contribuente da vincoli familiari o commerciali, ma solo dopo che l’ufficio accertatore ha dimostrato che la titolarità dei rapporti come delle operazioni è “fittizia o comunque è superata”, in relazione alle circostanze del caso concreto, dalla sostanziale imputabilità al contribuente medesimo delle posizioni creditorie e debitorie rilevate dalla documentazione “bancaria” acquisita (in tal senso, Cassazione nn. 1728/1999, 8457/2001, 8826/2001 e 6232/2003). In tal senso anche l’Agenzia delle entrate nella Circ. 32/E del 2006.
L’intestazione fittizia, in sostanza, si manifesta tutte le volte in cui gli uffici rilevino nel corso dell’istruttoria che le movimentazioni finanziarie, sebbene riferibili formalmente a soggetti che risultano averne la titolarità, in realtà sono da imputare a un soggetto diverso che ne ha la reale paternità con riferimento all’attività svolta.
In tale ottica, è bene ricordare che, in coerenza anche con il prevalente orientamento della giurisprudenza (Cfr. Cass. n. 8826 del 28 giugno 2001; Cass. n. 1633 del 4 febbraio 2003; Cass. n. 4987, del 1° aprile 2003; Cass. n. 6232 del 18 aprile 2003; Cass. n. 13391 del 12 settembre 2003; Cass. n. 13819 del 18 settembre 2003) i verificatori per poter utilizzare la presunzione iuris tantum - di cui all’art. 32, co. 1, n. 2), del D.P.R. n. 600/1973 ed all’art. 51, co. 2, n. 2), del D.P.R. n. 633/1972 - a carico del soggetto terzo dovranno ricercare la prova, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che i conti correnti siano riconducibili al contribuente oggetto di verifica.
In altri termini, come peraltro sancito anche dalla Corte di Cassazione, Sezione tributaria, con la sentenza n. 4423 del 26 marzo 2003, il potere di indagini bancarie esercitato nei confronti dei soggetti terzi - rispetto al contribuente - deve soddisfare il principio secondo cui l’esistenza dell’interposizione fittizia di persone diverse dal soggetto verificato non deve costituire lo scopo dell’indagine bancaria, ma la premessa di essa (Cfr. In senso analogo, si veda Lovecchio, Più tutele sugli accessi bancari, ne Il Sole 24 ore del 04 Aprile 2003 pag. 26; in senso parzialmente contrario, si veda la Corte di Cassazione, Sezione tributaria, sentenza n. 8683/2002).
In mancanza della prova dell’interposizione fittizia del soggetto terzo, si ritiene che i verificatori non possano, in punto di diritto, applicare la presunzione legale relativa, pur potendo fornire elementi probatori, anche dinanzi al giudice tributario, per ogni singola movimentazione finanziaria rilevata sui conti bancari o postali del terzo della riconducibilità delle stesse all’attività del professionista verificato.
Rapporti intestati a terzi; il caso dei familiari
Discorso a parte il caso dei conti dei familiari. Nello specifico sulla «prova» della «riferibilità» a soggetti che presentano legami familiari o più in generale a soggetti terzi, l’agenzia delle entrate ha avuto modo di evidenziare che ciò è possibile ma «a condizione che l’ufficio accertatore dimostri che la titolarità dei rapporti come delle operazioni è “fittizia o comunque è superata”, in relazione alle circostanze del caso concreto, dalla sostanziale imputabilità al contribuente medesimo delle posizioni creditorie e debitorie rilevate dalla documentazione bancaria acquisita» (circolare 32/2006).
La Suprema Corte si è espressa in termini diversificati:
- con alcune decisioni ha ritenuto «automaticamente provata» (senza bisogno di ulteriori indagini e riscontri) la «riferibilità» al contribuente dei «rapporti» bancari intrattenuti dalla «moglie» (Cfr. Cass., Sei Trib., Sentenza 17 giugno 2002, n. 8683 che, tra l’altro, ritiene legittima l’acquisizione di dati relativi a conto del coniuge pur in assenza di una apposita specifica autorizzazione per l’accesso a tale conto, diverso da quello del contribuente cui si riferiva l’autorizzazione rilasciata) o dal «figlio» (Cfr. Sei Trib., Sentenza 7 febbraio 2008, n. 2843.) o, in generale, da «familiari» del contribuente (Cass., Sei Trib., Sentenza 11 marzo 2010, n. 5913 e sentenza n. 20449 della Corte di cassazione, depositata il 6/10/2011) e la «riferibilità» alle società di persone (Cfr. tra le molte: Cass., Sentenze 14 maggio 2007, n. 10982; 21 marzo 2007, n. 6743; 21 gennaio 2009, n. 1452) dei «rapporti» intestati ai soci (amministratori).
Nell’accertamento bancario a carico di una Snc a ristretta base familiare l’ufficio può legittimamente riferire alla società le movimentazioni in entrata e in uscita dai conti correnti bancari personali dei soci, senza dover addurre elementi ulteriori rispetto al mero legame familiare e societario (CTR Lombardia sentenza 355/45/2016).
- con altre pronunce ha, invece, affermato che la contiguità di persone legate al contribuente da vincoli di familiarità o da rapporti commerciali o di funzione non è di per sé sufficiente, in assenza di altri indizi, per riferire al primo le risultanze di rapporti intestati ad altri soggetti (Cfr. Cass., Sei Trib., Sentenza 14 novembre 2008, n. 27186, nella quale, tra l’altro, si legge: «Nel dettato normativo non è invero rinvenibile una presunzione di riferibilità all’attività fiscalmente rilevante del contribuente delle movimentazioni di conti allo stesso collegabili solo in virtù del rapporto organico o familiare del titolare degli stessi. Se è vero, infatti, che la possibilità di acquisizione dei dati dei conti correnti può essere estesa anche a quelli intestati a persone che per la loro contiguità al contribuente possono essere considerate per ciò solo sospette in base a considerazioni desumibili dalla comune esperienza questo non significa che le movimentazioni rilevate possano per ciò solo essere sic et simpliciter imputate al contribuente in quanto così operando si fa assurgere quella che è una semplice possibilità, sia pure avvalorata dalla concreta osservazione del fenomeno, a regola di comune esperienza rispondente al canone dell’id quod plerumque accidit, così da dare per scontata l’esistenza di una situazione sostanziale confliggente con quella formale anche in assenza di una norma che autorizzi espressamente una tale operazione mentre è necessario un ulteriore passaggio consistente nell’accertamento che l’intestazione sia sostanzialmente fittizia nel senso che il conto corrente esaminato sia in realtà utilizzato dal contribuente stesso (...)»; in termini analoghi, anche, Cass., Sentenze 18 aprile 2003, n. 6232; 16 aprile 2003, n. 6073; Sei Trib. 28 giugno 2001, n. 8826; Sei Civ., 2 marzo 1999, n. 1728).
In merito si ricorda anche
- l’ ordinanza 4 dicembre 2009, n. 25623 della Corte che ha escluso che tale estensioni situazioni operi un qualsiasi automatismo qualora venga provata: 1) la regolare tenuta della contabilità; 2) la dimostrazione che i flussi di pagamento sono regolari in capo alla società;
- l’ordinanza n. 23428/2010 della Corte la quale, nell’ambito di un’indagine bancaria esperita nei confronti della società, ha delimita puntualmente l’ambito oggettivo dei movimenti bancari del socio da sottoporre a verifica, specificando che qualora venga provato documentalmente la riconducibilità degli stessi alla sfera extra-imprenditoriale (o comunque privata e familiare) dell’imprenditore, debbano di fatto essere esclusi dall’accertamento, non potendo le stesse essere poste a base dello stesso; in termini analoghi Cass., Sei Trib., Sentenza 9 ottobre 2009, n. 21454, che richiama anche Sentt. 13391/03 e 4423/03 e, da ultimo la sentenza n. 20668/2014 della Corte la quale, evidenziava la necessità di «altri elementi significativi desunti dalle circostanze del caso concreto», ulteriori rispetto al semplice legame, al fine di attribuire al contribuente accertato i conti bancari di terzi a lui legati.
Secondo dottrina (Cfr. Accertamenti con adesione, Disciplina e modalità operative, Guida ai controlli, R. Lunelli, Il Sole 24 Ore – Frizzera, 6/2010) – avuto riguardo ai principi sulla «prova» – la riconducibilità al contribuente di movimentazioni nominalmente (e direttamente) riportabili a soggetti terzi dovrebbe essere «filtrata» attraverso la dimostrazione, anche se del caso tramite presunzioni, della natura «fittizia» dell’intestazione a terzi.
Resta, tuttavia, il problema più generale che gli uffici dovrebbero prima individuare gli elementi (e riportarli nell'autorizzazione) in base ai quali ritengono riconducibili i conti dei terzi al contribuente verificato, e non sottoporre a controllo questi conti e poi desumere la loro riconducibilità ad altri una volta che le informazioni cono state acquisite. Il rischio in questi casi, ancora maggiorea seguito delle nuove possibilità di acquisizione delle informazioni presso gli intermediari finanziari previste dalla manovra, è che prima si eseguono indagini, quasi a tappeto, sui conti anche di persone non sottoposte a controllo fiscale e solo successivamente si individuano gli inidzi per ricondurre gli esiti del controllo al contribuente verificato.
ARTICOLO - Pubblicato il: 20 febbraio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
La trasformazione d’azienda “anomala” delle società di persone
Per trasformazione anomala nella pratica si intende la continuazione, mediante impresa individuale, dell'attività da parte del socio superstite della società di persone. A differenza che nelle società di capitali, dove ciò rappresenta una ipotesi normata, per cui tecnicamente gestibile, per le società di persone la perdita della pluralità dei soci comporta la liquidazione se, trascorsi sei mesi dal suo verificarsi, la pluralità medesima non viene ricostituita (articolo 2272, comma 4, del Codice civile). Il venire meno della pluralità dei soci, pertanto, comporta l’estinzione della società, che solitamente – come anche nel caso descritto dal lettore – prosegue in capo all’imprenditore individuale (cioè, in altre parole, al socio superstite).
Giurisprudenza
La giurisprudenza (Cass. sent. n. 496 del 2015) ha ritenuto che l’operazione di trasformazione presuppone che si passi da un "ente" a un altro "ente" societario, e che, quindi, non è ammissibile la "trasformazione" di una società unipersonale in impresa individuale: in tale caso si avrebbe lo scioglimento della società “trasformata” e l’assegnazione del patrimonio all’unico socio (in precedenza Cassazione n. 1593/2002, Tribunale di Mantova 28 marzo 2006; Appello Torino, 14 luglio 2010; Tribunale di Piacenza, 22 dicembre 2011).
In precedenza si ricorda:
- Cass., sent. n. 905 del 6 febbraio 1984 secondo la quale“lo scioglimento della società di persone, per mancata ricostruzione della pluralità dei soci nel termine semestrale, non comporta alcuna modificazione soggetti delle strutture giuridiche attive e passive facenti capo alla società, che si concentrano nell’unico socio rimasto dal momento in cui la pluralità medesima viene meno. Decorsi i sei mesi senza che sia stata ricostruita la pluralità dei soci, la società si scioglie e ed entra la fase di liquidazione, un modo particolare si ha quando il socio supersite estingue la società, decidendo di continuare, quale imprenditore individuale, l’esercizio dell’attività estinta” ;
- Cass,. n. 2226 del 16 marzo 1996 “con il venir meno della pluralità dei soci, la società perde il carattere societario e si trasforma in impresa individuale con la concentrazione della titolarità dei rapporti, già facenti capo alla società, nel socio residuo, che , quale imprenditore individuale, risponde personalmente delle obbligazioni già sociali”;
- e ancora Cassazione n. 3671/07 e studio n. 3-2005/T del Notariato secondo i quali si verifica una "trasformazione" societaria in senso generico, diversa da quella prevista dal Codice civile.
La tesi della trasformabilità di una società in una ditta individuale è sostenuta invece dai notai del Triveneto massima K.A.37, e dal Consiglio nazionale del Notariato nello studio 545-2014.
Prassi amministrativa: imposizione diretta e indiretta
Ciò assume conseguenze piuttosto significative sia per le imposte indirette che per le imposte dirette. Il primo ambito, che è quello che più interessa al lettore, è stato affrontato nella risoluzione 47/E del 3 aprile 2006, dove si afferma: «Pertanto, la scrivente ritiene che la cosiddetta continuazione dell’impresa in forma individuale sia sempre preceduta dallo scioglimento della società e dalla liquidazione della medesima». Conseguenza pratica di questa impostazione è che il trasferimento dell’azienda dalla società all’impresa individuale realizza un'assegnazione sottoponibile a imposta di registro nella misura stabilita per ciascun bene o diritto assegnato. Nel caso in questione, pertanto, l’assegnazione degli immobili si dovrà tassare con imposta di registro in misura fissa (200 euro) e con le imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale (complessivamente pari al 4 per cento), applicate sul valore normale di commercio degli immobili "assegnati" all’imprenditore individuale.
Ai fini delle imposte sul reddito, la circolare 54/E del 19 giugno 2002 (risposta n. 5) esclude, invece, l’emersione di qualunque plusvalenza, a condizione che il socio superstite continui l’attività sotto forma di impresa individuale, mantenendo inalterati i valori dei beni. In particolare prevede che:
- lo scioglimento della società non da luogo ad alcuna emersione di plusvalenza imponibile in relazione ai beni oggetto dell’attività d’impresa a condizione che il socio superstite imprenditore mantenga inalterati i valori dei beni;
- l’eventuale somma percepita dai soci uscenti, rappresenta, per la parte che eccede il costo d’acquisto delle quote, reddito di capitale tassabile ai sensi dell’art. 47, comma 7 del TUIR.
ARTICOLO - Pubblicato il: 5 febbraio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
LE MODIFICHE APPORTATE DALLA FINANZIARIA PER IL 2016 ALLE NOTE DI VARIAZIONE AI FINI IVA
I commi 126 e 127 della Legge finanziaria per il 2016 (L 208/2015) sostituiscono integralmente l’art. 26, DPR n. 633/72, in materia di “Variazioni dell’imponibile o dell’imposta”, intervenendo sulle procedure ordinarie (fallimento e concordato) e sulle procedure esecutive individuali rimaste infruttuose. Nessuna modifica per quanto concerne le procedure minori già oggetto di modifica con l’articolo 31 del Dlgs 175/2014, per le quali la norma si limita a riformulare il contenuto della previsione e a riportare in norma quanto indicato nella relazione al decreto.
Dopo le modifiche normative intervenute, risulta quindi che la nota di credito può essere emessa in caso di mancato pagamento, in tutto o in parte:
a) in presenza di una procedure concorsuali (fallimento, liquidazione coatta amministrativa, concordato preventivo e amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi)
b) in presenza di procedure para concorsuali (accordo di ristrutturazione dei debiti ex articolo 182-bis / piano attestato di risanamento dalla data di assoggettamento alla procedura / decreto di omologa dell’accordo / pubblicazione nel Registro delle Imprese (nuovo comma 4, lett. a).
c) a causa di procedure esecutive individuali rimaste infruttuose (nuovo comma 4, lett. b).
a) In presenza di una procedura concorsuale (nuovo comma 4, lett. a).
Il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale alla data della sentenza dichiarativa di fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione al concordato preventivo o del decreto che dispone l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
La modifica riguarda le procedure concorsuali attivate successivamente al 31.12.2016. Per tutte le procedure già dichiarate prima del 31/12/2015, pertanto, si applica la “vecchia disciplina”, che, nell’interpretazione costante dell’Agenzia (circolare 77/E/2000) implicitamente avallata dalla Cassazione (sentenza 27136/2011), rende possibile la rettifica solo quando la procedura si è rivelata infruttuosa («per insussistenza di somme disponibili, una volta ultimata la ripartizione dell’attivo») e, quindi, sostanzialmente al termine della medesima.
>> E’ da capire se, ai fini della rettifica, resta l’onere dell’insinuazione (risoluzione 195/E/2008) oppure si possa prescindere da essa.
>> Non opera il limite annuale decorrente dall’effettuazione dell’operazione imponibile (comma 3), e la detrazione può essere esercitata al più tardi con la dichiarazione relativa al secondo periodo d’imposta successivo a quello in cui si verifica il presupposto per la variazione in diminuzione (risoluzione 89/E/2002 e circolare 31/E/2014).
>> In capo all’acquirente / committente non sussiste l’obbligo di annotazione della nota di credito nel registro delle fatture emesse / corrispettivi. La procedura, pertanto, come confermato dall’Agenzia nel corso di Telefisco, non deve farsi carico dell’Iva veicolata dalla nota di accredito che sarà emessa dal cedente/prestatore. In questo aspetto il nuovo testo non si discosta dalla prassi precedente, la quale prevedeva (risoluzioni 155/2001 e 161/2001) che il credito erariale conseguente alla nota d’accredito emessa non fosse incluso nel riparto finale (oramai definitivo), ma rappresentasse un credito esigibile nei confronti del fallito tornato in bonis.
b) In presenza di un accordo di ristrutturazione omologato o in un piano attestato iscritto al Registro imprese (nuovo comma 4, lett. a).
Il debitore si considera assoggettato a accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all'articolo 182-bis dalla data del decreto che omologa dell’accordo e al piano attestato di cui all'articolo 67, dalla data di pubblicazione nel Registro delle Imprese.
L’articolo 31 del Dlgs 175/2014 ha inserito una disciplina sostanzialmente analoga a quella ora emergente dal testo riscritto dalla legge di Stabilità.
>>Secondo la Relazione al Dlgs 175/2014 il recupero dell’Iva originariamente addebitata ma non incassata e la rilevazione della perdita su crediti deve allinearsi temporalmente al momento di avvio della procedura.
>> Come emerge dagli atti parlamentari, il comma 127 della legge di Stabilità prevede la decorrenza posticipata al 2017 solo con riferimento alle «procedure concorsuali». Ciò comporta che per tali procedura la modifica normativa ha già effetto (è eventualmente da chiarire se si applica solo agli accordi di ristrutturazione omologati e ai piani attestati depositati dal 13 dicembre 2014 (data di entrata in vigore del Dlgs 175/2014) o come sostenuto da Assonime (circolare 14/2015) o anche a quelli pregressi).
>>Per tali procedure non opera la copertura dell’ultimo periodo del comma 5. Ciò significa che se il cedente/prestatore si avvale della facoltà di emettere la nota di accredito - come può fare già oggi - il cessionario o committente (come confermato in Telefisco) la deve registrare e considerare il relativo debito nella liquidazione, con tutto quello che ne può conseguire ai fini della tenuta di accordi e piani attestati.
c) A causa di procedure esecutive individuali rimaste infruttuose (nuovo comma 4, lett. b).
Per espressa disposizione normativa (nuovo comma 12) una procedura esecutiva individuale si considera in ogni caso infruttuosa (norma di interpretazione autentica):
− in caso di pignoramento presso terzi, quando dal verbale di pignoramento redatto dall’ufficiale giudiziario risulta che presso il terzo pignorato non vi sono beni / crediti da pignorare;
− in caso di pignoramento di beni mobili, quando dal verbale di pignoramento redatto dall’ufficiale giudiziario risulta la mancanza di beni da pignorare / impossibilità di accesso al domicilio del debitore ovvero la sua irreperibilità;
− qualora, dopo che per 3 volte l’asta per la vendita del bene pignorato sia andata deserta, si decida di interrompere la procedura esecutiva per eccessiva onerosità.
Si applica con riferimento alle altre fattispecie anche alle operazioni effettuate anteriormente al 31.12.2016.
>>Alla rettifica del creditore corrisponde quella (di segno contrario) del debitore e il successivo incasso, anche parziale, del corrispettivo determina l’obbligo della nota di addebito Iva, la quale, potrà essere liquidata a credito da parte del debitore (comma 6).
>>In caso di successivo incasso, in tutto o in parte, del corrispettivo va emessa una nota di debito (nuovo comma 6).
>> Diversamente dalle imposte sui redditi, in questo caso l’esperimento della procedura esecutiva è indispensabile per poter procedere alla rettifica, il che costituisce un problema per i crediti di modesto importo, peraltro oggetto di rinvio alla Corte di giustizia da parte della Ctr Lombardia (ordinanza 259/2015).
>>la nota di credito può essere emessa, ricorrendone i presupposti, anche da parte dell’acquirente / committente debitore dell’imposta in applicazione del reverse charge ex artt. 17 o 74, DPR n. 633/72 o 44, DL n. 331/93 (nuovo comma 10).
Nuovi commi 4 e 5 dell’art. 26 del Dpr 633/1972
4. La disposizione di cui al comma 2 si applica anche in caso di mancato pagamento, in tutto o in parte, da parte del cessionario o committente:
a) a partire dalla data in cui quest'ultimo è assoggettato a una procedura concorsuale o dalla data del decreto che omologa un accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all'articolo 182-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, o dalla data di pubblicazione nel registro delle imprese di un piano attestato ai sensi dell'articolo 67, terzo comma, lettera d), del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267;(2)
b) a causa di procedure esecutive individuali rimaste infruttuose.
5. Ove il cedente o prestatore si avvalga della facoltà di cui al comma 2, il cessionario o committente, che abbia già registrato l'operazione ai sensi dell'articolo 25, deve in tal caso registrare la variazione a norma dell'articolo 23 o dell'articolo 24, nei limiti della detrazione operata, salvo il suo diritto alla restituzione dell'importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa. L'obbligo di cui al primo periodo non si applica nel caso di procedure concorsuali di cui al comma 4, lettera a).
6. Nel caso in cui, successivamente agli eventi di cui al comma 4, il corrispettivo sia pagato, in tutto o in parte, si applica la disposizione di cui al comma 1. In tal caso, il cessionario o committente che abbia assolto all'obbligo di cui al comma 5 ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell'articolo 19 l'imposta corrispondente alla variazione in aumento.
ARTICOLO - Pubblicato il: 31 gennaio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
La legge 208/2015, in materia di agevolazioni “prima casa”, ha introdotto il nuovo comma 4-bis alla Nota II-bis), DPR n. 131/86 in base al quale il soggetto già proprietario della “prima casa” può acquistare la “nuova prima casa” applicando le relative agevolazioni anche se risulta ancora proprietario del primo immobile a condizione che lo stesso sia venduto entro un anno dal nuovo acquisto. Se entro detto termine annuale la “vecchia prima casa” non viene venduta, vengono meno le condizioni che consentono l’applicazione delle agevolazioni.
Nello specifico la nuova previsione normativa prevede che “«4-bis. L'aliquota del 2 per cento si applica anche agli atti di acquisto per i quali l'acquirente non soddisfa il requisito di cui alla lettera c) del comma 1 e per i quali i requisiti di cui alle lettere a) e b) del medesimo comma si verificano senza tener conto dell'immobile acquistato con le agevolazioni elencate nella lettera c), a condizione che quest'ultimo immobile sia alienato entro un anno dalla data dell'atto. In mancanza di detta alienazione, all'atto di cui al periodo precedente si applica quanto previsto dal comma 4».
L’agevolazione a regime
L’agevolazione “prima casa” consiste sia nell’acquisto con l’imposizione indiretta ridotta (registro, ipotecarie catastali e Iva) sia nel credito d’imposta per le imposte pagate nel precedente acquisto prima casa.
La norma, come ora risulta, prevede quindi che per beneficiare dell’agevolazione “prima casa” occorra:
a) che l'immobile sia ubicato nel territorio del comune in cui l'acquirente ha o stabilisca entro diciotto mesi dall'acquisto la propria residenza o, se diverso, in quello in cui l'acquirente svolge la propria attività ovvero, se trasferito all'estero per ragioni di lavoro, in quello in cui ha sede o esercita l'attività il soggetto da cui dipende ovvero, nel caso in cui l'acquirente sia cittadino italiano emigrato all'estero, che l'immobile sia acquisito come prima casa sul territorio italiano;
b) che nell'atto di acquisto l'acquirente dichiari di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del comune in cui è situato l'immobile da acquistare (presupposto della cosiddetta “impossidenza”);
c) che nell'atto di acquisto l'acquirente dichiari di non essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale su tutto il territorio nazionale dei diritti di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà su altra casa di abitazione acquistata dallo stesso soggetto o dal coniuge con le agevolazioni prima casa (presupposto della cosiddetta “novità” dell'agevolazione “prima casa”) ovvero, qualora proprietario che intende venderla entro un anno.
L’interpretazioni del Notariato
Il Consiglio nazionale del Notariato (studio tributario 5-2016/T) ha specificato che la vendita entro l’anno riguarda solo la lettera c) – casa acquistata con benefici - e non anche della lettera b) – impossidenza di altro immobile nel comune.
L’interpretazioni dell’Agenzia delle entrate
A Telefisco 2016 l’Agenzia delle entrate ha chiarito che la nuova disciplina (vendita entro l’anno):
1. oltre che i contratti di acquisto soggetti a imposta proporzionale di registro (ove si applicano l’aliquota del 2% oppure quella dell’1,5% se l’acquisto della “prima casa” avviene mediante un “leasing abitativo”), si applica anche:
- i contratti imponibili a Iva (ove si applica l’aliquota del 4 per cento in luogo dell’aliquota ordinaria del 10 per cento);
- gli acquisti a titolo gratuito (e, cioè, per effetto di successione a causa di morte o di donazione), nei quali l’agevolazione “prima casa” vale ad abbattere alla misura fissa (attualmente stabilita in euro 200) ciascuna delle imposte ipotecaria e catastale.
Il dubbio sorgeva perché il testo della nuova norma sembrava far riferimento ai soli acquisti per i quali fosse applicabile l’aliquota del 2% dell’imposta di registro.
Sul tema degli acquisti a titolo gratuito, le Entrate hanno precisato che, nell’atto di donazione o nella dichiarazione di successione con cui si acquista il nuovo immobile in regime agevolato, deve risultare l’impegno a trasferire entro un anno l’immobile preposseduto;
2. trova applicazione in relazione agli atti di acquisto di immobili posti in essere a decorrere dal 1 gennaio 2016 e, quindi, per gli atti conclusi prima di tale data non può essere richiesto il rimborso delle eventuali maggiori imposte versate rispetto a quelle che sarebbero state dovute in applicazione delle nuove disposizioni né spetta un credito d’imposta;
3. riguarda oltre che la riduzione delle imposte indirette anche il credito d’imposta: all’atto di acquisto del nuovo immobile con l’agevolazione “prima casa” il contribuente può pertanto fruire del credito di imposta per l’imposta dovuta in relazione al nuovo acquisto. L’opinione dell’Agenzia ha motivato il suo avviso con l’osservazione che una diversa interpretazione non risulterebbe, infatti, coerente con la ratio della riforma, la quale ha inteso agevolare la sostituzione della “prima casa”, introducendo una maggiore flessibilità nei tempi previsti per la dismissione dell’immobile preposseduto.
ARTICOLO - Pubblicato il: 22 gennaio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Il revisore deve stabilire e svolgere procedure di revisione in risposta ai rischi identificati e valutati la cui natura, tempistica ed estensione sono determinate in funzione della valutazione dei rischi di errori significativi a livello di asserzioni.
NATURA
- Le procedure di revisione sono classificate, secondo la loro finalità, in procedure di conformità e procedure di validità. Il ricorso a procedure di conformità piuttosto che a quelle di validità, oppure a una combinazione di entrambe, dipende dalla valutazione del rischio effettuata dal revisore.
TEMPISTICA
- Più alto è il rischio di errori significativi più il revisore deciderà di effettuare procedure di validità in prossimità o alla fine dell'esercizio, piuttosto che a una data intermedia, oppure deciderà di eseguirle senza preavviso o in tempi non prestabiliti.
ESTENSIONE
- L'estensione delle procedure di revisione, ossia la loro ampiezza in termini quantitativi, dipende dalla valutazione del rischio di errori significativi. Così, per esempio, il revisore aumenterà la dimensione del campione da sottoporre a procedure di revisione all'aumentare del rischio.
Nella definizione delle procedure di revisione in risposta ai rischi identificati e valutati, il revisore considera aspetti quali:
− la significatività del rischio;
− la probabilità di errori significativi;
− le caratteristiche della classe di operazioni, del saldo contabile e della informativa in esame;
− la natura dei controlli specifici utilizzati dall’impresa ed in particolare se essi sono manuali o automatizzati;
− l’eventuale acquisizione di elementi probativi per determinare se i controlli adottati dall’impresa siano efficaci nel prevenire od individuare e correggere errori significativi.
Come si è già detto, le procedure di revisione sono classificate, secondo la loro finalità, in procedure di conformità e procedure di validità. A loro volta, queste ultime si suddividono in verifiche di dettaglio e procedure di analisi comparativa.
Secondo la loro tipologia, si dividono in ispezioni, osservazioni, indagini, richiesta di conferma, ricalcolo, riesecuzione e procedure di analisi comparativa.
Che tratti di tali aspetti è il principio 330.
Le procedure di conformità sono le procedure di revisione dirette a verificare l'efficacia operativa dei controlli posti in essere dall'impresa il cui bilancio è sottoposto a revisione.
Il revisore deve svolgere le procedure di conformità quando:
- la sua valutazione del rischio tiene conto di un’aspettativa di efficacia operativa dei controlli adottati dall’impresa, ovvero
- la sola applicazione delle procedure di validità non fornisce sufficienti ed appropriati elementi probativi a livello di asserzioni.
Consistono principalmente in indagini ma spesso possono essere accompagnate da una riesecuzione del controllo da parte del revisore o da appropriate ispezioni (per esempio, della documentazione di supporto dei controlli).
- Differiscono dalle procedure di valutazione del rischio volte a verificare se i controlli esistono e se sono messi in atto, anche se, spesso, gli elementi probativi sulla messa in atto di un controllo costituiscono elementi probativi anche sulla sua efficacia.
- Sono necessarie quando il revisore decide di fare affidamento sul controllo interno dell'impresa e quando le procedure di validità da sole non forniscono sufficienti e appropriati elementi probativi.
L’assenza di errori significativi riscontrata mediante lo svolgimento di una procedura di validità non fornisce elementi probativi sull’efficacia dei controlli attinenti all’asserzione oggetto di verifica. Ne consegue che, indipendentemente dalla valutazione del rischio, il revisore deve eseguire procedure di validità per ciascuna classe di operazioni, saldo contabile ed informativa significativa.
Ciò significa che anche se egli ha valutato, attraverso le procedure di conformità, che il rischio di errori per un determinato saldo contabile, è accettabile e tale saldo contabile è significativo rispetto al bilancio, egli dovrà comunque effettuare procedure di validità. La scelta di effettuare verifiche di dettaglio piuttosto che procedure di analisi comparativa, oppure una combinazione delle due, dipende dalla valutazione del rischio effettuata dal revisore.
Così se egli ritiene che, avendo eseguito procedure di conformità, possa fare affidamento sull'operatività dei controlli, può giudicare che le procedure di analisi comparativa, svolte come procedure di validità, possono fronteggiare da sole i rischi di errori significativi. In altre circostanze, al contrario, il revisore può ritenere che soltanto le verifiche di dettaglio siano adeguate ad acquisire elementi probativi con riferimento a particolari asserzioni relative a saldi contabili (per esempio, l'esistenza e la valutazione). Anche in questo caso, pertanto, la decisione è rimessa al suo giudizio professionale in linea con quello che è lo spirito dei principi di revisione.
Tuttavia, gli errori significativi individuati dal revisore mediante procedure di validità, devono essere considerati dal revisore ai fini della valutazione dell’efficacia operativa dei controlli ad essi correlati. Un errore significativo individuato dalle procedure poste in essere dal revisore, che non è stato identificato dall’impresa, di solito indica l’esistenza di un punto di debolezza significativo nel controllo interno da comunicare alla direzione ed ai responsabili delle attività di governance.
Il revisore può decidere di fare affidamento sugli elementi probativi riguardanti l'efficacia operativa dei controlli acquisiti in precedenti lavori di revisione, purché essi non siano cambiati dopo la loro verifica.In tale circostanza è comunque tenuto a verificare l'efficacia operativa dei controlli almeno una volta ogni tre revisioni. Il periodo di tempo intercorrente tra l'ultima verifica e quella successiva non può superare i due anni.
Le procedure di validità sono le procedure di revisione dirette a individuare errori significativi a livello di asserzioni.
Se il revisore ha stabilito di non poter fare affidamento sul controllo interno dell'impresa, perché inesistente o inefficace, egli farà ricorso essenzialmente alle procedure di validità.
Tale circostanza si realizza spesso nelle piccole e medie imprese nelle quali non sussistono generalmente molte attività di controllo, pertanto il revisore può ritenere più conveniente acquisire elementi probativi attraverso procedure di validità piuttosto che attraverso test sull'efficacia operativa dei controlli (procedure di conformità).
In ogni caso, indipendentemente dalla valutazione del rischio, il revisore deve eseguire procedure di validità per ciascuna classe di operazioni, saldo contabile ed informativa significativa.
Tale regola riflette il fatto che la valutazione del rischio da parte del revisore è soggettiva e può non essere sufficientemente precisa per identificare tutti i rischi di errori significativi.
Inoltre, vi sono limitazioni intrinseche al controllo interno, inclusa la possibilità di forzatura dei controlli da parte della direzione. Di conseguenza, sebbene il revisore possa determinare che il rischio di errori significativi sia ridotto ad un livello accettabilmente basso, eseguendo unicamente procedure di conformità per una particolare asserzione connessa ad una classe di operazioni, saldo contabile o informativa, egli deve comunque svolgere procedure di validità per ciascuna significativa classe di operazioni, saldo contabile e informativa.
Le procedure di validità si suddividono in:
- verifiche di dettaglio e
- procedure di analisi comparativa.
Le procedure di analisi comparativa sono più adatte a grandi volumi di operazioni che tendono ad essere prevedibili nel tempo.
Le verifiche di dettaglio sono più appropriate per acquisire elementi probativi in merito ad alcune asserzioni relative a saldi contabili, con particolare riferimento all’esistenza e alla valutazione.
Una parte significativa degli elementi probativi che il revisore deve acquisire per supportare le proprie conclusioni vengono acquisiti tramite verifiche di dettaglio. Pur essendo di alto valore probativo, esse richiedono spesso un impegno significativo in quanto necessitano della verifica di un campione più o meno ampio di operazioni risalendo ai relativi documenti contabili, amministrativi o fiscali che le hanno originate. Invece, le procedure di analisi comparativa - oggetto del documento 520 - pur non potendo sostituire le verifiche di dettaglio, si affiancano a queste ultime quale strumento che, in molti casi, consente di acquisire elementi probativi o a supporto dell'analisi del rischio, in maniera relativamente semplice e rapida.
Le procedure di validità devono includere le seguenti procedure di revisione in relazione alla fase di chiusura del bilancio:
− controllo della corrispondenza del bilancio con le sottostanti scritture contabili;
− esame delle registrazioni contabili e delle altre scritture di chiusura significative eseguite in sede di redazione del bilancio.
PROCEDURE DI ANALISI COMPARATIVA
Partono dal presupposto che molti errori contabili, volontari o meno, determinano alterazioni nei rapporti tra poste del bilancio.
Per esempio, una valutazione significativamente errata delle rimanenze finali di magazzino tende ad alterare l'andamento dei consumi tra un esercizio e l'altro.
Si tratta quindi di identificare dati che possano essere posti in correlazione per confermarne la coerenza o per individuare anomalie. Ciò richiede: conoscenza dell'impresa, adeguata esperienza e spirito investigativo.
Le comparazioni possibili sono ampie e possono riguardare: i dati e le informazioni comparabili relativi a esercizi precedenti, il confronto tra dati attesi stimati dal revisore o evidenziati dai budget con i risultati effettivi o la correlazione tra dati patrimoniali, finanziari ed economici che, sulla base dell'esperienza, è ipotizzabile seguano un andamento prevedibile come la percentuale di consumi sul fatturato.
Le analisi comparative possono riguardare semplici comparazioni - come il confronto del saldo dei crediti verso clienti con quello dei ricavi per verificare l'andamento dei tempi di incasso - fino a sofisticate analisi statistiche su ampi flussi di dati e sono applicabili all'intero processo di revisione.
Nella fase iniziale della revisione le analisi comparative sono utilizzate quali procedure per la valutazione dei rischi così da acquisire un'adeguata comprensione dell'impresa, del contesto in cui opera e per pianificare consapevolmente la natura, la tempistica e l'estensione delle procedure di revisione.
Possono essere inoltre utilizzate come procedure di validità, se la loro applicazione può risultare più efficace ed efficiente delle verifiche di dettaglio per ridurre a un livello accettabilmente basso il rischio di revisione. Infine devono essere applicate come procedure di riesame generale del bilancio al termine della revisione per verificare se il bilancio nel suo insieme sia coerente con la comprensione che il revisore si è formato dell'impresa.
Occorre che il revisore valuti la significatività e la probabilità di errori nei dati esaminati, e l'idoneità delle procedure di analisi comparativa quali procedure di validità in rapporto alla natura dell'asserzione da verificare.
Per esempio, se il controllo interno sul processo degli ordini di vendita è ritenuto debole, il revisore deve fare maggiore affidamento sulle verifiche di dettaglio sui crediti che sulle procedure di analisi comparativa utilizzate come procedure di validità.
Occorre che il revisori consideri l'attendibilità dei dati utilizzati che a loro volta dipende dalla fonte delle informazioni, dalla effettiva comparabilità dei dati, dalla natura e pertinenza delle informazioni rispetto agli obiettivi dell'analisi e dai controlli che sono stati eseguiti sulla predisposizione delle informazioni.
Nel caso di confronti con valori attesi è importante valutare la precisione con cui essi possono essere calcolati: per esempio, alcune voci come gli accantonamenti al fondo Tfr o gli ammortamenti presentano un più alto grado di prevedibilità rispetto a voci con un andamento maggiormente discrezionale, quali le spese pubblicitarie o di ricerca.
Gli elementi probativi sono costituiti dall'insieme delle informazioni che vengono utilizzate dal revisore per giungere alle conclusioni su cui basare il proprio giudizio.
Il documento 500 fornisce, quindi, una guida sul significato degli elementi probativi nell'ambito della revisione, con indicazioni sulla quantità e la qualità degli elementi probativi da acquisire e sulle procedure da svolgere per ottenerli.
Il principio chiarisce che gli elementi probativi comprendono non solo le informazioni che sono contenute nelle registrazioni contabili ma anche altre informazioni quali quelle derivanti da revisioni contabili precedenti, dai rapporti di analisti finanziari, dalle conferme di soggetti terzi all'impresa o da dati comparabili relativi a imprese concorrenti.
Procedure di revisione volte all’acquisizione di elementi probativi
Gli elementi probativi per trarre conclusioni ragionevoli su cui basare il giudizio del revisore vengono acquisiti mediante lo svolgimento di:
a) Procedure di valutazione del rischio
b) Procedure di revisione conseguenti, che comprendono:
i) Procedure di conformità; laddove richieste dai principi di revisione o qualora il revisore abbia scelto di svolgere;
ii) Procedure di validità, incluse le verifiche di dettaglio e le procedure di analisi comparativa utilizzate come procedure di validità.
Le caratteristiche
Per fornire una ragionevole sicurezza ai destinatari della propria relazione, il revisore deve ottenere elementi probativi sufficienti e appropriati.
La sufficienza è una caratteristica quantitativa degli elementi probativi, che è funzione del rischio di errore valutato dal revisore e dalla qualità degli elementi probativi stessi.
L'appropriatezza è, invece, una caratteristica qualitativa, che riguarda la pertinenza e l'attendibilità degli elementi probativi nel supportare o individuare errori nelle classi di operazioni, saldi contabili e altra informativa di bilancio.
Un determinato insieme di procedure di revisione può fornire elementi probativi pertinenti per alcune asserzioni, ma non per altre. Per esempio, l'ispezione delle registrazioni contabili e dei documenti relativi all'incasso dei crediti dopo la chiusura dell'esercizio può fornire elementi probativi appropriati circa la loro esistenza e valutazione, ma non necessariamente sul rispetto del principio di competenza economica.
La «persuasione»
Il revisore deve ottenere elementi probativi sufficienti e appropriati in misura tale da renderlo «persuaso» di poter trarre le proprie conclusioni con ragionevole sicurezza.
È importante notare che non è, quindi, richiesto che gli elementi probativi raccolti debbano essere necessariamente conclusivi, il che richiederebbe l'esame di ogni informazione disponibile.
Il revisore può, invece, trarre le proprie conclusioni mediante metodi di campionamento e altri metodi di selezione delle voci da esaminare.
La scelta delle informazioni da esaminare è un problema complesso che deve essere affrontato integrando le linee guida del documento 500 con quelle esposte in altri principi di revisione e, in particolare, quelli relativi alla conoscenza dell'impresa, alla pianificazione della revisione e alle risposte del revisore alla valutazione dei rischi e al campionamento.
L'attendibilità degli elementi probativi è influenzata dalla loro fonte e dalla loro natura. In questo senso, e malgrado possibili eccezioni, è possibile formulare criteri generali in merito all'attendibilità delle varie tipologie degli elementi probativi. Per esempio gli elementi probativi sono generalmente più attendibili se ottenuti da fonti indipendenti esterne all'impresa piuttosto che da fonti interne, o se derivano da documenti originali piuttosto che da fax o fotocopie.
Le procedure
Le tipologie di procedure di revisione con le quali raccogliere elementi probativi sono:
- l'ispezione;
- l'osservazione;
- la conferma;
- il ricalcolo;
- la riesecuzione;
- le procedure di analisi comparativa;
- l'indagine.
A14 Con il termine convenzionale ispezione si intende l'esame di registrazioni o di documenti, sia interni sia esterni, in formato cartaceo, elettronico o in altro formato, ovvero la verifica fisica di una attività. L'ispezione delle registrazioni e dei documenti fornisce elementi probativi con differenti gradi di attendibilità, in funzione della loro natura e fonte di provenienza e, nel caso di registrazioni e documenti interni, in funzione dell'efficacia dei controlli sulla loro produzione. Un esempio di ispezione utilizzata come procedura di conformità è l'ispezione delle registrazioni per verificarne la relativa autorizzazione.
A15 Alcuni documenti costituiscono elementi probativi diretti dell'esistenza di un'attività; per esempio, un documento che rappresenta uno strumento finanziario, come un'azione o un'obbligazione. L'ispezione di tali documenti non fornisce necessariamente elementi probativi in relazione al titolo di proprietà o al loro valore. Inoltre, l'ispezione di un contratto stipulato può fornire elementi probativi riguardanti l'applicazione dei principi contabili da parte dell'impresa, come la rilevazione dei ricavi.
A16 L'ispezione delle attività materiali può fornire elementi probativi attendibili per quanto riguarda la loro esistenza, ma non necessariamente per i diritti e le obbligazioni dell'impresa o la valutazione di queste attività. L'ispezione di singole voci delle rimanenze può svolgersi contestualmente all'osservazione della conta delle rimanenze medesime.
A17 L'osservazione consiste nell'assistere ad un processo o ad una procedura svolti da altri, come, ad esempio, l'osservazione della conta fisica delle rimanenze effettuata dal personale dell'impresa oppure dell'effettuazione delle attività di controllo. L'osservazione fornisce elementi probativi in merito all'esecuzione di un processo o di una procedura, che sono tuttavia limitati al momento in cui viene effettuata tale osservazione e dal fatto che l'essere osservati può influenzare il modo in cui il processo o la procedura sono svolti. Si veda il principio di revisione internazionale (ISA Italia) n.501 per ulteriori linee guida sull'osservazione della conta fisica delle rimanenze.10
Conferma esterna
A18 Una conferma esterna costituisce un elemento probativo acquisito dal revisore come una risposta diretta in forma scritta al medesimo da parte di un soggetto terzo (il soggetto circolarizzato), in formato cartaceo o elettronico ovvero in altro formato. Le procedure di conferma esterna sono spesso rilevanti quando riguardano asserzioni associate a determinati saldi contabili ed ai relativi elementi. Tuttavia, le conferme esterne non si limitano necessariamente ai saldi contabili. Per esempio, il revisore può richiedere conferma dei termini di accordi o di operazioni dell'impresa con terze parti; la richiesta di conferma può essere configurata per chiedere se siano state apportate modifiche all'accordo e, in caso affermativo, quali siano i dettagli di tali modifiche. Le procedure di conferma esterna sono utilizzate inoltre per acquisire elementi probativi sull'assenza di determinate condizioni, per esempio, l'assenza di "accordi a latere" che possono influenzare la rilevazione dei ricavi. Per ulteriori linee guida si veda il principio di revisione internazionale (ISA Italia) n. 505."
A19 Il ricalcolo consiste nella verifica dell'accuratezza matematica di documenti o registrazioni. Il ricalcolo può essere svolto manualmente o elettronicamente.
A20 La riesecuzione comporta un'esecuzione indipendente da parte del revisore di procedure o controlli che sono stati originariamente svolti nell'ambito del controllo interno dell'impresa.
Procedure di analisi comparativa
A21 Le procedure di analisi comparativa consistono in valutazioni dell'informazione finanziaria mediante l'analisi delle relazioni plausibili tra i dati sia di natura finanziaria che di altra natura. Le procedure di analisi comparativa comprendono anche l'indagine, per quanto ritenuta necessaria, sulle fluttuazioni o sulle relazioni identificate che sono incoerenti con altre informazioni pertinenti o che differiscono dai valori attesi per un importo significativo. Per ulteriori linee guida si veda il principio di revisione internazionale (ISA Italia) n. 520.
A22 L'indagine consiste nella ricerca di informazioni di natura finanziaria e di altra natura presso le persone, in possesso delle necessarie conoscenze, sia all'interno che all'esterno dell'impresa. L'indagine è utilizzata ampiamente durante lo svolgimento della revisione contabile in aggiunta ad altre procedure di revisione. Le indagini possono variare da quelle formali scritte a quelle informali verbali. La valutazione delle risposte alle indagini costituisce una parte integrante della procedura d'indagine.
A23 Le risposte alle indagini possono fornire al revisore informazioni di cui non era precedentemente in possesso ovvero elementi probativi di conferma. In alternativa, le risposte alle indagini potrebbero fornire informazioni che differiscono significativamente dalle altre informazioni acquisite dal revisore, per esempio informazioni relative alla possibilità di forzatura dei controlli da parte della direzione. In alcuni casi, le risposte alle indagini forniscono al revisore elementi per modificare le procedure di revisione o per svolgerne ulteriori.
A24 Sebbene la conferma di elementi probativi acquisiti mediante le indagini sia spesso di particolare importanza, nel caso di indagini sulle intenzioni della direzione, le informazioni disponibili a supporto di tali intenzioni possono essere limitate. In questi casi, la comprensione dei precedenti storici della direzione nel realizzare le intenzioni dichiarate, delle motivazioni dichiarate per la scelta di determinate linee di condotta, nonché della sua capacità di perseguire specifiche linee di condotta può fornire informazioni pertinenti per supportare gli elementi probativi acquisiti mediante l'indagine.
A25 Riguardo ad alcuni aspetti, il revisore può considerare necessario acquisire attestazioni scritte dalla direzione e, ove appropriato, dai responsabili delle attività di governance per confermare le risposte ottenute mediante le indagini verbali. Per ulteriori linee guida si veda il principio di revisione internazionale (ISA Italia) n. 580.
Il revisore ottiene una maggiore sicurezza da una pluralità di elementi probativi coerenti, ottenuti da fonti diverse o di differente natura piuttosto che da elementi probativi considerati singolarmente.
In molti casi anziché, per esempio, limitarsi a inviare un numero molto elevato di richieste di conferma di saldi ai clienti potrebbe essere preferibile inviare un numero più limitato di richieste ma svolgere anche altre verifiche quali, per esempio, analisi comparative circa l'andamento dei crediti rispetto al fatturato, analisi degli scadenziari clienti, interviste all'ufficio addetto alla gestione dei crediti e così via verificando la congruenza degli elementi probativi che sono stati ottenuti dalle diverse procedure.
Il revisore normalmente ritiene necessario fare affidamento su elementi probativi che sono persuasivi piuttosto che conclusivi; comunque, per ottenere una ragionevole sicurezza, il revisore non può ritenersi soddisfatto di elementi probativi che non siano quantomeno persuasivi.
Il revisore esercita il proprio giudizio professionale ed applica lo scetticismo professionale nel valutare la quantità e qualità degli elementi probativi, così come la loro sufficienza ed appropriatezza, a supporto del giudizio professionale.
Selezioni delle voci da verificare per acquisire elementi probativi
I metodi a disposizione del revisore per selezionare le voci da sottoporre a verifica sono:
a) Selezione di tutte le voci (esame 100%);
b) Selezioni di voci specifiche;
c) Campionamento di revisione.
Selezione di tutte le voci
A53. Il revisore può decidere che il metodo più appropriato sia esaminare l'intera popolazione delle voci che compongono una classe di operazioni o un saldo contabile (o uno strato all'interno di quella popolazione). Nel caso di procedure di conformità, l'esame di tutte le voci è improbabile, mentre è più comune per le verifiche di dettaglio. L'esame di tutte le voci può essere appropriato, per esempio, quando:
· la popolazione è costituita da un numero limitato di voci di valore elevato;
· esiste un rischio significativo e gli altri metodi non forniscono elementi probativi sufficienti e appropriati; ovvero
· la natura ripetitiva di un calcolo o di altri processi svolti automaticamente da un sistema informativo rende conveniente l'esame della totalità delle voci.
Selezione di voci specifiche
A54. Il revisore può decidere di selezionare voci specifiche da una popolazione. Nel prendere tale decisione, i fattori che possono essere considerati includono la comprensione dell'impresa da parte del revisore, i rischi identificati e valutati di errori significativi e le caratteristiche della popolazione da verificare. La selezione soggettiva di voci specifiche da parte del revisore è soggetta al rischio non dipendente dal campionamento. Le voci specifiche selezionate possono includere:
· Voci di valore elevato o voci chiave. Il revisore può decidere di selezionare voci specifiche nell'ambito di una popolazione in quanto esse sono di valore elevato, o presentano altre caratteristiche, quali, ad esempio, voci sospette, inusuali, particolarmente soggette a rischio oppure voci nelle quali in passato sono stati riscontrati errori.
· Tutte le voci superiori ad un determinato importo. Il revisore può decidere di esaminare voci i cui valori registrati superino un determinato importo, al fine di verificare, in tal modo, una gran parte dell'importo totale di una classe di operazioni o di un saldo contabile.
· Voci per acquisire informazioni. Il revisore può esaminare voci al fine di acquisire informazioni su aspetti quali la natura dell'impresa o delle operazioni.
A55 Sebbene l'esame selettivo di voci specifiche da una classe di operazioni o da un saldo contabile spesso rappresenti un metodo efficiente per acquisire elementi probativi, esso non costituisce un campionamento di revisione. I risultati delle procedure di revisione applicate alle voci selezionate con questa modalità non possono essere proiettati sull'intera popolazione, di conseguenza l'esame selettivo delle voci specifiche non fornisce elementi probativi in merito alla parte rimanente della popolazione.
Campionamento di revisione
A56 Il campionamento di revisione è configurato per consentire di trarre conclusioni sull'intera popolazione sulla base della verifica di un campione estratto dalla popolazione stessa. Il campionamento di revisione è trattato nel principio di revisione internazionale (ISA Italia) n. 530.
Può essere appropriato applicare uno di questi metodi, ovvero una loro combinazione, a seconda delle particolari circostanze, per esempio i rischi di errori significativi relativi all’assunzione oggetto di verifica, la fattibilità e l’efficienza dei diversi metodi.
Gli elementi probatori per rimanenze, contenziosi e settori di attività d’impresa
Il principio 501 tratta degli elementi probatori con riferimento alle
- Rimanenze
- Contenziosi e contestazioni
- Informativa in merito ai settori di attività d’impresa
Rimanenze
4. Qualora le rimanenze siano significative nell'ambito del bilancio, il revisore deve acquisire elementi probativi sufficienti ed appropriati sulla loro esistenza e sulle loro condizioni, mediante:
a) la presenza alla conta fisica delle rimanenze, tranne nei casi in cui non risulti fattibile, al fine di: (Rif.: PamAl-A3)
i) valutare le istruzioni e le procedure della direzione per la rilevazione ed il controllo dei risultati della conta fisica delle rimanenze da parte dell'impresa; (Rif.: Par. A4)
ii) osservare lo svolgimento delle procedure di conta della direzione: (Rif.: Par.A5)
iii) svolgere ispezioni sulle rimanenze; (Rif.: Par.A6)
iv) svolgere conte di verifica sulle rimanenze; (Rif.: Parr.A7-A8)
b) lo svolgimento di procedure di revisione sulle registrazioni inventariali finali dell'impresa per stabilire se riflettano accuratamente i risultati effettivi della conta delle rimanenze.
5. Qualora la conta fisica delle rimanenze sia svolta ad una data diversa dalla data di riferimento del bilancio, il revisore, in aggiunta alle procedure richieste al paragrafo 4, deve svolgere procedure di revisione al fine di acquisire elementi probativi sul fatto se le variazioni delle rimanenze intervenute tra la data della conta e la data di riferimento del bilancio siano correttamente registrate. (Rif.: Parr.A9-A11)
6. Qualora il revisore non sia in grado di essere presente alla conta fisica delle rimanenze a causa di circostanze impreviste, egli deve effettuare alcune conte fisiche ovvero osservarne lo svolgimento ad una data
alternativa e svolgere procedure di revisione sulle operazioni nel frattempo intercorse.
7. Qualora la presenza alla conta fisica delle rimanenze non sia fattibile, il revisore deve svolgere
procedure di revisione alternative per acquisire elementi probativi sufficienti e appropriati riguardo l'esistenza e le condizioni delle rimanenze. Qualora ciò non sia possibile, il revisore deve esprimere un giudizio con modifica nella relazione di revisione, in conformità al principio di revisione internazionale (ISA Italia) n.705.3 (Rif.: Parr. Al2-A14)
8. Qualora le rimanenze detenute presso soggetti terzi siano significative nell'ambito del bilancio, il
revisore deve acquisire elementi probativi sufficienti e appropriati sulla loro esistenza e sulle loro condizioni svolgendo una od entrambe le seguenti procedure:
a) richiedere conferma al soggetto terzo in merito alle quantità e alle condizioni delle rimanenze detenute per conto dell'impresa; (Rif.: Par. A15)
b) svolgere un'ispezione oppure effettuare altre procedure di revisione appropriate alle circostanze. (Rif.: Par.A16)
Contenziosi e contestazioni
9. Il revisore deve definire e svolgere procedure di revisione al fine di identificare i contenziosi e le
contestazioni che coinvolgono l'impresa che possono dare origine ad un rischio di errore significativo; tali procedure comprendono: (Rif.: Parr. A 1 7-A l 9)
a) le indagini presso la direzione e, ove applicabile, presso altri soggetti all'interno dell'impresa, incluso il consulente legale interno;
b) il riesame dei verbali delle riunioni dei responsabili delle attività di governance e della corrispondenza intercorsa tra l'impresa ed il suo consulente legale esterno;
c) il riesame dei conti relativi alle spese legali. (Rif.: Par. A20)
10. Qualora il revisore identifichi e valuti un rischio di errore significativo relativo ai contenziosi o alle
contestazioni individuati, ovvero le procedure di revisione svolte indichino la possibile esistenza di altri contenziosi o altre contestazioni significative, il revisore, in aggiunta alle procedure richieste da altri principi di revisione, deve ricercare una comunicazione diretta con il consulente legale esterno dell'impresa. Il revisore deve fare ciò tramite una lettera di richiesta di informazioni, predisposta dalla direzione e spedita dal revisore stesso, in cui si richiede al consulente legale esterno dell'impresa di comunicare direttamente con il revisore. Qualora le leggi, i regolamenti oppure il rispettivo organismo professionale vietino al consulente legale esterno dell'impresa di comunicare direttamente con il revisore, quest'ultimo deve svolgere procedure di revisione alternative. (Rif.: Parr. A21-A25)
11. Nel caso in cui:
a) la direzione rifiuti di concedere al revisore il permesso di comunicare o di incontrare il consulente legale esterno dell'impresa, ovvero quest'ultimo rifiuti di rispondere appropriatamente alla lettera di richiesta di informazioni, ovvero gli sia vietato di rispondere;
b) il revisore non sia in grado di acquisire elementi probativi sufficienti e appropriati mediante lo svolgimento di procedure di revisione alternative,
il revisore deve esprimere un giudizio con modifica nella relazione di revisione, in conformità al principio di revisione internazionale (ISA Italia) n. 705.
Attestazioni scritte
12. Il revisore deve richiedere alla direzione e, ove appropriato, ai responsabili delle attività di governance, di fornire attestazioni scritte che tutti i contenziosi e le contestazioni noti, siano essi in corso o solo potenziali, i cui effetti dovrebbero essere considerati nella redazione del bilancio, siano stati portati a conoscenza del revisore, contabilizzati e oggetto di informativa in conformità al quadro normativo sull'informazione finanziaria applicabile.
Informativa in merito ai settori di attività dell'impresa
13. Il revisore deve acquisire elementi probativi sufficienti e appropriati sulla presentazione e sulla informativa di bilancio in merito ai settori di attività dell'impresa in conformità al quadro normativo sull'informazione finanziaria applicabile mediante: (Rif.: Par.A26)
a) l'acquisizione della comprensione dei metodi utilizzati dalla direzione nel determinare l'informativa in merito ai settori di attività dell'impresa, nonché: (Rif.: Par.A27)
i) valutando se tali metodi possano essere adeguati a fornire una informativa conforme al quadro normativo sull'informazione finanziaria applicabile;
ii) verificando l'applicazione di tali metodi, ove appropriato;
b) lo svolgimento di procedure di analisi comparativa ovvero di altre procedure di revisione appropriate alle circostanze.
ARTICOLO - Pubblicato il: 1 gennaio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Si è già visto come la trasformazione è un’operazione in cui la società non muta la propria identità; l’operazione non implica infatti l’estinzione di un soggetto e la creazione di uno nuovo: tra le società non si realizza un trapasso di patrimoni e i rapporti sociali instaurati anteriormente alla trasformazione continuano a permanere e ciò anche quando con la trasformazione la società acquisisca la personalità giuridica.
L’elemento della continuità che caratterizza la trasformazione trova applicazione anche contabilmente. Ne consegue che:
- l’esercizio sociale rimane unico, con la conseguenza che uno solo sarà il bilancio da redigere;
- non è dovuta la chiusura e la conseguente riapertura dei conti alla data di riferimento della perizia e/o di efficacia della trasformazione, necessitandosi semplicemente - peraltro solo nel caso di trasformazione evolutiva:
- dell’assestamento dei conti, operabile anche in via extracontabile e funzionale alla redazione della situazione patrimoniale di riferimento del perito e
- della rilevazione di eventuali scritture di recepimento delle rettifiche dallo stesso operate.
In merito alla trasformazione evolutive si è già avuto modo di dire che, stando il tenore letterale dell’art. 2500-ter del Codice civile, sembrerebbe che il legislatore della riforma abbia invertito l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale passato, riconoscendo la possibilità, (rectius: “imponendo”) che la perizia di stima rilevi eventuali plusvalori latenti dell’azienda e permettendo alla società che risulta dalla trasformazione di iscrivere tali maggiori valori (L. Miele, Trasformazioni elusive, Il Sole 24 Ore, del 22 ottobre 2004). La conseguenza di tale previsione normativa è che il perito deve attenersi, non ai criteri di valutazione prescritti dal codice civile per la redazione del bilancio di esercizio (principio contabile n. 30), ma ai criteri ordinariamenti utilizzati nei casi di trasferimento di azienda (ad esempio per conferimento), procedendo ad una vera e propria valutazione della stessa a valori correnti. Gli amministratori sembrerebbero quindi obbligati a adeguare i valori di bilancio, rispetto a quelli risultanti dalla perizia e sia che questo porti alla rilevazione di valori superiori che inferiori rispetto a quelli iscritti in contabilità. Pertanto con questa disposizione si finisce con il poter rivalutare certi beni in deroga a quanto previsto dall’art. 2426 del Codice civile (M. Confalonieri, M. Iori, Trasformazione evolutiva di società di persone: perizia e bilancio di trasformazione, Contabilità e Bilancio, Il Sole 24Ore, n. 12 del 2005).
Data l’unitarietà dell’esercizio in cui viene eseguita la trasformazione e la neutralità fiscale che caratterizza la trasformazione la scelta in ordine a quale società “addebitare” le eventuali plusvalenze e minusvalenze patrimoniali derivanti dalla verifica del perito, sembra assumere poco rilievo.
Il “netto patrimoniale” che dovesse scaturire dall’operazione di traformazione potrà essere liberamente ripartito tra le poste ideali del patrimonio netto, rispettando i limiti minimi
del capitale sociale previsti dal codice civile per le società di capitali e le disposizioni fiscali sull’iscrizione delle riserve.
Nel caso in cui il patrimonio netto della società di persone non risulti sufficiente a integrare il capitale sociale minimo previsto per il nuovo tipo di società, si renderanno necessari dei conferimenti supplementari da parte dei soci. Indipendentemente da questa ipotesi, è comunque sempre possibile aumentare il capitale sociale in concomitanza con la trasformazione. È chiaro che nelle ipotesi prospettate di aumento del capitale con nuovi conferimenti, si renderà necessario versare almeno i tre decimi dei conferimenti in denaro (ex art. 2329, c.c.), ovvero “liberare” l’intero conferimento in natura.
Ancorchè a livello normativo non è richiesta alcuna rilevazione, sul piano pratico, l’esigenza di lasciare un’adeguata traccia contabile degli assestamenti operati in sede di stesura della situazione patrimoniale di riferimento per la perizia e, tanto più, in sede di determinazione del risultato economico della prima porzione di esercizio (anche ai fini fiscali come si dice nello specifico dopo), spinge gli operatori a effettuare delle vere e proprie chiusure e riaperture dei conti, generalmente secondo il seguente schema:
1) chiusura “provvisoria” dei conti in via extracontabile, funzionale alla sola determinazione dei valori di riferimento per la perizia;
2) recepimento nelle scritture contabili, in via definitiva, delle eventuali rettifiche peritali;
3) verifica del patrimonio netto di trasformazione e conseguente individuazione del limite massimo in termini di capitale sociale attribuibile alla società trasformata;
4) recepimento nelle scritture contabili, in via definitiva, delle eventuali variazioni apportate in sede assembleare, ovvero necessarie ai fini fiscali, in termini di ammontari e di individuazione contabile delle parti ideali del patrimonio netto (aumenti di capitale sociale o riduzioni per perdite e ridenominazione delle riserve);
5) vera e propria chiusura dei conti “straordinaria” della società “trasformanda”, con riferimento alla data di efficacia della trasformazione;
6) vera e propria riapertura dei conti della società “trasformata” alla data medesima;
7) “ordinaria” chiusura dei conti della società “trasformata” alla data di chiusura dell’esercizio;
8) stesura del bilancio di esercizio, operata sommando i conti economici relativi alle due porzioni di esercizio, con riferimento a schede di mastro “consolidate”, in quanto da riferirsi all’intero esercizio.
Non sorgono invece particolari problemi di ordine contabile quando la trasformazione avvenga tra società aventi forme giuridiche omogenee (tra società di persone o tra società di capitali); in questo caso, non intervenendo variazioni né in termini di personalità giuridica e di autonomia patrimoniale, non si renderà necessario operare alcuna scrittura contabile, né frazionamento del risultato economico dell’esercizio.
In ogni caso, non si renderà mai necessario sostituire le scritture contabili utilizzate in precedenza, salvo, caso mai, istituirne di nuove, in ragione della nuova veste giuridica adottata.
ARTICOLO - Pubblicato il: 1 gennaio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
La neutralità delle operazioni
L’art. 170 TUIR sancisce la neutralità fiscale dell’operazione: viene detto che non costituisce realizzo né distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento. Pertanto il passaggio di beni dalla società prima della trasformazione e alla società dopo la trasformazione non rientra tra gli eventi cui si collega il riconoscimento ai fini impositivi di plusvalenze e minusvalenze latenti.
Ciò è dovuto all’abrogazione della lett. c) dell’art. 54 del TUIR e alla previsione contenuta all’art. 110, comma 1 lett. c) del TUIR, secondo la quale sono irrilevanti le plusvalenze iscritti, ma solo se fanno riferimento a beni strumentali.
Il primo comma dell’art. 170 del TUIR rappresenta una disposizione avente contenuto meramente confermativo di principi già presenti e operanti nel sistema, finendo in pratica per assumere carattere interpretativo del disposto degli artt. 86 e 101 del TUIR che prevedono l’irrilevanza delle plusvalenze e delle minusvalenze iscritte su beni strumentali (Zizzo, Le riorganizzazioni societarie nelle imposte sui redditi. Trasformazioni,fusioni e scissioni, Milano, Giuffrè, 1996, p. 26). Al riguardo, il legislatore ha ugualmente ritenuto opportuno fissare espressamente il principio di neutralità fiscale in ordine all’operazione de qua, giacché tale enunciazione era già presente nel previgente art. 15 del D.P.R. 598/1973 e la sua mancata trasposizione avrebbe potuto comportare equivoche nonché errate interpretazioni in ordine alla novella legislativa (in tal senso la relazione governativa allo schema del TUIR, nonché Leo, Monacchi e Schiavo, Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, Giuffrè, 1999, p. 1579).
Non sembrerebbe invece confermativo dei principi che regolano le rimanenze (art. 92 del TUIR); per queste, come per le partecipazioni sociali (art. 92 del TUIR) e talune spese aventi utilità pluriennale (art. 108 TUIR), diverse da quelle di pubblicità e di ricerca e sviluppo norma di default prevede che la neutralità si realizza solo confermando il valore di iscrizione risultante nella contabilità della società trasformata e non procedendo invece all’iscrizione di un maggior o minor valore (L. Miele, Trasformazioni “esposte”, Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2004).
Prima della riforma tributaria (attuata con il Dlgs n. 344 del 2003) si poteva sostenere che l’eventuale tassazione o deducibilità che ne poteva derivare risultava comunque coerente con il principio di neutralità fiscale della trasformazione sopra esposto in quanto, nella fattispecie in oggetto, l’emersione dei componenti positivi di reddito (o negativi) non dipendeva di per sé dalla trasformazione né dalla loro rilevazione nella relazione di stima, bensì da un atto volontario, distinto e autonomo dalla trasformazione, quale l’iscrizione nel bilancio di esercizio delle plusvalenze de quibus (atto equivalente a una vera e propria rivalutazione operata in occasione della trasformazione) (Zizzo, Le riorganizzazioni societarie nelle imposte sui redditi. Trasformazioni, fusioni e scissioni, Milano, Giuffrè, 1996, p. 30). Stando il contenuto dell’attuale art. 2500-ter del Codice civile (secondo cui il capitale della società risultante dalla trasformazione deve essere determinato sulla base dei valori attuali degli elementi dell’attivo e del passivo e deve risultare da relazione di stima redatta a norma di legge) ciò non sembrerebbe più vero con la conseguenza che l’iscrizione dei maggiori o minori valori (non solo dei beni strumentali) non vengono in ogni caso a assumere rilevanza fiscale. La cosa non è però così pacifica e merita una interpretazione da parte dell’Amministrazione finanziaria (in senso contrario si segnala: L. Miele, Trasformazioni “esposte”, Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2004).
Ma se la neutralità per i beni strumentali prescindere dalla continuità dei valori contabili da parte della società risultante dalla trasformazione; quindi si verifica la neutralità anche in tutti i casi in cui a seguito della trasformazione vengano recepiti valori:
- superiori a quelli risultanti dalla contabilità della società ante trasformazione (in questi casi va precisato che, per i beni sui quali vengono rilevate plusvalenze, il costo fiscalmente riconosciuto dei beni stessi si considera al netto delle plusvalenze iscritte);
- inferiori a quelli risultanti dalla contabilità della società ante trasformazione ( queste minusvalenze si considerano fiscalmente indeducibili dal reddito d’impresa in quanto realizzate con modalità diverse da quelle previste dall’art. 101 del TUIR) per i beni merce
Per i beni merci invece, La rilevanza fiscale si ha poi per le minori iscrizioni sui valori delle partecipazioni sociali (art. 92 del TUIR) e talune spese aventi utilità pluriennale (art. 108 TUIR), diverse da quelle di pubblicità e di ricerca e sviluppo). Ciò è dovuto all’abrogazione della lett. c) dell’art. 54 del TUIR e alla previsione contenuta all’art. 110, comma 1 lett. c) del TUIR, secondo la quale sono irrilevanti le plusvalenze iscritti, ma solo se fanno riferimento a beni strumentali.
I periodi d’imposta
L’art. 170 TUIR, dopo aver sancito la neutralità fiscale dell’operazione, al secondo comma prevede l’obbligo, in caso di trasformazione evolutiva o involutiva di presentazione di una dichiarazione dei redditi per il periodo compreso tra l’inizio del periodo d’imposta e la data in cui ha effetto la trasformazione.
La citata disposizione fiscale importa, pertanto, la suddivisione di uno stesso esercizio amministrativo in due distinti periodi d’imposta:
- il primo, che va dall’inizio dell’esercizio al giorno che precede la data di efficacia della trasformazione,
- il secondo, che parte dalla data da cui decorrono gli effetti della trasformazione e termina con la chiusura dell’esercizio.
Ad ognuno di questi corrisponde una dichiarazione dei redditi autonoma.
Per entrambi i periodi d’imposta si rende quindi opportuno determinare distintamente il reddito su cui calcolare le imposte; conseguentemente dovranno presentarsi due dichiarazioni dei redditi relative al medesimo esercizio.
Il calcolo degli ammortamenti, degli accantonamenti e delle svalutazioni, dovrà avvenire pro quota; l’art. 76, comma 3 del TUIR, prevede infatti che, quando “il periodo d’imposta è superiore o inferiore a dodici mesi i redditi [...] sono ragguagliati a esso” e tale ragguaglio deve effettuarsi anche “ai fini delle disposizioni di cui ai commi 2, 6 e 7 dell’art. 102 [l’ammortamento dei beni materiali, la determinazione del plafond massimo di deducibilità per le spese di manutenzione e riparazione e l’ammortamento operato dalle società di leasing], agli artt. 104 [l’ammortamento finanziario relativo ai beni gratuitamente devolvibili] e 106 [l’accantonamento per rischi su crediti] e ai commi 1 e 2 dell’art. 107 [gli altri accantonamenti ammessi in deduzione ai fini fiscali]”.
Diverso è il caso della tassazione delle plusvalenze. In merito l’art. 87, comma 4 del TUIR prevede che queste possano essere tassate per intero nell’esercizio in cui sono state realizzate ovvero in quote constanti nell’esercizio e nei successivi, non oltre il quarto.
. In merito occorre considerare che:
- l’esercizio, esprime temporalmente la durata convenzionale delimitata statutariamente o per legge a cui abbinata la rendicontazione periodica del risultato finanziario patrimoniale ed economico;
- il periodo d’imposta, esprime temporalmente Un segmento di tempo che circoscrive la sua valenza tecnica nel solo ambito del rapporto d’imposta
- nel TUIR le due definizioni non sono interscambiabili
- il riferimento all’ esercizio obbliga a parametrare temporalmente certi meccanismi fiscali alla durata dell’esercizio (art. 76 del TUIR) ; nel caso di periodo d’imposta il ragguaglio, invece, non si verifica;
- in ogni caso il ragguaglio assume significato, e quindi si applica, a quei componenti negativi i reddito la cui deducibilità è determianta forfetariamente sulla base di percentuali che sono state calcolate in ragione della normale durata del periodo d’imposta (Risol. n. 82/E del 2003).
Ne deriva che la plusvalenza deve scontare l’imposizione fiscale in abbinamento al periodo d’imposta ove matura la chiusura dell’esercizio statutario.
Nel caso in cui la società di persone si trovi in contabilità semplificata, la trasformazione in una società di capitali rende evidentemente necessaria la stesura di una situazione patrimoniale “di partenza”, servendosi dei criteri stabiliti dal DPR 689 del 1974. Tale situazione patrimoniale consentirà infatti l’apertura dei conti in contabilità ordinaria della società di capitali.
Se viceversa la trasformazione non comporta un cambiamento di tipologia d’imposta alla quale la società è soggetta, non occorre procedere alla divisione del periodo d’imposta con la conseguenza che la dichiarazione dei redditi sarà unica e riguarderà l’intero periodo.
Le perdite
Occorre distinguere a seconda che si tratti di
- trasformazioni involutiva
- trasformazione evolutiva
Trasformazione involutiva. Partendo dal presupposto che la trasformazione di una società di capitali in una società di persone può considerarsi equivalente alla situazione che si verifica in caso di tassazione per trasparenza delle società di capitali, l’Agenzia delle entrate nella Risol. n. 60/E del 2005 ritiene che le perdite prodotte della società di capitali nei periodi d’imposta anteriori alla trasformazione non sono perse.
La titolarità del diritto di riportare le perdite spetta alla società. Questa, pertanto, risulta legittimata a scomputarle dal proprio reddito prima di individuare l'importo di reddito da imputare, per trasparenza, a ciascun socio. Nessun diritto hanno invece i soci: l’art. 8 del Tuir tratta espressamente del trasferimento delle perdite di periodo realizzate da società di persone, con la conseguenza, secondo l’Agenzia delle entrate, che non può trovare applicazione con riferimento alle perdite realizzate da società di capitali.
Con la risoluzione appena richiamata l’Amministrazione finanziaria ha, di fatto, invertito rotta. Fino ad ora aveva sostenuto che il riporto delle perdite non fosse possibile (Risol. Direzione regionale delle entrate del Veneto n. 44130 del 19 dicembre 1994).
L’impossibilità trovava fondamento nel fatto che:
 mancano i successivi periodi d'imposta Ires nei quali è possibile computare le perdite in diminuzione dei redditi, così come richiesto dal citato articolo 84 del Tuir;
 l'articolo 8 del Tuir prevede per i soci la possibilità di computare in diminuzione dai relativi redditi solo le perdite delle società di persone e non anche di quelle di capitali.
In merito al primo, richiamando un principio ormai assodato (Corte di cassazione, sentenza del 13 luglio 1990, n. 7258) viene ora detto che con la trasformazione si ha la continuità dell'ente sociale e, conseguentemente, la conservazione delle sue situazioni giuridiche soggettive.
In merito al secondo, invece, che vale per analogia quanto previsto in caso di trasparenza, là dove viene detto che una società di persone può avere perdite proprie e che quelle prodottesi prima dell’entrare in trasparenza sono di pertinenza della società e non dei soci.
Nel passato la dottrina era pervenuta a conclusioni diverse. C’era chi sosteneva la non riporabilità delle perdite (Leo-Monacchi-Schiavo, Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, 1999, pagina 1905). Chi invece, ritenendo di non dover dare importanza al dato letterale dell’art. 8 del Tuir, sosteneva che le perdite pregresse avrebbero dovuto essere imputate ai soci pro quota all'atto della trasformazione (M. Nava, Trasformazione di società e riporto delle perdite fiscali, in “Rivista di diritto tributario” 10/1992, I, pagina 766). C’era chi, per risolvere il problema che solo le perdite di società di persone potessero essere trasferite ai soci, sosteneva che all’atto della trasformazione, le perdite pregresse fossero trasferite alla società di persone e fosse questa, a sua volta, a trasferirle ai soci suddivise per anno di formazione (R. Lupi, Trasformazione di società di persone, riporto delle perdite e norma antielusiva, in “Rivista di diritto tributario”, 1992, I, pagina 771). Da ultimo c’era chi sosteneva che il potere di riportare le perdite fosse mantenuto dalla società che le avrebbe scomputate in sede di determinazione del proprio reddito (G. Zizzo, Le riorganizzazioni societarie nelle imposte sui redditi, Giuffrè, Milano, 1996, pagina 250).
Trasformazione evolutiva. Le perdite prodotte da una società di persone sono automaticamente imputate ai soci, in proporzione della loro quota di partecipazione agli utili. Nessuna posizione giuridica soggettiva sorge, per effetto della perdita, in capo alla società di persone.
Per l’Amministrazione finanziaria da tale assunto ne deriva che all'atto della trasformazione non è possibile per la società di capitali risultante dalla trasformazione riportarsi le perdite della società di persone trasformata, in quanto il diritto all’utilizzo delle stesse è dei soci e questi soltanto possono esercitarlo.
Se questi non possiedano altri redditi di partecipazione o non svolgano un'attività commerciale, perdono definitivamente il diritto allo scomputo delle perdite (Risol. Direzione regionale delle entrate del Veneto n. 44130 del 19 dicembre 1994); dopo la trasformazione, infatti, il reddito che a loro deriva dalla società è di capitale e non più d’impresa (eccezion fatta, esistendone i presupposti, in caso di opzione per la tassazione per trasparenza).
Data l’equivalenza fiscale, è da ritenersi che quanto detto, per l’Amministrazione finanziaria, debba valere anche in caso di uscita dalla trasparenza volontaria e che quindi, anche in questo caso, possa essere che perdite pregresse possano non avere più alcun utilizzo.
In dottrina, sono state avanzate tesi che pervengono a diversa conclusione nel presupposto che la fonte generatrice del reddito è indiscutibilmente la medesima che ha generato la perdita, nonostante il mutamento nella sua classificazione ai fini impositivi (G. Zizzo, Le riorganizzazioni societarie nelle imposte sui redditi, Giuffrè, Milano, 1996,). Si è così pervenuti all'affermazione che vi siano valide ragioni per superare la formulazione letterale del citato articolo 8, comma 3 del Tuir, e ritenere che il socio conservi la posizione giuridica in questione, dopo la trasformazione, con riferimento agli utili erogati dalla società. Per completezza va anche osservato che prima delle modifiche apportate al vigente articolo 8 del Tuir (legge 724/1994) la perdita imputata al socio poteva essere scomputata nell'esercizio stesso dai redditi di qualsiasi altra categoria, e per la parte residua essere portata in diminuzione del reddito complessivo dei cinque periodi d'imposta successivi. Da ciò ne derivava, piuttosto pacificamente, che il riporto per il socio poteva avvenire anche se nel frattempo la società si era trasformata in società di capitali (o la partecipazione risultava ceduta ovvero la società liquidata).
Interessi
Nella trasformazione evolutiva o progressiva, per gli interessi passivi il problema non si pone poiché nelle società di persone questo componente negativo o è del tutto deducibile (se afferente) o è definitivamente indeducibile (se non afferente), in entrambi i casi non vi sono riporti a nuovo di componenti non dedotti. Stesso dicasi per il il Rol: tale istituto non è di alcun significato fiscale nelle società di persone per cui anche in questo caso non si pone il problema di una eventuale eccedenza di Rol non utilizzata.
Nella trasformazione involutiva o regressiva l’Agenzia, che con la circolare 29/E/2011 (risposta 1.1.) ha ritenuto illegittimo il trasferimento degli interessi passivi non dedotti.
A sostegno di tale tesi va segnalato il fatto che la società di persone deduce gli interessi passivi in base all’articolo 61 del Tuir, non applicando in nessun modo l’articolo 96 del Tuir, norma che contiene il riporto a nuovo degli interessi passivi eccedenti il 30% del Rol.
Per quanto riguarda il Rol, tale istituto non è di alcun significato fiscale nelle società di persone per cui non si pone il problema di una eventuale eccedenza di Rol non utilizzata.
Ace
La corretta gestione dell’agevolazione nella trasformazione progressiva non è stata affrontata né dalla circolare 12/E/14, né dalla successiva circolare 21/E/15.
Nella trasformazione evolutiva o progressiva, la società di capitali non può utilizzare l’intera base Ace della società di persone (calcolata sul patrimonio netto totale detenuto alla fine dell’esercizio), posto il diverso metodo di calcolo previsto per le società di capitale. Peraltro, anche l’ipotesi contraria, e cioè che nessuna base Ace pregressa esista per la società di capitali trasformata, non è condivisibile.
È ragionevole ipotizzare che sia possibile “ricostruire” una base Ace rilevante per la società trasformata, computando le operazioni “aceabili” eseguite dalla società di persone dal 1° gennaio 2011 fino alla data della trasformazione. Pertanto si assumeranno come dato positivo gli utili destinati a riserva a partire da quelli dell’esercizio 2010 (destinati a riserva nel 2011) e gli eventuali conferimenti in denaro eseguiti dai soci, mentre come dato negativo i prelevamenti di utili e riserve eseguiti dai soci sempre dal 2011 in poi. Peraltro una sorta di continuità nel calcolo del beneficio fiscale, pur adattato al nuovo soggetto risultante dalla trasformazione, è stato un principio sostenuto dalla stessa agenzia delle Entrate sull’analoga materia della Dit con la circolare 76/1998, par. 15.
Con questa base Ace pregressa la società trasformata eseguirà il calcolo dell’agevolazione tenendo conto del fatto che il periodo d’imposta in cui è avvenuta la trasformazione è inferiore a 12 mesi, quindi anche la base Ace va assunta in proporzione alla minor durata del periodo d’imposta in base all’articolo 2, comma 1 del provvedimento 14 marzo 2012.
Nella trasformazione involutiva o regressiva . Tornando all’assunto proposto dalla circolare 76/1998 in tema di Dit si deve ritenere che in qualche misura vi sia una continuità tra società ante e post trasformazione ai fini Ace, fermo restando l’ovvio requisito che la società risultante sia in contabilità ordinaria.
Mantenere la base Ace della società di capitali applicandola alla società di persone trasformata significa calcolare l’Ace sulla società di persone come se essa fosse risultata tale fino dal 2011.
Ragionando in questo modo emerge come la base Ace della trasformata società di persone sia l’intero patrimonio netto. Il che significa conteggiare due grandezze diverse:
- il patrimonio risultante dalla società di capitali prima della trasformazione;
- l’incremento (o il decremento) del medesimo avvenuto nella frazione di esercizio successiva alla data di trasformazione.
Anche in questo caso si ritiene prudente assumere la base Ace in proporzione alla durata del periodo d’imposta, che sarà inferiore ai 12 mesi nell’esercizio in cui avviene la trasformazione.
La “battezzatura” delle riserve
I commi 3 e 4 dell’art. 170 del TUIR prevedono una norma funzionale a evitare che a seguito della trasformazione vada persa la natura fiscale delle riserve della società trasformata modificando così il criterio di tassazione che verrà applicato al momento dell’utilizzo o della distribuzione della riserva.
La disposizione assume rilievo unicamente in caso di trasformazione evolutiva o involutiva in quanto nelle trasformazione tra società aventi forme giuridiche omogenee (tra società di persone o tra società di capitali) il regime di tassazione delle rimanenze non si viene a modificare.
Il principio enunciato note illustrative al Testo Unico è “quello secondo cui le riserve conservano il regime del momento in cui si sono formate a condizione che esse vengano distintamente indicate in bilancio dopo la trasformazione”. Pertanto, la natura fiscale delle riserve ante trasformazione potrà essere mantenuta solo a condizione che le stesse risultino distintamente iscritte nel bilancio della società trasformata.
Viene detto che:
- nel caso di trasformazione evolutiva le riserve costituite prima della trasformazione con utili imputati ai soci tassati per trasparenza, se dopo la trasformazione vengono iscritte in bilancio con indicazione della loro origine:
- non concorrono a formare il reddito dei soci in caso di distribuzione;
- l'imputazione di esse a capitale non comporta l'applicazione del comma 6 dell'articolo 47.
Nel caso di trasformazione involutiva le riserve costituite prima della trasformazione, escluse quelle di capitali, sono imputate ai soci per trasparenza:
a) nel periodo di imposta in cui vengono distribuite o utilizzate per scopi diversi dalla copertura di perdite d'esercizio, se dopo la trasformazione siano iscritte in bilancio con indicazione della loro origine;
b) nel periodo di imposta successivo alla trasformazione, se non siano iscritte in bilancio o vi siano iscritte senza la detta indicazione.
Le suddette riserve sono assoggettate ad imposta secondo il regime applicabile alla distribuzione delle riserve delle società di cui all'articolo 73.
Le dichiarazioni in caso di operazioni straordinarie
Con l’introduzione nel DPR 322/98 dell’articolo 5-bis, il legislatore ha inteso riunire in un'unica norma tutti i termini di presentazioni delle dichiarazioni: a quelli ordinari e quelli legati a operazioni di liquidazione, sono stati aggiunti quelli straordinari, ossia quelli relativi a operazioni di trasformazione, fusione e scissione, che precedentemente erano regolati dal soppresso articolo 11 del DPR n. 600 del 1973.
Il legislatore ha provveduto inoltre a uniformare i termini e le modalità di presentazione ai fini delle dirette e dell’IRAP che attualmente risultano in linea con quelli previsti in via ordinaria, ovvero entro il settimo mese successivo alla data di effettuazione dell’operazione straordinaria, nel caso di presentazione in via telematica.
In ogni caso i termini di presentazione per i quali la norma in oggetto regola, sono quelli relativi:
- alla società oggetto di trasformazione eterogenea
- alle società fuse o incorporate a seguito della fusione
- alla società oggetto di scissione totale
e hanno a oggetto le dichiarazioni relative al periodo compreso tra l’inizio dell’esercizio e la data in cui l’operazione ha effetto.
Si tratta, come si può vedere, delle dichiarazioni relative alle società che per effetto delle suddette operazioni vengono ad estinguersi, essendo viceversa che per quelle che rimangono “in vita”, valgono i termini e le modalità ordinarie di presentazione delle dichiarazioni.
1) I termini di presentazione delle dichiarazioni
La dichiarazione deve essere presentata:
- in caso di trasformazione, dalla società trasformata;
- in caso di fusione, dalla società risultante dalla fusione o dall’incorporante (essendo che è questa che, stando al contenuto del comma 3 dell’art. 123 del Tuir, subentra negli obblighi e nei diritti delle società fuse o incorporate);
- in caso di scissione, dalla società designata, ai sensi dell’articolo 123-bis, comma 14 del TUIR.
Si evidenzia come tali termini non assumono rilievo ai fini IVA; per tale imposta infatti, non sono stati previsti, in caso di operazioni straordinarie, termini particolari, per cui valgono quelli ordinari definiti dall’art.8 del DPR n.322/98 (in proposito si veda §2.).
Più precisamente:
- in caso di trasformazione dovrà essere presentata un’unica dichiarazione per l’intero anno solare (e questo anche in caso di trasformazione eterogenea);
- in caso di fusione (per unione o incorporazione) la società risultante dalla fusione e in caso di scissione totale la società designata (in mancanza le società beneficiarie sono responsabili in solido), presenta, entro i termini ordinari, anche le dichiarazioni relative al periodo che va dall’inizio dell’esercizio e la data in cui l’operazione ha effetto delle società fuse o incorporate o della società scissa. In tal caso dovrà essere presentata un’unica dichiarazione distinguendo i vari periodi d’imposta delle varie società in differenti moduli; in caso di fusione per incorporazione, per l’incorporante e in caso di scissione totale, per la società designata non di nuova costituzione, il modulo relativo alla propria dichiarazione riguarderà le operazioni effettuate nell’intero anno solare.
- in caso di scissione parziale la società scissa, presenta, entro i termini ordinari, un’unica dichiarazione per l’intero anno solare, comprensiva quindi anche delle operazioni effettuate ante operazione dal ramo d’azienda successivamente scisso. Fa eccezione il caso in cui la società scissa abbia tenuto la contabilità separata di tale attività; in questo caso la dichiarazione del periodo ante scissione deve essere ricompreso nell’attività della beneficiaria.
Tornando alle problematiche legate alla presentazione della dichiarazione ai fini dell’imposizione dirette e a fini IRAP, si evidenzia come anche per le operazioni straordinarie si pone il problema di capire cosa si debba intendere per “data in cui ha effetto la trasformazione”, poiché è da questo momento che decorre il termine per la presentazione della dichiarazione.
Si procede considerando distintamente le tre operazioni.
In merito alla trasformazione l’effetto si ha dalla data di deposito presso il Registro imprese della delibera di trasformazione.
In caso di fusione l’art. 2504-bis del codice civile prevede espressamente che la fusione ha effetto quando è stata eseguita l’ultima delle iscrizioni dell’atto di fusione nel Registro delle imprese del luogo ove è posta la sede delle società partecipanti alla fusione, di quella che ne risulta o della società incorporante. L'iscrizione e la relativa pubblicità dell'atto assumono efficacia costitutiva degli effetti della fusione, considerato che la stessa diventa opponibile ai terzi a decorrere, appunto, dall'ultima delle iscrizioni dell'atto di fusione. Inoltre, il deposito relativo alla società risultante dalla fusione, o di quella incorporante, non può precedere quelli relativi alle altre società partecipanti alla fusione. Questa regola generale trova tuttavia due deroghe.
L'articolo 2504-bis prevede infatti la possibilità di posticipare gli effetti dell'operazione, ovvero anche di anticipare, rispetto all'ultima delle iscrizioni dell'atto di fusione. La scelta non è però lasciata alla discrezionalità delle parti. Infatti, mentre la retrodatazione convenzionale è applicabile a tutte le tipologie di fusione (sia alle fusioni per incorporazione, che alle fusioni) la postdatazione è ammessa nelle sole ipotesi di fusione per incorporazione.
Non si pone viceversa alcun problema in merito alle operazioni di scissione, per le quali, il legislatore ha espressamente previsto che i termini di presentazione della dichiarazione vanno computati non dalla data alla quale si sono fanno risalire gli effetti fiscali dell'operazione bensì da quella nella quale è stata eseguita l'ultima delle iscrizioni prescritte.
2) I termini di versamento
I termini di versamento ordinari valgono anche in caso di operazioni straordinarie e liquidazione.
Si ha quindi che il versamento a saldo delle imposte scaturenti dalle suddette dichiarazioni il versamento dovrà essere effettuato:
- per le persone fisiche e le società o associazioni di cui all'articolo 5 del Tuir, entro il “16 del mese successivo a quello di scadenza del termine di presentazione della dichiarazione” (in luogo del 16 giugno dell’anno in cui è presentata la dichiarazione, come previsto fino a prima della modifica apportata dal Dlgs 175/2014);
- per le persone giuridiche entro il giorno 16 del sesto mese successivo a quello di chiusura del periodo d'imposta.
In merito alla liquidazione l’Agenzia delle entrate nella risoluzione n.50/E/2002 evidenzia come, stando i nuovi termini, una società messa in liquidazione il 20 novembre 2001 e che deposita il bilancio finale di liquidazione il 31 dicembre 2001, deve versare:
- se il soggetto in liquidazione è una società di capitali, le imposte a saldo dovute in base alla dichiarazione ante liquidazione entro il 20 maggio 2002 (o il 19 giugno 2002 con la maggiorazione dello 0,40 per cento) e quelle dovute in base alla dichiarazione finale di liquidazione, entro il 20 giugno 2002, o entro il 22 luglio 2002 con la maggiorazione dello 0,40 per cento.
Più articolata si presenta invece la materia in tema di acconti.
In caso di fusioni e scissioni la norma che regola è l'articolo 4 del D.L. n.50 del 11 marzo 1997 (di seguito DL n.50/97). Tale norma, che, stante il suo carattere generale, si rende applicabile anche agli effetti dell'Irap, prevede che nelle fusioni e scissioni gli obblighi di versamento - compresi quelli a titolo di acconto - che gravano sui soggetti che si estinguono per effetto di tali operazioni "sono adempiuti dagli stessi soggetti fino alla data di efficacia della fusione o scissione ai sensi, rispettivamente, degli articoli 2504 bis, secondo comma, e 2504 decies, primo comma, primo periodo, del Codice civile" mentre, successivamente a tale data, gli obblighi stessi "si intendono a tutti gli effetti trasferiti alla societa` incorporante, beneficiaria o comunque risultante dalla fusione o scissione".
Nel caso di scissione poi, va evidenziato come il comma 5 dell’art. 123-bis del Tuir prevede che “gli obblighi di versamento degli acconti relativi sia alle imposte proprie sia alle ritenute sui redditi altrui, restano in capo alla societa' scissa, in caso di scissione parziale, ovvero si trasferiscono alle societa' beneficiarie in caso di scissione totale, in relazione alle quote di patrimonio netto imputabile proporzionalmente a ciascuna di esse”.
Nella circolare n.263/E del 12 novembre 1998 (di seguito circol. n.263/E/1998), il Ministero ha chiarito che con riguardo all'ipotesi in cui l'operazione produca effetti retroattivi all'inizio del periodo d'imposta della societa` fusa, incorporata o scissa nel corso del quale la stessa interviene, la societa` fusa, incorporata o scissa e` tenuta, in via di principio, ad effettuare i versamenti in acconto i cui termini vengono a scadere anteriormente alla data di perfezionamento dell'operazione (articolo 2504- bis, comma 2, Codice civile) ancorche` si tratti di versamenti riferiti ad un periodo d'imposta destinato, in virtu` della retrodatazione, a venir meno.
Naturalmente, tali versamenti verranno poi scomputati dal soggetto incorporante o risultante dalla fusione ovvero dai soggetti beneficiari della scissione in sede di determinazione del saldo d'imposta relativo al periodo nel corso del quale interviene la fusione o la scissione.
Nessun obbligo d'acconto, invece, viene a maturazione per la societa` fusa, incorporata o scissa a partire dalla data di perfezionamento del l'operazione, determinandosi a tale data la estinzione di detti soggetti.
Peraltro, in ossequio al principio di subingresso sancito dal citato articolo 4 del decreto legge n. 50 del 1997, i versamenti in acconto della societa` incorporante o risultante dalla fusione ovvero delle societa` beneficiarie della scissione, scadenti successivamente alla data di perfezionamento dell'operazione, devono essere calcolati tenendo conto anche dell'imposta liquidata dalle societa` incorporate o fuse o dalla societa` scissa nella dichiarazione di tali soggetti riferita al periodo d'imposta antecedente a quello in cui interviene la fusione o la scissione.
Resta in ogni caso salva la facoltà, per la societa` fusa, incorporata o scissa, per i versamenti da effettuare prima della data di efficacia dell'operazione e per la società risultante, incorporante o beneficiaria, per i versamenti da effettuare successivamente, di avvalersi della facoltà prevista in via generale dalla disciplina degli acconti di commisurarne l'importo non già ai dati risultanti dalle dichiarazioni presentate per il periodo d'imposta precedente ma, al cosiddetto dato "previsionale" e cioè alla minore imposta di cui si prevede la liquidazione per il periodo di competenza da parte delle anzidette società subentranti (incorporante, risultante o beneficiarie).
Vale pertanto quale regola generale che, in caso di fusione e scissione ognuna delle società partecipanti alla fusione o alla scissione o risultanti dalla stessa sono chiamate ad adempiere agli obblighi previsti in tema di versamento di acconti al pari di qualunque altra società.
Per cui, qualora la data di perfezionamento dell'operazione dovesse cadere:
- prima di quella prevista per il pagamento degli acconti, a versarli sarà la società risultante dalla fusione ovvero le societa` beneficiarie della scissione;
- dopo, a versarli saranno le società successivamente fuse o, in caso di scissione tutte quelle partecipanti all’operazione.
Nel caso di operazioni di trasformazione che comportino il passaggio da societa` di persone a societa` di capitali o viceversa, si vengono a creare differenti periodi d’imposta per ognuno dei quali risulta previsto il pagamento oltre del saldo anche dell’acconto per il periodo successivo. Tale situazione non si pone nel caso di trasformazioni omogenee, vale a dire passaggio da società di persone a società di persone ovvero da società di capitali in società di capitali, essendo che in questo caso il periodo d’imposta rimane sempre unico.
Quanto appena detto assume significato unicamente con riferimento all’I.R.A.P. essendo che ai fini dell’imposizione diretta non risulterà mai dovuto il pagamento dell’acconto (sia che si tratti di trasformazione evolutiva o involutiva). Ciò in quanto:
- nel caso di trasformazione involutiva, la società risultate dalla trasformazione non è soggetto diretto dell’I.R.Pe.F. (lo sono i soci);
- nel caso di trasformazione evolutiva, non esistendo un periodo d’imposta precedente (non sussisteva autonomia di imposizione sulla società) non esiste un valore d’imposta cui parametrare la determinazione dell’acconto; va da sé il maggior acconto eventualmente versato dai soci sarà computato sulla loro imposta I.R.Pe.F.
Da ultimo si evidenzia come il ministero nella circolare n.144/E del 9 giugno 1998 aveva chiarito che in ogni caso l’acconto non risulta dovuto qualora il termine per il versamento dell'imposta dovuta a saldo per tale periodo e` anteriore a quello entro il quale si sarebbe dovuto versare l'acconto. Stando ai nuovi termini di versamento, si evidenzia come non possa mai succedere che i termini previsti per il pagamento dell’acconto risultino antecedenti rispetto a quelli del saldo; in un caso risultano coincidenti, ossia qualora la trasformazione venga effettuata prima del 1° marzo (per i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare o, entro il terzo mese dalla chiusura del periodo d’imposta per gli altri). In questo caso, stando quanto previsto dal Ministero, sembrerebbe potersi omettere il pagamento dell’acconto e procedere al versamento dell’imposta dovuta unicamente a saldo.
ARTICOLO - Pubblicato il: 1 gennaio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Aspetti introduttivi Dal punto di vista civilistico la trasformazione configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale non incide sui rapporti sostanziali e processuali che ad esso fanno capo (Cass. Civ., n. 13434 del 13 settembre 2002; n. 5963 del 23 aprile 2001; n. 11077 del 4 novembre 1998,).
In dottrina è ormai tradizione richiamare l’efficace distinzione tra “operazioni sui beni”, che hanno a oggetto i beni dell’impresa, e “operazioni sui soggetti”, che attengono non ai beni dell’impresa, ma all’ente stesso titolare dei suddetti beni e al contratto sociale o associativo (Sul punto si veda Fantozzi e Lupi, Le società per azioni nella disciplina tributaria, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, Torino, Utet, 1993, p. 33 ss. 2 Cfr. Fantozzi e Lupi, op. cit., p. 154 ss.).
Le operazioni sui beni (cessioni, conferimenti ecc.) comportano – in genere – modifiche ai valori fiscalmente riconosciuti e conseguentemente il manifestarsi di componenti positivi e negativi di reddito, giacché con esse si dà atto a uno scambio di beni, in cui è possibile riconoscere la figura del tradens e quella dell’accipiens.
Al contrario, le operazioni sui soggetti (trasformazioni, fusioni, scissioni) escludono modifiche ai precedenti valori fiscalmente riconosciuti ai beni dell’impresa, in quanto, non incidendo su detti beni, non comportano alcuna sostituzione nel patrimonio dell’impresa e consentono di norma di mantenere la continuità nei valori fiscalmente riconosciuti. Le operazioni sui soggetti si risolvono, infatti, nel mero cambiamento della modalità organizzativa nonché della disciplina giuridica caratterizzante i soggetti interessati4 attuato mediante la modifica dell’atto costitutivo previa delibera dell’assemblea dei soci. Esse non comportano pertanto alcuna soluzione di continuità nella vita delle società interessate, né tanto meno alcun trasferimento di ricchezza da un’entità all’altra (né diretto né mediato), non realizzandosi alcuna vicenda estintiva-costitutiva dell’ente, bensì un mero mutamento del regime legale applicabile.
Che regola sono gli articoli che vanno dal 2498 al 2500-novies del Codice civile.
Tali disposizioni trattando delle trasformazioni:
- omogenee e eterogenee, vale a dire, rispettivamente, delle trasformazioni nell’ambito di soggetti societari e da soggetti societari in soggetti non societari (e viceversa);
- (nell’ambito delle trasformazioni omogenee) evolutive e involutive (anche chiamate progressive e regressive), vale a dire delle trasformazioni da società di persone in società di capitali e da società di capitali in società di persone.
Nell’intervento che segue si tratta unicamente della trasformazione omogenea.
Nella pratica il “passaggio” dalla società di persone a impresa individuale o da impresa individuale a società viene definito impropriamente “trasformazione”.
In merito è stato affermato che:
- “l’imprenditore individuale (……) altro non può che conferire l’azienda di pertinenza dell’impresa di cui è titolare in una società, esistente o da costituire” (De Angelis, La trasformazione delle società: profili generali, in Schiano di Pepe (a cura di); Trasformazione, fusione, scissione, opa, società quotate, in Trattato teorico pratico delle società, Ipsoa, Milano, 1999, pag. 14 e seguenti);
- “in caso di conferimento di un’azienda individuale ad una società (….) si verifica un fenomeno traslativo non soggetto alla disciplina dell’art. 2498 del Codice civile” (Cass. 10 marzo 1990, n. 1963);
- “lo scioglimento della società di persone, per mancata ricostruzione della pluralità dei soci nel termine semestrale, non comporta alcuna modificazione soggetti delle strutture giuridiche attive e passive facenti capo alla società, che si concentrano nell’unico socio rimasto dal momento in cui la pluralità medesima viene meno. Decorsi i sei mesi senza che sia stata ricostruita la pluralità dei soci, la società si scioglie e ed entra la fase di liquidazione, un modo particolare si ha quando il socio supersite estingue la società, decidendo di continuare, quale imprenditore individuale, l’esercizio dell’attività estinta” (Cass., sent. n. 905 del 6 febbraio 1984);
- “con il venir meno della pluralità dei soci, la società perde il carattere societario e si trasforma in impresa individuale con la concentrazione della titolarità dei rapporti, già facenti capo alla società, nel socio residuo, che , quale imprenditore individuale, risponde personalmente delle obbligazioni già sociali” (Cass,. n. 2226 del 16 marzo 1996).
- l’operazione di trasformazione presuppone che si passi da un "ente" a un altro "ente" societario, e che, quindi, non è ammissibile la "trasformazione" di una società unipersonale in impresa individuale (Cass. sent. n. 496 del 2015)
La tesi della trasformabilità di una società in una ditta individuale è sostenuta invece dai notai del Triveneto massima K.A.37, e dal Consiglio nazionale del Notariato nello studio 545-2014.
Imposizione diretta e indiretta
Ciò assume conseguenze piuttosto significative sia per le imposte indirette che per le imposte dirette. Il primo ambito, che è quello che più interessa al lettore, è stato affrontato nella risoluzione 47/E del 3 aprile 2006, dove si afferma: «Pertanto, la scrivente ritiene che la cosiddetta continuazione dell’impresa in forma individuale sia sempre preceduta dallo scioglimento della società e dalla liquidazione della medesima». Conseguenza pratica di questa impostazione è che il trasferimento dell’azienda dalla società all’impresa individuale realizza un'assegnazione sottoponibile a imposta di registro nella misura stabilita per ciascun bene o diritto assegnato. Nel caso in questione, pertanto, l’assegnazione degli immobili si dovrà tassare con imposta di registro in misura fissa (200 euro) e con le imposte ipotecarie e catastali in misura proporzionale (complessivamente pari al 4 per cento), applicate sul valore normale di commercio degli immobili "assegnati" all’imprenditore individuale. Ai fini delle imposte sul reddito, la circolare 54/E del 19 giugno 2002 (risposta n. 5) esclude, invece, l’emersione di qualunque plusvalenza, a condizione che il socio superstite continui l’attività sotto forma di impresa individuale, mantenendo inalterati i valori dei beni. In particolare prevede che:
- lo scioglimento della società non da luogo ad alcuna emersione di plusvalenza imponibile in relazione ai beni oggetto dell’attività d’impresa a condizione che il socio superstite imprenditore mantenga inalterati i valori dei beni;
- l’eventuale somma percepita dai soci uscenti, rappresenta, per la parte che eccede il costo d’acquisto delle quote, reddito di capitale tassabile ai sensi dell’art. 47, comma 7 del TUIR.
Aspetti comuni alle operazioni di trasformazione
La norma di legge evidenzia subito quattro aspetti comuni a tutte le operazioni di trasformazione:
1) Continuità dei rapporti giuridici
L’art. 2498 del Codice civile prevede che l’ente trasformato conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell’ente che ha effettuato la trasformazione. Viene dato risalto alla continuità dei rapporti giuridici intesa appunto come segno di una prospettiva di modificazione e non novativa-successoria (chiarendo altresì che la continuazione riguarda anche i rapporti processuali).
2) Limiti alla trasformazione
Viene disposto che la condizione di sottoposizione a procedura concorsuale (art. 2499 del Codice civile) sia compatibile con la procedura, nel senso che può farsi luogo, salve le ipotesi in cui concretamente tale compatibilità con le finalità o lo stato della procedura non sussista, anche alla trasformazione in presenza di procedure concorsuali. La trasformazione, anzi, può realizzare un vantaggio per l’impresa sociale: si pensi alla trasformazione di società per azioni in società a responsabilità limitata al fine di ridurre gli oneri di procedura.
3) Contenuto, pubblicità ed efficacia dell’atto di trasformazione
La decisone viene presa con deliberazione dei soci. Le disposizioni (art. 2500 del Codice civile) richiedono che vi siano tutte le forme ed i contenuti richiesti per il tipo societario o non societario adottato. L’efficacia decorre, per consentire la corretta informazione dei terzi, dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari.
Lo scopo principale della norma è quello di evitare che ricorrendo alla trasformazione vengano elusi alcuni degli adempimenti che il codice civile richiede per la costituzione di una società di capitali.
Forma
In primo luogo è necessario che l’atto di trasformazione assuma forma dell’atto pubblico, potendo le società di capitali essere costituite solo in tal modo.
Contenuto
In secondo luogo è necessario che la delibera di trasformazione contenga tutte le indicazioni prescritte dalla legge per l’atto costitutivo del tipo di società adottato.
Pertanto, nel caso in cui la società che risulti dalla trasformazione sia una società per azioni occorre indicare:
1) il cognome e il nome o la denominazione, la data e il luogo di nascita o lo Stato di costituzione, il domicilio o la sede, la cittadinanza dei soci, nonché il numero delle azioni assegnate a ciascuno di essi;
2) la denominazione e il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie;
3) l'attività che costituisce l'oggetto sociale;
4) l'ammontare del capitale sottoscritto e di quello versato (il capitale minimo richiesto per la costituzione di una società per azioni è attualmente pari a 120.000 euro);
5) il numero e l'eventuale valore nominale delle azioni, le loro caratteristiche e le modalità di emissione e circolazione;
6) il valore attribuito ai crediti e beni conferiti in natura;
7) le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti;
8) i benefici eventualmente accordati ai promotori o ai soci fondatori;
9) il sistema di amministrazione adottato, il numero degli amministratori e i loro poteri, indicando quali tra essi hanno la rappresentanza della società;
10) il numero dei componenti il collegio sindacale;
11) la nomina dei primi amministratori e sindaci ovvero dei componenti del consiglio di sorveglianza e, quando previsto, del soggetto al quale è demandato il controllo contabile;
12) l'importo globale, almeno approssimativo, delle spese per la costituzione poste a carico della società;
13) la durata della società ovvero, se la società è costituita a tempo indeterminato, il periodo di tempo, comunque non superiore ad un anno, decorso il quale il socio potrà recedere.
Nel caso in cui la società che risulti dalla trasformazione sia una società in accomandita per azioni, oltre alle informazioni di cui sopra, è necessario che dall’atto costitutivo risultino i nomi dei soci accomandatari.
Se la società che risulta dalla trasformazione è una società a responsabilità limitata, infine, è necessario che l’atto costitutivo indichi:
1) il cognome e il nome o la denominazione, la data e il luogo di nascita o lo Stato di costituzione, il domicilio o la sede, la cittadinanza di ciascun socio;
2) la denominazione, contenente l'indicazione di società a responsabilità limitata, e il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie;
3) l'attività che costituisce l'oggetto sociale;
4) l'ammontare del capitale, non inferiore a diecimila euro, sottoscritto e di quello versato;
5) i conferimenti di ciascun socio e il valore attribuito ai crediti e ai beni conferiti in natura;
6) la quota di partecipazione di ciascun socio;
7) le norme relative al funzionamento della società, indicando quelle concernenti l'amministrazione, la rappresentanza;
8) le persone cui è affidata l'amministrazione e gli eventuali soggetti incaricati del controllo contabile;
9) l'importo globale, almeno approssimativo, della spese per la costituzione poste a carico della società.
Nel predisporre la delibera si dovrà in particolare tenere conto:
- Del capitale minimo prescritto dalla legge per il tipo di società risultante dalla trasformazione: occorre pertanto che il patrimonio netto valutato dal perito sia almeno pari al minimo del capitale sociale richiesto dalla legge per tale società; se è inferiore occorre procedere ad un aumento di capitale sociale.
- Del fatto che si deve dotare la società che risulta dall’operazione di un oggetto sociale compatibile con il tipo scelto, dato che vi sono alcune attività che possono essere svolte solo da particolari tipi societari: ad esempio l’attività bancaria può essere svolta solo da società per azioni, società cooperative a responsabilità limitata e società cooperative per azioni, oppure l’attività assicurativa può essere svolta solo da società per azioni, società cooperative a responsabilità limitata e mutue assicuratrici.
- Del fatto che in taluni casi possono essere necessarie delle autorizzazioni governative all’esercizio dell’attività prescelta (es: attività di assicurazione e bancarie).
Una delle condizioni poste dal codice civile per la costituzione delle società di capitali è il versamento del 25% dei conferimenti in denaro: ci si può chiedere se, per l’efficacia della trasformazione, sia necessario il versamento di una pari percentuale del capitale sociale di cui si vuole dotare la società che risulta dalla trasformazione.
Se si pensa che il versamento dei decimi in sede di costituzione è richiesto per dotare subito l’ente di un capitale sociale disponibile per le prime operazioni sociali e per rendere più sicura l’esazione dei decimi residui, sembra di poter affermare che per la validità della trasformazione non sia necessario il versamento dei decimi del capitale sociale richiesto dalla legge, dato che nella trasformazione il capitale della società che risulta dall’operazione (che costituisce la garanzia per i terzi) è già presente nel patrimonio sociale ed è il capitale della società che si trasforma, come risulta dalla valutazione del perito.
Occorre peraltro evidenziare che in passato la giurisprudenza si è pronunciata per la necessità del versamento dei decimi richiesti dalla legge.
Si ritiene che non sia necessario il versamento dei decimi neppure nel caso in cui nel bilancio della società di persone siano presenti dei crediti verso soci per versamenti di capitale sociale ancora dovuti: tali crediti, infatti, sono già stati inseriti nel patrimonio sociale e valutati dal perito, il quale, ove si fossero manifestati irrecuperabili, avrebbe per un pari importo diminuito il patrimonio netto stimato.
La necessità del versamento dei decimi richiesti dalla legge sembra invece ricorrere nel caso in cui contestualmente alla sottoscrizione venga deliberato e sottoscritto un aumento del capitale sociale della società di capitali che risulta dalla trasformazione, visto che in tal caso si manifestano le stesse esigenze riepilogate in precedenza per il versamento dei decimi del capitale sociale in sede di costituzione di società di capitali; chiaramente sarà necessario il versamento dei decimi sul solo importo dell’aumento del capitale sociale, e non su tutto il suo importo finale.
In tal caso si ritiene che il versamento possa essere eseguito direttamente nelle casse sociali (e non presso una banca, come invece richiede l’art. 2342, co 2, c.c.), e che gli amministratori devono indicare nell’atto di trasformazione le modalità e gli estremi dei versamenti eseguiti.
Pubblicità
Il secondo comma dell’art. 2500 dispone che la delibera di trasformazione sia soggetta alle forme di pubblicità richieste per il tipo di società adottato, nonché a quelle richieste per la cessazione dell’ente che è stato oggetto di trasformazione.
La delibera di trasformazione è pertanto potenzialmente soggetta a più forme di pubblicità, e si presenta come un procedimento ordinario e complesso per il quale il codice civile non stabilisce l’ordine di esecuzione degli adempimenti.
La pubblicità cui fa riferimento la norma è quella che si attua mediante la pubblicazione dell’atto nel registro delle imprese.
Dal tenore della norma sembrerebbe che il legislatore richieda una duplice pubblicità dell’atto: una con riferimento alla disciplina prevista per le società di persone che cessa, l’altra con riferimento alla disciplina prevista per le società di capitali che nasce con l’atto.
È da ritenere, tuttavia, che, nel caso di trasformazione di società di persone in società di capitali, la pubblicità dell’atto di trasformazione sia una e unica, e che essa valga sia per la cancellazione dell’ente che si trasforma, sia per l’iscrizione dell’ente che nasce dalla trasformazione.
In caso contrario si potrebbero avere effetti non desiderabili.
Si pensi alla possibilità che la pubblicità fatta per la cancellazione dell’ente trasformato venga eseguita dopo la pubblicità fatta per l’ente generato dalla trasformazione: dato che la trasformazione ha efficacia dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari, come sancito dal comma 3 dell’articolo in esame che di seguito si vedrà, si potrebbe avere una società per azioni costituita e operante, anche se la trasformazione non ha avuto ancora effetto.
A conferma della tesi qui sostenuta, si evidenzia come le istruzioni reperibili sul sito internet delle Camere di Commercio del Triveneto prevedano un unico adempimento pubblicitario e una unica pubblicazione dell’atto di trasformazione, al quale accompagnare la perizia di stima e gli altri modelli richiesti per la cessazione dei soci della società di persone e per l’iscrizione dei soggetti che ricoprono cariche sociali nella società di capitali.
Secondo tali istruzioni, per la pubblicazione della trasformazione è necessario il deposito dei seguenti atti:
- Modello S2, sottoscritto dal notaio e dai componenti dell’organo amministrativo e dell’organo di controllo della società di capitali che risulta dalla trasformazione;
- Atto di trasformazione, redatto per atto pubblico;
- Relazione di stima;
- Intercalare P per ogni componente dell’organo amministrativo della società che risulta dalla trasformazione;
- Intercalare P per ogni componente dell’organo di controllo;
- Intercalare P per ogni componente della società di persone che cessa;
- Intercalare S per ogni socio della nuova società di capitali.
È inoltre necessario il pagamento di diritti di segreteria per € 62,00 e è necessaria la presentazione di marche da bollo per € 41,32.
La pubblicazione dell’atto di trasformazione deve avvenire secondo le modalità previste dalla società che risulta dalla trasformazione.
A tal fine si ricorda che, secondo quanto stabilisce l’art. 2330, c.c. (valevole per tutti i tipi di società di capitali), “Il notaio che ha ricevuto l'atto costitutivo deve depositarlo entro venti giorni presso l'ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale, allegando i documenti comprovanti la sussistenza delle condizioni previste dall’articolo 2329.
Se il notaio o gli amministratori non provvedono al deposito nel termine indicato nel comma precedente, ciascun socio può provvedervi a spese della società.
L'iscrizione della società nel registro delle imprese è richiesta contestualmente al deposito dell'atto costitutivo. L'ufficio del registro delle imprese, verificata la regolarità formale della documentazione, iscrive la società nel registro.
Data di effetto della trasformazione
Per ciò che concerne la data di effetto della trasformazione, l’art. 2500, co 3, c.c., sancisce che l’operazione esplica i propri effetti “dall’ultimo degli adempimenti di cui al comma precedente”.
Dato che, come si è visto, nel caso di trasformazione omogenea progressiva la pubblicità da dare all’atto è unica, l’operazione esplica i suoi effetti con l’iscrizione dell’atto pubblico di trasformazione.
In tal modo il legislatore ha normativizzato l’orientamento che si era in precedenza consolidato in dottrina.
In particolare, si affermava che, dato che l’art. 2331, c.c. (che dispone in merito alle società per azioni, ma che vale anche per le altre società di capitali), afferma che “con l’iscrizione nel registro la società acquista personalità giuridica”, l’iscrizione è il momento in cui si viene in essere l’esistenza giuridica della società di capitali: valido questo, la trasformazione non poteva che avere effetto dal momento dell’iscrizione, dato che è da quel momento che la società che risulta dalla trasformazione (nel nostro caso: la società di capitali) nasce ed acquista la personalità giuridica.
La data di effetto della trasformazione, pertanto, non coincide con la data dell’atto, ma con la data di iscrizione della delibera nel Registro delle Imprese, dato che solo in tale momento nasce il soggetto giuridico che assume i diritti e gli obblighi della società che si vuole trasformare.
La retroattività e il differimento degli effetti della trasformazione
Una questione sollevata in dottrina riguardava la possibilità di anticipare gli effetti dell’atto, attribuendo efficacia retroattiva all’operazione di trasformazione, oppure la possibilità si posticipare gli effetti dell’atto medesimo.
A tal fine si osservava che la retrodatazione dell’atto non era giuridicamente possibile, dato che la trasformazione aveva effetto solo con l’iscrizione della delibera nel Registro delle Imprese, momento dal quale la società di capitali risultante dall’operazione poteva dirsi assumere la personalità giuridica e acquisire così i diritti e gli obblighi della società di persone; se si fossero potuti retrodatare gli effetti della delibera, inoltre, si sarebbe potuto correre il rischio di ledere la garanzia dei terzi, i quali, nel lasso di tempo intercorrente tra quello eventualmente indicato nella delibera stessa e la sua iscrizione, sarebbero venuti ad intrattenere rapporti con un ente societario già dotato di personalità giuridica (quanto meno nelle intenzioni dei soci), senza saperlo.
La medesima dottrina ammetteva invece il differimento della trasformazione, dato che in tal caso si sarebbe trattato solo di attribuire efficacia ad un atto in un momento successivo a quello in cui esso è divenuto noto ai terzi.
L’art. 2500, co 3, c.c., dispone attualmente che la trasformazione ha effetto dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari di cui si è parlato nel precedente paragrafo.
Ne consegue, pertanto, che il legislatore della riforma ha risolto il problema della retrodatazione degli effetti della delibera di trasformazione negando tale possibilità, dato che la dizione normativa utilizzata lega l’efficacia alla pubblicazione.
Per ciò che concerne, invece, la possibilità di postdatare gli effetti dell’atto, sembra di poter affermare che di sicuro ciò è possibile se il Registro delle Imprese cui si presenta lo stesso per la registrazione accetta di non iscriverlo fino alla data di effetto della delibera, eventualmente indicata nella stessa.
4) Invalidità della trasformazione
Al fine di privilegiare la certezza nei confronti dei terzi viene detto che eseguita la pubblicità, l’invalidità dell’atto di trasformazione non può essere più pronunciata (art. 2501 del Codice civile). Resta salvo il risarcimento del danno eventualmente spettante.
Vengono poi dettate disposizioni specifiche per le differenti forme di trasformazione:
1. da società di persone a società di capitali;
2. da società di capitali a società di persone.
Trasformazione di società di persone in società di capitali
Il legislatore ha voluto riservare una particolare tutela dei terzi che vengono in contatto con la società: essi, infatti, da una società con semplice autonomia patrimoniale (nella quale anche i soci rispondono illimitatamente e solidalmente per le obbligazioni sociali) si trovano a avere rapporti con una società dotata di personalità giuridica (che risponde delle obbligazioni sociali solo con il proprio patrimonio, essendo i soci coperti dalla limitazione della responsabilità alla quota di capitale conferita), e con l’operazione potrebbero vedere diminuita la garanzia patrimoniale posta a tutela dei propri interessi. Viene quindi detto che la trasformazione non libera i soci a responsabilità illimitata dalla responsabilità per le obbligazioni sociali sorte prima degli effetti della trasformazione, se non risulta che i creditori sociali hanno dato il loro consenso alla trasformazione. Il consenso si presume se i creditori, ai quali la deliberazione di trasformazione sia stata comunicata per raccomandata o con altri mezzi che garantiscano la prova dell’avvenuto ricevimento, non lo hanno espressamente negato nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione (2500-quinquies del Codice civile).
Viene previsto che:
1) Le maggioranze
Salvo diversa disposizione del contratto sociale, la trasformazione è decisa con il consenso della maggioranza dei soci determinata secondo la parte attribuita a ciascuno negli utili (art. 2500-ter del Codice civile).
Al socio che non ha concorso alla decisione spetta il diritto di recesso. Sul punto la riforma societaria ha risolto il dubbio circa la necessità o meno che la delibera di trasformazione dovesse essere presa all’unanimità (nel silenzio della norma la dottrina e la giurisprudenza era divisa: c’era che sosteneva la necessità del consenso unanime in virtù della sua applicazione quale regola di default per tutte le modiche statutarie – art. 2252 del Codice civile – chi invece la maggioranza dei soci, in virtù del diritto di recesso in ogni caso riconosciuto - – art. 2285 del Codice civile).
Il recesso:
- stando il tenore letterale della norma il diritto è riconosciuto non solo assenti o dissenzienti, ma anche astenuti
- la liquidazione della quota viene fatta in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento ai sensi dell’art. 2289, del Codice civile.
Si accenna per completezza ad un particolare tipo di trasformazione, ossia alla trasformazione di una società in accomandita semplice in una società in accomandita per azioni, nell’ipotesi in cui uno o più soci accomandanti della società in accomandita semplice diventino soci accomandatari della società in accomandita per azioni. In tale evenienza si avrebbe che essi, per effetto della trasformazione, diventerebbero illimitatamente responsabili delle obbligazioni sociali.
Dato che nessuno può diventare illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali senza il proprio consenso (In passato tale principio era stato affermato in giurisprudenza nel caso di passaggio da una società a responsabilità limitata in una società di persone: cfr. Trib. Verona, 29 giugno 1995), sembra di poter affermare che nel caso in analisi l’operazione sia possibile solo se, oltre alla maggioranza richiesta dalla legge o dall’atto costitutivo, consti anche il consenso del socio che viene ad assumere responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali (ossia del socio accomandante della società in accomandita semplice che diviene socio accomandatario della società in accomandita per azioni).
Si sottolinea come nel caso di trasformazione di società di capitali il consenso dei soci che assumono la responsabilità illimitata e solidale a seguito dell’operazione sia normativamente richiesto (art. 2500sexies, co 1, c.c.): sembra pertanto che la tutela da riconoscere al socio che assume la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali nel caso de quo non possa essere minore di quella prevista per la disciplina delle trasformazioni di società di capitali.
2) Il capitale post trasformazione e la perizia di valutazione
il capitale della società risultante dalla trasformazione deve essere determinato sulla base dei valori attuali degli elementi dell’attivo e del passivo e deve risultare da relazione di stima redatta a norma di legge (art. 2500-ter del Codice civile).
In merito occorre porre attenzione al fatto che:
- nella relazione al Dlgs n. 6 del 2003 viene poi espressamente previsto che non tutto il netto da patrimonio debba essere imputato a capitale sociale (con la conseguenza quindi, che questo viene a costituire il valore massimo del capitale sociale);
- stando il tenore letterale della disposizione, sembrerebbe che il legislatore della riforma abbia invertito l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale passato, riconoscendo la possibilità, (rectius: “imponendo”) che la perizia di stima rilevi eventuali plusvalori latenti dell’azienda e permettendo alla società che risulta dalla trasformazione di iscrivere tali maggiori valori (L. Miele, Trasformazioni elusive, Il Sole 24 Ore, del 22 ottobre 2004). La conseguenza di tale previsione normativa è che il perito deve attenersi, non ai criteri di valutazione prescritti dal codice civile per la redazione del bilancio di esercizio (principio contabile n. 30), ma ai criteri ordinariamenti utilizzati nei casi di trasferimento di azienda (ad esempio per conferimento), procedendo ad una vera e propria valutazione della stessa a valori correnti.
La perizia di trasformazione – metodo di valutazione
nel caso di operazione di trasformazione la perizia di valutazione deve essere effettuata qualora si passi da una società di persone a una società di capitali (c.d. trasformazione progressiva o evolutiva).
In merito il comma 2 dell’art. 2500-ter, c.c., prevede che «il capitale della società risultante dalla trasformazione deve essere determinato sulla base dei valori attuali degli elementi dell’attivo e del passivo e deve risultare da relazione di stima redatta a norma dell’art. 2343 o, nel caso di società a responsabilità limitata, dell’art. 2465».
Tale disposizione, non presente nel testo civilistico ante riforma societaria (attuata con il D.Lgs. 80/2003) secondo autorevole dottrina (4) ad un deciso cambiamento di rotta in tema di siffatte trasformazioni; infatti:
- è affermato il principio della discontinuità dei valori in quanto il valore dei beni ed elementi attivi e passivi non deve più coincidere con i precedenti valori contabili;
- è prevista una valutazione non più a valori storici, ma a valori attuali o, più correttamente, a valori correnti.
La scelta del termine «valore attuale», da parte del Legislatore, non è delle più felici e potrebbe generare differenti interpretazioni; in particolare si potrebbe intendere l’impostazione più garantista caratterizzata nel confrontare il valore contabile di ogni bene con il valore corrente e utilizzare il valore corrente nella sola ipotesi in cui quest’ultimo sia inferiore al valore contabile, oppure procedere determinare il valore dei singoli beni in base al valore corrente e quindi svalutando o rivalutando i cespiti.
In effetti il dettato normativo prevede due importanti novità rispetti al passato rappresentate:
a) dalle modalità di determinazione del valore del capitale sociale della società trasformata;
b) dall’entità dei valori di perizia dei singoli cespiti aziendali.
In relazione a quanto evidenziato al punto sub a) sarà possibile iscrivere un valore del capitale sociale post-trasformazione superiore o inferiore a quello precedentemente contemplato in relazione ai maggiori o minori valori previsti in perizia (e recepiti dagli amministratori).
Pertanto, con questa disposizione si finisce con il poter rivalutare determinati beni in deroga a quanto previsto dall’art. 2426, c.c.
A nostro avviso è una innovazione sotto certi aspetti censurabile, allo stato attuale della normativa, in quanto è possibile rivalutare i beni al di fuori delle previsioni civilistiche; nel momento in cui sarà recepito il principio Ias concernente il fair value, questa disposizione sarà invece perfettamente coerente con l’impianto legislativo civilistico.
In relazione al punto sub b), ovverosia la possibilità per il perito di utilizzare per la sua stima sia valori inferiori ai valori contabili storici dei beni conferiti, sia valori superiori a quelli contabili, la nuova disposizione sembra un «ritorno al passato» quando appunto le perizie di stima potevano tener conto sia delle minusvalenze latenti sui beni valutati, sia delle plusvalenze sugli stessi, mentre in una impostazione giurisprudenziale che, negli ultimi tempi pre-riforma del diritto societario ha avuto molto seguito, il perito poteva «ritoccare» verso il basso le valutazioni dei beni rispetto al loro valore contabile, ma non poteva iscrivere in perizia valori più alti rispetto a questi ultimi.
Appare pertanto evidente come gli amministratori dovranno aggiornare il capitale della società trasformata sulla base dei valori correnti degli elementi attivi e passivi redigendo un bilancio straordinario di trasformazione a siffatti valori assumendone piena responsabilità nei confronti dei terzi e dei soci.
Ovviamente gli amministratori potranno determinare il capitale della società trasformata sulla base dei valori attuali o correnti solo a condizione che il perito adotti nella sua relazione di stima tale metodologia valutativa.
Dopo quanto sopra illustrato ci si chiede come debba comportarsi il perito in sede di redazione della propria relazione.
Certamente il metodo valutativo che più si addice al dettato dell’art. 2500-ter, c.c., appare quello che in dottrina è definito come metodo patrimoniale semplice (In tal senso L. Guatri, Trattato sulla valutazione delle aziende, Milano, 1998) basato sulla stima analitica dei singoli elementi patrimoniali senza l’evidenziazione di un autonomo valore di avviamento proprio del metodo patrimoniale complesso.
Appaiono pertanto non proponibili valutazioni dell’azienda con metodi reddituali, finanziari, misti che presuppongono la quantificazione di un valore di avviamento.
Seguendo la metodologia patrimoniale semplice il perito dovrà pertanto:
- revisionare gli elementi patrimoniali attivi e passivi evidenziati nella situazione patrimoniale «di partenza» per accertare eventuali errori o scorrette «politiche di bilancio» effettuate in passato dagli amministratori;
- reprimere a valori correnti gli elementi patrimoniali attivi e passivi individuati nella precedente elaborazione;
- stimare le imposte latenti;
- determinare il capitale netto rettificato;
- accertare la sostenibilità economica dei valori analiticamente determinati.
L’aspetto della sostenibilità economica dei valori è certamente un fenomeno su cui il perito dovrà sensibilizzarsi specialmente a seguito delle innovazioni introdotte dalla riforma societaria e sulle quali, precedenza, ci siamo soffermati.
In definitiva, a seguito della riesposizione a valori correnti dei beni aziendali, con delle conseguenti rivalutazioni rispetto ai valori storici, il perito prima e gli amministratori poi, si debbono chiedere se tali maggiori valori sono «sostenibili» dall’azienda post-trasformazione (si pensi alla maggior entità degli ammortamenti da calcolarsi in futuro sui cespiti rivalutati) ovverosia se sono assorbibili dal reddito che genererà l’impresa.
Pertanto l’esperto non può attestare in perizia un valore di capitale netto rettificato superiore a quello risultante dalla valutazione «sostenibile» dell’azienda in base ai redditi prospettici.
Da qui la necessità, per il perito, dell’accertamento, mediante una verifica reddituale, della capacità dell’azienda di sostenere economicamente le rivalutazioni effettuate.
Questa verifica potrà essere effettuata stimando il reddito medio prospettico (R) e poi rapportandolo al capitale netto rettificato (K) determinando un tasso prospettico di rendimento (r = R / K).
Se tale tasso rientra nella normalità la verifica può ritenersi soddisfatta.
In definitiva, con la riforma, il Legislatore vincola il perito all’applicazione di criteri di valutazione correnti, in quanto se continuasse ad applicare valutazioni proprie del bilancio d’esercizio precluderebbe la possibilità, prevista dall’art. 2500-ter, c.c., di determinare il capitale della società trasformata a valori correnti.
Va da sé che il perito non è obbligato ad effettuare la verifica reddituale illustrata in precedenza, ma nell’ipotesi di condivisione di tale verifica dovrà poter contare su piani economici e finanziari messi a disposizione dai vertici dell’azienda oggetto di trasformazione.
Se il perito procede alla succitata verifica reddituale i valori peritali potranno essere accolti tout-court dagli amministratori nel bilancio di trasformazione in quanto il perito ha già provveduto, come si accennava, all’accertamento della sostenibilità economica.
Agli amministratori della trasformata società per azioni o S.a.p.a. compete sempre la possibilità, prevista dall’art. 2343, co. 3, c.c., di controllo ed eventuale rettifica delle valutazioni peritali.
La perizia di valutazione – aspetti civilistici
L’art. 2500ter, co 2, c.c., stabilisce che “Nei casi previsti dal precedente comma il capitale della società risultante dalla trasformazione deve essere determinato sulla base dei valori attuali degli elementi dell'attivo e del passivo e deve risultare da relazione di stima redatta a norma dell'articolo 2343 o, nel caso di società a responsabilità limitata, dell'articolo 2465. Si applicano altresì, nel caso di società per azioni o in accomandita per azioni, il secondo, terzo e, in quanto compatibile, quarto comma dell'articolo 2343”.
Per operare la trasformazione di una società di persone in società di capitali è pertanto necessario che la delibera dei soci venga accompagnata da una perizia giurata di stima del patrimonio sociale della società che si vuole trasformare.
La relazione di stima è obbligatoria, pena la invalidità della trasformazione.
Essa viene ritenuta generalmente obbligatoria anche quando il capitale sociale è costituito di solo denaro o comunque non vi siano beni in natura nel patrimonio della società che si vuole trasformare.
La nomina dell’esperto
Per quel che riguarda in particolare il soggetto chiamato ad eseguire la stima e le modalità della sua nomina, si evidenzia come la nuova disciplina della trasformazione faccia due distinti rinvii, a seconda che la società trasformata sia una società per azioni o in accomandita per azioni oppure una società a responsabilità limitata.
Tale duplice rinvio consegue alla nuova disciplina prevista per i conferimenti in sede di costituzione della società: nel nuovo codice civile, infatti, il conferimento nelle società per azioni e in accomandita per azioni è disciplinato dall’art. 2343, c.c., e il conferimento nelle società a responsabilità limitata è regolato dall’art 2465, c.c.
La perizia in caso di trasformazione in società per azioni o in accomandita per azioni
Nel caso in cui la società di persone si voglia trasformare in una società per azioni o in accomandita per azioni, la nomina dell’esperto deve avvenire in ossequio al disposto dell’art. 2343, c.c.
I legali rappresentanti della società di persone devono pertanto presentare istanza al Tribunale nel cui circondario ha sede la società, affinché esso in Camera di Consiglio nomini l’esperto incaricato della stima del patrimonio sociale.
Si noti come ora la legge ritenga competente il Tribunale nel cui circondario ha sede la società, mentre in passato non c’era tale precisazione: a tal fine si era ritenuto competente anche il Tribunale dove aveva sede il conferente, oppure anche il tribunale che aveva con i richiedenti “un collegamento obiettivo, come la residenza o la ubicazione dei beni da stimare nella circoscrizione”.
L’esperto deve essere estraneo ed indipendente rispetto alla società e ai soci.
Pertanto l’esperto non deve aver avuto pregressi rapporti con la società, nè risultare operante in associazione con professionisti che abbiano avuto pregressi rapporti con la società; inoltre non deve essere socio, amministratore o sindaco della trasformanda società, in quanto cariche incompatibili in considerazione della necessaria posizione di neutralità e indipendenza dell'esperto stimatore rispetto ai soci e agli organi della società.
La legge, peraltro, non pone altri requisiti soggetti per la nomina dell’esperto (non è necessario, ad esempio, che si tratti di soggetto iscritto all’albo dei revisori contabili tenuto presso il Ministero di Grazia e Giustizia).
L’ultimo periodo dell’art. 2500ter, co 2, c.c., di nuova introduzione, prevede che il secondo, terzo e quarto comma dell’art. 2343 si applicano solo nel caso in cui la società che risulta dalla trasformazione sia una società per azioni o in accomandita per azioni.
In tal modo il legislatore ha risolto una disputa che aveva coinvolto negli anni precedenti la dottrina e la giurisprudenza, riguardante la applicazione in toto dell’art. 2343, c.c., alle perizie redatte in sede di trasformazione progressiva.
Il richiamo al secondo comma dell’art. 2343, c.c., implica che al perito si applichi quanto previsto dall’art. 64, c.p.c.
Pertanto egli, se incorre in colpa grave nell'esecuzione degli atti che gli sono richiesti, è punito con l'arresto fino a un anno o con la ammenda fino a lire venti milioni ed è tenuto al risarcimento dei danni causati alle parti.
Allo stesso, inoltre, sono ascrivibili i reati previsti dal codice penale per gli incaricati di pubblico servizio (es: peculato, ex art. 314, c.p., o favoreggiamento personale ex art. 378, c.p.).
Dall’1 gennaio 2004 è previsto inoltre che egli sia tenuto al risarcimento dei danni arrecati alla società, ai soci e ai terzi.
Per effetto del richiamo operato al terzo comma dell’art. 2343, c.c., gli amministratori devono, nel termine di centottanta giorni dalla iscrizione della società, controllare le valutazioni contenute nella relazione di stima del patrimonio della società che si vuole trasformare e, se sussistono fondati motivi, devono procedere alla revisione della stima stessa.
Inoltre, fino a quando le valutazioni non sono state controllate, le azioni della società trasformata sono inalienabili e devono restare depositate presso la società.
Con tale previsione normativa viene accolta la tesi sostenuta dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza, che si esprimevano a favore della necessità della revisione della stima, in quanto adempimento che doveva essere considerato a favore dei terzi, che da essa non potevano che trarre giovamento.
Giova essere sottolineato che con la riforma del diritto societario l’obbligo della revisione della stima incombe unicamente sugli amministratori della società che risulta dalla trasformazione, e non sui sindaci.
Si evidenzia in conclusione che il quarto comma dell’art. 2343, c.c., si applica solo “in quanto compatibile”.
L’uso di questa locuzione sembra dovuto al fatto che il quarto comma dell’art. 2343, c.c., fa riferimento al conferimento in società eseguito da uno dei soci, mentre nel caso della trasformazione si è in presenza di un patrimonio sociale unitario, che non viene conferito ma rimane di proprietà del medesimo soggetto economico che si trasforma.
La compatibilità richiesta può essere letta come segue:
- L’art. 2343, co 4, c.c., stabilisce in primo luogo che “Se risulta che il valore dei beni o dei crediti conferiti era inferiore di oltre un quinto a quello per cui avvenne il conferimento, la società deve proporzionalmente ridurre il capitale sociale, annullando le azioni che risultano scoperte”.
Trasportando la norma al caso della trasformazione, si potrebbe pensare che in caso sottovalutazione del capitale oltre il quinto, esso vada, sì, ridotto, ma che vadano annullate non le azioni di un singolo socio, ma pro-quota le azioni di tutti i soci della società trasformata.
Come si è detto, infatti, nell’ipotesi della trasformazione i conferimenti eseguiti dai singoli soci in sede di costituzione dell’originaria società non hanno alcun valore, ma rileva unicamente il patrimonio della società nel suo complesso: pertanto, anche se risulta che la perdita oltre il quinto sia causata dal venir meno del valore di un bene conferito inizialmente uno dei soci, non sembra che debbano essere annullate solo le sue azioni, ma che la perdita debba venire ascritta proporzionalmente a tutti i soci.
D’altronde il bene che eventualmente avesse perso valore sarebbe già nel patrimonio della società, pur se essa in passato aveva un’altra forma giuridica, per cui i soci e gli amministratori già lo conoscevano, già lo avevano accettato come conferimento e già potevano valutare l’opportunità di mantenerlo nel patrimonio dell’impresa: non sembra pertanto coerente addossare le conseguenze di una sua eventuale perdita di valore dopo la trasformazione al singolo socio che, magari anni prima, lo aveva conferito.
Anche la lettera della legge sembra spingere verso questa interpretazione: la relazione di stima, infatti, ha ad oggetto l’intero patrimonio sociale, non le singole quote di partecipazione alla società né i conferimenti originari dei singoli soci.
- Viene poi stabilito che “il socio conferente può versare la differenza in danaro o recedere dalla società".
Anche in questo caso dovrebbe potersi intendere che nell’ipotesi della trasformazione siano tutti i soci che pro-quota possono integrare il capitale perduto con dei versamenti in denaro, coerentemente con quanto affermato nel precedente punto.
- Si dice, infine, nel quarto comma dell’art. 2343, c.c., che “L'atto costitutivo può prevedere, salvo in ogni caso quanto disposto dal quinto comma dell’articolo 2346, che per effetto dell'annullamento delle azioni disposto nel presente comma si determini una loro diversa ripartizione tra i soci”.
Il fondamento di tale previsione, nel caso della costituzione della società, dovrebbe poter stare nel lasciare alla volontà dei soci la possibilità che l’annullamento delle azioni, in conseguenza della sottovalutazione oltre il quinto, non muti i rapporti tra i soci.
Potrebbe essere, infatti, che essi, nonostante la svalutazione del conferimento di uno dei soci, vogliano mantenere le proporzioni delle azioni definite nell’atto costitutivo.
Se si accetta tale tesi, e se si accetta la tesi precedentemente esposta (secondo la quale la perdita oltre il quinto nel caso della trasformazione dovrebbe essere ripartita tra tutti i soci proporzionalmente), se ne dovrebbe concludere che la disposizione in esame non dovrebbe essere applicabile nella trasformazione, dato che la eventuale riduzione del capitale sociale non muterebbe i rapporti “di forza” tra i soci stabiliti nella delibera di trasformazione.
In caso contrario si potrebbe consentire la violazione, se pur in un momento diverso dalla delibera di trasformazione, del precetto normativo di cui all’art. 2500quater, co 1, c.c., secondo il quale ciascun socio ha diritto a un numero di azioni proporzionale alla sua partecipazione.
La perizia in caso di trasformazione in società a responsabilità limitata
In materia di trasformazione in società a responsabilità limitata, la norma rinvia a quanto previsto dall’art. 2465, c.c.
Tale ultima norma è stata introdotta al fine di semplificare e agevolare la costituzione delle società a responsabilità limitata, ed è stata ispirata dall’intento di alleggerire i relativi adempimenti amministrativi, posto che molto spesso le società a responsabilità limitata sono essenzialmente di piccole dimensioni, fondate sul lavoro dei singoli soci e sulla considerazione che di essi hanno i terzi, e sono quindi avvicinabili più alle società di persone che alle società per azioni.
In tale ottica è stato ritenuto opportuno semplificare le modalità e le regole dei conferimenti in natura, snellendo il più possibile il procedimento valutativo.
Con le nuove norme, pertanto, in sede di costituzione della società, l’esperto che deve redigere la stima del patrimonio della società che si trasforma può essere nominato dai soci che intendono eseguire il conferimento.
Dato il richiamo operato dall’art. 2500ter, co 2, c.c., la norma risulta applicabile anche nel caso di trasformazione di una società di persone in una società a responsabilità limitata.
Essa dovrebbe essere intesa, peraltro, nel senso che è la società da trasformare, tramite i suoi legali rappresentanti, che nomina l’esperto, in quanto il patrimonio da valutare è solo uno ed è quello della società (in sede di costituzione, invece, molteplici sono gli apporti e pertanto ciascun socio può nominare un perito per la valutazione del proprio).
A compensare i minori vincoli posti (e il rischio della nomina di un perito non totalmente imparziale in quanto non di nomina esterna) è stato tuttavia previsto l’obbligo per la società di scegliere il perito tra i soggetti (revisori persone fisiche o società di revisione) iscritti all’albo dei revisori contabili, oppure tra le società di revisione iscritte nell’albo speciale tenuto presso la Consob.
Degno di nota è anche l’ultimo periodo dell’art. 2500ter, co 2, c.c., secondo il quale il secondo, terzo e quarto comma dell’art. 2343 si applicano solo nel caso in cui la società che risulta dalla trasformazione sia una società per azioni o in accomandita per azioni.
Sembra doversene dedurre che il rinvio operato dalla prima parte della norma in esame sia riferibile solamente al primo comma dell’art. 2465, c.c., e cioè alla parte di tale norma riguardante il contenuto che deve avere la perizia e le modalità di nomina del perito.
Dal tenore letterale della norma sembra pertanto che nel caso di trasformazione in una società a responsabilità limitata non operino le disposizioni dell’art. 2343, c.c., in materia di responsabilità del perito, di revisione della stima nei sei mesi successivi alla trasformazione e di eventuale riduzione del capitale sociale nel caso di diminuzioni oltre il quinto.
Tale previsione sembrerebbe in linea con la ratio dell’intervento legislativo in tema di società a responsabilità limitata, che consiste nell’avvicinare la disciplina di tale modello di società a quello previsto per le società di persone.
Si evidenzia a tal fine che neppure nel caso di costituzione di società a responsabilità limitata è prevista la revisione della stima con gli adempimenti connessi, mentre valgono le norme sulla responsabilità civile e penale del perito.
Tale ultima previsione sembra escludere che le norme sulla responsabilità del perito disposte dall’art. 2343, co 2, c.c., valgano per analogia anche nel caso di trasformazione in società a responsabilità limitata.
Tale soluzione, peraltro, può lasciare perplessi, in quanto una norma che preveda la responsabilità del perito per i danni causati nell’esercizio del suo ufficio sembrerebbe necessaria per assicurare che le sue valutazioni siano imparziali (e ciò a tutela dei terzi) anche nel caso trasformazione in società a responsabilità limitata, dato anche che tale previsione non genererebbe alcun ulteriore adempimento per la società e non violerebbe i principi che stanno alla base della riforma.
E ciò a maggior ragione se si pensa che il secondo comma dell’art. 2343, c.c., viene richiamato dall’art. 2465, co 3, c.c., in materia di costituzione di società a responsabilità limitata.
La perizia di stima: altre questioni
Si può discutere su quale debba essere la data presa a riferimento dal perito per la stima del patrimonio della società: la perizia di stima, infatti, richiede del tempo per la sua redazione, per cui la data della delibera di trasformazione risulta normalmente successiva alla data di riferimento della perizia.
La novella legislativa non ha disciplinato la questione, per cui sembra che possano valere gli orientamenti proposti in passato dalla giurisprudenza, che prevedevano che la data di riferimento della perizia dovesse essere precedente di non oltre 60 giorni dalla data di delibera della trasformazione, anche se alcuni sostenevano la validità della trasformazione, purchè la perizia abbia come riferimento una data anteriore di non oltre quattro mesi da quella della delibera.
Si può porre il problema dell’individuazione del soggetto che deve asseverare la stima del perito.
In passato, quando il perito doveva essere nominato in ogni caso dal Presidente del Tribunale, la giurisprudenza e la dottrina ritenevano che la formalità della asseverazione potesse essere espletata sia dinanzi all’autorità che aveva designato il perito (quindi il Presidente del Tribunale, secondo la legge allora in vigore), sia un notaio, a norma dell’art. 1, n. 4, R.D.L. 14 luglio 1937, n. 1666, che abilita i notai a ricevere atti di asseverazione con giuramento di perizie stragiudiziali.
Nella disciplina attuale, l’orientamento sopra delineato dovrebbe essere considerato ancora attuale, tanto nel caso di trasformazione in società per azioni o in accomandita per azioni, quanto, e a maggior ragione, nel caso di trasformazione in società a responsabilità limitata.
Si è infine affermato che, al fine di assicurare a terzi che la valutazione del perito attesti l’effettivo valore del patrimonio, è necessaria una dichiarazione da parte dei soci, verbalizzata in assemblea, che confermi che non sono intervenute nelle more del procedimento modifiche nell’andamento economico dell’ente idonee a diminuire l’apprezzamento peritale.
2.1) La ripartizione del capitale
nella ripartizione del capitale, ciascun socio ha diritto all’assegnazione di un numero di azioni o di una quota proporzionale alla sua partecipazione (art. 2500-quater del Codice civile).
La nuova norma fa riferimento unicamente alla partecipazione del socio e non al suo riferimento all’ultimo bilancio approvato. Ciò sembra voler confermare che vengono fatti salvi gli atti di trasferimento quote posti in essere fino alla data di effetto della delibera di trasformazione. Rifacendosi ai principi, infatti, le modifiche dell’atto costitutivo delle società di persone sono efficaci già dalla data della loro effettuazione, essendo, la pubblicazione presso il Registro delle Imprese da eseguire entro trenta giorni dalla data dell’atto, un adempimento necessario unicamente ai fini della loro opponibilità ai terzi.
Qualora nella società trasformata vi siano soci d’opera occorre che a questi venga assegnato un numero di azioni o quote in misura corrispondente alla partecipazione che l’atto costitutivo gli riconosceva precedentemente; conseguentemente dovrà essere ridotto proporzionalmente le partecipazioni degli altri soci.
L’assegnazione delle azioni o quote al socio d’opera
Uno degli aspetti che in precedenza non era disciplinato riguardava il trattamento da riservare all’eventuale socio d’opera della società di persone, nell’ambito di una trasformazione in una società di capitali.
Occorre ricordare, infatti, che nelle società commerciali di persone il conferimento può avere ad oggetto qualsiasi entità utile per il conseguimento dell’oggetto sociale, ivi comprese le prestazioni d’opera che si esauriscono con la prestazione ed attribuiscono al socio solo il diritto agli utili.
Nelle società per azioni ed in accomandita per azioni, invece, i conferimenti possono essere solo di capitale (ovverosia devono consistere in entità iscrivibili come poste attive nel bilancio), stante il divieto posto dall’art. 2343, co 5, c.c.
Vi erano dunque non pochi dubbi nel trattamento da riservare ai soci d’opera della società di persone, con particolare riferimento alla quota di capitale da riservare ad essi nella società di capitali che risultava dalla trasformazione.
Anche la dottrina in merito era divisa: secondo alcuni, infatti, il socio d’opera sarebbe stato tenuto ad eseguire un conferimento corrispondente alla quota di capitale ad esso assegnata; secondo altri invece il socio d’opera non avrebbe dovuto eseguire alcun conferimento, ma la sua quota di partecipazione sarebbe stata “liberata” attribuendo alla stessa la quota ideale di liquidazione della sua partecipazione nella società di persone; seconda altri ancora il socio d’opera poteva essere escluso dalla compagine sociale.
L’art. 2500quater, co 2, c.c., è intervenuto disciplinando la fattispecie.
Esso dispone che ora il socio d'opera ha diritto all'assegnazione di un numero di azioni o di una quota in misura corrispondente alla partecipazione che l'atto costitutivo della società di persone gli riconosceva precedentemente alla trasformazione.
Nel caso in cui l’atto costitutivo della originaria società di persone nulla prevedesse, la scelta del trattamento da riservare al socio d’opera viene lasciata all’accordo dei soci, i quali potranno decidere cosa farne.
La legge non precisa cosa debba intendersi per “accordo tra i soci”; in particolare non è specificato se l’accordo necessiti o meno del consenso di tutti i soci (oppure, ad esempio, esso possa presupporre l’accordo solo della maggioranza degli stessi).
Dato che la decisione presa tocca i diritti di tutti i soci (in quanto, come poi si dirà, essi vedranno una riduzione delle azioni ad essi assegnate, proporzionale al valore attribuito alla partecipazione del socio d’opera), sembrerebbe di poter affermare che la valutazione della partecipazione del socio d’opera debba avvenire con l’accordo di tutti i soci, in quanto in tale valutazione sono coinvolti i diritti economici di tutti costoro.
Anche il tenore letterale della norma sembra confermare tale impostazione: se la decisione fosse presa a maggioranza, non costerebbe l’accordo di tutti i soci, in quanto alcuni di essi sarebbero in disaccordo.
D’altro canto, se fosse ammessa la decisione a maggioranza, potrebbe anche essere che i diritti del socio d’opera vengano lesi, ove la sua posizione dovesse trovarsi in minoranza.
Ancora ed infine, si osserva che la prima soluzione suggerita dal legislatore fa riferimento a quanto previsto nell’atto costitutivo, che è stato stipulato necessariamente con l’accordo di tutti i soci.
Questa impostazione sembra ancor più sostenibile se si pensa che il legislatore della riforma ha previsto una ulteriore via di fuga, disponendo che in caso di disaccordo tra i soci decida il giudice secondo equità, il quale interverrà su iniziativa della parte più diligente.
In ogni caso, pertanto, viene riconosciuto al socio d’opera il diritto di partecipare alla società di capitali che risulta dalla trasformazione, e viene riconosciuto il diritto allo stesso alla partecipazione ad una quota del capitale sociale della nuova società.
Dato però che la sua prestazione di opera non è stata inclusa nella perizia giurata di stima del patrimonio (non essendo una entità suscettibile di essere inclusa nell’attivo dello stato patrimoniale), occorre ridisegnare l’assetto della compagine sociale della società risultante dalla trasformazione.
E infatti l’ultimo comma dell’art. 2500quater, c.c., dispone che le azioni assegnate agli altri soci si riducano proporzionalmente.
In sostanza, occorrere attribuire un valore all’opera prestata dal socio, secondo i criteri sopra enunciati, e percentualizzare tale valore rispetto al patrimonio indicato nella perizia di stima: in tal modo viene determinata la percentuale del capitale della società che risulta dalla trasformazione che spetta al socio d’opera.
La percentuale del capitale della società che risulta dalla trasformazione che spetta agli altri soci viene determinata attribuendo agli stessi una percentuale del patrimonio netto da perizia, diminuito dell’importo corrispondente alla quota spettante al socio d’opera, pari alla percentuale del capitale sociale che essi detenevano nella società di persone prima della trasformazione.
Pertanto, se ad esempio il capitale sociale della società di persone era valutato in 100, di cui 50 di pertinenza del socio A, 40 di pertinenza del socio B e 10 di pertinenza del socio C, e fosse presente un socio d’opera D, la cui partecipazione nella società di capitali che risulta dalla trasformazione sia valutata in 20, il capitale sociale di 100 della società di capitali dovrebbe essere suddiviso tra i soci come segue:
- Socio d’opera D: 20;
- Socio A: 40;
- Socio B: 32;
- Socio C: 8.
Per ciò che concerne le società a responsabilità limitata, pur se per la loro costituzione è possibile il conferimento di prestazioni d’opera o di servizi a favore della società, analogamente a quanto previsto per le società commerciali di persone, occorre sottolineare che comunque tale tipo di conferimento è possibile solo se garantito da una polizza fidejussoria o assicurativa sul suo valore e il valore dell’opera conferita deve essere determinato all’atto dell’apporto; inoltre, secondo la pubblicistica più autorevole, essa deve essere oggetto di perizia di stima come tutti gli altri conferimenti in neutra, dato che il suo valore va ad aumentare il capitale della società.
Visto pertanto che nelle società a responsabilità limitata anche l’apporto di prestazioni d’opera o servizi è visto come un apporto di capitale (e le cautele sopra indicate lo testimoniano), sembra potersene concludere che quanto sopra detto in materia di società per azioni ed in accomandita per azioni valga anche nel caso di trasformazione progressiva in società a responsabilità limitata e che anche in tale tipo di operazione al socio d’opera debba essere comunque assegnata una quota di capitale con le procedure in precedenza delineate.
E infatti anche l’art. 2500quater, c.c., parla di azioni o quote, con ciò inequivocabilmente confermando l’impostazione prospettata.
3) L’invalidità della trasformazione
Da quanto sin qui detto si può comprendere come la trasformazione sia frutto di un procedimento complesso, del quale la legge disciplina in modo puntuale gli aspetti più rilevanti.
Potrebbe pertanto essere che il procedimento disegnato dal legislatore civilistico venga, in casi patologici, violato in alcuni suoi aspetti: si pensi alla possibilità che la delibera di fusione non avvenga con il consenso della maggioranza dei soci (o che avvenga con una maggioranza inferiore rispetto a quella richiesta dall’atto costitutivo), oppure che la perizia di stima sopravvaluti dolosamente il patrimonio netto della società, oppure ancora che l’atto di trasformazione non contenga tutti gli elementi necessari per la costituzione della società che si vuole fare risultare dalla trasformazione.
In tutti questi casi potrebbe esservi chi ha interesse ad annullare l’intera operazione, e tornare allo status quo ante delibera.
Tale evenienza porterebbe con tutta evidenza un danno nei confronti di chi abbia operato con la società trasformata, facendo in buona fede affidamento sulla validità della trasformazione.
Al fine di assicurare la certezza nei confronti dei terzi e di favorire la sicurezza dei rapporti giuridici, e consapevole dei problemi che potrebbero nascere da una eventuale dichiarazione di nullità dell’atto dopo che la trasformazione sia stata attuata, il legislatore della riforma è intervenuto introducendo per la trasformazione una norma analoga a quella già prevista per la fusione, la quale prevede che una volta eseguiti tutti gli adempimenti pubblicitari richiesti dalla legge, l’invalidità della fusione non può più essere pronunciata (art. 2500bis, co 1, c.c.).
Quindi con l’iscrizione della delibera di trasformazione, la società di persone diventa a tutti gli effetti una società di capitali, con limitazione di personalità per i soci per le obbligazioni successive alla delibera stessa.
La pubblicità ha effetto sanante, in quanto permette di sopperire all’inefficacia dell’atto di trasformazione nullo, ed è idonea pure a precludere eventuali pronunciamenti volti a caducare gli effetti della trasformazione.
Con tale previsione, tuttavia, non si è voluto mettere al riparo da conseguenze gli eventuali abusi che dovessero essersi manifestati nel procedimento di trasformazione; per questo il secondo comma dell’art. 2500bis fa salvo il risarcimento del danno, che eventualmente avessero subito da irregolarità nel procedimento di trasformazione, i soci della società e i terzi che con la stessa abbiano avuto a che fare.
Il danno cui si riferisce la norma è solo quello antigiuridico o ingiusto: deve perciò essere un danno che deriva dall’invalidità dell’atto di trasformazione e non dalla trasformazione in quanto tale. I problemi, in tal caso, sono quelli della rappresentazione della perdita economica come danno patrimoniale causalmente riconducibile a un comportamento che genera un vizio dell’atto di fusione, e quelli della quantificazione del risarcimento che ripara il danno.
Tenuti al risarcimento del danno dovrebbero essere, oltre alla società, coloro che si sono resi responsabili della irregolarità individuata o del danno cagionato.
Ad esempio, nel caso in cui la delibera di trasformazione di società in accomandita semplice in accomandita per azioni nella quale un socio accomandante della prima diventa accomandatario della seconda, iscritta nel Registro delle Imprese anche senza il consenso del socio in parola, sarà comunque valida, ma esporrà i soci che hanno prestato il loro consenso al risarcimento del danno che il socio dovesse subire per effetto dell’assunzione della responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali (che dovrebbe comunque sussistere in capo ad esso, stante la lettera delle legge (che considera comunque valida la trasformazione: in tal caso il socio potrà comunque chiedere il recesso dalla società per giusta causa).
Sempre esemplificando, nel caso in cui il patrimonio della società sia stato fraudolentemente sopravvalutato, chi si è reso autore di tale comportamento dovrà risarcire il danno che dovessero subire i terzi che sono venuti in contatto con la società di capitali che risulta dalla trasformazione, confidando nella effettiva esistenza del capitale indicato negli atti sociali, ivi compreso il perito che ha redatto l’elaborato tecnico.
Quanto sopra detto non dovrebbe pregiudicare la possibilità di far dichiarare la nullità della società di capitali che risulta dalla trasformazione, qualora ricorra una delle cause previste dal nuovo art. 2332, co 1, c.c.
In tal caso, peraltro, dato che la trasformazione ha comunque esplicato i propri effetti, la disciplina della fattispecie dovrebbe essere quella prevista dall’art. 2332, c.c., medesimo.
Pertanto la società di capitali dovrebbe comunque considerarsi sorta e gli atti compiuti in nome della società successivamente all’iscrizione della delibera nel Registro delle Imprese dovrebbero comunque considerarsi efficaci.
Delle obbligazioni sociali sorte successivamente alla trasformazione (e fino alla declaratoria di nullità) dovrebbe continuare a rispondere solo la società con il suo patrimonio (salve eventuali responsabilità degli amministratori per violazioni di legge), mentre i soci dovrebbero essere obbligati unicamente ad eseguire i conferimenti promessi ma non ancora eseguiti.
Inoltre, la sentenza che dovesse dichiarare la nullità della società dovrebbe nominare i liquidatori: ne consegue che alla dichiarazione di nullità della società di capitali non dovrebbe farsi conseguire la sopravvivenza alla trasformazione della società di persone (con responsabilità patrimoniale personale dei soci), ma lo scioglimento della società di capitali che ne è risultata.
4) La liberazione dei soci dalla responsabilità illimitata
per le obbligazioni sociali anteriori alla trasformazione
Uno degli aspetti principali della trasformazione di società di persone in società di capitali riguarda la responsabilità dei soci nei confronti dei terzi.
Nelle società di persone, infatti, i soci rispondono illimitatamente e solidalmente delle obbligazioni sociali con il proprio patrimonio (eccezion fatta per i soci accomandanti nelle società in accomandita semplice, i quali rispondono limitatamente alla quota di capitale conferito), mentre nelle società di capitali delle obbligazioni sociali risponde unicamente la società con il proprio patrimonio (eccezion fatta per i soci accomandatari delle società in accomandita per azioni, i quali rispondono illimitatamente e solidalmente delle obbligazioni sociali con il proprio patrimonio).
È evidente, pertanto, l’esigenza di tutela nei confronti dei terzi, i quali, passando dal primo tipo di società al secondo, potrebbero vedere compromessa la garanzia patrimoniale su cui possono contare per l’adempimento delle obbligazioni a proprio favore, in quanto a seguito dell’operazione essi non potrebbero più soddisfare le proprie pretese sul patrimonio dei soci divenuti limitatamente responsabili.
L’art. 2500quinquies, c.c., di nuova introduzione, riproduce essenzialmente il contenuto del vecchio art. 2499, c.c., approtandovi alcune integrazioni che tengono conto degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che si erano formati nel tempo.
Il nuovo art. 2500quinques, c.c., stabilisce che “La trasformazione non libera i soci a responsabilità illimitata dalla responsabilità per le obbligazioni sociali sorte prima degli adempimenti previsti dal terzo comma dell'articolo 2500, se non risulta che i creditori sociali hanno dato il loro consenso alla trasformazione.
Il consenso si presume se i creditori, ai quali la deliberazione di trasformazione sia stata comunicata per raccomandata o con altri mezzi che garantiscano la prova dell'avvenuto ricevimento, non lo hanno espressamente negato nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione”.
4.1) La data “spartiacque”
La data presa a riferimento dalla legge per la determinazione delle obbligazioni non coperte dalla responsabilità patrimoniale dei soci, è quella degli adempimenti previsti dal terzo comma dell'articolo 2500.
Come oltre si dirà, tale data corrisponde con l’iscrizione nel Registro delle Imprese della delibera di trasformazione, che suggella la assunzione della personalità giuridica della società di capitali che risulta dalla trasformazione.
Dato che la trasformazione ha efficacia da quel momento, i rapporti giuridici sorti prima della iscrizione della delibera di trasformazione non vengono intaccati dalla stessa.
Pertanto, per essi continuano a valere le regole sulla responsabilità patrimoniale dei soci immanenti al tipo di società che si è trasformata.
Quindi, rimanendo nell’ambito delle società commerciali, per le obbligazioni sociali sorte anteriormente alla iscrizione della delibera di trasformazione:
- se la società che si è trasformata è una società in nome collettivo continuano a rispondere delle obbligazioni sociali illimitatamente e solidalmente tutti i soci;
- se la società che si è trasformata è una società in accomandita semplice, continuano a rispondere delle obbligazioni sociali illimitatamente e solidalmente tutti i soci accomandatari, mentre i soci accomandanti continuano a rispondere limitatamente alla quota conferita.
Delle obbligazioni sociali sorte posteriormente alla data di iscrizione della delibera di trasformazione, invece:
- se la società che risulta dalla trasformazione è una società per azioni o a responsabilità limitata, risponde unicamente la società con il suo patrimonio;
- se la società che risulta dalla trasformazione è una società in accomandita per azioni, risponde la società con il suo patrimonio e, in aggiunta, rispondono illimitatamente e solidalmente anche i soci accomandatari.
4.2) La liberazione dalla responsabilità per le obbligazioni sociali anteriori
Se così stessero le cose, l’istituto della trasformazione progressiva avrebbe uno scarso appeal, dato che i soci sarebbero costretti a mantenere la responsabilità illimitata e solidale delle obbligazioni anteriori alla iscrizione della delibera di trasformazione.
Per ovviare a questo inconveniente il codice civile prevede, per i soci della società di persone che si trasforma, la possibilità di liberarsi di tale responsabilità, facendo di fatto operare gli effetti della trasformazione ex tunc, ossia dalla data della costituzione della società di persone.
Tale effetto, tuttavia, è condizionato al consenso, o quanto meno alla mancata opposizione dei creditori anteriori.
L’art. 2500quinquies, co 1, c.c., dispone infatti in primo luogo che la liberazione è possibile se i creditori sociali anteriori hanno dato il loro consenso alla trasformazione.
Si è qui in presenza di una fictrio juris, perché si pone il consenso alla trasformazione come il consenso alla liberazione della responsabilità per le obbligazioni anteriori, mentre in realtà una tale equivalenza non sussiste e, d’altro canto, un consenso all’operazione di trasformazione di sé e per sé non sarebbe necessario, dato che, come si è visto, una volta eseguita la pubblicità richiesta dalla legge, l’invalidità della trasformazione non può essere più pronunciata.
La legge non richiede una forma particolare per la manifestazione del consenso da parte die creditori: sarà peraltro necessario che si tratti di una forma che permetta ai soggetti interessati (ossia ai soci della società che si trasforma) di provare il suddetto consenso.
La liberazione della responsabilità per le obbligazioni anteriori è possibile ricorrendo anche al consenso tacito dei creditori, consistente nella omessa negazione dello stesso dai creditori a seguito di specifica comunicazione dei soci.
L’art. 2500quinqies co 2, c.c., pone innanzitutto un onere di comunicazione ai creditori, al fine di sollecitare il consenso (o la non opposizione) dei creditori, inviando loro una raccomandata contenente la delibera di trasformazione.
La norma non indica il soggetto che deve inviare la comunicazione.
È da pensare tuttavia che l’onere gravi in primo luogo sulla società, ma che se essa non lo adempia possano provvedervi i soci, i quali hanno tutto l’interesse a che la comunicazione venga inviata e pertanto a loro non può essere negata tale incombenza.
Proprio per l’interesse perseguito, sembra che la società non abbia l’obbligo della comunicazione, posto che la trasformazione, anche se non vi è il consenso dei soci, è comunque efficace (vedi oltre sul punto).
La norma propone che la comunicazione avvenga mediante altri mezzi “che garantiscano la prova dell’avvenuto ricevimento”.
Tale locuzione in primo luogo comporta che per avere efficacia la raccomandata debba essere inviata con avviso di ricevimento: una raccomandata semplice non sarebbe pertanto sufficiente al fine di fare venire meno la responsabilità illimitata ante-trasformazione.
Dall’altro la legge dimostra quella elasticità che era richiesta dalla dottrina, ammettendo anche ulteriori mezzi di comunicazione che diano garanzia del ricevimento.
Mentre in passato la giurisprudenza ammetteva mezzi che dessero una sicurezza della ricezione maggiore rispetto alla raccomandata, ritenendo valida ai fini di cui si discute la comunicazione mediante notifica per mezzo dell’ufficiale giudiziario, ora possono essere ritenuti validi anche mezzi alternativi, come ad esempio la comunicazione via fax.
Per ciò che concerne la comunicazione via e-mail, grande importanza potrebbe assumere l’approvazione dello schema di decreto presidenziale recentemente varato dal Consiglio dei Ministri in materia di posta elettronica certificata.
Esso infatti, all’art. 6, prevede che:
- Il gestore di posta elettronica certificata utilizzato dal mittente fornisce allo stesso la ricevuta di accettazione nella quale sono contenuti i dati di certificazione che costituiscono prova dell’avvenuta spedizione di un messaggio di posta elettronica certificata;
- Il gestore di posta elettronica certificata utilizzato dal destinatario fornisce al mittente la ricevuta di avvenuta consegna all’indirizzo elettronico del mittente;
- La ricevuta di avvenuta consegna fornisce al mittente prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all’indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento della consegna tramite un testo, leggibile al mittente, contenente i dati di certificazione;
- Le ricevute rilasciate dai gestori sono sottoscritte dagli stessi con una firma elettronica avanzata.
- Nel caso di mancata consegna il mittente riceve, entro le 24 ore successive all’invio, una ricevuta di mancata consegna.
Nel momento in cui tale provvedimento diverrà legge, si presume che la posta elettronica certificata potrà sostituire la raccomandata con avviso di ricevimento.
Per ciò che concerne il contenuto della comunicazione, la legge stabilisce espressamente che essa deve avere ad oggetto “la deliberazione di trasformazione”: in tal modo viene recepito quello che era l’orientamento già fatto proprio in passato dalla giurisprudenza.
Stante la lettera della legge, non sembra debba essere allegata alla delibera anche la relazione di stima del patrimonio; d’altro canto sembra di poter affermare che la allegazione della perizia di stima non dovrebbe dire ai creditori alcunchè in più di quanto contenuto nella delibera.
Piuttosto sembra necessario, al fine di garantire la certezza nei terzi, che la delibera comunicata sia una copia munita delle sottoscrizioni dei partecipanti e della firma del notaio rogante con gli estremi dell’atto (numero di repertorio e di raccolta).
Stante il tenore letterale della norma, sembra che la comunicazione nei modi prescritti sia l’unico modo per ottenere il consenso tacito, non parendo allo scopo sufficiente che i creditori abbiano avuto conoscenza della trasformazione in modo diverso.
4.3) Il consenso dei creditori successivo alla comunicazione
Una volta ricevuta la comunicazione, i creditori hanno sessanta giorni di tempo per decidere.
La nuova norma ha prolungato il tempo a disposizione dei creditori per decidere (nella versione precedente il termine era di trenta giorni) e ha chiarito che tale termine decorre dalla data di ricezione della comunicazione, e non dalla data di invio della stessa.
In questo lasso di tempo i creditori possono dare il loro consenso espresso alla trasformazione, oppure possono dare il loro diniego espresso alla stessa, anche con forme diverse rispetto a quella con la quale è stata data la comunicazione, purchè, in quest’ultimo caso, il diniego sia dagli stessi provabile (e questo nel loro interesse).
È stato affermato che equivale alla negazione del consenso anche la semplice richiesta di ulteriori chiarimenti da parte del socio cui sia stata effettuata la comunicazione.
I creditori, una volta ricevuta la comunicazioni possono anche non fare alcunchè: peraltro l’inerzia comporta che, al decorrere dei sessanta giorni, il consenso alla trasformazione si presuma da essi dato.
Trattandosi una presunzione, sembra evidente che, se può essere dimostrato che il mancato diniego sia dipeso da forza maggiore, la presunzione viene meno e ciò produce l’effetto di non liberare i soci dalla responsabilità per le obbligazioni anteriori.
In caso di contestazione successiva sulla sussistenza o meno del consenso tacito, spetta ai soci dimostrare l’avvenuta effettuazione della comunicazione.
Decorsi i sessanta giorni dalla comunicazione, e salvo il caso di impossibilità per forza maggiore, il consenso alla trasformazione (e quindi alla liberazione) si presume anche se i creditori sociali obiettino di non aver avuto consapevolezza del fine e degli effetti che la comunicazione intendeva perseguire.
Potrebbe essere che solo alcuni dei creditori prestino il proprio consenso (espresso o tacito): in tal caso la responsabilità illimitata e solidale rimarrà in piedi solo per le obbligazioni riconducibili ai creditori che non hanno prestato il consenso (sempre se, chiaramente, la società non adempia alla propria obbligazione nei confronti di questi ultimi).
Nonostante la lettera della norma sembri porre l’alternativa tra consenso pieno alla trasformazione e diniego dello stesso, parte della dottrina ritiene che il creditore possa anche liberare i soci solo per alcuni crediti e non per altri o solo per parte del proprio credito, mentre generalmente si esclude che possano essere liberati dalla responsabilità solo alcuni soci e non altri.
Si precisa che la norma sul consenso dei creditori non vale per i crediti fiscali vantati dall’erario e per i crediti vantati da altri enti pubblici per obbligazioni derivanti da norme di legge.
Si è affermato infatti che la norma “non trova applicazione per i crediti contributivi previdenziali, i quali, nascendo da un rapporto disciplinato dal regime di previdenza sociale, non diversamente dalle altre forme di finanziamento delle prestazioni di assistenza sociale, per il comune carattere pubblico ed obbligatorio dei rispettivi regimi correlati a finalità di ordine costituzionale (art. 38 Cost.), hanno natura inderogabile e sono perciò indisponibili”, e che essa “non può trovare applicazione nei confronti dell'amministrazione, con riguardo a crediti tributari, in considerazione dell'indisponibilità dei medesimi”.
4.4) La liberazione dalla responsabilità e il fallimento successivo della società
La giurisprudenza si è occupata della possibilità che la società oggetto della trasformazione fallisca e delle conseguenze che tale fatto può avere sui soci della stessa.
Per ciò che concerne, in particolare, i soci che non sono stati liberati dalle obbligazioni sociali anteriori alla trasformazione, essi sono coinvolti nell’eventuale fallimento della società e dichiarati falliti essi stessi ai sensi dell’art. 147, L.F., sempre se l’insolvenza della società stessa risalga ad epoca anteriore alla trasformazione e nei limiti delle obbligazioni anteriori alla trasformazione medesima, in quanto la trasformazione non comporta la cessazione di una società e la nascita di un’altra, ma la continuazione dell’identità soggettiva dell’ente.
In tale caso il fallimento dei soci può essere dichiarato indipendentemente dal fatto che essi siano imprenditori o meno, indipendentemente dal fatto che essi siano insolventi o meno, e indipendentemente dal fatto che sia trascorso l’anno dalla trasformazione o meno (come invece richiederebbe l’art. 10, L.F., per le ipotesi di società cessate).
La Corte Costituzionale ha invece affrontato il caso del fallimento della società trasformata in cui i soci abbiano ottenuto il consenso, espresso o tacito, alla trasformazione, e siano pertanto divenuti limitatamente responsabili anche per le obbligazioni anteriori.
A tal fine la Corte Costituzionale ha affermato l’illegittimità costituzionale dell’art. 147, L.F. (che estende il fallimento delle società anche ai soci illimitatamente responsabili) “nella parte in cui prevede che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata di società fallita possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata”.
Ne consegue che, se la società viene dichiarata fallita successivamente alla trasformazione, i soci che abbiano perso la responsabilità illimitata possono comunque essere dichiarati falliti ai sensi dell’art. 147, L.F. (e rispondere delle obbligazioni sociali anteriori), ma ciò può avvenire solo se il loro fallimento personale viene dichiarato entro un anno da quando essi hanno perso la responsabilità illimitata.
Tale massima dovrebbe valere nel caso in cui l’insolvenza risalga a prima della trasformazione: se l’insolvenza dovesse essere successiva, la limitazione della responsabilità dovrebbe valere pienamente e non dovrebbe essere possibile l’estensione del fallimento ai soci, neppure se deve ancora decorrere l’anno di cui all’art. 10, L.F.
Trasformazione di società di capitali in società di persone
Il legislatore ha voluto riservare una particolare tutela dei terzi che vengono in contatto con la società: viene detto che i soci che con la trasformazione assumono responsabilità illimitata, rispondono illimitatamente anche per le obbligazioni sociali anteriori alla data di efficacia della trasformazione (art. 2500-sexies del Codice civile).
La decisione avviene mediante delibera dei soci riuniti in assemblea straordinaria (per le SRL, se l’atto costitutivo non prevede l’assemblea straordinaria, con le forme e i modi propri dell’assemblea straordinaria) la quale, salva diversa previsione statutaria, viene adottata a maggioranza. E’ però richiesto in consenso, e quindi l’unanimità, dei soci che con la trasformazione vengono a assumere la responsabilità illimitata.
L’art. 2437 del Codice civile (per le società per azioni o in accomandita per azioni) e l’art. 2473 del Codice civile (per le società a responsabilità limitata), prevedono il diritto di recesso per il socio che non ha concorso (o non ha consentito, nel caso della società a responsabilità limitata) alla deliberazione riguardante il cambiamento del tipo di società. E’ quindi legittimato chi abbia votato a sfavore di una delibera, chi non vi abbia partecipato, chi comunque non abbia concorso a formare la maggioranza, astenendosi dalla votazione.
Recesso
Secondo quanto stabilito dall’art. 2437bis, c.c., il diritto di recesso deve essere esercitato mediante lettera raccomandata che deve essere spedita alla società entro quindici giorni dall'iscrizione nel registro delle imprese della delibera di trasformazione, con l'indicazione delle generalità del socio recedente, del domicilio per le comunicazioni inerenti al procedimento, del numero e della categoria delle azioni per le quali il diritto di recesso viene esercitato.
Si evidenzia come il socio possa recedere dalla società anche solo per una parte delle azioni che esso detiene, in quanto si è ritenuto coerente pensare che lo stesso, vedendo mutato il quadro della situazione, intenda solo rischiare di meno nella società, e non andarsene definitivamente.
Le azioni per le quali è esercitato il diritto di recesso non possono essere cedute e devono essere depositate presso la sede sociale.
Il recesso non può essere esercitato e, se già esercitato, è privo di efficacia, se, entro novanta giorni, la società revoca la delibera che lo legittima ovvero se è deliberato lo scioglimento della società.
Per ciò che concerne la liquidazione della quota del socio recedente, l’art. 2437ter, c.c., afferma che il valore di liquidazione delle azioni è determinato dagli amministratori, sentito il parere del collegio sindacale e del soggetto incaricato della revisione contabile, tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell'eventuale valore di mercato delle azioni, facendo riferimento:
- Al valore risultante da una situazione patrimoniale aggiornata della società che tenga conto della sua consistenza patrimoniale e delle sue prospettive reddituali;
- All’eventuale valore di mercato delle azioni;
- Ai diversi criteri di determinazione del valore di liquidazione eventualmente specificati nello statuto, ove possono quindi essere indicati gli elementi dell’attivo e del passivo del bilancio che possono essere rettificati rispetto ai valori risultanti dal bilancio, unitamente ai criteri di rettifica, nonché agli altri elementi suscettibili di valutazione patrimoniale da tenere in considerazione.
In caso di contestazione da proporre contestualmente alla dichiarazione di recesso il valore di liquidazione è determinato entro novanta giorni dall'esercizio del diritto di recesso tramite relazione giurata di un esperto nominato dal tribunale, che provvede anche sulle spese, su istanza della parte più diligente.
Per ciò che concerne le società a responsabilità limitata, l’art. 2473, c.c., stabilisce che soci che recedono dalla società hanno diritto di ottenere il rimborso della propria partecipazione in proporzione del patrimonio sociale.
Esso a tal fine è determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso; in caso di disaccordo la determinazione è compiuta tramite relazione giurata di un esperto nominato dal tribunale, che provvede anche sulle spese, su istanza della parte più diligente.
Il rimborso delle partecipazioni per cui è stato esercitato il diritto di recesso deve essere eseguito entro centottanta giorni dalla comunicazione del medesimo fatta alla società.
Trasformazione nell’ambito della stessa tipologia societaria (società di persone in società di persone – società di capitali in società di capitali)
Al contrario della trasformazione progressiva e di quella regressiva, la trasformazione nell’ambito della stessa tipologia di forma societaria non viene considerata nel Codice civile. Il trattamento da riservare va pertanto ricostruito sulla base delle norme espressamente previste per gli altri tipi di trasformazione e sulla base delle norme generali che regolano il funzionamento delle società.
ARTICOLO - Pubblicato il: 1 gennaio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
La natura giuridica Il trust è istituto tipico della common law che, per versatilità e flessibilità, si presta alle finalità più ampie. E’ opportuno considerare che non esiste una specifica tipologia di trust e che, ai fini dell’analisi dei profili civilistici e fiscali, dopo aver individuato i tratti comuni ed essenziali della relativa disciplina occorre cogliere volta per volta, nei casi concreti, le peculiarità dei singoli trust.
Il trust si sostanzia in un rapporto giuridico fondato sul rapporto di fiducia tra disponente (settlor o grantor) e trustee. Il disponente, di norma, trasferisce, per atto inter vivos o mortis causa, taluni beni o diritti a favore del trustee il quale li amministra, con i diritti e i poteri di un vero e proprio proprietario, nell’interesse del beneficiario o per uno scopo prestabilito.
Spesso i trustee sono trust company, vale a dire società che hanno quale oggetto sociale l’assistenza ai clienti nella istituzione dei trust e nella successiva gestione dei patrimoni.
L’effetto principale dell’istituzione di un trust è la segregazione patrimoniale in virtù della quale i beni conferiti in trust costituiscono un patrimonio separato rispetto al patrimonio del trustee, con l’effetto che non possono essere escussi dai creditori del trustee, del disponente o del beneficiario.
Il trust | - É un rapporto di appartenenza finalizzato. Il trustee è obbligato ad avvalersi dei beni e diritti a lui intestati per perseguire la finalità del trust. |
L'istituzione del trust | - Il disponente sottoscrive un atto istitutivo, che nomina il trustee, accompagnato o seguito dal trasferimento di beni o diritti al trustee: il trasferimento può essere compiuto dallo stesso disponente o anche da altri soggetti in una o più riprese; ovvero il disponente sottoscrive una dichiarazione unilaterale: egli dichiara, nelle forme opportune, che certi suoi beni o diritti sono dal quel momento vincolati al perseguimento di una certa finalità; egli ne diviene il trustee; ovvero il disponente stabilisce il trust nel proprio testamento |
Le caratteristiche del trust | Le regole del trust sono stabilite dal disponente (nell'atto istitutivo o nella dichiarazione unilaterale o nel testamento): il disponente stabilisce, per esempio, la durata, i beneficiari, i poteri del trustee, i poteri del guardiano, la sostituzione del trustee, i criteri dell' amministrazione dei beni, l'impiego dei redditi, la destinazione finale dei beni. Il quadro normativo generale è dato da una legge straniera che conosce e disciplina l'istituto del trust scelta dal disponente. Dato invariante è la "segregazione": i beni non possono essere distolti dalla finalità del trust; le vicende personali del trustee (vincoli coniugali, debiti, fallimento, morte) non hanno effetto sui beni in trust. Quando un trustee cessa dal suo ufficio i beni in trust passano al suo successore. La durata di un trust dipende dalla sua legge regolatrice. |
I trust "interni" | - Un trust è detto "interno" quando i soggetti e i beni, o la parte dominante di questi elementi, sono italiani. Il soggetto che istituisce il trust determina da quale legge straniera esso è disciplinato. I trust interni sono istituiti in Italia, per mezzo di atti in lingua italiana, usualmente con l'intervento di un notaio. I trustee dei trust interni - quando non sia trustee lo stesso disponente (dichiarazione unilaterale di trust) - sono solitamente professionisti di fiducia del disponente, familiari, talvolta società fiduciarie; molto raramente società specializzate straniere. Il fondamento giuridico dei trust interni è ravvisato nella Convenzione de L'Aja del 1° luglio 1985, ratificata dall'Italia con Legge n 364/1889 entrata in vigore il 1° gennaio 1992. La Convenzione è stata ratificata anche da: Olanda, Malta, Lussemburgo, Gran Bretagna (anche per conto di molte colonie), Australia, Canada. |
Il disponente | - É il soggetto che vincola beni o diritti in trust per il perseguimento di una certa finalità. |
Il trustee | Una persona, più persone, una società, un ente titolari di beni o diritti affinché essi siano impiegati per una finalità specificata. |
I beneficiari | I soggetti a vantaggio dei quali la finalità deve essere realizzata; alternativamente, un trust può non avere beneficiari e la finalità può consistere in qualsiasi scopo lecito. |
Il guardiano | In alcuni casi al trustee è affiancato un guardiano, con compiti di consiglio e di vigilanza sul trustee. |
Caratterizzato da una dual ownership, vale a dire da una doppia proprietà, l’una ai fini dell’amministrazione -in capo al trustee- e l’altra, ai fini del godimento - in capo al beneficiario -, il trust esprime un concetto di proprietà non proprio allineato a quello conosciuto nei paesi di civil law. E’ evidente come, in base ai canoni tradizionali del nostro ordinamento, non sia agevole comprendere un simile sdoppiamento di proprietà, né la compressione del diritto di godimento dei beni affidati al trustee che ne è il proprietario. In sostanza, mentre la titolarità del diritto di proprietà è piena, l’esercizio di tale diritto è invece limitato al perseguimento degli scopi indicati nell’atto istitutivo.
Il trust viene istituito con un negozio unilaterale, cui si affiancano uno o più atti dispositivi.
Se è lo stesso disponente ad essere designato quale trustee, si dà luogo a un trust autodichiarato; in tal caso il vincolo di destinazione sui beni si forma all’interno dello stesso patrimonio del disponente.
Qualora il trustee sia soggetto diverso dal disponente, il trasferimento al trust dei beni, così come la “perdita di controllo” da parte del disponente sui medesimi beni, sono requisiti qualificanti del trust. Il disponente può conservare alcuni poteri (come quello di sostituire il trustee o nominare altri beneficiari) salvaguardando in ogni caso l’effettività dell’attribuzione e l’esercizio dei poteri di amministrazione da parte del trustee.
Il trust può presentarsi come:
- trust liberale, con il quale si dispone di assetti familiari e non;
- trust commerciale, utilizzabile, ad esempio, per disporre la segregazione di attività dell’impresa, spesso a titolo di garanzia.
- trust revocabile(grantor trust), quando il disponente si riserva la facoltà di revocare l’attribuzione dei diritti ceduti al trustee o vincolati nel trust (nel caso in cui il disponente sia anche trustee), diritti che, con l’esercizio della revoca, rientrano nella sua sfera patrimoniale. E’ evidente come in tal caso non si abbia un trasferimento irreversibile dei diritti e, soprattutto, come il disponente non subisca una permanente diminuzione patrimoniale. Questo tipo di trust, pure ammesso in alcuni ordinamenti, ai fini delle imposte sui redditi non dà luogo ad un autonomo soggetto passivo d’imposta cosicché i suoi redditi sono tassati in capo al disponente; ai fini delle imposte indirette, come si dirà, non si differenzia dagli altri trust.
Avendo riguardo alla sua struttura, il trust può considerarsi come:
- trust “di scopo”, se funzionale al perseguimento di un determinato fine (es. il trust di garanzia)
- trust “con beneficiario”, quando i beni in trust vengono gestiti nell’interesse di un determinato soggetto.
Il beneficiario può essere “beneficiario di reddito” e godere delle utilità dei beni in trust (ad esempio, percepire periodicamente delle somme) oppure “beneficiario finale” dei beni che gli verranno devoluti al termine del trust.
I beneficiari possono essere individuati nell’atto istitutivo o in un secondo momento, direttamente dal disponente o da un terzo designato (protector); inoltre, possono essere designati nominativamente o quali appartenenti ad una determinata categoria. Essi hanno azione verso il trustee per rivendicare i loro diritti.
Nel fixed trust il disponente individua i beneficiari con l’atto istitutivo e predetermina la ripartizione tra gli stessi del patrimonio e del reddito del trust.
Nel trust discrezionale, invece, il disponente si riserva la facoltà di nominare in un momento successivo i beneficiari ovvero rimette al trustee o ad un protector (guardiano) l’individuazione degli stessi, delle loro rispettive posizioni, delle modalità e dei tempi di attribuzione dei benefici.
L’atto istitutivo del trust può indicare un protector con il compito di vigilare sull’operato del trustee.
Il trust non ha una disciplina civilistica interna ma trova tuttavia legittimazione a seguito dell’adesione dell’Italia alla Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, resa esecutiva con legge 16 ottobre 1989, n. 364 e in vigore dal 1° gennaio 1992.
La Convenzione si pone l’obiettivo di armonizzare le regole del diritto internazionale privato in materia di trust e, di fatto, ne attua il riconoscimento negli ordinamenti di civil law privi di una disciplina interna.
Sono idonei a produrre effetti giuridici in Italia i Trust
- regolati da legislazioni di Stati che disciplinano l’istituto,
- compatibili con le previsioni contenute nella Convenzione dell’Aja e
- che non sono in contrasto con norme imperative, con norme di applicazione necessaria e con l’ordine pubblico internazionale.
La convenzione individua gli elementi essenziali del trust rilevanti ai fini del riconoscimento da parte degli Stati firmatari.
L’art. 2 prevede i seguenti elementi essenziali del trust:
- i beni vincolati nel trust sono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee
- i beni vincolati nel trust sono intestati al trustee o ad altro soggetto per conto del trustee
- il trustee è tenuto ad amministrare, gestire e disporre dei beni in trust secondo le indicazioni dettate nell’atto istitutivo del trust e nel rispetto della legge. Il trustee deve rendere conto della gestione.
L’Italia riconosce i trust che abbiano gli elementi essenziali indicati dall’art. 2. Per effetto del riconoscimento, i beni in trust restano distinti dal patrimonio personale del trustee che, a sua volta, acquista la capacità di agire ed essere convenuto in giudizio, di comparire in qualità di trustee davanti a notai o altri rappresentanti di pubbliche istituzioni.
Ai sensi dell’articolo 3, la convenzione si applica solo ai trust la cui istituzione sia provata per iscritto.
Si ricorda, infine, che la convenzione non dispone sul trattamento fiscale dei trust, il quale rientra nelle competenze dei singoli Stati (art. 19).
La disciplina fiscale
L’imposizione diretta
L’art. 1, commi da 74 a 76, della Legge n. 296 del 27 dicembre 2006, ha introdotto nel nostro ordinamento la disciplina fiscale applicabile ai Trust in materia di imposizione sul reddito. In merito è intervenuta la Circ. n. 48/E del 6 agosto 2007.
Le disposizioni introdotte vertono principalmente sui seguenti punti:
- l’attribuzione della soggettività passiva al Trust ai fini Ires, quale ente commerciale ex art. 73, comma 1, lett. b), o ente non commerciale ex art. 73, comma 1, lett. c), del Tuir; e ente estero per i redditi prodotti nel territorio dello Stato (enti non residenti);
- l’imputazione dei redditi derivanti dai beni in Trust direttamente in capo ai beneficiari, qualora questi siano stati individuati nell’atto istitutivo o in altri documenti successivi, ovvero, in mancanza in parti uguali;
- la qualificazione dei redditi derivanti dai beni in Trust quali redditi di capitale in capo ai beneficiari individuati;
- la presunzione semplice di residenza nel territorio dello Stato del Trust istituito in un Paese non rientrante tra quelli con cui l’Italia ha un adeguato scambio di informazioni, individuati nel decreto del Ministero delle finanze 4 settembre 1996, e successive modifiche (c.d. white list), qualora:
- almeno un disponente e un beneficiario siano fiscalmente residenti in Italia; ovvero,
- siano posti in essere da parte di un soggetto fiscalmente residente in Italia a favore del Trust atti di trasferimento del diritto di proprietà su beni immobili, di costituzione o di trasferimento di diritti reali immobiliari, anche per quote, ovvero di vincoli di destinazione sugli stessi;
- la tenuta delle scritture contabili obbligatorie previste alternativamente per gli enti commerciali o non commerciali.
La relazione governativa al testo dell’emendamento della Legge n. 296 del 27 dicembre 2006, che ha inserito le disposizioni in esame osserva che che “(…) già da tempo è maturata (…) la convinzione che gli aspetti peculiari dell’istituto consentano di ritenere assoggettabile ad imposizione il Trust, in quanto connotato, nei suoi elementi costitutivi (disponibilità di un patrimonio, attitudine alla percezione di un reddito, trasferimento della ricchezza nella forma e con il contenuto previsti dalle norme tributarie), dalla capacità contributiva (…)”.
Le disposizioni modificative dell’art. 73 del Tuir delineano un diverso tipo di imposizione in ragione dell’eventuale individuazione dei beneficiari nell’atto istitutivo del Trust.
La norma prevede che, qualora non sia individuato alcun beneficiario, i redditi derivanti dai beni in Trust sono assoggettati a tassazione in capo al Trust quale soggetto passivo Ires, e in particolare quale ente commerciale laddove abbia per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, oppure quale ente non commerciale qualora non abbia per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali. Il reddito imponibile riferibile ai Trust è determinato in base alle disposizioni previste per gli enti commerciali ex art. 81 e segg. del Tuir, ovvero per gli enti non commerciali ex art. 143 e ss. del Tuir. La Relazione governativa, in proposito, osserva che la successiva distribuzione ai beneficiari, dei proventi conseguiti dal Trust e assoggettati ad Ires dal Trustee, non è assoggettabile ad alcuna imposizione sul reddito, in quanto la stessa è stata già scontata in capo al Trust. Da ciò dovrebbe desumersi che l’intento del legislatore era quello di prevedere che l’imposizione in capo al Trust “capitalizza” il reddito derivante dai beni in Trust, cosicché la successiva attribuzione di tali redditi capitalizzati non costituisce una fattispecie fiscalmente rilevante ai fini dell’imposizione sul reddito in capo ai beneficiari.
Solo nel caso in cui i beneficiari siano individuati, il reddito conseguito dal Trust è imputato direttamente a ciascuno di essi in proporzione alla quota individuata nell’atto istitutivo, ovvero in parti uguali tra loro qualora non sia prevista una ripartizione determinata. La Relazione governativa osserva che l’imputazione del reddito in capo ai beneficiari deve essere perfezionata seguendo un meccanismo analogo a quello previsto dall’art. 5 del Tuir per i redditi prodotti in forma associata. In tal caso, i redditi saranno qualificati in capo ai beneficiari percipienti quali redditi di capitale in base alla nuova lett. g-sexies) inserita all’art. 44, comma 1 del Tuir, ed andranno computati nel reddito complessivo senza alcuna deduzione, ma beneficiando del credito d’imposta per eventuali imposte assolte all’estero in via definitiva, in misura proporzionale alla quota individuata nell’atto istitutivo, ovvero, in mancanza, in parti uguali.
A differenza degli orientamenti interpretativi riportati nel paragrafo precedente, la novella disciplina ha esteso l’ambito applicativo delle disposizioni, non tenendo in debito conto la necessaria valutazione caso per caso delle diverse tipologie di Trust e delle connesse differenti posizioni giuridiche rivestite dai beneficiari. Si pensi, in proposito, alla fattispecie di un beneficiario di un Trust discrezionale, il quale, da un lato potrebbe risultare individuato nell’atto di Trust, ma, dall’altro, non sarebbe titolare di alcun diritto nei confronti del Trustee di vedersi assegnati i proventi derivanti dai beni in Trust. Sulla base della formulazione lett.le della norma, invero, in capo a detto beneficiario individuato sarebbe imputato il reddito conseguito dal Trust, a prescindere pertanto da una effettiva percezione dello stesso, pur non essendo titolare di alcun diritto di credito nei confronti del Trustee nel ricevere parte dei beni in Trust, intesi sia in termini di capitale segregato che di utilità da questi derivante. In proposito, tuttavia, riteniamo utile segnalare come la Relazione governativa parrebbe introdurre un elemento ulteriore di valutazione ai fini dell’imputazione del reddito conseguito dal Trust in capo ai beneficiari, ossia che detto reddito sia effettivamente attribuibile a un beneficiario, pur essendo questo stato individuato. Essa, in particolare, presenta a titolo esemplificativo un’eccezione nel caso in cui il beneficiario del Trust sia un nascituro: quest’ultimo, ancorché individuato nell’atto istitutivo, non potrà vedersi attribuire alcun tipo di reddito sino al momento della nascita. |
Si ha quindi due principali tipologie di trust:
- trust con beneficiari di reddito individuati, i cui redditi vengono imputati per trasparenza ai beneficiari (trust trasparenti)
- trust senza beneficiari di reddito individuati, i cui redditi vengono direttamente attribuiti al trust medesimo (trust opachi).
Nella Ris. n. 4/E del 4 gennaio 2008, l’Agenzia delle Entrate ritiene che il trust istituito per il buon esito di un concordato preventivo e che ha come scopo quello di mettere a disposizione dei creditori beni immobili appartenenti a terzi rispetto all'impresa sottoposta a procedura concorsuale, non esercita attività commerciale e i redditi conseguiti dal trust devono essere considerati come redditi di un ente non commerciale ai sensi dell'art. 73, comma 1, lett. c) del Tuir, da tassare in capo al trust – trast opaco - e non attribuiti per trasparenza ai creditori.
E’ tuttavia possibile che un trust sia al contempo opaco e trasparente (trust misto). Ciò avviene, ad esempio, quando l’atto istitutivo preveda che parte del reddito di un trust sia accantonata a capitale e parte sia invece attribuita ai beneficiari. In questo caso, il reddito accantonato sarà tassato in capo al trust mentre il reddito attribuito ai beneficiari, qualora ne ricorrano i presupposti, vale a dire quando i beneficiari abbiano diritto di percepire il reddito, sarà imputato a questi ultimi. Dopo aver determinato il reddito del trust, il trustee indicherà la parte di esso attribuito al trust - sulla quale il trust stesso assolverà l’Ires - nonché la parte imputata per trasparenza ai beneficiari - su cui questi ultimi assolveranno le imposte sul reddito. In tal senso anche la Ris. n. 81/E del 7 marzo 2008. Riprendendo la Circ. n. 48/E del 2007 e le Ris. n. 278/E del 2007 e la n. 4/E del 2008 l’Agenzia è giunta alla conclusione che si realizza un trust misto in quanto dalla bozza dell’atto istitutivo del Trust in esame il trust Alfa “ha lo scopo di assistere economicamente il disponente e dopo la sua morte, i suoi discendenti in linea retta legittimi o legittimati fino al compimento del trentesimo anno di età conosciuti dai trustee”. Inoltre, “il trust costituirà un autonomo centro unitario di produzione del reddito (...). Il reddito del trust, assolto ogni costo relativo, sarà dai trustee mantenuto nel trust e utilizzato secondo gli specifici scopi da questo previsti; tuttavia, non potrà essere erogato più del 75% del reddito prodotto”.
In alternativa all’imposizione in capo al trust o ai beneficiari, taluni redditi di natura finanziaria sono soggetti a ritenuta a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva. Un trust che non esercita attività commerciale, compreso, quindi, tra i soggetti di cui all’art. 73, comma 1, lett. c), e che possiede, ad esempio, titoli soggetti alle disposizioni del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239 vede gli interessi, premi ed altri frutti relativi a detti titoli sottoposti ad imposizione sostitutiva, ai sensi dell’art. 2 del decreto sopra richiamato.
Sono altresì assoggettati a ritenuta d’imposta i redditi delle obbligazioni e titoli similari indicati nell’art. 26, comma 1 del DpR n. 600 del 1973 percepiti da trust non esercenti attività d’impresa commerciale. Inoltre, taluni redditi diversi di natura finanziaria indicati nell’art. 67, comma 1, lett. da c-bis) a c-quinquies) del Tuir, se percepiti da trust non commerciali residenti, sono assoggettati ad imposizione sostitutiva delle imposte sui redditi nella misura del 26% (fino al 2011, 12,50 per cento e dal 2012 al 30 giungo 2013, 20%).
Adempimenti del trust
Con riferimento allatenuta delle scritture contabili obbligatorie, l’art. 1, comma 76, della Legge Finanziaria ha modificato anche l’art. 13 del Dpr n.600/1973, introducendo l’obbligo in capo al trustee della tenuta delle scritture contabili obbligatorie per i Trust. Tale disposizione è valevole sia per
- i Trust che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, sia per
- quelli che non hanno come oggetto esclusivo o principale l’esercizio di siffatte attività.
In particolare, nel caso in cui il Trust abbia per oggetto esclusivo l’esercizio di un’attività commerciale, devono essere istituiti, tenuti e conservati, ai sensi del successivo art. 14 del Dpr n. 600/1973:
- il libro giornale e il libro degli inventari;
- i registri prescritti dal Dpr n. 633 del 26 ottobre 1972;
- le scritture ausiliarie nelle quali devono essere registrati gli elementi patrimoniali e reddituali, raggruppati in categorie omogenee;
- le scritture ausiliarie di magazzino (registro dei beni ammortizzabili e il registro riepilogativo di magazzino ex artt. 16 e 17 del Dpr 29 settembre 1973, n. 600, e i libri sociali obbligatori ex articolo 2421, primo comma del Codice civile).
Qualora il Trust eserciti l’attività commerciale in forma non esclusiva, lo stesso sarà obbligato alla tenuta delle scritture contabili ex art. 20 del Dpr n.600/1973, in base al quale si applicano le disposizioni previste per gli enti commerciali unicamente per la parte dell’attività esercitata avente natura commerciale (art. 20, comma 1, Dpr n. 600 del 29 settembre 1973, , “Le disposizioni degli artt. 14, 15, 16, 17 e 18 si applicano, relativamente alle attività commerciali eventualmente esercitate, anche agli enti soggetti all'imposta sul reddito delle persone giuridiche che non hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali”).
Nei casi in cui il periodo di imposta di un trust trasparente non coincida con l’anno solare, il reddito da questo conseguito è imputato ai beneficiari individuati alla data di chiusura del periodo di gestione del trust stesso.
UN ESEMPIO |
Si ipotizzi, un trust con beneficiari individuati il cui periodo di gestione, in base a quanto stabilito dall’atto istitutivo, sia compreso tra il 1° aprile e il 31 marzo. In tale caso, il trust presenta la propria dichiarazione entro il 31 ottobre (ultimo giorno del settimo mese successivo a quello di chiusura del periodo d’imposta, art. 2, comma 2, del Dpr. n. 322 del 22 luglio 1998,) e i beneficiari a loro volta dovranno inserire tale reddito nella dichiarazione relativa al periodo di imposta in cui è terminato il periodo di gestione del trust. |
Naturalmente se trustee è una trust company che amministra più trust, dovrà presentare una dichiarazione per ciascun trust.
Il trust è tenuto altresì ad adempiere gli obblighi formali e sostanziali relativi all’Irap previsti dal Dlgs n. 446 del 15 dicembre 1997, in quanto soggetto passivo rientrante, a seconda dell’attività svolta, nelle fattispecie di cui all’art. 3, comma 1, lett. a) ed e) del medesimo decreto.
Il trasferimento dei beni nel trust
Il trasferimento di beni in un trust ai fini delle imposte sui redditi sconta un trattamento differenziato che varia in funzione del soggetto che l’effettua (imprenditore o non imprenditore) e della tipologia di bene trasferito.
Qualora il trasferimento riguardi beni relativi all’impresa (beni merce, beni strumentali, beni patrimoniali), questi fuoriescono dalla disponibilità dell’imprenditore in quanto destinati a finalità estranee all’impresa.
Ciò comporta per il disponente imprenditore il conseguimento di componenti positivi di reddito da assoggettare a tassazione secondo le disposizioni del Tuir, nonché l’assoggettamento ad Iva ai sensi dell’art. 2, comma 2 n. 5 DpR n. 633 del 1972. In particolare, il trasferimento di beni merce comporterà il conseguimento di un ricavo d’esercizio ai sensi dell’art. 85, comma 2 del Tuir da quantificare sulla base del valore normale ai sensi dell’art. 9, comma 3, del Tuir.
Il trasferimento di beni diversi da quelli che generano ricavi (beni strumentali, beni patrimoniali dell’impresa), invece, genererà plusvalenze o minusvalenze rilevanti ai fini della determinazione del reddito d’impresa ai sensi degli artt. 58, 86 e 87 del Tuir. Anche in tali fattispecie il valore da prendere a riferimento per il calcolo della plusvalenza è il valore normale di cui al citato art. 9, comma 3.
Ove il trasferimento in trust abbia ad oggetto un’azienda, il relativo profilo fiscale deve essere esaminato alla luce del disposto dell’art. 58, comma 1, del Tuir che esclude il realizzo di plusvalenze in caso di trasferimento d’azienda per causa di morte o per atto gratuito; in tal caso l’azienda è assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa. La ratio della norma consente di ritenere che, nel caso di trasferimento dell’azienda in trust, si conservi la neutralità fiscale a condizione che il trustee assuma l’azienda agli stessi valori fiscalmente riconosciuti in capo al disponente.
Nel caso di beni diversi da quelli relativi all’impresa, il trasferimento al trust, in assenza di corrispettivo, non genera materia imponibile ai fini della imposizione sui redditi, né in capo al disponente non imprenditore né in capo al trust o al trustee.
Per quest’ultimo, infatti, anche se imprenditore, non si avranno sopravvenienze attive ex art. 88, comma 3, lett. b), del Tuir, in quanto i beni trasferiti in trust non si confondono con il patrimonio dell’imprenditore (trustee) ma, come visto in precedenza, costituiscono un patrimonio separato.
Qualora il trasferimento dei beni in trust abbia ad oggetto titoli partecipativi il trustee acquisisce l’ultimo costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione. Tale regime di neutralità non può, tuttavia, essere garantito nel caso in cui i titoli oggetto del trasferimento siano detenuti nell’ambito di un rapporto amministrato di cui all’articolo 6 del decreto legislativo 21 novembre 1997, n. 461; nella specie, infatti, il trasferimento dei titoli dal conto del settlor a quello del trust, poiché indirizzato verso un conto intestato a un soggetto diverso da quello di provenienza, ricade nell’ipotesi dell’articolo 6, comma 6, del citato d. lgs. n. 461 del 1997 che assimila tali trasferimenti a cessioni a titolo oneroso. In tal caso, l’intermediario abilitato applica le relative imposte.
Cessione dei beni in trust
Il trattamento fiscale della cessione dei beni durante la vita del trust non presenta particolari problemi operativi, in quanto desumibile dalle ordinarie disposizioni che ai fini delle imposte sui redditi disciplinano detta operazione.
In particolare, quando le cessioni siano poste in essere nell’esercizio dell’impresa, la relativa disciplina fiscale varia in funzione della categoria di appartenenza del bene ceduto.
Nel caso di cessioni non effettuate nell’esercizio dell’impresa potranno realizzarsi, ricorrendone i presupposti, le fattispecie reddituali previste dall’art. 67 del Tuir.
Per la determinazione delle plusvalenze dovrà farsi riferimento ai valori fiscalmente riconosciuti in capo al disponente, fermo restando che il trasferimento dei beni dal disponente al trustee non interrompe il decorso del quinquennio di cui all’art. 67, mentre nel caso di cessioni di beni acquistati dal trust si farà riferimento al prezzo pagato.
Disciplina dei redditi del beneficiario del trust
Il comma 74, lett. b), dell’art. unico della Legge n. 296 del 2007 aggiunge al comma 2 dell’art. 73 del Tuir il seguente periodo: “Nei casi in cui i beneficiari del trust siano individuati, i redditi conseguiti dal trust sono imputati in ogni caso ai beneficiari in proporzione alla quota di partecipazioni individuata nell’atto di costituzione del trust o in altri documenti successivi ovvero in mancanza in parti uguali”.
Secondo la Circ. 48/E del 2007, premesso che il presupposto di applicazione dell’imposta è il possesso di redditi, per “beneficiario individuato” è da intendersi il beneficiario di “reddito individuato”, vale a dire il soggetto che esprime, rispetto a quel reddito, una capacità contributiva attuale. “E’ necessario, quindi, che il beneficiario non solo sia puntualmente individuato, ma che risulti titolare del diritto di pretendere dal trustee l’assegnazione di quella parte di reddito che gli viene imputata per trasparenza”.
Infatti, a differenza dei soci delle società trasparenti, che possono autonomamente stabilire i criteri di distribuzione degli utili societari, i beneficiari di un trust non hanno alcun potere in ordine all’imputazione del reddito del trust, cui provvede unicamente il trustee sulla base dei criteri stabiliti dal disponente.
L’art. 73 dispone che i redditi siano imputati “in ogni caso” ai beneficiari, cioè indipendentemente dall’effettiva percezione, secondo un criterio di competenza. Tale precisazione si è resa necessaria per coordinare la tassazione per trasparenza del trust con la natura del reddito attribuito al beneficiario, che è considerato reddito di capitale.
Contrariamente, infatti, al principio di cassa che in via ordinaria informa la determinazione del reddito di capitale, nella tassazione per trasparenza il medesimo reddito viene imputato al beneficiario indipendentemente dall’effettiva percezione, secondo il principio della competenza economica.
Il reddito imputato per trasparenza verrà tassato secondo le aliquote personali del beneficiario. Naturalmente, l’effettiva percezione dei redditi da parte dei beneficiari rimane una mera movimentazione finanziaria, ininfluente ai fini della determinazione del reddito.
Ove abbia scontato una tassazione a titolo d’imposta o di imposta sostitutiva in capo al trust che lo ha realizzato, il reddito non concorre alla formazione della base imponibile, né in capo al trust opaco né, in caso di imputazione per trasparenza, in capo ai beneficiari.
Ad una doppia imposizione ostano i principi generali dell’ordinamento interno che impediscono l’imposizione in capo a più soggetti passivi di redditi prodotti o realizzati in dipendenza di uno stesso presupposto (art. 163 del Tuir).
Sulla base dei medesimi principi, i redditi conseguiti e correttamente tassati in capo al trust prima della individuazione dei beneficiari (quando il trust era “opaco”), non possono scontare una nuova imposizione in capo a questi ultimi a seguito della loro distribuzione.
Il credito d’imposta per le imposte pagate all’estero in via definitiva, disciplinato dall’articolo 165 del Tuir, spetta al trust nel caso di trust “opaco”. Qualora, invece, il trust sia “trasparente” ed il reddito sia imputato ai beneficiari, il credito d’imposta spetta ai singoli beneficiari in proporzione al reddito imputato, analogamente a quando disposto dall’art. 165, comma 9, per le società che hanno optato per il regime della trasparenza. Infine, nel caso in cui il trust attribuisca solo parte del reddito ai beneficiari e sia, quindi, in parte opaco e in parte trasparente, la detrazione spetta al trust e ai beneficiari in proporzione al reddito imputato.
Il comma 75 dell’art. unico della Legge n. 296 del 2007 inserisce all’art. 44 del Tuir, dopo la lett. g-quinquies), la lett. g-sexies), secondo cui sono redditi di capitale “i redditi imputati al beneficiario di trust ai sensi dell’articolo 73, comma 2, anche se non residenti;”.
Il trust residente imputa per trasparenza i propri redditi:
- ai beneficiari residenti;
- ai beneficiari non residenti.
In tale ultimo caso, il reddito attribuito al beneficiario non residente, viene tassato in Italia: trattandosi di reddito di capitale corrisposto da soggetto residente, infatti, lo stesso si considera prodotto in Italia ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. b) del Tuir.
Il trust non residente, che è soggetto passivo Ires per i soli redditi prodotti in Italia, imputa per trasparenza tali redditi ai:
- soli beneficiari residenti, quali titolari di redditi di capitale.
L’imposizione indiretta
L’art. 1, comma 47 del Dl n. 262 del 2006 prevede che è istituita l'imposta sulle successioni e donazioni, tra le altre, anche “sulla costituzione di vincoli di destinazione”.
Commentando la modifica la dottrina (uno per tutti A. Busani) che per considerare le modifiche che la disposizione coporta è necessario partire da due fondamentali considerazioni:
1. in generale, una imposta non può essere applicata in mancanza di una manifestazione di capacità contributiva in capo al contribuente a pena di sua incostituzionalità (e nell’ipotesi di donazione la capacità contributiva è inevitabilmente l’incremento patrimoniale che si verifica in capo al beneficiario dell’atto a titolo gratuito);
2. in particolare, le aliquote di imposta di donazione (4, 6 e 8 per cento) sono applicate in base al più o meno stretto rapporto di parentela tra donante e donatario.
Nel caso del Trust la manifestazione di capacità contributiva si ha solo con la devoluzione ai beneficiari finali (il cui rapporto di parentela o meno con il disponente permetterà di individuare l’aliquota d’imposta di donazione applicabile nel caso specifico). Ne consegue che al momento dell’affidamento dei beni in trust risulta applicabile l’imposizione di registro fissa (168 euro) così come si era espressa la maggior parte della giurisprudenza e della dottrina (Cfr. Ctr Venezia del 23.01.2003; Sent. Tribunale di Bologna, I sez. civ. del 28.04. 2000; Studio realizzato dal Gruppo di lavoro costituito presso la Direzione Regionale dell’Emilia Romagna, sui “profili civilistici e fiscali del trust”; Studio del Notariato n. 80/2003/T).
Senonchè durante Telefisco, l’Agenzia delle Entrate si era espressa nel senso che la istituzione del trust con trasferimento dei beni dal disponente al trustee dovesse scontare l’imposta di donazione; solo nel caso di vincoli di destinazione che vengano istituiti nel patrimonio del disponente (come accade nel caso del fondo patrimoniale), e quindi quando non c’è alcun effetto traslativo, le Entrate si sono espresse nel senso della applicabilità dell’imposta di registro in misura fissa.
Tale considerazione è stata poi sviluppata nella Circ. n. 48/E del 2007. Viene detto che la struttura giuridica del trust pone in evidenza i seguenti elementi o presupposti impositivi rilevanti agli effetti delle imposte indirette:
- l’atto istitutivo;
- l’atto dispositivo;
- eventuali operazioni compiute durante il trust;
- il trasferimento dei beni ai beneficiari.
L’atto istitutivo con il quale il disponente esprime la volontà di costituire il trust, che non contempli anche il trasferimento di beni nel trust (disposto in un momento successivo), se redatto con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, sarà assoggettato all’imposta di registro in misura fissa ai sensi dell’articolo 11 della Tariffa, parte prima, del Dpr n. 131, quale atto privo di contenuto patrimoniale.
L’atto dispositivo con il quale il settlor vincola i beni in trust è un negozio a titolo gratuito.
L’articolo 6 del decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262, rubricato “Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria” ha dettato una specifica disciplina per la costituzione di vincoli di destinazione”, prevedendone l’assoggettamento all’imposta di registro. E’ questo il primo approccio della normativa nazionale al trattamento del trust ai fini delle imposte indirette, posto che il trust, per le caratteristiche essenziali che lo contraddistinguono,è riconducibile nella categoria dei vincoli di destinazione.
Il regime fiscale introdotto dal Dl n. 262 del 2006 è stato successivamente modificato dalla legge di conversione 24 novembre 2006, n. 286. Quest’ultima legge, che non ha convertito il predetto articolo 6 del decreto, ha invece ripristinato l’imposta sulle successioni e donazioni, siccome disciplinata dal Testo Unico 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente al 25 ottobre 2001. Contestualmente, ha disposto l’applicazione di tale imposta “alla costituzione dei vincoli di destinazione” (Dl n. 262 del 3 ottobre 2006, convertito con modificazioni dalla Legge n. 286 del 24 novembre 2007, art. 2, commi da 47 a 49).
Da ultimo, la Legge n. 296 del 2007 ha integrato la disciplina dell’imposta in esame, introducendo, tra l’altro, determinate franchigie in favore dei parenti in linea collaterale e dei portatori di handicap, nonché esenzioni per il trasferimento a favore dei discendenti, di aziende o rami di esse, di quote sociali o di azioni (art. 1, commi da 77 a 79).
Attualmente, pertanto, la costituzione dei vincoli di destinazione è soggetta all’imposta sulle successioni e donazioni secondo le disposizioni stabilite all’art. 2, commi da 47 a 49, del Dl n. 262 del 2006.
Come accennato, il trust comporta la segregazione dei beni del settlor in un patrimonio separato gestito dal trustee (che nel trust autodichiarato - anch’esso rilevante ai fini dell’imposta in esame - coincide con il settlor).
Il conferimento di beni nel trust (o il costituito vincolo di destinazione che ne è l’effetto) va assoggettato, pertanto, all’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale, sia esso disposto mediante testamento o per atto inter vivos.
Da quanto precede secondo l’Amministrazione finanziaria ne deriva che (Cfr. Circ. 48/E del 2007):
- Il trust si sostanzia in un rapporto giuridico complesso che ha un’unica causa fiduciaria. Tutte le vicende del trust (istituzione, dotazione patrimoniale, gestione, realizzazione dell’interesse del beneficiario, il raggiungimento dello scopo) sono collegate dalla medesima causa.
- Ciò induce a ritenere che la costituzione del vincolo di destinazione avvenga sin dall’origine a favore del beneficiario (naturalmente nei trust con beneficiario) e sia espressione dell’unico disegno volto a consentire la realizzazione dell’attribuzione liberale.
- Conseguentemente, ai fini della determinazione delle aliquote, che si differenziano in dipendenza del rapporto di parentela e affinità (all’art. 2, commi da 47 a 49, del Dl n. 262 del 2006), occorre guardare al rapporto intercorrente tra il disponente e il beneficiario (e non a quello tra disponente e trustee).
Ai fini dell’applicazione sia delle aliquote ridotte sia delle franchigie, il beneficiario deve poter essere identificato, in relazione al grado di parentela con il disponente, al momento della costituzione del vincolo. Ad esempio, per poter applicare l’aliquota del 4% prevista tra parenti in linea retta, è sufficiente sapere che il beneficiario di un trust familiare sarà il primo nipote al conseguimento della maggiore età.
Nel trust di scopo, gestito per realizzare un determinato fine, senza indicazione di beneficiario finale, l’imposta sarà dovuta con l’aliquota dell’8% prevista per i vincoli di destinazione a favore di “altri soggetti” ( d.l. n. 262/2006 art. 2, comma 48, lett. c).
In applicazione del comma 4-ter dell’art. 3 del d. lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 introdotto dal comma 78 dell'art. 1 della Legge n. 296 del 2007, la costituzione del vincolo di destinazione in un trust disposto a favore dei discendenti del settlor non è soggetto all’imposta qualora abbia ad oggetto aziende o rami di esse, quote sociali e azioni.
Le modalità di applicazione delle imposte ipotecaria e catastale alla costituzione di vincoli di destinazione, in mancanza di specifiche disposizioni, sono stabilite dal Testo Unico delle imposte ipotecaria e catastale, approvato con Dlgs. 31 ottobre 1990, n. 347.
Tali imposte sono dovute, rispettivamente, per la formalità della trascrizione di atti aventi ad oggetto beni immobili o diritti reali immobiliari e per la voltura catastale dei medesimi atti. Le stesse imposte sono dovute in misura proporzionale relativamente alla trascrizione di atti che conferiscono nel trust, con effetti traslativi, i menzionati beni e diritti.
Pertanto, sia l’attribuzione con effetti traslativi di beni immobili o diritti reali immobiliari al momento della costituzione del vincolo, sia il successivo trasferimento dei beni medesimi allo scioglimento del vincolo, nonché i trasferimenti eventualmente effettuati durante il vincolo, sono soggetti alle imposte ipotecaria e catastale in misura proporzionale.
Durante la vita del trust, il trustee può compiere operazioni di gestione del patrimonio. Eventuali atti di acquisto o di vendita di beni sono soggetti ad autonoma imposizione, secondo la natura e gli effetti giuridici che li caratterizzano, da esaminare volta per volta con riferimento al caso concreto.
La devoluzione ai beneficiari dei beni vincolati in trust non realizza, ai fini dell’imposta sulle donazioni, un presupposto impositivo ulteriore; i beni, infatti, hanno già scontato l’imposta sulla costituzione del vincolo di destinazione al momento della segregazione in trust. Inoltre, poiché la tassazione, che ha come presupposto il trasferimento di ricchezza ai beneficiari finali, avviene al momento della costituzione del vincolo, l’eventuale incremento del patrimonio del trust non sconterà l’imposta sulle successioni e donazioni al momento della devoluzione.
ARTICOLO - Pubblicato il: 1 gennaio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
NOTARELLE IN MERITO AGLI ASPETTI CIVILISTICI DEL CONFERIMENTO D’AZIENDA
Di seguito si analizzano alcuni interventi di prassi e dottrina intervenuti negli anni scorsi che hanno riguardato i conferimento d’azienda.
Nello specifico si tratta:
- Della necessità (civilistica) di effettuare il conferimento a “saldi chiusi”
- Della possibilità (civilistica) di non far emergere plusvalenze
- Della necessità (civilistica) dell’iscrizione della plusvalenza in capo alla conferente e della disponibilità (civilistica) della riserva nascente
- Iscrizione dell’imposizione differita
- Dell’eliminazione (civilisitica) dell’imposizione differita a seguito dell’affracamento fiscale delle divergenze nascenti in capo alla conferente
1) Necessità (civilistica) di effettuare il conferimento a saldi chiusi
L’operazione di conferimento è, dal punto di vista civilistico, un’operazione realizzativa e in quanto tale nella generalità dei casi avviene invece a saldi chiusi sia per i soggetti che redigono il bilancio secondo i principi contabili nazionali, sia per quelli che adottano i principi contabili internazionali IAS/IFRS (Cfr. l’Assonime nella Circ. 51 del 12 settembre 2008).
Va anche detto che per i soggetti che adottano i principi contabili nazionali, in dottrina si discute se, ai fini civilistici, la società conferitaria debba contabilizzare i beni sempre a saldi chiusi, in conformità alla natura di atto di trasferimento di beni ovvero anche a saldi aperti (in continuità di valori, come in sede fiscale) nella particolare ipotesi in cui l’azienda venga presa in carico dalla società conferitaria agli stessi valori iniziali del soggetto conferente. Si tratta di una questione aperta con alterne posizioni interpretative.
Con riguardo ai soggetti che applicano gli IAS/IFRS, l’operazione di conferimento viene contabilizzata dal soggetto conferitario a saldi chiusi qualora l’azienda ricevuta sia oggetto di acquisizione nell’ambito di una business combination. In questa ipotesi, cioè, i beni dell’azienda ricevuta sono iscritti in bilancio al rispettivo fair value e l’eventuale eccedenza tra il fair value delle partecipazioni emesse per acquisire tali beni e il loro valore complessivo netto è imputata ad una voce di avviamento (se positiva) o come componente positiva di natura straordinaria (se negativa), in applicazione dell’IFRS 3. La neutralità dell’operazione implica che quest’ultima componente, anche se imputata a conto economico non debba concorrere alla formazione dell’imponibile.Se invece si tratta di operazioni di conferimento infragruppo prive di un significativo impatto sui flussi di cassa (cd. business combination under common control), secondo l’opinione dell’Assirevi (OPI n. 1) – non potendosi applicare l’IFRS 3 – dovrebbe essere adottato un criterio di rappresentazione contabile ispirato alla continuità, rilevando le attività e le passività a saldi aperti. In quest’ottica, il soggetto conferente dovrebbe imputare il maggior valore di apporto dell’azienda ad una apposita riserva patrimoniale, mentre il soggetto conferitario dovrebbe imputare la differenza tra valori storici e valori di trasferimento dell’azienda ricevuta ad una riserva negativa del patrimonio netto. Al limite, secondo l’Assirevi, sarebbe possibile applicare il principio di continuità assumendo in luogo del costo storico dell’azienda, quello eventualmente risultante dal bilancio consolidato della capogruppo che controlla entrambi i soggetti che prendono parte all’operazione. In dottrina, la tesi fin qui descritta ha sollevato talune perplessità. E’ stato, in particolare, osservato che sarebbe difficile conciliare l’impostazione anzidetta con la ricostruzione civilistica dell’operazione che vede il conferimento quale atto di trasferimento tra soggetti giuridicamente distinti (cui peraltro possono partecipare diversi soci di minoranza), nonché con le norme di diritto societario in base alle quali i maggiori valori di apporto dovrebbero consentire di sottoscrivere un aumento di capitale piuttosto che concorrere ad una riduzione del patrimonio netto. E’ stato altresì messo in rilievo che la tesi anzidetta, a ben vedere, non sembra trovare pieno conforto negli stessi principi sistematici desumibili dagli IAS/IFRS. In generale, infatti, i principi contabili internazionali dispongono che l’acquisizione di un bene debba essere rilevata iscrivendo tale bene al fair value del suo corrispettivo costituito dalle partecipazioni emesse (cfr. IFRS 2, IAS 27, IAS 39 e IAS 32). Rispetto a questa regola generale l’IFRS 3 costituisce una deroga nel senso di consentire l’iscrizione delle aziende acquisite al fair value dei beni che le compongono ed imputando l’eccedenza del costo di acquisizione ad avviamento. In altri termini, l’IFRS 3, a differenza degli altri principi contabili, consente di iscrivere i beni al loro fair value anche se superiore al loro costo complessivo di acquisizione (fair value delle partecipazioni). Se così è le operazioni di conferimento di azienda under common control, pur non potendo ricondursi alla deroga contenuta nell’IFRS 3, dovrebbero comunque poter essere rappresentate secondo la regola generale, ossia con iscrizione dell’azienda al fair value delle partecipazioni emesse per acquisirla. In quest’ottica, dunque, anche i conferimenti che costituiscono operazioni di mera riorganizzazione, dovrebbero essere contabilizzate a saldi chiusi e non in regime di continuità. In altri
termini, in base a questa diversa ricostruzione, partendo dal presupposto che i principi contabili internazionali sono tesi a regolare, in prima battuta, i bilanci consolidati e che in quest’ottica ben si spiega che l’IFRS 3 si riferisca al passaggio del controllo fra società indipendenti (e non fra società appartenenti al medesimo gruppo), la rappresentazione in continuità delle operazioni under common control dovrebbe logicamente trovare spazio solo nel bilancio consolidato e non anche nel bilancio separato di ciascuna delle società aggregate.
2) Possibilità (civilistica) di non far emergere plusvalenze
Secondo la giurisprudenza è ammesso civilisticamente, dare corso al conferimento emettendo azioni o quote a un prezzo inferiore al valore effettivo dei beni ricevuti in apporto è ammessa dal Codice civile (Cfr. per tutti, Tribunale di Milano, 15 ottobre 1987; Abi, circolari 7 agosto 1990, n. 43, pag. 14 e 30 marzo 1998, n. 7, pag. 19, nota 25). In particolare nell'ottica del Codice civile, il valore normale dei beni costituisce solo il limite massimo dell'aumento del capitale sociale a fronte dei conferimenti in natura. Tanto, è agevolmente ricavabile,tra l'altro, sia dalla disciplina ordinaria (articoli 2343 e 2465 del Codice civile), sia dalla circostanza che, in base all'articolo 2343 quater, gli amministratori devono attestare per i conferimenti senza perizia che il valore attribuito ai beni «è almeno pari» a quello corrispondente all'aumento di capitale sociale. Nulla vieta, quindi, che, in particolare nelle società non Ias, le parti possano decidere, a fronte di un valore di mercato dei beni, per esempio, stimato pari a 1.000, di eseguire il conferimento per 900 (come pure di aumentare il capitale sociale di 800 e attribuire a riserva la differenza di 200).
Massime dei Notai del Triveneto in tema di conferimenti S.p.a H.A.8 – S.r.l. I.A.8: I conferimenti in natura possono avvenire anche per un valore nominale delle azioni con essi liberate, comprensivo del sovrapprezzo, inferiore a quello reale dei beni conferiti.
E’ sottinteso che quanto appena detto assume rilevanza pratica nell’ambito di operazioni di riorganizzazione societaria che prevedono, per la realizzazione, anche operazioni di conferimento (quindi, sostanzialmente in caso di conferimento di aziende o di partecipazioni in una società di nuova costituzione ovvero in una società (già) controllata). In caso, viceversa, di operazioni di conferimento anche nella sostanza realizzative, nel senso che interessano terze economie, è nell’interesse delle parti fare emergere le plusvalenze latenti .
3) Necessità (civilistica) dell’iscrizione della plusvalenza in capo alla conferente e della disponibilità (civilistica) della riserva nascente
Quanto all’iscrizione in bilancio dell’eventuale plusvalenza, va rilevato che l’operazione di conferimento è un’operazione (dal punto di vista civilistico) realizzativa; ne consegue che nel bilancio dell’esercizio in cui il conferimento viene effettuato va rilevata la plusvalenza nascente dall’operazione. E’ questione controversa se ciò valga anche in caso di conferimento di aziende o di partecipazioni in una società di nuova costituzione ovvero in una società (già) controllata; in tal caso si tratta di proventi che hanno origine all'interno di un gruppo con la conseguenza che si pone il problema di chiarire se gli stessi possano essere considerati "utili realizzati" e possano, conseguentemente, essere imputati a conto economico (Cfr. La plusvalenza partecipa all’utile, F. Rossi Ragazzi, Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2007).
Sul punto anche la Consob (comunicazione 94004211/94), ha ampiamente condiviso la rilevanza attribuita in sede di determinazione del risultato d'esercizio della plusvalenza da conferimento in una società controllata «ancorché abbia avuto origine all'interno del gruppo … in ossequio al principio dell'alterità dei soggetti giuridici, ma a condizione che l'operazione non sia manifestamente artificiosa (…) ». Il che significa che questo principio non è applicabile in presenza di operazioni prive di valide ragioni economiche e finalizzate esclusivamente alla "realizzazione" di plusvalori da destinare alla copertura di perdite di bilancio.
A ciò si aggiunga che anche la terminologia adottata dal legislatore ai fini del bilancio consolidato conferma quanto ora affermato laddove, nel dettare i principi di consolidamento (articolo 31 del Dlgs 127/91), dopo aver espressamente previsto che «i proventi e gli oneri delle imprese incluse nel consolidamento sono ripresi integralmente», dispone che «sono invece eliminati (...) i proventi e gli oneri relativi ad operazioni effettuate tra le imprese medesime». E poiché il punto di partenza per la redazione del bilancio consolidato sono i bilanci d'esercizio delle singole società comprese nell'area di consolidamento, appare evidente come, nel riferirsi alla "eliminazione" di proventi e oneri, il legislatore lasci chiaramente intendere che si tratta di elementi reddituali che hanno legittimamente trovato rilevazione nel bilancio d'esercizio delle singole società.
Peraltro, ai fini del bilancio consolidato, gli "utili interni" (derivanti da operazioni poste in essere con le società del gruppo) debbono essere eliminati non perché privi del requisito del "realizzo", bensì in quanto non sono rappresentativi degli utili conseguiti dal gruppo che il bilancio consolidato deve esprimere.
In senso conforme si è anche espressa l'Assirevi, nel documento di ricerca approvato dalla Commissione tecnica il 12 gennaio 1998, laddove, in merito al trattamento contabile dei conferimenti di aziende, ha precisato che «ai fini civilistici (...) la plusvalenza di cui sopra è realizzata e pertanto va iscritta a conto economico tra i Proventi straordinari...».
Con riguardo alla distribuibilità ai soci della plusvalenza da conferimento si osserva, per compiutezza, che la Consob ha ravvisato semplicemente «l'opportunità che la politica di distribuzione degli utili scaturenti dall'operazione in questione sia il più possibile correlata con la realizzazione finanziaria dei plusvalori», con ciò implicitamente ammettendo che un'eventuale distribuzione degli utili de quibus non può ritenersi illegittima; anche se il principio della prudenza induce a ritenere che gli utili medesimi vengano distribuiti, quanto meno, "in misura parallela" agli ammortamenti effettuati dalla società conferitaria sui beni ricevuti.
E sempre per compiutezza si richiama l'attenzione in ordine alla circostanza che le conclusioni fin qui esposte non sono certamente applicabili ai soggetti che adottano i princìpi contabili internazionali qualora il conferimento non si qualifichi "business combination", vale a dire non si tratti di una "aggregazione aziendale" mediante la quale una sola entità (acquirente) ottiene il controllo di una o più attività aziendali distinte.
4) Iscrizione dell’imposizione differita
Note circ 51-2008 assonime
I principi contabili – sia nazionali (cfr. OIC n. 25) che internazionali (IAS 12) prevedono che in sede di effettuazione di operazioni di aggregazione aziendale fiscalmente neutrali (conferimento di azienda, fusione e scissione) a fronte dei maggiori valori iscritti ai fini civilistici, si rilevino le corrispondenti imposte differite passive.
La differenza temporanea è pari alla differenza tra il valore attribuito ad una attività o ad una passività secondo criteri civilistici ed il valore attribuito a quell'attività o a quella passività ai fini fiscali.
La contabilizzazione avviene attraverso l’ incremento corrispondente del l'importo attivo, purché il valore finale del bene non superi quello effettivo. In pratica si calcola il maggior valore al lordo delle imposte differite, iscrivendolo all'attivo, con un corrispondente fondo imposte nel passivo.
Per quanto riguarda l’avviamento, lo IAS 12 e l’IFRS 3 dispongono che la sua determinazione avvenga considerando, tra le attività e le passività rilevabili a seguito dell’operazione di aggregazione aziendale, anche i valori patrimoniali connessi alla fiscalità differita. Tuttavia, in deroga a questa regola generale, lo IAS 12, par. 21, non consente di iscrivere le imposte differite passive corrispondenti all’avviamento rilevato a seguito di una aggregazione aziendale a motivo del fatto che tale posta è di carattere residuale ed, in particolare, corrisponde all’eccedenza (positiva) tra il fair value delle partecipazioni emesse per realizzare l’acquisizione ed il fair value delle attività e delle passività che compongono l’azienda acquisita. Il principio contabile IAS 12 non permette di contabilizzare le imposte differite passive connesse al goodwill perché in contropartita a tale stanziamento sarebbe richiesta la rilevazione di un incremento dello stesso goodwill che non corrisponderebbe più, in valore assoluto, all’eccedenza tra il fair value del costo dell’acquisizione e il fair value dei beni acquisiti.
5) Eliminazione (civilisitica) dell’imposizione differita a seguito dell’affrancamento
Il documento interpretativo n. 3 del 2009 dell’ Oic dopo aver ricordato che la presenza di un disallineamento tra valori “civilistici” e valori “fiscali” rappresenta una differenza temporanea, che di norma determina la rilevazione di imposte differite passive in sede di contabilizzazione dell’operazione straordinaria. Pertanto, l’affrancamento dei maggiori valori mediante il pagamento dell’imposta sostitutiva determina l’eliminazione della residua differenza temporanea tassabile comportando lo storno in contropartita del conto economico delle relative imposte differite.
La rilevazione degli effetti dell’eliminazione del fondo imposte differite nel conto economico dell’esercizio, è basata sul presupposto che in ogni caso quel fondo imposte differite avrebbe prodotto i propri effetti a conto economico, attraverso l’utilizzo dello stesso in corrispondenza degli ammortamenti del maggior valore attribuito all’immobilizzazione immateriale. Quindi il venir meno della differenza temporanea imponibile che aveva generato il fondo in un’unica soluzione, deve seguire lo stesso trattamento contabile che lo stesso avrebbe subito se la differenza temporanea si riducesse nel corso di più esercizi, fino all’azzeramento. Gli effetti contabili derivanti dall’eliminazione della differenza temporanea sono rilevati a conto economico alla voce E22 – “Imposte sul reddito dell’esercizio, correnti, differite e anticipate”, con separata indicazione , ove rilevante, delle relative componenti.
Nelle note al bilancio saranno adeguatamente commentati gli effetti derivanti dall’adesione alla opzione di cui al decreto legge n. 185/2008 distinguendoli da quelli derivanti dalla fiscalità ordinaria.
La decisione dell’impresa di aderire all’affrancamento delle attività immateriali escluso l’avviamento, comporta l’iscrizione di un costo nell’esercizio in cui questa decisione è presa. Infatti, coerentemente con quanto già previsto per l’utilizzo del Fondo imposte differite, si può ritenere che a fronte del beneficio espresso nel conto economico per il venir meno della differenza temporanea sulle immobilizzazioni immateriali, l’impresa sostiene un costo – pari al debito tributario per la sostitutiva – che mitiga tale beneficio. Per effetto di questo trattamento contabile l’impresa rileva a conto economico nella voce E22 il costo relativo all’affrancamento.
Quanto appena detto non vale per l’avviamento. Per tale posta, in caso di fusioni, l’OIC 4, stabilisce che l’avviamento, laddove esso esista, è rilevato come posta residuale successivamente all’imputazione del disavanzo di fusione agli elementi dell’attivo o del passivo. E’ questa l’impostazione espressamente disciplinata dallo IAS 12 che prevede e motiva l’eccezione in merito all’iscrizione di differite passive “in quanto l’avviamento è valutato come valore residuo e la rilevazione della passività fiscale differita ne incrementerebbe il valore contabile”. Tale trattamento contabile risulta coerentemente applicabile anche alla disciplina italiana, in operazioni di conferimento o scissione oltre che per le fusioni.
In assenza di un fondo imposte differite sull’avviamento, non è possibile rilevare immediatamente in bilancio il beneficio fiscale conseguente all’adesione al regime fiscale dell’affrancamento dell’avviamento. Pertanto, a fronte dell’iscrizione del debito tributario per il pagamento della sostitutiva, il documento interpretativo 3/2009 dell’Oic non ritiene necessario imputare immediatamente a conto economico l’intero ammontare della sostitutiva, in quanto, a differenza di quanto previsto per le altre poste, viene meno il contemporaneo rilascio a conto economico del fondo imposte differite, e la relativa correlazione con il futuro beneficio fiscale. Da qui la conseguente possibilità di differimento dell’onere connesso con il debito dell’imposta sostitutiva.
Nella fattispecie dell’affrancamento dell’avviamento, - che secondo la disciplina nazionale va ammortizzato nel bilancio d’esercizio - l’imposta sostitutiva assume il connotato di anticipazione di future imposte correnti recuperabili in più esercizi.
Si tratta di un costo sostenuto nell’esercizio, i cui benefici saranno rilevati contabilmente dall’impresa solo negli esercizi futuri attraverso la deducibilità fiscale totale o parziale degli ammortamenti dell’avviamento. L’iscrizione di tale anticipazione di imposte correnti future è rilevata nella voce II – Crediti, 4 ter) imposte anticipate dello stato patrimoniale, con separata indicazione degli effetti legati a tale disposizione. Inoltre, sarà fornita nella nota integrativa l’informativa necessaria indicata nell’OIC 25.
Tenuto conto che i benefici economici attesi dall’attività iscritta in bilancio si manifesteranno attraverso la deducibilità per intero o in parte dell’ammortamento dell’avviamento alla data d’iscrizione dell’anticipazione di future imposte correnti e ad ogni successiva chiusura contabile, sarà necessario verificare la recuperabilità dell’attività iscritta conformemente a quanto già previsto dall’OIC 25 in tema di attività per imposte anticipate: “L'ammontare delle imposte anticipate iscritto in bilancio è rivisto ogni anno in quanto occorre verificare se continua a sussistere la ragionevole certezza di conseguire in futuro redditi imponibili fiscali e quindi la possibilità di recuperare l'intero importo delle imposte anticipate”.
ARTICOLO - Pubblicato il: 1 gennaio 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
NOTARELLE IN MERITO AGLI ASPETTI FISCALI DEL CONFERIMENTO D’AZIENDA
Di seguito si analizzano alcuni interventi di prassi e dottrina intervenuti negli anni scorsi che hanno riguardato i conferimento d’azienda.
Nello specifico si tratta:
- Dell’ affrancamento l’imposta differita
- Dell’intrasferibilità dell’avviamento iscritto nella conferente
- Del valore riallineabile con la sostitutiva e mantenimento delle divergenze civilistiche-fiscali
- Della deducibilità extracontabile dei (maggiori) ammortamenti fiscali riconosciuti in capo alla conferente
- Della natura (fiscale) delle riserve nascenti in capo alla conferitaria e alla conferente
1) Affrancarmento dell’imposta differita
Secondo la ris. dell’Ag. delle entrate n. 50/E dell’11 giugno 2010 l'assoggettamento a imposta sostitutiva può riguardare anche gli ulteriori importi iscritti all'attivo in contropartita del fondo imposte differite. L'agenzia ha osservato che l'articolo 172, comma 10-bis del Tuir, consente di affrancare i maggiori valori iscritti in operazioni di fusione, dando rilevanza a tutte le differenze civili-fiscali che si originano nell'operazione secondo corretti principi contabili, senza porre limiti in relazione all'importo del disavanzo. L'intero maggior valore potrà dunque usufruire dell'affrancamento.
A tale proposito, e più in generale per tutte le operazioni di aggregazioni aziendali fiscalmente neutrali (conferimento di azienda, fusione e scissione), la formulazione del comma 2-ter dell’art. 176 del TUIR e dell’art. 2 del D.M. 25 luglio 2008, nonché la relazione illustrativa alla legge n. 244 del 2007, prevedono che “l’applicazione dell’imposta sostitutiva, tanto nell’operazione di conferimento quanto in quella di fusione e scissione, è finalizzata ad ottenere il riconoscimento dei maggiori valori dei cespiti iscritti in bilancio e non a tramutare la natura dell’operazione da neutrale in realizzativa”.
Va ricordato che la base di calcolo della sostitutiva è costituita, non già dal disallineamento originario, ma da quello residuo al termine dell'esercizio precedente all'opzione. Ciò impedisce, come noto (Assonime, circolare 51/2008), di dare riconoscimento fiscale agli ammortamenti stanziati e non dedotti nell'anno della fusione (e in quello successivo se l'opzione si effettua nel secondo esercizio).
Il caso affrontato nella risoluzione è il seguente: viene effettuata un’operazione di fusione dalla quale scaturisce un disavanzo da annullamento che la società incorporante contabilizza a incremento delle immobilizzazioni materiali. I maggiori valori vengono rilevati al lordo delle imposte differite, iscritte al passivo con l'aliquota del 31,4% (Ires e Irap). In pratica, fatto 100 l'importo del disavanzo, la rivalutazione dell'attivo sarà di 145,773 e il fondo imposte differite di 45,773 (pari al 31,4% dell'attivo).
La società aveva chiesto alle Entrate se, volendo applicare l'imposta sostitutiva, fosse consentito attribuire riconoscimento fiscale, non solo all'importo del disavanzo effettivo (100) ma anche all'ulteriore valore rilevato per effetto della contabilizzazione del fondo imposte (45,773).
Si consideri il caso di Alfa Srl con una partecipazione (100%) in Beta Spa per un valore di 1.000 euro.
Il patrimonio netto di Beta Spa è di 200 euro, costituito da: Immobili 300 euro - Debiti 100 euro.
Nel 2009 si attua la fusione di Beta in Alfa e si genera un disavanzo da annullamento pari a (1.000 - 200) = 800 euro.
Il disavanzo viene contabilizzato ad aumento del valore dell'immobile proveniente dall'incorporata Beta Spa.
Il valore effettivo dell'immobile è paria 1.500 euro.
La fiscalità differita: 31,4% (27,5% Ires + 3,9% Irap).
Il calcolo del maggior valore da iscrivere all'attivo con fiscalità differita(X) è : (X - 31,4% x X) = 800; X = 1.166 euro.
Il fondo imposte differite è quindi pari a: (1.166 x 31,4%) = 366 euro.
La scrittura contabile è la seguente:Immobili 1.166 a a fondo imp. differite 366 a disavanzo fusione 800
Il nuovo valore immobile: euro (300 + 1.166) = 1.466 euro (inferiore al valore di mercato)
L’iscrizione dell’imposta è previsto dai principi contabili, sia nazionali (cfr. OIC n. 25) che internazionali (IAS 12), i quali impongono che in sede di effettuazione di operazioni di aggregazione aziendale fiscalmente neutrali (conferimento di azienda, fusione e scissione) di rilevare, a fronte dei maggiori valori iscritti ai fini civilistici, le corrispondenti imposte differite passive. La contabilizzazione avviene attraverso l’ incremento corrispondente del l'importo attivo, purché il valore finale del bene non superi quello effettivo. In pratica si calcolerà il maggior valore al lordo delle imposte differite, iscrivendolo all'attivo, con un corrispondente fondo imposte nel passivo.
Si noti come la rilevanza del maggior valore anche oltre il disavanzo comporta differenti effetti fiscali qualora la società, avendo adottato immediatamente la scelta per l'affrancamento, iscriva le imposte differite nel bilancio post fusione con la stessa aliquota dell'imposta sostitutiva che andrà a versare nell'anno successivo (ad esempio al 12% anziché al 31,4%). In questo caso, infatti, l'incremento dell'attivo affrancabile sarà inferiore a quello indicato nella risoluzione.
La risposta è fornita in merito a una operazione di fusione ma, stando il contenuto della norma fiscale che tratta di tutte le operazioni di aggregazione fiscale neutrale (Cfr. art. 176, co. 2-ter del Tuir e art. 15 del Dl 185/2008), vale anche per le scissioni e i conferimenti.
2) Intrasferibilità dell’avviamento (fiscale) iscritto nella conferente
Secondo la cir. 8/E del 4 marzo 2010 il valore (fiscale) dell’avviamento eventualmente iscritto in capo al conferente prima dell’operazione di conferimento, non si trasferisce alla conferitaria e quindi rimane (fiscalmente) nella “disponibilità” della conferente.
Più precisamente, secondo quanto previsto dall’Amministrazione finanziaria:
– Il soggetto conferente, assume, quale valore delle partecipazioni ricevute, il valore fiscale dell’azienda conferita (da cui si è escluso l’avviamento ad essa riferibile).
Se l’avviamento aveva un valore fiscale - in quanto frutto di una precedente acquisizione, ovvero, in caso di operazioni di aggregazioni neutrali, in quanto affrancato ex art. 176 co. 3-ter del Tuir o art. 15 del Dl 185/2008 - questo continua a essere dedotto anche se civilisticamente la posta viene stralciata per effetto del conferimento. Così nel caso di affrancamento ex Dl 185/2008 la deduzione continuerà per noni( Cfr, art. 15, comma 10 del Dl 185/2008); negli altri casi per diciottesimi (Cfr. art. 103, comma 3-bis del Tuir). Nulla viene detto in caso di conferimento dell’unica azienda da parte dell’imprenditore individuale. In questo caso, considerato che lo stesso perde la qualifica di imprenditore (tant’è che le partecipazioni sono, obbligatoriamente acquisite nella sua sfera personale - cfr. art. 176 co. 2-bis e Circ. n.52/E del 10 dicembre 2004) il valore fiscale dell’avviamento si ritiene debba essere dedotto per intero nel periodo d’imposta di conferimento; ciò al pari di quanto previsto per i differimenti di tassazione del Tuir (vale a dire plusvalenze rateizzate, manutenzioni, vecchie spese di rappresentanza ecc.) che a “cascata” concorrono alla determinazione del reddito dell’ultimo periodo d’imposta (Cfr. chiarimenti del Sottosegretario alle Finanze durante i lavori in Commissione Finanze della Camera in data 12 giugno 1990).
– Il soggetto conferitario, in virtù del principio di neutralità che caratterizza fiscalmente tale operazione, subentra in tutti i valori fiscali che l’azienda conferita aveva presso il soggetto conferente, escluso il valore dell’avviamento. E’ sottinteso che qualora si verifichino i presupposti per l’iscrizione ex novo di una posta a titolo di avviamento, il soggetto conferitario potrà optare per il regime dell’imposta
sostitutiva di cui all’art. 15, comma 10, del Dl n. 185/2008 ovvero ai sensi dell’art. 176, comma 2-ter, del Tuir.
L’Amministrazione finanziaria giunge a queste conclusioni sulla base di una interpretazione letterale dell’art. 176 del Tuir secondo il quale “(…) il soggetto conferitario subentra nella posizione di quello conferente in ordine agli elementi dell’attivo e del passivo dell’azienda stessa”. Se ne dedurrebbe, secondo l’amministrazione, che “il concetto di azienda conferita debba ricondursi al complesso delle attività e delle passività che il soggetto conferente trasferisce al soggetto conferitario per effetto e a causa dell’operazione straordinaria in esame. In tale contesto, considerato che il valore dell’ “asset” avviamento non è oggetto di trasferimento (ma viene stornato dalla contabilità del soggetto conferente in conseguenza della perdita di valore scaturente dalla “dismissione” del compendio aziendale di riferimento), tale posta contabile deve essere esclusa dal concetto di azienda conferita, così come definita dal citato art. 176, comma 1, del Tuir. Ciò anche nella ipotesi in cui, sotto il profilo contabile, il valore dell’avviamento sia incluso nel valore delle attività dismesse ai fini della quantificazione dell’utile o della perdita da conferimento. Pertanto, sotto il profilo fiscale, il valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita equivale alla somma algebrica dei valori fiscali di tutti gli elementi patrimoniali trasferiti, escluso il valore fiscale (che resta in capo al soggetto conferente) dell’asset avviamento riferibile al compendio aziendale trasferito”.
L’Amministrazione ne da poi un’altra giustificazione. Viene detto che “le suddette conclusioni (…) derivano da una duplice serie di considerazioni:
- la quantificazione dell’avviamento da cancellare deriva da un processo di natura necessariamente valutativa del tutto simile al processo di stima seguito per il test di impairment (così come previsto dallo IAS 36);
- l’operazione di conferimento che determina lo storno contabile dell’avviamento è di natura fiscalmente neutrale e, come tale, non può costituire un’ipotesi di realizzo di plusvalenze e minusvalenze in capo al soggetto conferente. Pertanto, in virtù del principio di neutralità, il soggetto conferente deve conservare, in relazione all’asset avviamento, il medesimo regime fiscale di deduzione applicabile ante conferimento”.
3) Valore riallineabile con la sostitutiva e mantenimento delle divergenze civilistiche-fiscali
Si parla spesso di differenze residue, cioè del disallineamento esistente non alla data in cui l'operazione straordinaria è stata eseguita, bensì alla chiusura del bilancio dello stesso esercizio, o di quello successivo a seconda del momento in cui si sceglie di eseguire l'affrancamento. Ma nel frattempo saranno stati imputati a conto economico ammortamenti che avranno in parte ridotto il disallineamento. Questo effetto si manifesta in modo più evidente se il riallineamento avviene con opzione nel secondo periodo d'imposta successivo all'esecuzione dell'operazione (Cfr. Assonime circ. 51/2008 – par. 3.2.8 e Ag. entrate circ. 57/E/2008 - par. 3.3.4).
Uno degli aspetti critici nell'applicare l'imposta sostitutiva – cui l'Assonime ha fatto particolare riferimento nella circolare 51/2008 – è l'individuazione dei maggiori valori che è consentito riconoscere fiscalmente. Assonime ha ricordato che i conferimenti di azienda vengono normalmente rappresentati contabilmente a saldi chiusi (come se fossero cessioni). Per il Fisco, invece – anche in caso di opzione per il regime sostitutivo – la conferitaria subentra a saldi aperti, cioè nei valori "originari" del conferente, a prescindere dal valore netto eventualmente rappresentato in bilancio a saldi chiusi.
Il primo problema è individuare il quantum delle differenze da affrancare. Assonime afferma che occorre procedere al confronto tra il nuovo valore di iscrizione e il saldo algebrico tra i valori dell'attivo e dei fondi rettificativi evidenziati presso il conferente.
Ad esempio, un bene con valore di libro di 100, ammortizzato per 70 e con valore residuo di 30, potrebbe essere iscritto dalla conferitaria a 50, evidenziando un maggior valore di 20 rispetto al valore netto di partenza. In questo caso, la conferitaria potrà avvalersi del riallineamento a pagamento sull'importo di 20.
A questo punto, occorre conciliare questo risultato contabile a saldi chiusi con il principio di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti tipico dei saldi aperti che caratterizzano l'articolo 176 del Tuir. Il coordinamento si realizza assumendo che il maggior valore oggetto dell'affrancamento costituisce una componente incrementativa del costo storico dei beni ricevuti; l'orientamento è confermato dalla relazione illustrativa al decreto in cui si legge «che il maggior valore evidenziato in sede contabile e assoggettato a imposta sostitutiva si deve considerare ai fini fiscali aggiunto al costo fiscale ereditato in virtù del principio di continuità».
In quest'ottica, dunque, la società conferitaria subentrerà nell'ammortamento già iniziato dalla conferente e lo proseguirà applicando i coefficienti tabellari su una base di computo più elevata.
Riprendendo l'esempio, il maggior valore affrancato di 20 va sommato al costo originario di 100, determinando un nuovo valore fiscalmente riconosciuto di 120 sul quale si calcoleranno maggiori ammortamenti.
La conseguenza è che l'affrancamento mediante sostitutiva non opera un riallineamento tra valori civilistici e fiscali dei beni iscritti dalla conferitaria, se non con riguardo ai rispettivi saldi netti. Nel nostro esempio, a fronte di una rilevazione contabile per 50 da parte della conferitaria, il valore fiscale del bene, dopo l'affrancamento, sarà pari a 120, al netto del fondo di ammortamento di 70, e, quindi, pari a 50; allineato, pertanto, a quello di iscrizione del bene presso la conferitaria. Dal punto di vista dei valori netti, quindi, vi è coincidenza (50) mentre resta un differenza tra esposizione in bilancio a saldi chiusi e assetto fiscale basato sulla continuità dei valori. L'impostazione favorisce il contribuente perché il computo degli ammortamenti fiscali ammessi è effettuato sul costo storico rivalutato (120) anziché sul valore netto di iscrizione del bene (50).
4) Deducibilità extracontabile dei (maggiori) ammortamenti fiscali riconosciuti in capo alla conferente.
Secondo la norma di comportamento n. 178 dell’Associazione italiana dei dottori commercialisti del 20 ottobre 2010 in ipotesi di conferimento di azienda soggetto alla disciplina di cui all'articolo 176 del Tuir, ma la previsione è estendibile anche alle altre operazioni di aggregazione in neutralità fiscale, la società conferitaria è ammessa a computare gli ammortamenti (fiscali) avendo come riferimento il costo storico dei beni previsto in capo alla società conferente. Se gli stessi non sono in tutto o in parte imputati a conto economico a causa delle tecniche contabili o valutative adottate (e non, viceversa dalla previsione di un allungamento della residua vita utile dei beni), la deducibilità, da attuarsi mediante una variazione diminutiva in sede di dichiarazione dei redditi, è ammessa in applicazione dell'articolo 109, comma 4, lettera b del Tuir.
Tale articolo, alla lettera b) prevede una deroga al c.d. principio di imputazione – principio che richiede, ai fini della deducibilità delle spese e gli altri componenti negativi l’imputazione al conto economico – nel caso di esistenza di una “disposizione di legge” che riconosce la deducibilità a prescindere dall’imputazione. Tale “disposizione di legge”, secondo l’Aidc, è individuabile nel regime di neutralità statuito dall'articolo 176 del Tuir, il quale prevede che, nelle operazioni di conferimento, “il conferitario subentra nella posizione di quello conferente in ordine agli elementi dell’attivo e del passivo dell'azienda stessa” non assumendo rilievo il valore di stima né quello contabile attribuito agli stessi; neutralità fiscale da cui deve conseguire, evidenzia la norma di comportamento, una continuità dei valori fiscalmente riconosciuti indipendentemente dai comportamenti contabili e valutativi adottati dalla società conferitaria (in tal senso anchel’Abi, circolare n. 7 del 30 marzo 1998, paragrafo 3.2.5.1, con riferimento ai conferimenti "neutrali" di cui all'articolo 4 del Dlgs 358 del 1997, la quale, trattando del caso di cespiti acquisiti nella contabilità del conferitario sulla base del loro valore di stima osserva che “sorge il dubbio in proposito se la quota di ammortamento così misurata possa considerarsi deducibile per intero, anche per la frazione non imputata al conto economico. Sembra possibile sostenere la tesi della integrale deducibilità, considerato che, nella fattispecie, la deduzione troverebbe fondamento in una esplicita disposizione di legge (si veda l'articolo 75, comma 4, del Tuir”).
La situazione non è per nulla teorica: si tratta del caso di beni oggetto di conferimento per i quali non viene (civilisticamente) palesato, o non del tutto palesato, il loro valore effettivo - o il loro valore effettivo già corrisponde al netto contabile - e per i quali si proceda alla contabilizzazione a “saldi chiusi”. In questo caso il valore di iscrizione nell'attivo della conferitaria è inferiore al costo storico lordo della società conferente. Se la conferitaria effettua gli ammortamenti civilistici applicando la stessa aliquota della conferente, la conferitaria, a parità di altre condizioni, imputerà a conto economico minori ammortamenti.
Si consideri il caso che nella contabilità della conferente un bene è iscritto a 100 e ammortizzato per 70.
Il valore peritale del suddetto bene è 20.
Il coefficiente d'ammortamento è il 10 per cento.
La conferitaria iscrive il bene a 20.
La società conferitaria imputa a conto economico l’ammortamento per 2 (20 x 10%), mentre se non ci fosse stato il conferimento la conferente avrebbe imputato ammortamenti per 10 (100 x 10%).
Secondo l’Aidc la differenza pari a 8 potrà essere dedotta come variazione diminutiva nel quadro RF.
Diversa dottrina (circolare Assonime 51/2008, paragrafo 1.3.4) esprime sul punto una posizione di maggiore cautela nel sostenere la deducibilità «a prescindere» degli ammortamenti non imputati a conto economico, quando afferma che «per effetto dell'abrogazione del regime delle deduzioni extracontabili... gli ammortamenti deducibili sono solo quelli imputati a conto economico».
SECONDO ME, NON CI STA:
- LA NEUTRALITà RIGUARDA GLI ELEMENTI DELL’ATTIVO E DEL PASSIVO FISCALI E NON DEI CRITERI DI DEDUCIBILITA’
- IL PRINCIPIO DI IMPUTAZIONE E’ LEGATO AL COMPORTAMENTO CIVILSITICO ADOTTATO E IN TAL SENSO, LA NEUTRALITA’ FISCALE DEL 176 NON HA NULLA A CHE VEDERE.
SE IL CONTRIBUENTE VUOLE CHE FACCIA IL CONFERIMENTO A SALDI APERTI.
5) Natura (fiscale) delle riserve nascenti in capo alla conferitaria e alla conferente
Con la Ris. n. 82/E del 6 giugno 2000, il Ministero delle Finanze ha precisato che la “riserva” non tassata (ovvero la quota di utile corrispondente alla plusvalenza da conferimento, al netto delle imposte differite) iscritta nel bilancio del soggetto conferente per effetto del conferimento effettuato per valori superiori rispetto a quelli fiscalmente riconosciuti, rappresenta una posta contabile che “non costituisce, fiscalmente, un fondo in sospensione d’imposta, bensì una libera posta del patrimonio netto”. Da ciò consegue che può essere liberamente utilizzata per coprire eventuali perdite, ovvero distribuita ai soci; in quest’ultimo caso, si avrebbe in capo a questi la tassazione come dividendo con le regole ordinarie previste dagli artt. 47, 59 o 89 del Tuir a seconda della tipologia del socio.
L’assenza di una specifica disciplina fiscale per la riserva citata è giustificata dal fatto che, a differenza delle precedenti leggi di carattere agevolativo temporaneo che attribuivano pieno riconoscimento fiscale ai valori assunti dal soggetto conferitario, nei conferimenti in esame i maggiori valori assunti sono privi di rilevanza fiscale, sia per il soggetto conferente che per il conferitario. Conseguentemente, non si determinano salti d’imposta che necessitino l’adozione di istituti cautelativi, quali la riserva in sospensione d’imposta. Data la natura della riserva la sua distribuzione non comporta l’affrancamento dei beni cui si riferisce. Tali argomentazioni sembrano valide anche dopo le modifiche di sistema realizzate con il Dlgs n. 344 del 2003 e trovano indirettamente conferma nella Ris. 12/E/2009 che tratta, della situazione del tutto analoga in caso di scissione.
L’Amministrazione finanziaria non ha invece mai affrontato il caso in cui il soggetto conferente sia una società di persone o una impresa individuale. Gli effetti dell'operazione dovrebbero essere i seguenti: la società realizza una plusvalenza che interessa il suo conto economico; in dichiarazione dei redditi viene operata una variazione in diminuzione di pari importo; conseguentemente, il reddito imputato per trasparenza ai soci non tiene conto della plusvalenza "virtuale" derivante dal conferimento. Se successivamente il risultato di bilancio venisse distribuito ai soci, si dovrebbe trattare di un'attribuzione di utili fiscalmente irrilevante. Analoghe considerazioni dovrebbero essere raggiunte quando la plusvalenza da conferimento interessa un'impresa individuale. In alternativa, occorrerebbe una norma specifica per rendere imponibili queste somme in capo ai percettori.
La soluzione più ragionevole sembra quella della non imponibilità in capo ai soci delle somme percepite. A favore di questa ipotesi vi sono diverse considerazioni, prima fra tutte la regola che vuole che le esenzioni da imposte sui redditi in capo alle società di persone si trasformino automaticamente (dato il principio di imputazione per trasparenza) in esenzioni anche in capo ai soci.
In secondo luogo, la tassazione sulla società avverrà comunque in una fase successiva, e cioè quando avverrà la cessione della partecipazione ricevuta dal conferimento. Anche se ci fossero tutti i requisiti per la participation exemption, infatti, la società di persone sarebbe comunque tassata (cioè imputerebbe ai soci) il 40% della plusvalenza realizzata. Infine, a sostegno di questa tesi si può anche far notare che, nel caso delle Srl trasparenti è stata volutamente inserita una disposizione che non consente questo meccanismo, e cioè il binomio plusvalenza esente sulla società, dividendo esente sul socio. Si tratta infatti della norma (articolo 116, comma 1, ultimo periodo) che impedisce la trasparenza nel caso di possesso di partecipazioni esenti. Ma proprio l'introduzione di questa norma ad hoc che vieta questa soluzione dovrebbe dimostrare che, in tutti gli altri casi, essa è possibile.
Più problematica è l’analisi della natura della riserva in capo alla conferitaria. In vigenza dell’art. 4 del Dlgs n. 358 del 1997 la natura era esplicitamente indicata dal Legislatore. La norma (comma 3) affermava che la parte di incremento del patrimonio netto della conferitaria eccedente rispetto al costo fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita si deve considerare formata con utili. La conseguenza era che la distribuzione di detta riserva generava sì dividendi tassabili, ma con fruizione di credito d’imposta.
La ratio di tale norma era da ricondurre al meccanismo dei canestri d’imposta che per la conferitaria si venivano fisiologicamente a formare per effetto delle variazioni in aumento rappresentate dalla gestione di valori contabili più elevati rispetto a quelli fiscalmente riconosciuti. L’affermazione normativa che riconosceva natura di utile all’aumento del patrimonio netto era funzionale all’utilizzo, in caso di distribuzione della riserva, di imposta allocate nei c.d. canestri. Tutto ciò rendeva tendenzialmente neutra, sotto il profilo fiscale, la distribuzione delle riserve in capo ai soci. Tali argomentazioni non sembrano più valide dopo le modifiche realizzate con il Dlgs n. 344 del 2003. E ciò per due ordini di motivi:
- allo stato attuale nessuna norma qualifica la natura della riserva in capo alla società conferitaria;
- il venir meno dell’intero regime del credito d’imposta rende superata la motivazione che aveva indotto il legislatore a configurare la riserva tra quelle di utile.
Detta affermazione era una sorta di “imposizione normativa” poiché nessuno può dubitare che la natura dell’incremento patrimoniale che si genera a seguito del conferimento sia quella di capitale: la riserva nasce esattamente dall’apporto del nuovo socio. Pertanto l’aumento di capitale sociale dovrebbe avere natura (anche fiscale) di capitale (Cfr. L. Miele, Dietrofront sulle riserve, Il Sole 24 Ore; P. Meneghetti, Disciplina fiscale delle riserve di capitali e analisi delle riserve dia conferimento, Il Sole 24 Ore, Forum fiscale, n. 10, ottobre 2005, pg. 17).
ARTICOLO - Pubblicato il: 18 ottobre 2015 - Da: G. Manzana E. Iori
Recentemente il Governo ha approvato il ddl della c.d. “Legge di stabilità 2016”, ora inizierà l’iter parlamentare. Tra le principali disposizioni fiscali vi sono:
Agevolazione assegnazione beni ai soci
Dirette (redditi e irap): imposta sostitutiva 8% (10,5% se di comodo)
Pluvalenza: differenza tra valore normale dei beni assegnati o ceduti e il loro costo fiscalmente riconosciuto
Valore normale: dell’articolo 9 del Tuir o in misura pari a quello risultante dall’applicazione dei moltiplicatori (Dpr 131/86)
Iva: ordinaria
Imposta di registro: misura proporzionale con l’aliquota applicabile è ridotta alla metà.
Imposte ipotecarie e catastali fisse.
Versamento: in due tranche, consentendo altresì la compensazione ex legge 241/97. Il primo versamento, pari al 60% dell’imposta, è fissato al 30 novembre 2016, il residuo entro il 16 giugno 2017.
Agevolazione su acquisto nuovi macchinari
Beni: tutti i beni strumentali materiali ammortizzabili, con esclusione, quindi, dei beni merce e dei materiali di consumo. Si deve trattare di beni nuovi, cioè non utilizzati in precedenza. Il beneficio non spetta per i fabbricati e le costruzioni; i beni per i quali sono stabiliti, nel Dm 31 dicembre 1988, coefficienti di ammortamento inferiori al 6,5%; le condutture utilizzate dalle industrie di imbottigliamento di acque minerali, dagli stabilimenti balneari e termali e per la produzione e distribuzione di gas naturale; il materiale rotabile, ferroviario e tranviario e gli aerei completi di equipaggiamento.
Ammontare: l’intero ammontare dell’investimento (e non l’eccedenza rispetto agli anni precedenti).
Soggetti: Spetta non solo ai titolari di reddito d’impresa ma anche gli esercenti arti e professioni.
Agevolazione: aumento del 40% del costo d’acquisto preso a base per l’ammortamento nonché, si ritiene, della quota capitale dei canoni di leasing.
Periodo: gli investimenti effettuati dal 15 ottobre 2015 al 31 dicembre 2016.
Agevolazione su operazioni straordinarie
Avviamento da operazioni straordinarie: Il maggior valore dell’avviamento e dei marchi affrancato in seguito ad operazioni straordinarie è deducibile non più in dieci ma in 5 periodi d’imposta.
Agevolazione rivalutazione beni soci
Rivalutazione beni: Sui maggiori importi occorre versare un’imposta sostitutiva del 16% per i beni ammortizzabili e del 12% per quelli non ammortizzabili (terreni e partecipazioni). La riserva in sospensione d’imposta contabilizzata a fronte della rivalutazione può essere affrancata versando un ulteriore tributo del 10 per cento. Il recupero fiscale della rivalutazione avverrà a partire dall’esercizio 2018. La rivalutazione non potrà essere effettuata solo civilisticamente.
Agevolazione affrancamento
Affrancamento di terreni e partecipazioni persone fisiche: Vengono infine riaperti i termini per rivalutare terreni e partecipazioni dei privati. La scadenza per perizie e versamenti è fissata al 30 giugno 2016 e l’imposta sostitutiva è raddoppiata (4% per quote non qualificate, 8% per terreni e partecipazioni qualificate).
Agevolazione recupero iva
Nota di accredito: In caso di mancato pagamento da parte del cessionario o committente, può essere emessa già a partire dall’inizio del procedimento delle procedure concorsuali e meta concorsuali senza che il creditore debba attendere l’infruttuosità della procedura.
ARTICOLO - Pubblicato il: 24 agosto 2015 - Da: G. Manzana E. Iori
Secondo la Cassazione il valore normale (ex art. 9 del Tuir) non sarebbe solo un criterio da usare in presenza di componenti reddituali “in natura” (e negli altri casi in cui è espressamente richiamato) ma costituirebbe una “clausola antielusiva” generale, che consentirebbe alle Entrate di rettificare i corrispettivi delle transazioni infragruppo non in linea con il valore di mercato dei beni o servizi, in applicazione del divieto di abuso del diritto (sent. 17955/2013, 8849/2014, 12502/2014, 23124/2014 e 12844/2015).
È ragionevole ritenere che questo orientamento sia destinato a cambiare dopo le modifiche all’art. 110, co. 7 apportate dal decreto sull’ internazionalizzazione.
Senza invocare il valore normale, è comunque (e sarà sempre comunque) possibile la rettifica dei corrispettivi risultanti dai contratti e dalla contabilità in base al principio secondo il quale - in presenza di comportamenti “antieconomici” dei contribuenti - gli uffici possono contestare la congruità degli importi: principio che la Corte ha spesso applicato ai costi correlati ai servizi infragruppo (sentenze 9497/2008, 9469 e 11154/2010, 16642/2011, 12502 e 21184/2014, 6972 e 10319/2015).
Devono, però, sussistere situazioni di arbitraggio fiscale, in cui si verifica un risparmio di imposta in conseguenza, ad esempio, di differenze di aliquote o delle differenti modalità di tassazione di chi sostiene il costo e di chi consegue il componente positivo. In particolare, è necessario che:
- il comportamento del contribuente venga valutato tenendo conto della complessiva situazione contrattuale e aziendale, perché una operazione che, isolatamente considerata, può apparire antieconomica potrebbe invece risultare pienamente conforme ai canoni dell’economia se inquadrata alla luce della complessiva strategia imprenditoriale;
- siano evitate duplicazioni impositive: l’Agenzia ha correttamente affermato, nella nota 55440/2008, che «se ad un costo dedotto si contrappone un ricavo integralmente ed effettivamente tassato in capo ad un altro soggetto, la plausibilità del rilievo perderà inevitabilmente di consistenza».
Va, altresì, considerata l’eventuale partecipazione delle società interessate al regime del consolidato fiscale, in presenza del quale il transfer pricing interno non assume, di regola, rilevanza ai fini reddituali, nonostante l’abrogazione della disposizione che consentiva di applicare il regime di neutralità fiscale ai trasferimenti di beni tra le società che avevano optato per tale regime.
ARTICOLO - Pubblicato il: 29 luglio 2015- Da: G. Manzana E. Iori
Per la Corte di Cassazione (sentenza della Quinta penale della Corte di cassazione sul caso Crespi n. 33774/15) non costituiscono fattispecie penalmente rilevante i #falsi estimativi, quelli basati cioè su una valutazione, sull’attribuzione di un dato numerico a una realtà sottostante. Si tratta della diretta conseguenza della nuova legge n. 69 del 2015 che ha conferito rilevanza penale ai fatti materiali, ma ha soppresso il riferimento alle valutazioni.
La Quinta sottolinea che «la maggior parte delle poste in bilancio altro non è se non l’esito di procedimenti valutativi e, quindi, non può essere in alcun modo ricondotta all’alveo dei soli fatti materiali» come previsti dalla normativa introdotta dalla legge n. 69 del 2015.
Se è vero che «la valutazione di qualcosa di inesistente» o «l’attribuzione di un valore ad una realtà insussistente non può che ritenersi un fatto materiale non rispondente al vero», fuori da queste ipotesi di scuola il confine tra penalmente perseguibile e non, si fa via via più sfumato.
Fatti materiali
Certo è che:
- i ricavi “gonfiati”,
- i costi «sostenuti ma sottaciuti»,
- le false dichiarazioni circa conti bancari,
- i rapporti di reciproca convenienza originati da fatture per operazioni inesistenti sono tutte ipotesi di falsità circa fatti materiali.
Allo stesso modo devono essere considerati ancora oggi punibili «condotte scaturenti da fatti storici», come
- i crediti definitivamente inesigibili per fallimento del debitore lasciati tra gli attivi di bilancio o
- l’omessa indicazione di transazioni su beni. O, ancora,
- la mancata svalutazione a bilancio di una partecipazione dopo il fallimento di una controllata, e infine l’omessa indicazione di un debito derivante da un contenzioso in cui si è rimasti soccombenti.
***
La Quinta rimarca che ogni volta che ci si imbatte in poste di bilancio «frutto di valutazioni non palesemente erronee, ovvero in relazione alle quali non è chiaramente emerso che siano state iscritte per finalità meramente ingannatorie e comunque programmaticamente inosservanti dei criteri valutativi» siamo fuori dal raggio dell’incriminazione penale.
Per esempio la violazione delle «regole prudenziali» - concetto peraltro molto elasticizzabile - è oggi una sorta di salvacondotto penale, in quanto «valutazioni non palesemente erronee» e comunque non unicamente finalizzate a una rappresentazione ingannatoria.
E proprio analizzando alcune operazioni economiche e relative trasposizioni in bilancio, la Corte nota che, per quanto oggettivamente “larghe” e cioè «sovrastimate o stimate con criteri poi rivelatisi erronei», resta il fatto che il documento contabile «dà conto di realtà sussistenti».
Fatti estimativi
E così, seguendo l’elencazione della Quinta,
- «valutative sono le poste accese ai crediti» tenuto conto che il criterio è quello del presumibile realizzo;
- «valutative» sono le immobilizzazioni immateriali, «ancorate a criteri che inducono gli amministratori a qualificare come tali costi ritenuti forieri di attività future», e pure le
- immobilizzazioni materiali, tenuto conto che la procedura di ammortamento cui ancorarle è «parametrata alla loro “residua possibilità di utilizzazione”».
- E valutativo è, infine, anche l’ammortamento di avviamento che può essere iscritto nell’attivo con il consenso del collegio sindacale, se acquisito a titolo oneroso.
ARTICOLO - Pubblicato il: 29 luglio 2015 - Da: G. Manzana E. Iori
Verifica fiscale nei confronti di società con bilanci soggetti a revisione legale
Le società con bilanci certificati non acquisiscono un «crisma di non contestazione» delle poste contabili, ma il giudizio tecnico rappresentato dalla relazione di revisione è, comunque, “un fatto”, che il giudice non può ritenere irrilevante o dimenticare senza metterlo a confronto con gli altri “fatti” sui quali deve maturare la propria decisione.
C’è, quindi, un «obbligo di considerazione» non un «vincolo di conformità» da parte del giudice tributario.
La relazione quindi
- non può costituire una presunzione iuris tantum della veridicità delle scritture (mancando del tutto una norma legislativa che le attribuisca tale efficacia probatoria)
- ma può assume un ruolo probatorio nell’ambito della difesa attuata dal contribuente.
E’ chiaro che questo “ruolo” probatorio può essere svolto dal documento solo se opportunamente valorizzato dalla difesa, in particolare per l’esistenza e la quantificazione di componenti positivi e negativi di reddito tra società del medesimo gruppo.
Secondo la Corte di cassazione (sentenza 26 giugno 2015 n. 13252) il giudice tributario, nel valutare la deducibilità di costi quali quelli dei servizi resi infragruppo, non può non considerare le risultanze della relazione di certificazione al bilancio, comparando questo documento di regolarità tecnico-contabile con i divergenti elementi di giudizio addotti dall’agenzia delle Entrate al fine di dimostrarne l’inesistenza per duplicazione ed eccessiva onerosità.
Secondo la sentenza 18 marzo 2009 n. 6532 «la revisione, articolata mediante relazioni sulla corrispondenza dei dati di bilancio e del conto profitti e perdite alle risultanze delle scritture contabili, rende affidabili le relative attestazioni», le quali «non possono essere disattese dall’amministrazione finanziaria o dal giudice, se non contrastate da prove di eguale portata».
Con la sentenza 13252/2015 la Cassazione accoglie la doglianza esposta dalla società ricorrente, in quanto il giudice di appello non aveva dato conto, prima di esprime il proprio convincimento sulla duplicazione dei costi di fornitura dei servizi infragruppo, di aver esaminato la certificazione al bilancio e di averne comparato le risultanze con quanto sostenuto dalle Entrate.
Con la sentenza 13252/2015 la Cassazione evidenzia come la relazione di certificazione fosse in grado, da sola, di giustificare l’inerenza dei costi sostenuti. Infatti, tale relazione non può costituire una presunzione iuris tantum della veridicità delle scritture, mancando del tutto una norma legislativa che le attribuisca tale efficacia probatoria.
Con la sentenza 13491 dell’8 giugno 2007 la Cassazione afferma che la certificazione al bilancio «non può certamente limitare il potere di verifica dell’amministrazione finanziaria». Una relazione di certificazione senza rilievi porta a ritenere affidabili le risultanze del bilancio in riferimento agli aspetti oggetto di specifica verifica da parte del revisore, ma a tale affidabilità non può essere riconosciuto un ruolo decisivo, poiché le prove documentali rese dai verificatori possono ben dimostrare come tali conclusioni siano, in realtà, errate.
Pronunce | Contestazione dell’Agenzia | Contenuto |
Sentenza 26 giugno 2015 n.13252 | Duplicazione nella fornitura di servizi intercompany, tale da far ritenere insussistenti i costi | È necessario che i giudici d’appello diano conto di aver esaminato la certificazione del bilancio contenuta nella relazione della società di revisione e di averne comparato le risultanze con gli ulteriori elementi di giudizio tratti dall’esame dei coevi contratti per la fornitura dei servizi dal cui esame era emersa la ritenuta «duplicazione dell’oggetto relativo alla fornitura dei servizi». Non si può escludere che «al fine di attestare la deducibilità dei costi sostenuti, la produzione di documentazione ulteriore rispetto al bilancio certificato come da relazione della società di revisione» |
Sentenza 18 marzo 2009 n. 6532 |
Indeducibilità delle spese per prestazione di servizi rese della capogruppo (“spese di regia”) per difetto di inerenza e documentazio-ne | Il requisito della inerenza dei costi prescritto dal Tuir, articolo 75, comma 5 (ora articolo 109, comma 1), deve essere dimostrato da idonea attestazione tecnico-contabile e dalla inesistenza di duplicazione di costi, la cui prova può dirsi raggiunta quando la natura e la composizione dei servizi prestati e la loro funzionalità all'attività svolta «risultino dai prospetti redatti dalla capogruppo e certificati da una società internazionale di revisione, tenuto conto della funzione di controllo pubblicistico che questa svolge, in posizione di indipendenza rispetto al soggetto conferente l’incarico, e della responsabilità, civile e penale, in cui incorre il revisore che attesti dati non veritieri. Ne consegue che la revisione rende affidabili le relative attestazioni che non possono essere disattese dall’amministrazione finanziaria o dal giudice, se non contrastate da prove di eguale portata |
Sentenza 12 marzo 2009 n. 5926 |
Indeducibilità dei costi per spese generali, amministrative e di manutenzione addebitati dalla casa madre alla stabile organizzazione italiana | Ogni volta che la relazione di revisione venga messa a disposizione dell’ufficio tributario e del giudice tributario, le autorità devono tenerla in conto, non di presunzione iuris tantum della veridicità delle scritture, perché manca una norma legislativa che le attribuisca tale forza, ma di documento incorporante enunciati sui quali sia l’ufficio tributario sia il giudice tributario si devono pronunciare e che possono essere privati della loro forza dimostrativa dei fatti attestati solo mediante la prova contraria a carico dell’ufficio. Tale prova non può essere fornita attraverso la produzione di documenti che siano idonei a dimostrare che nel giudizio di revisione il revisore è incorso in errore o ha realizzato un inadempimento |
Sentenza 14 marzo 2008 n. 6939 |
Indeducibilità di costi commerciali intercompany per difetto di inerenza |
Le risultanze della relazione della società di revisione non sono di per sé esaustive ma vanno lette unitamente agli altri dati disponibili affinché il giudice di appello assuma e motivi la propria decisione |
Sentenza 8 giugno 2007 n. 13491 |
Deducibilità interessi passivi su finanziamento non esposto in bilancio | L’adempimento della formalità di revisione e certificazione del bilancio spiega effetti puramente sul piano civilistico ed è inidonea a limitare l’ambito dell’attività di accertamento da parte dell’amministrazione finanziaria. Conseguentemente, è legittimo il disconoscimento operato in tema di deducibilità di interessi passivi laddove i finanziamenti non siano aliunde indicati e rintracciabili nella contabilità del contribuente |
ARTICOLO - Pubblicato il: 14 aprile 2010 - Da: G. Manzana E. Iori
Anche quando non gli è attribuita la funzione di controllo contabile il collegio sindacale deve considerare il bilancio d’esercizio e i documenti che lo accompagnano. Infatti, in accordo con la ratio delle norme, ed in applicazione dell’obbligo di vigilanza sull’osservanza della legge e dell’atto costitutivo, conserva taluni compiti di vigilanza sul bilancio d’esercizio, senza per questo, ameno in linea teorica, sovrapporsi all’operato della società di Revisione o del revisore esterno. In ogni caso, in occasione delle fasi conclusive di verifica del bilancio, il soggetto incaricato del controllo contabile fornisce al collegio sindacale:
- la comunicazione del piano di revisione applicato e delle procedure svolte;
- le notizie in ordine a problematiche relative al bilancio;
- il contenuto delle relazioni che intende emettere.
In particolare, il collegio sindacale conserva l’obbligo di vigilare sull’osservanza, da parte degli amministratori, delle norme procedurali inerenti alla formazione, deposito e pubblicazione del bilancio.
Inoltre, pur non dovendo effettuare controlli analitici di merito sul contenuto del bilancio, al collegio sindacale compete l’onere di vigilare sulle impostazioni date allo stesso, anche utilizzando le informazioni ottenute dalla società di Revisione o dal revisore esterno.
In particolare, deve rilevare:
1. la generale conformità alla legge della forma e dell’impostazione generale del bilancio. Quest’anno, al momento del controllo della completezza della nota integrativa, dovrà essere dovrà essere posta particolare attenzione alle informazioni alle operazioni con parti correlate (punto 22-bis dell’art. 2427 del Codice civile) e delle operazioni fuori bilancio (punto 22-ter dell’art. 2427 del Codice civile). Particolare attenzione dovrà essere poi posta per quanto riguarda l’informativa circa la continuità aziendale.
INFORMATIVA PER LA CONTINUITA’ AZIENDALE
A tal fine risulta molto utile, anche per le imprese non quotate, il documento 2/2009 emanato da Consob, Banca d'Italia e Isvap, in quanto fornisce precisazioni valide per tutte le imprese. Il documento precisa che, per quanto concerne il contenuto delle informazioni relative al presupposto della continuità aziendale, gli amministratori possono trovarsi, al termine dell'esame, di fronte a tre scenari.
Scenario 1)
Gli amministratori hanno la ragionevole aspettativa che la società continuerà con la sua esistenza operativa in un futuro prevedibile e hanno preparato il bilancio nel presupposto della continuità aziendale; le eventuali incertezze rilevate non risultano essere significative e non generano dubbi sulla continuità aziendale. Le eventuali incertezza saranno descritte nella relazione sulla gestione, congiuntamente agli eventi e alle circostanze che hanno condotto gli amministratori a considerare tali incertezze superabili e a considerare raggiunto il presupposto della continuità aziendale.
Scenario 2)
Gli amministratori hanno identificato fattori che possono far sorgere dubbi significativi sulla capacità della società di continuare la propria operatività per un prevedibile futuro, ma considerano che sia comunque appropriato utilizzare il presupposto della continuità aziendale per redigere il bilancio. In questo scenario si richiama innanzitutto l'attenzione sulla necessità di indicare in modo esplicito, nelle note al bilancio (nota integrativa, per le società non Ias), la sussistenza delle significative incertezze riscontrate che possono determinare dubbi significativi sulla continuità aziendale. Dovranno, inoltre, essere descritte in maniera adeguata l'origine e la natura di tali incertezze, nonché le argomentazioni a sostegno della decisione di redigere comunque il bilancio adottando il presupposto della continuità aziendale. Un'informazione adeguata non può prescindere dalla necessità di indicare le iniziative che la società ha assunto o sta assumendo (per esempio, piani di ristrutturazione del debito, rafforzamento del capitale, riduzione dei costi, vendita di assets) per fronteggiare gli effetti di tali incertezze sulla continuità aziendale. Inoltre, gli amministratori devono illustrare in modo adeguato le argomentazioni a sostegno della ragionevolezza di tali soluzioni. Soltanto attraverso un'effettiva trasparenza informativa sarà possibile valutare la ragionevolezza della conclusione finale in merito all'adozione del presupposto della continuità aziendale.
Scenario 3)
Gli amministratori considerano che sia improbabile che la società continui la propria esistenza operativa in un futuro prevedibile e non ritengono appropriato redigere il bilancio sul presupposto della continuità aziendale. In questo caso sarà necessario descrivere con chiarezza e completezza le motivazioni della conclusione raggiunta e le politiche contabili adottate per la redazione del bilancio in assenza del presupposto della continuità aziendale.
Come si può notare, la differenza tra gli scenari 1 e 2 si riflette anche in una diversa collocazione delle informazioni che passa dalla relazione sulla gestione (scenario 1), documento a corredo del bilancio, alla nota integrativa (scenario 2), che è parte integrante del bilancio.
2. la rispondenza del bilancio ai fatti e alle informazioni di cui il collegio sindacale é a conoscenza a seguito della partecipazione alle riunioni degli organi sociali, dell’esercizio dei suoi doveri di vigilanza e dei suoi poteri di ispezione e controllo;
3. il rispetto del disposto dell’art. 2429, commi 1, 3 e 4 e dell’art. 2435 Codice civile in merito al deposito e alla pubblicazione del bilancio;
4. gli adempimenti relativi alla disposizione dell’art. 2426, n. 5 e 6 (espressione del consenso alla iscrizione in bilancio, tra le immobilizzazioni immateriali, dei costi di impianto e ampliamento, dei costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità e dell’avviamento); in merito si veda anche quando detto nel paragrafo relativo all’ espressione del consenso alla iscrizione in bilancio, tra le immobilizzazioni immateriali, dei costi di impianto e ampliamento, dei costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità e dell’avviamento.
Questi compiti vengono svolti attraverso il semplice esame dei documenti che formano il bilancio, ma senza dover eseguire le verifiche e i controlli sulle singole aree di bilancio che sono propri della revisione contabile, la quale resta riservata in esclusiva alla società di revisione.
La verifica di tali aspetti é, inoltre, strumentale all’esercizio della vigilanza sia sull’amministrazione della società, sia sul rispetto dei doveri propri degli amministratori e della società di Revisione o revisore Unico inerenti al bilancio.
Il generale compito di vigilanza del rispetto della legge e dell’atto costitutivo inoltre, impone ai sindaci di verificare il rispetto delle norme che regolano in merito all’approvazione del bilancio. Deve quindi essere posta attenzione:
- alla correttezza della convocazione dell’assemblea;
- (in caso di approvazione del bilancio in proroga) della sussistenza delle condizioni che la legittimano e del rispetto delle modalità;
- alla correttezza delle modalità di approvazione (delibera, consenso e consultazione) e della sussistenza della maggioranze di legge;
- della corretta trascrizione della delibera di approvazione o della documentazione comprovante l’approvazione con consenso o consultazione su libro delle assemblee.
Per tali aspetti si veda anche quanto detto nel paragrafo che tratta della partecipazione alle adunanze del consiglio di amministrazione e alle assemblee.
Più in generale, devono essere fatte tutte le verifiche funzionali a garantire il rispetto della legge e dell’atto costitutivo.
Sempre in merito al controllo del bilancio l' articolo 2429 del Codice civile (valevole anche per le Srl per via del richiamo all’art. 2478-bis del Codice civile), prevede che il collegio sindacale è tenuto a riferire all'assemblea convocata per l'approvazione del bilancio (c.d. relazione al bilancio):
- sui risultati dell'esercizio sociale;
- sull'attività svolta nell'adempimento dei propri doveri;
- su eventuali osservazioni e proposte in ordine al bilancio.
Ciò significa che i sindaci devono, da un lato, riferire sull'attività di controllo svolta nei confronti del l'amministrazione dal punto di vista della legittimità sostanziale degli atti posti in essere e, dall'altro, esprimere un proprio giudizio sul bilancio avendo particolare riguardo a fornire, per espressa richiesta del Legislatore, le proprie osservazioni nel caso in cui gli amministratori si siano avvalsi del l'esercizio della deroga fissata dal l'articolo 2423, comma 4 (la norma consente agli amministratori di derogare ai criteri ordinari di redazione del bilancio laddove l'applicazione di uno di essi si traduca nel risultato di non rendere una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale e finanziaria della società). Di fatto, pertanto, i sindaci sono chiamati a esprimere un giudizio (con analisi tecnico contabili) sulla conformità delle scelte effettuate in sede di redazione del bilancio che deve essere autonomo e indipendente da quello formulato dal revisore. Quest'ultimo è tenuto a predisporre (comma 4 articolo 2429 del Codice civile) una relazione similare che risulterà, secondo il dettato normativo, “analoga” a quella predisposta dai sindaci, ma non identica.
Per quanto concerne la Relazione sulla gestione, l’attività di vigilanza riguarda:
- accertamento della sussistenza del contenuto obbligatorio secondo quanto previsto dall’art. 2428 Codice civile;
- valutazione di completezza e chiarezza informativa alla luce dei principi di verità, correttezza e chiarezza stabiliti dalla legge;
- accertamento della corrispondenza e coerenza con le risultanze del bilancio.
- la rispondenza del bilancio ai fatti e alle informazioni di cui il collegio sindacale é a conoscenza a seguito della partecipazione alle riunioni degli organi sociali, dell’esercizio dei suoi doveri di vigilanza e dei suoi poteri di ispezione e controllo.
In particolare la relazione deve contenere anche un'analisi fedele, equilibrata ed esauriente della situazione della società e dell'andamento e del risultato della gestione. Inoltre, la relazione si arricchisce di informazioni sulla descrizione dei principali rischi cui la società è esposta. Queste informazioni si aggiungono a quelle già previste con riferimento alla gestione dei rischi relativi agli strumenti finanziari, tra i quali sono compresi i crediti.
L'analisi deve essere coerente con l'entità e la complessità degli affari della società e contiene, nella misura necessaria alla comprensione della situazione della società e dell'andamento e del risultato della gestione, gli indicatori di risultato finanziari e, se del caso, quelli non finanziari pertinenti all'attività specifica della società, comprese le informazioni su ambiente e personale.
L'analisi contiene, ove opportuno, riferimenti agli importi riportati nel bilancio e chiarimenti aggiuntivi. Gli indici finanziari sono, per esempio, il rendimento del capitale investito (Roi) e gli indici di liquidità.
Infine, la relazione sulla gestione delle società e la relazione sulla gestione consolidata possono essere presentate in un unico documento, che deve dare maggior rilievo alle questioni che sono rilevanti per il complesso delle società incluse nel consolidamento.
CHECK LIST – VIGILANZA IN ORDINE AL BILANCIO DI ESERCIZIO E ALLA RELAZIONE SULLA GESTIONE
Rispetto delle norme procedurali inerenti alla formazione, deposito e pubblicazione del bilancio
- gli amministratori hanno redatto il progetto di bilancio e la relazione sulla gestione (se dovuta) (art. 2423 del Codice civile)
- (in caso di bilancio abbreviato) esistono le condizioni per la redazione del bilancio abbreviato (art. 2435-bis del Codice civile)
- gli amministratori hanno redatto il progetto di bilancio e la relazione sulla gestione nei termini di legge (art. 2429 del Codice civile)
- il progetto di bilancio con gli allegati è stato depositato presso la sede della società (art. 2429 del Codice civile)
- il bilancio approvato correlato delle relazioni e l’elenco dei soci (se dovuto) è stato depositato presso il registro delle imprese (art. 2435 del Codice civile)
<…>
Rispetto delle norme che trattano delle impostazioni da dare al bilancio
- Il soggetto incaricato alla revisione contabile ha redatto la propria relazione e ne è stata presa visione
- il bilancio è redatto con chiarezza e rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale, finanziaria e il risultato dell’esercizio (per lo più in base ai dati forniti dal soggetto che effettua la revisione contabile)
- sono stati correttamente applicati i criteri nella valutazione delle differenti poste contabili (per lo più in base ai dati forniti dal soggetto che effettua la revisione contabile)
- tutte le immobilizzazioni immateriali, tutti i costi di impianto e ampliamento, tutti i costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità e l’avviamento sono stati iscritti tra le immobilizzazioni immateriali previo consenso (art. 2426, n. 5 e 6 del Codice civile)
- il bilancio è rispondente ai fatti e alle informazioni di cui si è venuti a conoscenza partecipando alle riunioni degli organi sociali, ovvero, più in generale, esercitando i doveri di vigilanza e di ispezione e di controllo
<…>
Approvazione del bilancio
- l’assemblea è stata regolarmente convocata (non necessaria in caso di approvazione del bilancio mediante consenso o consultazione) (artt. 2363- 2366 del Codice civile)
- (se è stato approvato in bilancio in proroga) vi sono le condizioni per approvare il bilancio in proroga (art. 2364 - lo statuto prevede l’approvazione del bilancio in proroga e la società è tenuta o alla redazione del bilancio consolidato ovvero esistono particolari esigenze relative alla struttura ed all'oggetto della società)
- (in Srl in caso di approvazione mediante consenso o consultazione) vi sono le condizioni per approvare il bilancio mediante consenso o consultazione (art. 2479 – del Codice civile)
- (in caso di approvazione mediante delibera) l’assemblea è validamente costituita, la delibera è valida e i soci partecipanti hanno diritto di intervento (artt. 2368-2375 e, in caso di Srl art. 2479-bis del Codice civile)
- sono state rispettate le maggioranze di legge (art. 2368 del Codice civile , in caso di Srl art. 2479-bis del Codice civile)
- è stato correttamente trascritto sul libro delle assemblea delibera di approvazione o della documentazione comprovante l’approvazione con consenso o consultazione
<…>
Relazione dei sindaci
- E’ stata redatta la relazione (art. 2428 del Codice civile)
- La relazione tratta dei risultati dell'esercizio sociale e dell’attività svolta; riporta eventuali osservazioni e proposte in ordine al bilancio e (eventualmente) le osservazioni circa l’applicazione della deroga di cui all’art. 2423, comma 4 del Codice civile (art. 2428 del Codice civile)
<…>
Relazione sulla gestione
- (se obbligatorio) è stata redatta la relazione sulla gestione (art. 2435-bis, comma 6 del Codice civile)
- riporta quanto obbligatoriamente previsto dalla legge (art. 2428 del Codice civile del Codice civile)
- da una chiara informativa alla luce dei principi di verità, correttezza e chiarezza stabiliti dalla legge (art. 2423 del Codice civile)
- è rispondente ai fatti e alle informazioni di cui si è venuti a conoscenza partecipando alle riunioni degli organi sociali, ovvero, più in generale, esercitando i doveri di vigilanza e di ispezione e di controllo <…>
ARTICOLO - Pubblicato il: 15 aprile 2010 - Da: G. Manzana E. Iori
L'articolo 2409-ter del Codice civile, come risulta dopo il recepimento della Direttiva 51/2003, prevede che la relazione del revisore deve contenere:
- un paragrafo introduttivo che identifica il bilancio sottoposto a revisione e il quadro delle regole di redazione applicate dalla società;
- una descrizione della portata della revisione svolta con l'indicazione dei principi di revisione osservati;
- un giudizio sul bilancio che indica chiaramente se questo è conforme alle norme che ne disciplinano la redazione e rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria e il risultato economico dell'esercizio; il successivo comma 1-ter prevede che, nel caso in cui il revisore esprima un giudizio sul bilancio con rilievi, un giudizio negativo ovvero rilasci una dichiarazione di impossibilità di esprimere un giudizio, le motivazioni debbano essere analiticamente illustrate nella relazione;
- eventuali richiami di informativa che il revisore sottopone all'attenzione dei destinatari del bilancio, senza che essi costituiscano rilievi; i più frequenti richiami di informativa riguardano eventi straordinari avvenuti durante l'esercizio, situazioni di incertezza, particolari criteri di valutazione utilizzati e così via;
- un giudizio sulla coerenza della relazione sulla gestione con il bilancio.
Sul punto è intervenuto il Principio di revisione n. 2, del 15 aprile 2009 del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, intitolato «Modalità di redazione della relazione di controllo contabile ai sensi dell'articolo 2409-ter del Codice civile».
Viene previsto che la relazione deve contenere i seguenti elementi costitutivi:
a) titolo;
b) destinatari della relazione;
c) identificazione del bilancio oggetto di revisione;
d) identificazione del quadro delle regole di redazione che la società applica o dovrebbe applicare;
e) identificazione delle diverse responsabilità facenti capo ai redattori del bilancio e al revisore incaricato del controllo contabile;
f) descrizione della natura e portata della revisione svolta, precisando:
- i principi e criteri seguiti per la revisione;
- una descrizione del lavoro svolto e se esso fornisce una ragionevole base per esprimere il giudizio;
- un riferimento al controllo contabile relativo al precedente esercizio, per quanto riguarda i dati comparativi;
g) espressione del giudizio sul bilancio precisando:
- se esso è conforme alle norme che ne disciplinano la redazione;
- se esso rappresenta in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria e il risultato economico dell'esercizio;
- analiticamente i motivi di un eventuale giudizio diverso da quello positivo;
h) eventuali richiami di informativa che non costituiscono rilievi;
i) espressione del giudizio sulla coerenza della relazione sulla gestione con il bilancio;
j) data e luogo di emissione;
k) sottoscrizione del revisore.
TITOLO
La dizione “relazione del revisore” deve essere riportata come titolo per essere distinguibile dalle relazioni che vengono emesse da altri soggetti quali il consiglio di amministrazione e il collegio sindacale. Deve riportare la fonte normativa sulla base della quale la relazione viene emessa, vale a dire il riferimento all’art. 2409-ter del Codice civile.
Se il collegio sindacale è incaricato del controllo contabile, la relazione è separata da quella tipica del collegio sindacale, anche se è possibile redigere un unico rapporto che integra, esponendole in due parti distinti, le due relazioni.
DESTINATARI
La relazione del revisore deve essere indirizzata alla assemblea dei soci.
PRIMO PRAGRAFO: INTRODUTTIVO
La relazione del revisore deve identificare
- il bilancio assoggettato a revisione, inclusi la data e il periodo di riferimento dello stesso;
- quadro delle regole di redazione che la società applica o dovrebbe applicare;
- identificare le diverse responsabilità facenti capo ai redattori del bilancio e al soggetto incaricato del controllo contabile: la relazione deve specificare che il bilancio è responsabilità degli amministratori e che il compito del revisore è quello di esprimere un giudizio sul bilancio in base alla revisione contabile svolta.
La preparazione del bilancio richiede che gli amministratori prendano significative decisioni basate su stime contabili e giudizi soggettivi e che identifichino i principi contabili appropriati e i metodi da utilizzare. La responsabilità del revisore, invece, è di assoggettare a revisione il bilancio al fine di esprimere il proprio giudizio professionale sullo stesso.
SECONDO PARAGRAFO: SULLA NATURA DELLA REVISIONE
Contiene la descrizione della natura e portata del controllo contabile, precisando:
- i principi e criteri seguiti per la revisione; è opportuno fare riferimento alle regole di controllo contabile applicate con l'espressione «statuiti principi di revisione», intendendo per tali tutti i principi di revisione emessi nel nostro Paese e tuttora in vigore. È opportuno in proposito ricordare che i principi di revisione sono un corpo di regole generali che, alla luce dell'esperienza professionale del revisore, devono essere declinate in procedure di revisione specifiche, il cui contenuto varia al variare delle dimensioni e delle altre caratteristiche specifiche dell'impresa assoggettata a controllo contabile. Tale previsione è la vera novità del principio di revisione 2. Viene detto che si deve affermare che “il procedimento di controllo contabile è stato svolto in modo coerente con la dimensione della società e con il suo assetto organizzativo”.
- una descrizione del lavoro svolto e se esso fornisce una ragionevole base per esprimere il giudizio;
- un riferimento alla relazione di controllo contabile relativa al precedente esercizio, per quanto riguarda i dati comparativi.
È opportuno, inoltre, fare riferimento al controllo contabile relativo al precedente esercizio, ancorché non menzionato dalle fonti normative aggiornate, in considerazione dei dati comparativi che, per legge, devono accompagnare sia il bilancio d'esercizio che il bilancio consolidato.
TERZO PARAGRAFO: ESPRESSIONE DEL GIUDIZIO
La relazione del revisore deve indicare con chiarezza il giudizio del revisore sul fatto che il bilancio
- sia conforme alle norme che ne disciplinano i criteri di redazione e
- fornisca una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società.
I termini utilizzati per esprimere il giudizio del revisore sono “fornisce una rappresentazione veritiera e corretta” ed, “è conforme alle norme che ne disciplinano i criteri di redazione”. Tutte le espressioni vanno intese, tra l’altro, nel senso che il revisore considera soltanto quegli aspetti che sono rilevanti per il bilancio.
La relazione del revisore deve essere modificata nelle seguenti situazioni:
1. paragrafo di enfasi
2. giudizio con rilievi
3. impossibilità di esprimere un giudizio
4. giudizio negativo.
In merito si veda quanto viene detto dopo.
Il terzo paragrafo dovrà poi riportare il giudizio di coerenza della relazione sulla gestione con il bilancio.che tratta è il principio di revisione 001.
DATA DELLA RELAZIONE E INDIRIZZO DEL REVISORE
La data di emissione della relazione è quella in cui sono state ultimate le procedure di revisione. Di regola essa è coincidente con quella in cui la direzione della società ha rilasciato l'attestazione conclusiva di cui al principio di revisione n. 580 «Le attestazioni della direzione» nonché con quella della verbalizzazione conclusiva sul controllo contabile di un esercizio. Inoltre, ai sensi dell'articolo 2429, Codice civile e dell'articolo 41, Dlgs 127/1991, essa non deve avere data successiva al sedicesimo giorno antecedente quello della assemblea convocata per l'approvazione del bilancio d'esercizio, affinché siano rispettati i termini di deposito delle relazioni nella sede sociale a disposizione dei soci, salvo che essi vi abbiano rinunciato.
Il luogo di emissione è quello della sede o dello studio, principale o secondario, rispettivamente per la società di revisione o il revisore individuale, mentre per il collegio sindacale che esercita il controllo contabile è il luogo dove ha sede la società assoggettata a controllo.
FIRMA DEL REVISORE
Nel caso di revisore individuale si indicherà il nome e cognome del revisore e il suo ruolo di revisore contabile; nel caso di società di revisione si indicherà sia il nome della società di revisione sia il nome e cognome e il ruolo professionale del responsabile della revisione; nel caso di collegio sindacale si indicheranno i nomi e cognomi dei sindaci ciascuno con il ruolo ricoperto all'interno del collegio. Tutte le persone fisiche indicate nella sottoscrizione apporranno poi, accanto al proprio nome e cognome, la propria firma.
Tipologie di giudizio
Un giudizio positivo deve essere espresso quando il revisore conclude che il bilancio fornisce con chiarezza una rappresentazione veritiera e corretta secondo i principi contabili identificati.
Un giudizio senza rilievi indica implicitamente che qualsiasi cambiamento di principi contabili o dei loro metodi di applicazione, e gli effetti di tali modifiche, sono stati adeguatamente determinati e indicati nel bilancio.
La relazione del revisore deve essere modificata nelle seguenti situazioni:
1. paragrafo di enfasi o richiami di informativa
2. giudizio con rilievi
3. impossibilità di esprimere un giudizio
4. giudizio negativo
La prima, non influisce sul giudizio del revisore. Le altre invece incidono e si verificano quando:
(a) vi è una limitazione al lavoro di revisione;
(b) vi è un disaccordo con gli amministratori riguardante l’accettabilità dei principi contabili utilizzati, i metodi della loro applicazione o l’adeguatezza delle informazioni fornite nel bilancio.
Le circostanze descritte al punto a) possono portare a un giudizio con rilievi o all’impossibilità di esprimere un giudizio.
Paragrafo di enfasi o richiami di informativa
Il revisore, se lo ritiene opportuno, può inserire nella relazione, dopo il paragrafo che contiene il giudizio sul bilancio e prima di quello che contiene il giudizio di coerenza della relazione sulla gestione, uno o più paragrafi che richiamano elementi dell'informativa di bilancio, eventualmente rinviando a quanto dichiarato in merito dagli amministratori, che ritenga meritino di essere portati all'attenzione degli utilizzatori del bilancio stesso.
Data la natura del "richiamo di informativa" questa componente della relazione non può essere utilizzata dal revisore per:
- esporre proprie considerazioni e commenti;
- segnalare rilievi;
- integrare aspetti dell'informativa ritenuti carenti.
Va sottolineato che la posizione del richiamo di informativa dopo il paragrafo che contiene il giudizio sul bilancio ne qualifica la natura e segnala che il revisore non ha nulla da eccepire a quanto sta richiamando.
Esempi di paragrafi con richiamo di informativa
(…)
SITUAZIONI STRAORIDINARIE:
La società ha partecipazione a operazioni straoridinarie (scorpori, fusioni eccetera), ovvero è stata oggetto di operazioni inusuali di effetti significativi ovvero si sono verificate situazione incertezza adeguatamente descritte e trattate dagli amministratori, per le quali il revisore ha ritenuto di esprimere un giudizio senza rilievi ovvero si sono verificate rilevanti modifiche nell'assetto o nella operatività dell'impresa (modifiche statutarie, perdita della condizione di mutualità prevalente nelle cooperative eccetera).(…)
RINVIO AL BILANCIO CONSOLIDATO:
E’ stato redatto il bilancio consolidato al quale si rinvia.(…)
MODIFICA PRINCIPI CONTABILI:
La società ha modificato il criterio di valutazione delle rimanenze che, a partire dal presente esercizio vengono valutate secondo il metodo Fifo, mentre negli esercizi precedenti erano valutate secondo il metodo Lifo. Le motivazioni della modifica ed i relativi effetti sul patrimonio netto e sul risultato d’esercizio sono illustrati nella nota integrativa.(…)
MODIFICA CRITERI DI VALUTAZIONE:
La società ha applicato aliquote di ammortamento ridotte rispetto al precedente esercizio, utilizzando per gli impianti quella del 7 per cento, in luogo di quella del 10 per cento. Ciò è dovuto a una diversa stima della residua vita utile di tali beni. Le motivazioni della modifica ed i relativi effetti sul patrimonio netto e sul risultato d’esercizio sono illustrati nella nota integrativa.(…)
APPLICAZIONE DEI CRITERI DI VALUTAZIONE:
La società, applicando le disposizioni relative all’eliminazione delle interferenze fiscali pregresse, ha rilevato una sopravvenienza attiva di <…> che di fatto da sola, come correttamente esposto nella relazione sulla gestione, ha prodotto l’utile di esercizio di <…>.(…)
Giudizio con rilievi
Deve essere emesso quanto il revisore giunge alla conclusione che un giudizio senza rilievi non possa essere espresso, ma che l’effetto del disaccordo con gli amministratori o la limitazione al proprio lavoro non sia così significativo e influente da richiedere un giudizio negativo o l’impossibilità di esprimere un giudizio. Un giudizio con rilievi deve contenere l’espressione “ad eccezione del ….” indicando l’oggetto della questione alla quale il rilievo si riferisce.
Al fine del giudizio il revisore deve valutare l'insieme degli errori rilevati e non eliminati. Sta alla sua “sensibilità” professionale individuare in che modo incidono nella relazione finale.
Occorre a tal fine considerare che:
- se gli errori (o l’errore) rilevati per area di bilancio superano la soglia dell’errore tollerabile ma non quella della significatività il revisore deve esprimere un giudizio con rilievi;
- se gli errori (o l’errore) rilevati per area di bilancio superano la soglia dell’errore tollerabile e anche quella della significatività il revisore non può esprimere un giudizio positivo sul bilancio.
- l’errore tollerabile è da considerarsi la soglia di errore ammissibile per singola posta di bilancio;
- un'informazione è significativa se la sua mancanza o la sua imprecisa rappresentazione potrebbe influenzare le decisioni economiche degli utilizzatori da prendere sulla base del bilancio; se si supera la soglia di significatività il revisore non può esprimere un giudizio positivo sul bilancio.
A tale fine occorre considerare che tanti errori di piccolo importo, nel loro insieme, possono influenzare significativamente il bilancio.
Il revisore deve valutare se l'insieme degli errori rilevati e non eliminati sia significativo.
Se il revisore conclude che gli errori sono significativi, deve considerare di ridurre il rischio di revisione estendendo le procedure di revisione o chiedendo alla direzione di correggere il bilancio. La direzione può infatti essere disposta a modificare il bilancio a seguito degli errori rilevati. Se la direzione rifiuta di correggere il bilancio ed i risultati dell'estensione delle procedure di revisione non permettono al revisore di concludere che l'insieme degli errori non eliminati non sia significativo, il revisore deve considerarne gli effetti ai fini dell'espressione del proprio giudizio.
Se l'insieme degli errori non eliminati che il revisore ha identificato, si avvicina al livello di significatività prefissato, il revisore deve considerare la probabilità che gli errori non rilevati, unitamente all'insieme degli errori non eliminati, possano superare il livello di significatività. Pertanto, se l'insieme degli errori non eliminati si avvicina al livello di significatività, il revisore deve prendere in considerazione se ridurre il rischio svolgendo procedure di revisione addizionali o richiedere alla direzione di correggere il bilancio eliminando gli errori identificati.
Ogniqualvolta il revisore esprime un giudizio con rilievi deve inserire nella relazione una chiara descrizione di tutte le ragioni sostanziali e una quantificazione dell’effetto sul bilancio.
Tale informativa va inserita in un paragrafo che precede il giudizio sul bilancio (punto e) dallo schema previsto dalle norme di comportamento del revisore unico).
Dichiarazione di impossibilità di esprimere un giudizio
Deve essere emessa quando il possibile effetto di una limitazione della revisione sia così rilevante e influente che il revisore non sia stato in grado di ottenere sufficienti elementi probativi e conseguentemente non sia in grado di esprimere un giudizio sul bilancio.
Il fatto di esprimere un non giudizio piuttosto che un giudizio con rilievi dipende
- dalla rilevanza dell’incertezza e
- dalla qualità dell’informativa.
Ogniqualvolta il revisore esprime l’impossibilità di esprimere un giudizio, deve inserire nella relazione una chiara descrizione di tutte le ragioni sostanziali e, se possibile, una quantificazione dell’effetto sul bilancio.
Tale informativa va inserita in un paragrafo che precede il giudizio sul bilancio (punto e) dallo schema previsto dalle norme di comportamento del revisore unico).
Esempi di non giudizio
(…)
RILEVANTI LIMITAZIONI ALL’ATTIVITÀ DI REVISIONE:
La Società non dispone di un sistema contabile atto a rilevare i costi di produzione, pertanto la valutazione dei prodotti finiti e dei semilavorati avviene mediante stime dei predetti costi di produzione effettuate per determinare i prezzi di vendita. In queste circostanze, non sono stato in grado di verificare la correttezza della valutazione dei semilavorati e dei prodotti finiti in rimanenza al <…>, iscritti in bilancio per <…>.(…)
RILEVANTI LIMITAZIONI ALL’ATTIVITÀ DI REVISIONE:
La Società svaluta i crediti nei limiti della deducibilità fiscale e non dispone di un’analisi dettagliata dei crediti che evidenzi la loro anzianità al fine di determinare il loro presumibile valore di realizzo. In assenza di ulteriori documenti, non sono stato in grado di quantificare l’eventuale rettifica da apportare al fondo rischi su crediti determinato dagli amministratori.(…)
RILEVANTI LIMITAZIONI ALL’ATTIVITÀ DI REVISIONE:
Come descritto nella Relazione sulla Gestione, da me esaminata per quanto attiene al bilancio d’esercizio, per ragioni straordinarie la controllata <…> si è trovata nell’impossibilità di predisporre il bilancio di esercizio o comunque di fornire i dati che permettessero la verifica del valore della partecipazione Euro <…> in carico alla controllante. Pertanto non mi è stato possibile svolgere la prevista procedura di revisione contabile.(…)
Giudizio negativo
Deve essere espresso quando l’effetto di una divergenza di opinione sia così rilevante e influente sul bilancio per cui il revisore conclude che un rilievo nella relazione non sia adeguato per illustrare la natura fuorviante o incompleta del bilancio.
Il fatto di esprimere un giudizio negativo piuttosto che un giudizio con rilievi dipende dall’entità della divergenza di opinione. In particolare se:
- l’errore rilevato è compreso tra l’errore tollerabile e la significatività, il revisore esprimerà un giudizio con rilievi;
- l’errore rilevato è maggiore dell’errore tollerabile e della significatività, il revisore esprimerà un giudizio negativo.
In merito si veda quanto detto trattando di giudizio con rilievi.
Ogniqualvolta il revisore esprime un giudizio negativo deve inserire nella relazione una chiara descrizione di tutte le ragioni sostanziali e, a meno che ciò non sia praticamente possibile, una quantificazione dell’effetto sul bilancio.
Tale informativa va inserita in un paragrafo che precede il giudizio sul bilancio (punto e) dallo schema previsto dalle norme di comportamento del revisore unico).
Esempi di giudizio negativo
(…)
NON CORRETTA APPLICAZIONE DEI CRITERI DI VALUTAZIONE:
La Società non ha adeguato i crediti commerciali al loro presunto valore di realizzo pur in presenza di probabili perdite significative. Stimando la necessità di incrementare il fondo svalutazione crediti di euro <…>, il risultato d’esercizio ed il patrimonio netto al <…> risultano sovrastimati di <…>, al netto di effetti fiscali.(…)
NON CORRETTA APPLICAZIONE DEI PRINCIPI CONTABILI:
La società ha iscritto in bilancio crediti per un ammontare di circa <…>, derivanti dal beneficio fiscale connesso alla perdita dell’esercizio <…> riportabile a riduzione di redditi imponibili dei futuri esercizi. La società si limita ad affermare che il recupero è ragionevolmente fondato, ma non integra l’informativa in modo adeguato. A giudizio del revisore le prospettive future non consentono di attendere redditi imponibili da compensare con le predette perdite. (…)
ARTICOLO - Pubblicato il: 15 aprile 2010 - Da: G. Manzana E. Iori
Nell’ambito della valutazione, una trattazione a parte merita la valutazione della continuità aziendale (c.d. going concern).
Secondo il principio di revisione n. 570, il revisore, dopo avere svolto le procedure ritenute necessarie, aver ottenuto tutte le informazioni richieste ed avere esaminato il possibile effetto dei piani predisposti dalla direzione e di ogni altro elemento rilevante, deve decidere se gli interrogativi sollevati relativamente alla prospettiva della continuità aziendale sono stati risolti in modo soddisfacente (in merito si veda quanto detto trattando del controllo sul bilancio).
Nella valutazione della continuità aziendale il revisore deve tenere in considerazione:
Indicatori finanziari:
• perdite ricorrenti
• squilibrio finanziario
• bassa rotazione magazzino
Indicatori gestionali
• emorragia dirigenti
• perdita maggior fornitore
Indicatori altri
• azioni dei creditori
• bassa propensione alla capitalizzazione
Piani della direzione
• dismissioni cespiti non strategici
• piani di finanziamento e ristrutturazione debito
• aumenti di capitale
Altre indagini
• fatti dopo chiusura dell’esercizio
• esame bilanci intermedi
• dichiarazioni della direzione
<…>
<…>
Da tale analisi il revisore determina:
- la sussistenza o meno requisito continuità
- gli effetti sul bilancio.
Il revisore può giudicare:
a) presente il presupposto di continuità aziendale;
b) dubbio il presupposto di continuità aziendale;
c) assente il presupposto della continuità aziendale.
A) PRESENTE IL PRESUPPOSTO DI CONTINUITÀ’ AZIENDALE
Il revisore, se ritiene vi sia una sufficiente ed appropriata evidenza che il presupposto della continuità aziendale é appropriato, emette un giudizio positivo senza rilievi o richiami di informativa.
Se a giudizio del revisore, il presupposto della continuità aziendale é appropriato perché vi sono elementi correttivi, in particolare piani della direzione per azioni future, il revisore deve considerare le informazioni evidenziate al riguardo in bilancio.
Le situazioni che si possono presentare sono:
- 1) informazioni riportate in bilancio ed i piani predisposti dalla Direzione fanno ritenere di potere superare le momentanee difficoltà finanziarie. In questo caso il revisore esprime un giudizio positivo senza rilievi e, se ritenuto opportuno, può aggiungere un richiamo di informativa;
- 2) le informazioni ritenute necessarie non sono riportate in bilancio nonostante il revisore abbia acquisito sufficienti elementi probativi per concludere che il presupposto della continuità aziendale sia appropriato. In questo caso il revisore deve esprimere un giudizio con rilievi o un giudizio negativo per carenza di informativa.
B) DUBBI SUL PRESUPPOSTO DI CONTINUITÀ’ AZIENDALE
Il revisore, nei casi in cui ritiene che vi siano dubbi sulla continuità aziendale può riscontrare le seguenti differenti situazioni:
- 1) sussistono margini di dubbio sulla continuità aziendale, ma gli elementi raccolti attestano che le prospettive di riuscire a superare le situazioni di crisi, ancorché incerte nel loro esito finale, si fondano su ragionevoli presupposti.
- Ad esempio, quando la continuità aziendale é legata a decisioni che gli enti finanziatori devono assumere aderendo o meno a piani di ristrutturazione/consolidamento dei crediti vantati nei confronti dell’azienda e tali piani siano costruiti sulla base di ragionevoli presupposti;
- 2) sussistono margini di dubbio sulla continuità aziendale e gli elementi raccolti attestano che le prospettive di riuscire a superare le situazioni di crisi, ancorché incerte nel loro esito finale, si fondano su presupposti fortemente opinabili.
- Ad esempio, nel caso precedente, qualora i piani si basino su prospettive scarsamente condivisibili da parte del revisore e forse anche degli enti finanziatori.
- In entrambe le situazioni il revisore deve valutare se il bilancio:
- - descriva adeguatamente le condizioni principali che provocano l’insorgere di dubbi circa la capacità dell’impresa di continuare l’attività nel prevedibile futuro;
- - indichi che vi sono significativi dubbi che l’impresa possa continuare come azienda in funzionamento e quindi sia in grado di realizzare le proprie attività e soddisfare le proprie passività nel normale corso della propria gestione;
- - indichi che non sono incluse rettifiche relative alla realizzabilità ed alla classificazione delle attività o all’importo e alla classificazione delle passività che possono essere necessarie se l’impresa non é in grado di continuare in funzionamento.
- Le sopraindicate situazioni possono determinare l’emissione dei seguenti giudizi:
- Nel primo caso:
- - qualora l’informativa fornita dagli amministratori sia considerata adeguata il revisore esprime un giudizio positivo senza rilievi ma dovrà aggiungere un richiamo di informativa;
- - qualora l’informativa fornita non sia considerata adeguata, il revisore deve esprimere un giudizio con rilievi o un giudizio negativo per mancanza d’informativa;
- Nel secondo caso:
- - qualora l’informativa fornita dagli amministratori sia considerata adeguata il revisore dovrà dichiararsi impossibilitato ad esprimere un giudizio;
- - qualora l’informativa non sia considerata adeguata dovrà esprimere un giudizio negativo.
C) ASSENTE IL PRESUPPOSTO DELLA CONTINUITÀ AZIENDALE
Nel caso in cui il revisore giudichi che l’impresa non sia in grado di continuare la propria attività nel prevedibile futuro si possono presentare due casi:
1. gli amministratori hanno redatto il bilancio sul presupposto della continuità aziendale;
2. gli amministratori hanno redatto il bilancio senza il presupposto della continuità aziendale.
Un caso di redazione del bilancio in assenza del presupposto di continuità si presenta, ad esempio, quando la data di riferimento del bilancio sia antecedente ad una deliberazione di avvio di procedure liquidatorie ed il bilancio venga redatto successivamente a tale delibera.
Le sopraindicate situazioni possono determinare l’emissione dei seguenti giudizi:
- nel primo caso se il revisore considera che il risultato dell’inappropriato presupposto della continuità aziendale utilizzato nella preparazione del bilancio é così significativo da rendere il bilancio stesso inattendibile, deve rilasciare un giudizio negativo;
- nel secondo caso se il revisore considera che i criteri utilizzati consentono di rendere il bilancio attendibile può rilasciare un giudizio positivo aggiungendo un richiamo di informativa.
ARTICOLO - Pubblicato il: 20 aprile 2010 - Da: G. Manzana E. Iori
Più precisamente, per quanto riguarda le disposizioni relative ai soggetti passivi Irpef (ovverosia, imprese individuali e società di persone commerciali), il nuovo art. 61 del Tuir (così come novellato dall’art. 1, comma 33, lett. b) della Legge Finanziaria per il 2008) prevede – in luogo del richiamo alla disciplina dettata per i soggetti Ires effettuata dai previgenti articoli 62 e 63 del Tuir, oggi abrogati – che: “Gli interessi passivi inerenti all’esercizio d’impresa sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e altri proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa o che non vi concorrono in quanto esclusi e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi [...]”, con ciò riproponendo nella sostanza il meccanismo che governava il c.d. pro-rata “generale” previsto dal “vecchio” art. 96 del Tuir.
Vale quindi quanto fin’ora previsto con riferimento al pro-rata economico di deducibilità.
Si noti come rispetto alla previgente formulazione dell’articolo 96, l’articolo 61 puntualizza il proprio campo di applicazione, confermando che nello stesso rientrano gli interessi passivi “inerenti” l’esercizio d’impresa.
Di conseguenza, in via preliminare, rispetto alla determinazione del pro rata di deducibilità, occorre escludere gli interessi passivi che non afferiscono all’esercizio dell’impresa, in quanto gli stessi non entrano nel citato rapporto e sono del tutto indeducibili.
Il comma 2 del nuovo articolo 61, invece, ripopone in toto la disposizione prima contenuta nel comma 1, e prevede che “La parte di interessi passivi non deducibile ai sensi del comma 1 del presente articolo non dà diritto alla detrazione dall'imposta prevista alle lettere a) e b) del comma 1 dell'articolo 15”, rispettivamente relative alla detrazione degli interessi pagati in dipendenza di prestiti o mutui agrari ed in dipendenza di mutui garantiti da ipoteca su immobili contratti per l’acquisto dell’immobile da adibire ad abitazione principale.
Secondo quanto previsto dall’Agenzia delle entrate nella Circ. 19/E del 2009, è da ritenere che l’articolo 61 del Tuir, anche se non espressamente richiamato dall’articolo 66 del Tuir, si applica anche nella determinazione del reddito delle imprese minori disciplinata dal medesimo articolo.
Inoltre, in base al disposto dell’articolo 144, comma 1, del Tuir, le disposizioni di cui all’articolo 61 del Tuir si applicano anche agli enti pubblici e privati, diversi dalle società, nonché trust, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, residenti nel territorio dello Stato, limitatamente all’attività commerciale svolta. Tali soggetti, infatti, ai sensi dell’articolo 144 del Tuir, per determinare il reddito complessivo sono tenuti ad applicare le disposizioni del titolo I del Tuir, relative ai redditi delle varie categorie.
La deducibilità degli interessi passivi per i soggetti Ires
Per quanto riguarda i soggetti passivi Ires la nuova disciplina risulta interamente contenuta nell’articolo 96 del Tuir.
A differenza della previgente disciplina in ordine alla deducibilità fiscale degli interessi passivi che trovava applicazione, per lo meno con riferimento all’art. 98 del Tuir, solamente nei confronti di un numero esiguo di contribuenti (la sfera di applicazione della c.d. “thin capitalization”, infatti, era notevolmente ridotta dalla disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 98 del Tuir, che – in linea generale – ne prevedeva l’esclusione per i contribuenti con volume d’affari non superiore alle soglie previste per l’applicazione degli studi di settore) la nuova disposizione ha un ambito applicativo di portata praticamente generale: il comma 5 dell’art. 96 del Tuir, infatti, esclude solamente le banche, gli altri soggetti finanziari di cui all’art. 1 del Dlgs 27 gennaio 1992, n.87 (con l’importante eccezione, però, delle holding industriali – che sono quindi soggette alla disciplina dell’art. 96 del Tuir), le imprese di assicurazione, le società capogruppo di gruppi bancari e assicurativi, nonché alcuni altri soggetti operanti nel settore delle opere pubbliche (in merito si veda quanto viene detto dopo).
La disposizione in argomento, in estrema sintesi, prevede che gli interessi passivi e gli oneri a questi assimilati siano fiscalmente deducibili fino a concorrenza di quelli attivi e, per la parte eccedente, nel limite del 30% del Risultato Operativo Lordo (di seguito, per semplicità Rol).
Tale grandezza, come inequivocabilmente disposto dal legislatore, deve essere determinata avendo riguardo ai dati ritraibili dal conto economico del bilancio d’esercizio: “Per risultato operativo lordo”, precisa infatti il comma 2 del “nuovo” art. 96 del Tuir, “si intende la differenza tra il valore e i costi della produzione di cui alle lettere A) e B) dell’art. 2425 del Codice civile, con esclusione delle voci di cui al n. 10, lett. a) e b), e dei canoni di locazione finanziaria di beni strumentali, così come risultanti dal conto economico dell’esercizio; per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali si assumono le voci di conto economico corrispondenti”.
Tale impostazione parrebbe essere l’ulteriore conferma della volontà del legislatore di attribuire rilevanza fiscale alla rappresentazione contabile degli accadimenti di gestione: al medesimo principio di “derivazione” (già fortemente auspicato dalla c.d. “Commissione Biasco” - Cfr. “Relazione finale” redatta dalla Commissione di studio sulla imposizione fiscale sulle società) risultano infatti ispirate anche altre disposizioni contenute nella Legge Finanziaria per il 2008 – in particolare quelle dettate in ambito Irap (Cfr. art. 1, comma 50 della Legge Finanziaria per il 2008) e in materia di imposizione dei soggetti che adottano i principi contabili internazionali Ias/Ifrs (Cfr. art. 1, comma 58 della Legge Finanziaria per il 2008).
Nella Relazione illustrativa agli emendamenti presentati al Disegno di Legge Finanziaria per il 2008 (Camera dei Deputati – atti parlamentari, n. 3256), inoltre, si afferma che “pur riconoscendo l’immanenza del principio di derivazione, il Dlgs n.38/2005 ha lasciato inalterate, anche per i soggetti Ias, la maggior parte delle norme che disciplinano la “trasformazione” del dato originario (risultato di bilancio) in quello derivato (reddito imponibile), senza adeguarle ai nuovi criteri di redazione dei bilanci. Tale scelta originaria, come opportunamente e attentamente suggerito dalla Commissione Biasco, merita un ripensamento”.
Se, da un lato, tale orientamento pare assolutamente condivisibile per i benefici che dovrebbe produrre in termini di semplificazione, dall’altro non si possono trascurare i rischi che esso potrebbe comportare sul piano dell’ “inquinamento fiscale” del bilancio (fenomeno che il legislatore ha inteso “estirpare” mediante l’abrogazione del secondo comma dell’art. 2426 del Codice civile – a mente del quale era consentito effettuare “rettifiche di valore e accantonamenti esclusivamente in applicazione di norme tributarie” (il secondo comma dell’art. 2426 del Codice civile è stato abrogato dall’art. 1 del Dlgs 17 gennaio 2003, n. 6, con decorrenza 1° gennaio 2004) – e la contestuale introduzione della possibilità di effettuare deduzioni extracontabili (tale possibilità venne introdotta dall’art. 1 del Dlgs n. 344 del 12 dicembre 2003,).
Un’ulteriore conseguenza (in questo caso, però, assolutamente fisiologica) che l’introduzione della nuova norma di carattere fiscale potrebbe avere in sede di redazione del bilancio (a partire, però, da quello relativo all’esercizio 2008) è la necessità di dover considerare l’esistenza di nuovi fenomeni di fiscalità differita. Nello
specifico, il comma 4 della disposizione in commento prevede che, “Gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati indeducibili in un determinato periodo d’imposta sono dedotti dal reddito dei successivi periodi d’imposta, se e nei limiti in cui in tali periodi l’importo degli interessi passivi e degli oneri assimilati di competenza eccedenti gli interessi attivi e i proventi assimilati sia inferiore al 30 per cento del risultato operativo lordo di competenza”. Pertanto, nel caso in cui in un determinato periodo d’imposta, a causa dell’applicazione dell’articolo 96 del Tuir, una quota degli interessi passivi di “competenza” risulti indeducibile e, al tempo stesso, sussista la ragionevole certezza che nei periodi futuri vi saranno Rol sufficientemente “capienti” (cioè tali da consentire la deduzione, oltre che degli interessi passivi di “competenza”, anche di quelli “riportabili”), ricorrerebbero le condizioni per iscrivere le imposte differite anticipate correlate all’anzidetta differenza temporanea deducibile. Solamente in questo modo, infatti, è possibile rilevare per competenza – nell’esercizio in cui si sono manifestati gli interessi (temporaneamente) non deducibili – il beneficio economico implicito nel minor carico fiscale di cui si godrà in futuro (e, più precisamente, nel periodo d’imposta in cui sarà possibile dedurre, oltre agli interessi di “competenza”, anche quelli riportabili dal “passato”).
A partire dal 2010, i presupposti per procedere allo stanziamento della fiscalità differita potranno ricorrere anche in una seconda ipotesi. Il comma 1, terzo periodo, dell’articolo 96 del Tuir, infatti, dispone che, “La quota del risultato operativo lordo prodotto a partire dal terzo periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007, non utilizzata per la deduzione degli interessi passivi e degli oneri finanziari di competenza, può essere portata a incremento del risultato operativo lordo dei successivi periodi d’imposta”. Anche in tale ipotesi, pertanto, potrebbe darsi luogo a un futuro “risparmio” fiscale se la quota del (30% del) Rol non utilizzata per la deduzione degli interessi passivi dell’esercizio di competenza consentisse la deduzione di maggiori interessi passivi in periodi d’imposta successivi. Qualora tale circostanza fosse ragionevolmente certa, cioè qualora sussista la ragionevole certezza che in futuro vi saranno interessi passivi (al netto di quelli attivi) eccedenti il 30% del Rol dell’esercizio, si renderebbe opportuno valutare l’iscrizione della relativa fiscalità differita attiva.
Da ultimo ci si chiede se si pone un problema di inerenza. Come detto prima, l'agenzia delle Entrate ha affermato che per i soggetti Irpef e per gli enti non commerciali gli interessi passivi sono deducibili soltanto se inerenti, ma non ha chiarito se la stessa regola si applica anche per gli altri soggetti Ires (Cfr. Circ. 19/E del 2009). Nel testo dell'articolo 61 del Tuir in vigore dal 2008 è stata, in effetti, per la prima volta esplicitamente richiesta per i soggetti Irpef la verifica del requisito dell'inerenza degli interessi passivi, mentre un'analoga precisazione non è stata inserita nel successivo articolo 96 per i soggetti Ires.
In passato la Corte di cassazione (Cfr. sentenze 14702del 2001, 2114 del 2005 e 12990 del 2007) aveva affermato che il diritto alla deducibilità degli interessi passivi sarebbe sempre riconosciuto senza alcun giudizio sulla loro inerenza all'attività d'impresa. Ciò in quanto il principio dell'inerenza sarebbe sancito dall'articolo 109, comma 5, del Tuir, nel quale è precisato che tra le spese e gli altri componenti negativi che sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito non vanno compresi gli interessi passivi.
In dottrina è stato, invece, condivisibilmente ritenuto che il principio di inerenza non avrebbe un'espressa disciplina nel Tuir e che la disposizione dell'articolo 109, comma 5, si riferirebbe al solo profilo della coesistenza di proventi imponibili ed esenti. In questo senso si ritiene vada intesa anche l'affermazione, contenuta nella risoluzione 178/E del 2001, secondo la quale gli interessi sono deducibili «indipendentemente dalla valutazione della loro inerenza ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito», in quanto «considerando l'estrema fungibilità del denaro, l'individuazione di un nesso diretto tra un'operazione di finanziamento e l'utilizzo delle risorse finanziarie generate appare arbitraria».
Appare, infatti, difficilmente sostenibile la deducibilità di interessi relativi a finanziamenti non finalizzati allo svolgimento di attività inerenti all'impresa ma connessi a esigenze personali o familiari dell'imprenditore,dei collaboratori dell'impresa familiare, dei soci e così via. Questa considerazione appare emergere anche dalla sentenza 7292 del 2006 della stessa Corte di cassazione, nella quale è stato affermato che la norma da ultimo richiamata non comporterebbe una generale deducibilità degli interessi passivi, dovendosi sempre dimostrare «un "collegamento" tra reddito imprenditoriale e componente negativo detraibile che non può rivolgersi a un reddito "ontologicamente" diverso perché estraneo alla stessa attività di impresa». L'Agenzia ha, peraltro, recentemente precisato, nella circolare 16/E del 2009, che la deduzione dal reddito d'impresa e di lavoro autonomo del 10 per cento dell'Irap, pur essendo condizionata dalla presenza di oneri per il personale ovvero di interessi passivi, prescinde dall'ammontare di tali spese e che in relazione agli interessi «saranno attivati opportuni controlli al fine di verificarne le valide ragioni economiche e l'inerenza all'attività esercitata». Non è stata, quindi, operata alcuna distinzione tra soggetti Irpef e Ires, nei cui riguardi trova indifferentemente applicazione la detta deduzione.
In considerazione delle richiamate incertezze interpretative sarebbe stato probabilmente più opportuno che il legislatore fosse intervenuto con una disposizione di interpretazione autentica. Si ritiene, comunque, che vada adottata un'interpretazione logico- sistematica della normativa in esame, in base alla quale la sussistenza del requisito dell'inerenza si debba verificare con riguardo alla deducibilità degli interessi passivi sostenuti da qualsiasi tipologia di imprese, anche al fine di evitare ingiustificate disparità di trattamento (Cfr. G. Ferranti, Tutte le società devono provare l'inerenza dei costi, Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2009, pg. 38).
I passaggi
La norma prevede che:
1. gli interessi passivi e gli oneri assimilati sono deducibili in ciascun periodo di imposta fino a concorrenza degli interessi attivi e proventi assimilati (di seguito, per semplicità si ometterà il riferimento agli oneri e proventi assimilati);
2. l’eventuale eccedenza negativa è deducibile nel limite del 30 per cento del risultato operativo lordo della gestione caratteristica.
Il confronto tra la prima e la seconda grandezza (cioè tra interessi passivi e attivi, nella configurazione appositamente assunta ai fini dell’applicazione della disposizione in esame – in merito si veda subito dopo) può sortire due differenti esiti.
Nel caso in cui il primo termine di paragone risulti inferiore al secondo (cioè gli interessi passivi sono inferiore agli intressi attivi), allora gli interessi passivi “normalizzati” possono considerarsi interamente deducibili. Nell’ipotesi in cui non si tratti del primo periodo di adozione della norma, inoltre, qualora vi siano interessi passivi “riportabili” (cioè non dedotti in passato in quanto eccedenti il limite risultante dall’applicazione dell’art. 96 del Tuir), essi potrebbero essere dedotti nei limiti della “soglia” di deducibilità dell’esercizio (rimasta “inutilizzata”, data la già sufficiente “capienza” degli interessi attivi), calcolata così come illustrato precedentemente.
Nel caso, invece, in cui gli oneri di natura finanziaria risultino superiori ai corrispondenti proventi (cioè gli interessi passivi sono superiori agli intressi attivi), il risultato (positivo) di tale differenza – rappresentativo di quelli che potremmo definire “interessi passivi netti (cioè al netto degli interessi attivi) normalizzati” – potrà essere dedotto solamente se e nella misura in cui non superi il 30 per cento del Rol.
Infatti:
1. nel caso in cui quest’ultima sia sufficientemente “capiente”, non si darà luogo ad alcuna variazione in aumento per indeducibilità degli interessi passivi ex art. 96 del Tuir. In tale ipotesi gli interessi passivi netti normalizzati devono considerarsi interamente deducibili e, proprio come nel caso precedente, l’eventuale eccedenza della “soglia” di deducibilità potrebbe consentire la deduzione di interessi passivi “riportabili”, non dedotti in precedenti periodi d’imposta (in quanto eccedenti i limiti di cui all’art. 96 del Tuir). In aggiunta, a partire dal terzo periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007, qualora residuasse una ulteriore “soglia” di deducibilità “inutilizzata”, potrebbe essere portata a incremento del Rol dei successivi periodi d’imposta.
2. nel caso in cui, invece, si verifichi il “superamento” della “soglia” di deducibilità, gli interessi passivi netti normalizzati potranno essere dedotti solamente sino a concorrenza di tale limite (ferma restando, naturalmente, la piena deducibilità degli interessi corrispondenti a quelli attivi). L’eventuale eccedenza indeducibile nel periodo di competenza, ai sensi del comma 4 dell’art. 96 del Tuir, tuttavia, potrà essere riportata (senza limiti di tempo) e dedotta nei successivi periodi d’imposta qualora vi siano “soglie” di deducibilità sufficientemente “capienti”.
La possibilità di riportare illimitatamente gli interessi passivi eccedenti la “soglia” di deducibilità “ha reso opportuno prevedere anche una norma di tipo antielusivo, per evitare, similmente al caso delle perdite, che le operazioni straordinarie siano fatte al precipuo scopo di subentrare nel diritto alla deduzione a titolo di interessi portati a nuovo. A ciò provvede” la disposizione contenuta nell’art. 1, comma 33, lett. aa) della Legge Finanziaria per il 2008, “estendendo, con una modifica all’art. 172 del Tuir, agli interessi passivi portati in avanti lo stesso trattamento limitativo delle perdite nell’ambito delle operazioni di fusione e, per richiamo, di scissione” – cfr. Relazione illustrativa al Disegno di Legge Finanziaria per il 2008 (Senato della Repubblica – atti parlamentari, n.1817).
A norma del comma 34 dell’articolo 1 della legge n. 244 del 2007 , “per il primo ed il secondo periodo di imposta di applicazione [della nuova disciplina, n.d.r.], il limite di deducibilità degli interessi passivi è aumentato di un importo pari, rispettivamente, a 10.000 e 5.000 euro.” Sulla base di tale disposizione, per i primi due periodi di imposta di applicazione delle nuove disposizioni (gli anni d’imposta 2008 e 2009 per i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare) è, pertanto, possibile beneficiare di una franchigia di deducibilità immediata degli interessi passivi (assunti al netto di quelli attivi) per un ammontare non superiore ai predetti importi.
In altri termini, nei predetti periodi di imposta gli interessi passivi sono anzitutto deducibili fino a concorrenza degli interessi attivi; l’eventuale eccedenza è, comunque, deducibile fino a concorrenza dell’importo di 10.000 e 5.000 euro, rispettivamente per il primo ed il secondo periodo di imposta; l’eventuale ulteriore eccedenza rimane, in ogni caso, deducibile nel limite del 30 per cento del Rol.
Nella sostanza, nei primi due periodi d’imposta di applicazione della norma, i passaggi per determinare la quota deducibile degli interessi passivi sono tre:
1. gli interessi passivi sono deducibili in ciascun periodo di imposta fino a concorrenza degli interessi attivi;
2. l’eventuale eccedenza negativa è deducibile fino a concorrenza dell’importo di 10.000 e 5.000 euro, rispettivamente per il primo ed il secondo periodo di imposta;
3. l’eventuale eccedenza negativa è deducibile nel limite del 30 per cento
del risultato operativo lordo della gestione caratteristica.
Ammontare di interessi passivi che sono soggetti ai limiti di deducibilità
Il comma 3 dell’art. 96 del Tuir, specifica che “assumono rilevanza gli interessi passivi [...] nonché gli oneri [...] assimilati derivanti da contratti di mutuo, da contratti di locazione finanziaria, dall’emissione di obbligazioni e titoli similari e da ogni altro rapporto avente causa finanziaria, con esclusione degli interessi impliciti derivanti da debiti di natura commerciale [...]”.
La norma attribuisce rilievo agli interessi derivanti da taluni contratti espressamente indicati, nonché da qualsiasi altra operazione avente causa finanziaria. Rientra, pertanto, nell’ambito di applicazione della disciplina in esame ogni e qualunque interesse (od onere ad esso assimilato) collegato alla messa a disposizione di una provvista di danaro, titoli o altri beni fungibili per i quali sussiste l’obbligo di restituzione e in relazione ai quali è prevista una
specifica remunerazione.
Secondo la circ. 19/E del 2009 posto il tenore letterale della norma, s i ritiene, così come previsto anche in tema di thin capitalization rule, che rientri fra le fattispecie cui è applicabile l’articolo 96 del Tuir anche il c.d. notional cash pooling, il quale costituisce un sistema di compensazione degli interessi tra s ocietà appartenenti ad uno s tesso gruppo. Come precisato dall’Agenzia nella Ris. 8 ottobre 2003 n. 194/E, e ribadito Circ. 17 marzo 2005, n. 11/E, detta compensazione consente alla società intestataria del conto corrente di ottenere che il proprio conto risulti addebito, usufruendo, quindi, nella sostanza di una forma di finanziamento,
ancorché indiretta.
Per quanto riguarda l’individuazione degli oneri e proventi “assimilati”, l’Agenzia delle entrate nella Circ. 19/E del 2009, ha, nella sostanza, mutuati i principi pronunciati in passato con riferimento alla base imponibile dell’Irap(Cfr. Circ. n.141/E-III-86270 del 4 giugno 1998). In particolare, ha avuto modo di dire che occorre fare riferimento ad una nozione non meramente nominalistica, ma sostanzialistica di interessi.
A titolo esemplificativo ritiene compresi fra gli oneri e proventi assimilati agli interessi attivi e passivi le seguenti voci:
- gli sconti passivi su finanziamenti ottenuti da banche o da altre istituzioni finanziarie;
- le commissioni passive su finanziamenti e per fideiussioni o altre garanzie rilasciate da terzi;
- gli altri oneri da titoli di debito emessi, compresi i disaggi di emissione e i premi di rimborso;
- gli oneri sostenuti dal prestatario nelle operazioni di prestito titoli, semprechè la causa di detti ultimi contratti rivesta una natura finanziaria.
A tale proposito il documento OIC 12 qualifica come oneri finanziari le commissioni passive su finanziamenti citando in modo esplicito le commissioni di massimo scoperto, oggi non più applicate. Al posto di questi addebiti vi sono commissioni sull'accordato, cioè importi dovuti per utilizzo della linea di credito concordata con l'istituto di credito, e penali per sconfinamenti, che alcune banche addebitano in cifra fissa, altre in percentuale, quali gli utilizzi del fido oltre la misura concordata. Non vi è dubbio che la prima voce (commissioni sull'accordato) rientra nel contesto di commissioni passive su finanziamenti e quindi negli importi che vanno inseriti nel 30% del Rol. Sulla seconda voce (penali per sconfinamenti) si potrebbe evocare la natura risarcitoria dell'addebito.
Gli interessi relativi alle operazioni di pronti contro termine su titoli aventi funzione di raccolta sono esclusi dall’applicazione del novellato articolo 96 del Tuir. Infatti, resta ferma (anche per i soggetti IAS adopter) l’applicazione dell’articolo 89, comma 6, del Tuir per quanto concerne gli interessi maturati sulle attività oggetto dell’operazione nel periodo di durata del contratto; tali interessi, infatti, non concorrendo a formare il reddito del cedente (né come componente pos itivo, né come componente negativo) sono da ritenersi esclusi ai fini della disciplina di cui all’articolo 96 del Tuir. Rientra tuttavia fra gli oneri assimilati il differenziale negativo esistente fra prezzo a pronti e prezzo a termine (al netto degli interessi maturati sul titolo nel periodo di durata del contratto). Tale interpretazione trova conforto nella Circ. Min. n. 73 del 27 maggio 1994 nella quale viene specificato che “nel pronti contro termine, lo ‘scarto’ tra il prezzo a pronti e quello a termine (…) costituisce un componente positivo o negativo riferibile alla linea capitale del titolo sottostante oggetto del contratto, emergendo pur sempre da una doppia cessione del titolo. Conseguentemente, ancorché detto scarto concorra a formare il reddito alla stregua di proventi e oneri finanziari, quindi ‘pro rata temporis’, non soggiace alla disciplina prevista per la deducibilità degli interessi passivi”.
Per quanto concerne i contratti derivati, la Circ. 19/E del 2009 ritiene che la disciplina di cui all’articolo 96 del Tuir risulti applicabile ai derivati stipulati con finalità di copertura del rischio legato ad oscillazioni del tasso di interesse, in quanto in tale caso si verifica l’integrazione (con segno positivo o negativo) dell’interesse derivante dall’operazione coperta.
In linea generale occorre, comunque, considerare quale onere o provento assimilato all’interesse passivo, ovvero attivo, qualunque onere, provento o componente negativo o positivo di reddito relativo all’impresa che presenti un contenuto economico-sostanziale assimilabile ad un interesse passivo o attivo. Tale interpretazione è in linea con l’applicazione del principio della prevalenza della sostanza economica s ulla forma giuridica nella rappresentazione contabile dei fatti di gestione secondo quanto previs to dai principi contabili internazionali IAS/IFRS [e, indirettamente, dall’art. 2423-bis, comma 1, n. 1) del codice civile che impone di valutare le voci di bilancio tenendo conto della “funzione economica” dell’elemento dell’attivo o del passivo considerato].
Gli interessi non aventi causa finanziaria non rientrano nella deducibilità limitata dell’art. 96. Un caso è rappresentato dagli interessi di mora addebitati dai fornitori. Tale posta non deriva da una causa finanziaria ma da un inadempimento contrattuale: la sua natura risarcitoria è sufficiente a garantirne la deducibilità integrale (si veda circolare Assonime 46/09, paragrafo 4), fermo restando il particolare criterio di cassa che sottende al riconoscimento fiscale di questo componente negativo ex articolo 109, comma 7 del Tuir.
Diversamente gli interessi di dilazione pattuiti con i fornitori hanno natura di corrispettivo, rappresentando il prezzo di particolari modalità di pagamento.
Il medesimo comma 3 dell’articolo 96 prevede – ai fini dell’applicazione della disposizione in esso contemplata – l’“esclusione degli interessi impliciti derivanti da debiti di natura commerciale” e l’“inclusione, tra gli attivi, di quelli derivanti da crediti della stessa natura”.
La disciplina in esame, riferendosi testualmente ai soli interessi impliciti, non
sembrerebbe riguardare gli interessi passivi per dilazione di pagamento (che sono esposti in contratto). La conseguenza è che tali interessi dovrebbero sottostare al regime di deducibilità condizionata previsto dall’art. 96 del TUIR (nei limiti, cioè, degli interessi attivi e del 30 per cento del ROL), ancorché afferenti a rapporti di natura commerciale. Secondo l’Assonime (Cric. 46 del 18 novembre 2009) questa conclusione, tuttavia, solleva perplessità sul piano logico e sistematico giacché, avendo riguardo alla ratio della norma, sarebbe coerente ritenere che anche questi interessi possano beneficiare della disposizione di esclusione dall’ambito applicativo dell’art. 96 in quanto afferenti, come quelli impliciti, a rapporti commerciali.
Secondo il documento contabile 1 interpretativo del documento 12 OIC gli sconti passivi pronta cassa vanno iscritti tra gli oneri finanziari di cui alla voce C 17 del conto economico. Sulla eventuale inclusione di questa voce nel computo del 30% del Rol si registra, tuttavia, una tesi negativa enunciata dall'agenzia delle Entrate (MAP 28 maggio 2009), sulla base della considerazione che tali oneri rappresentano componenti derivanti da rapporti commerciali e non finanziari. Per contro gli interessi attivi da sconti pronta cassa sono invece sempre da includere tra le componenti finanziarie attive che delimitano l'ammontare degli interessi passivi integralmente deducibili al di fuori del 30% del Rol.
Con riferimento ai contratti di locazione finanziaria, si fa presente che l’articolo 1, comma 33, lettera n), della legge finanziaria 2008 ha modificato la disposizione contenuta nell’articolo 102, comma 7, del Tuir. A seguito della suddetta modifica, la “quota di interessi impliciti desunta dal contratto” di leasing è soggetta alle regole previste dall’articolo 96 del Tuir.
Pertanto, alla stregua della norma appena richiamata, occorre determinare, in base alle risultanze del contratto di locazione finanziaria, l’ammontare degli interessi passivi (impliciti nei canoni) relativi al periodo d’imposta e tenerne conto ai fini del calcolo di deducibilità di cui all’articolo 96 del Tuir. Secondo la Circ. 19/E del 2009 per esigenze di semplificazione i soggetti che non adottano i principi contabili internazionali IAS/IFRS, possano continuare a fare riferimento al criterio di individuazione forfetaria degli interessi impliciti dettato, ai fini dell’IRAP, dall’articolo 1 del decreto ministeriale 24 aprile 1998.
L’articolo 96, comma 1, del Tuir esclude espressamente dal proprio ambito oggettivo di applicazione gli interessi passivi e gli oneri assimilati compresi nel costo dei beni ai sensi del comma 1, lettera b), dell’articolo 110 del Tuir.
Tale norma dispone, quale regola generale, che “si comprendono nel costo (dei beni) anche gli oneri accessori di diretta imputazione, esclusi gli interessi passivi e le spese generali”, con le seguenti eccezioni:
- nel costo (di acquisto o fabbricazione) dei beni materiali ed immateriali strumentali per l’esercizio dell’impresa si comprendono “gli interessi passivi iscritti in bilancio ad aumento del costo stesso per effetto di disposizioni di legge”.
- nel costo degli immobili alla cui produzione è diretta l’attività dell’impresa (c.d. “immobili-merce”) si comprendono gli interessi passivi sui prestiti contratti per la loro costruzione o ristrutturazione.
Detti oneri finanziari sono, pertanto, esclusi dalle limitazioni previste dall’articolo 96 del Tuir, nella misura in cui risultino compresi nel costo fiscale dei beni ai sensi dell’articolo 110, comma 1, lettera b), del Tuir.
Per quanto riguarda, invece, gli interessi passivi relativi all’acquisizione di immobili destinati alla successiva rivendita o locazione la Circ. 19/E del 2009 ritiene che, in assenza di un’esplicita previsione normativa, trovi applicazione la regola generale sopra indicata secondo la quale non si comprendono nel costo dei beni gli interessi passivi. Relativamente agli interessi passivi sostenuti per l’acquisizione di immobili-merce troveranno, quindi, applicazione i limiti di deducibilità previsti dall’articolo 96 del Tuir.
Per completezza, si rammenta che - come precisato nella circolare n. 47/E del 18 giugno 2008 (cfr. par. 5.4) - “l’eventuale patrimonializzazione di interessi passivi operata in bilancio ad incremento del valore di iscrizione di immobili-patrimonio è, in ogni caso, priva di rilevanza fiscale” con la conseguenza che gli interessi passivi portati in bilancio ad incremento del costo degli immobili in esame qualora sostenuti in relazione:
- a finanziamenti contratti per la relativa “acquisizione” (nel senso di acquisto o costruzione – si veda dopo), rientreranno nell’ambito di applicazione dell’articolo 96 del Tuir;
- a finanziamenti diversi da quelli di cui al punto precedente,
risulteranno integralmente indeducibili a norma dell’articolo 90, comma 2, del Tuir.
Ciò in quanto, la predetta capitalizzazione non può essere riconosciuta a fini fiscali in quanto la disposizione dell’art. 101 del Tuir si riferisce ai «beni materiali e immateriali strumentali per l’esercizio dell’impresa».
Non rientrano, infine, nel campo di applicazione dell’articolo 96 del Tuir, gli interessi passivi imputati secondo corretti principi contabili ad incremento del costo delle rimanenze di beni o servizi oggetto dell’attività
dell’impresa, diversi dagli immobili. Ciò in quanto, ai fini fiscali, il valore delle rimanenze è determinato a partire dal loro valore correttamente rappresentato in bilancio ai sensi del combinato disposto degli articoli 110, comma 1, 92 e 93 del Tuir (Cfr. Circ. 19/E del 2009, Ris. n. 3/DPF del 14 febbraio 2008).
Per la medesima ragione, la Circ. 19/E del 2009 ritiene che siano esclusi dall’ambito di applicazione dell’articolo 96 anche gli interessi passivi relativi a prestiti contratti per la realizzazione dei lavori su commessa purché, appunto, correttamente imputati ad aumento del valore delle rimanenze. Diversamente, gli interessi passivi relativi a finanziamenti concessi per la realizzazione di lavori su commessa e non imputati ad aumento delle rimanenze potranno essere dedotti dal reddito dell’esercizio in base a quanto disposto dall’articolo 96 del Tuir.
Dall’ammontare degli oneri finanziari rilevanti ai fini qui in esame, infine, devono essere sottratti anche gli interessi passivi la cui indeducibilità sia già sancita da specifiche disposizioni. In particolare, ai sensi del citato comma 6, gli interessi passivi che rilevano ai fini dell’applicazione dell’articolo 96 devono essere considerati al netto di quelli indeducibili in modo assoluto ai sensi delle disposizioni di seguito indicate, delle quali “resta ferma l’applicazione in via prioritaria”:
- articolo 90, comma 2, del Tuir [indeducibilità degli interessi relativi a finanziamenti contratti per la gestione di immobili-patrimonio – c.d. interessi di funzionamento]. Nello specifico, la previsione di indeducibilità assoluta riguarda gli interessi di funzionamento relativi a detti immobili e non quelli relativi a finanziamenti contratti per l’“acquisizione” (i.e.“acquisto” o “costruzione”) degli stessi; in merito si veda quanto detto subito dopo;
- dai commi 7 e 10 dell’art. 110” del Tuir (indeducibilità degli interessi in applicazione della disciplina del “transfer pricing” e dei costi “paradisiaci”),
- “dall’art. 3, comma 115, della Legge 28 dicembre 1995, n.549, in materia di interessi su titoli obbligazionari, e
- dall’art. 1, comma 465, della Legge 30 dicembre 2004, n. 311, in materia di interessi sui prestiti dei soci delle società cooperative”.
- Interessi relativi a finanziamenti finanziamenti per l'acquisto dei veicoli disciplinati dall'articolo 164 Tuir.
Trattando di interessi passivi relativi a finanziamenti per l'acquisto dei veicoli disciplinati dall'articolo 164 del Tuir, l’Agenzia delle entrate ha avuto modo di dire che sono deducibili applicando esclusivamente la disciplina fissata da questo articolo (Cfr. Circ. n. 47/E del 2008). In sostanza, l'articolo 164 del Tuir viene considerato norma speciale, e quindi prevalente, rispetto alla norma generale dell'articolo 96 del Testo unico che fissa la deducibilità dell'eccedenza nel limite del 30% del Rol.
Di conseguenza, gli interessi passivi sostenuti in relazione a finanziamenti contratti per i veicoli contemplati nell'articolo 164 del Tuir sono:
a) interamente deducibili, se relativi a mezzi di trasporto utilizzati esclusivamente come beni strumentali nell'attività propria dell'impresa o adibiti a uso pubblico;
b) deducibili nella misura del 40% (80% qualora utilizzati da agenti o rappresentanti di commercio), se riferibili ai mezzi di trasporto richiamati nel comma 1, lettera b), dell'articolo 164 del Tuir;
c) deducibili nella misura del 90%, se sostenuti relativamente a mezzi di trasporto concessi in uso promiscuo ai dipendenti.
Il parere dell'Agenzia si presta a qualche riflessione. In primo luogo, questo orientamento sembra superare definitivamente quello espresso nella risoluzione 9 novembre 2001 n. 178/E secondo cui «... gli interessi passivi, quali oneri generati dalla funzione finanziaria, possono essere assimilati a un costo generale dell'impresa, cioè a un costo che non può essere specificamente riferito a una particolare attività aziendale o ritenuto accessorio a un particolare onere...».
Nel sancire la "specialità" dell'articolo 164 del Tuir e la sua prevalenza sull'articolo 96 si afferma l'accessorietà al cespite degli oneri finanziari alla stregua delle altre spese e componenti negativi (impiego, custodia, manutenzione, riparazione,eccetera) relative ai veicoli in argomento, che sono disciplinati in modo unitario, agli effetti dell'articolo 164 del Tuir, a prescindere dalla loro specifica natura.
Un'ulteriore riflessione riguarda il caso di acquisizione di veicoli mediante leasing: è dubbio, infatti, se anche per gli oneri finanziari compresi nel relativo canone trovi applicazione l'articolo 164 del Tuir o debba, invece, applicarsi l'articolo 96 dello stesso Testo unico.
Il dubbio deriva dall'articolo 102, comma 7, ultimo periodo, laddove è previsto che «La quota di interessi impliciti desunta dal contratto è soggetta alle regole dell'articolo 96.». La norma sembra, dal punto di vista letterale, avere rilevanza generale e trovare, quindi, applicazione anche con riferimento agli interessi relativi a canoni di leasing per veicoli di cui all'articolo 164, del Tuir, in quanto non vi è alcuna esclusione espressa per i predetti beni. Questa interpretazione – secondo la quale gli interessi impliciti compresi nei canoni di leasing relativi ai predetti veicoli sarebbero sottoposti alla disciplina ordinaria dell'articolo 96 del Tuir – non appare, però, condivisibile, perché si determinerebbe un trattamento fiscale differenziato degli interessi del leasing rispetto a quelli derivanti da finanziamento diretto, in passato sempre evitato dall'Agenzia nelle sue interpretazioni.
Si pensi a un veicolo utilizzato esclusivamente nell'attività dell'impresa: se l'acquisizione è avvenuta in leasing, gli interessi compresi nel canone sarebbero soggetti all'articolo 96 del Tuir mentre quelli relativi all'acquisto in proprietà dello stesso mezzo sarebbero completamente deducibili ai sensi dell'articolo 164 del Tuir. Questa conseguenza non appare accettabile e si ritiene, pertanto, che anche nel caso degli interessi su canoni per acquisizione di veicoli debba trovare applicazione l'articolo 164 del Tuir. Peraltro, se la disciplina di questo articolo è considerata di carattere speciale, dettata per tutti i costi sostenuti in relazione ai mezzi di trasporto ivi indicati e prevalente rispetto all'articolo 96 del Tuir, la "specialità" non può che riguardare anche gli interessi compresi nei canoni, in quanto l'articolo 164 riguarda anche i veicoli acquisiti in leasing.
Trattamento degli interessi passivi relativi ad immobili-patrimonio e in generale quelli delle immobiliari di gestione
In merito agli interessi di funzionamento, e più in generale alla deducibilità degli interessi passivi su beni patrimonio, si evidenzia come il comma 1 dell’articolo 90 del Tuir stabilisce che le unità immobiliari possedute in regime d’impresa che non costituiscono beni strumentali all’attività d’impresa, né tantomeno beni merci (cd. “immobili-patrimonio”), concorrono alla determinazione del reddito d’impresa sulla base dei criteri previsti dal medesimo testo unico per i redditi fondiari. Conseguentemente, il comma 2 della menzionata disposizione normativa prevede che “le spese e gli altri componenti negativi relativi ai beni immobili indicati nel comma 1 non sono ammessi in deduzione”.
Il dato letterale di tale ultima disposizione aveva indotto l’amministrazione finanziaria a ritenere che il divieto di deducibilità delle spese e dei componenti negativi relativi agli immobili-patrimonio, contenuto nello stesso
comma 2 dell’articolo 90 del Tuir, si applicasse anche agli interessi passivi, compresi quelli relativi a finanziamenti contratti per l’acquisizione degli s tessi immobili. In tal senso si era espressa la circolare n. 6/E del 2006, che aveva ritenuto applicabile anche agli interessi passivi di finanziamento la predetta previs ione di
generalizzata indeducibilità.
L’articolo 1, comma 35, della legge 244 del 2007 ha introdotto una norma di interpretazione autentica secondo la quale “tra le spese e gli altri componenti negativi indeducibili di cui al comma 2 dell’articolo 90 del testo unico delle imposte sui redditi (…) non si comprendono gli interessi passivi relativi a finanziamenti contratti per l’acquisizione degli immobili indicati al comma 1 dello stesso articolo 90”.
Il menzionato comma 35 contiene, dunque, un preciso riferimento agli interessi passivi relativi a finanziamenti contratti per l’“acquisizione” degli immobili di cui all’articolo 90, comma 1, del Tuir (cd. immobili-patrimonio).
Al riguardo, la circ. 19/E del 2009 ritiene che con il termine “acquisizione” il legislatore abbia inteso riferirsi non solo agli interessi passivi sostenuti in relazione ai finanziamenti accesi per l’“acquisto” di tali immobili (i.e. interessi sostenuti sui mutui contratti per l’“acquisto” degli immobili-patrimonio), ma anche agli interessi passivi relativi a finanziamenti stipulati per la “costruzione” degli stessi (i.e. interessi sostenuti in dipendenza di mutui accesi per la “costruzione” degli immobili- patrimonio). In altri termini, il comma 35 in esame deve essere interpretato nel senso che
- gli interessi passivi a servizio di finanziamenti contratti per la costruzione o per l’acquisto degli immobili di cui all’articolo 90, comma 1, del Tuir non rientrano tra le spese e gli altri componenti negativi per cui vale la previsione di indeducibilità assoluta di cui al comma 2 della medesima disposizione; ciò posto, sono deducibili, nei limiti ed alle condizioni ora previste dall’articolo 96 del Tuir;
- gli interessi passivi relativi a finanziamenti contratti, ad esempio, a fronte di interventi di manutenzione straordinaria, rimangono integralmente indeducibili.
L’Agenzia delle entrate nulla dice in merito a eventuali acquisti mediante leasing. In ogni caso considerato l’ormai assodata alterantività tra “della scelta aziendale tra acquisizione dei beni proprietà e in leasing” (cfr. relazione ministeriale al decreto legge n. 414 del 1989; circolare del 17 ottobre 2001, n. 90/E; risoluzione del 25 febbraio 2005, n. 27/E; risoluzione del 10 maggio 2004, n. 69/E; risoluzione del 23 febbraio 2004, n. 19/E; risoluzione del 17 dicembre 2007, n. 379) è da ritenersi che le medesime considerazioni valgono nell’ipotesi in cui gli immobili, siano detenuti in virtù di un contratto di leasing. In tal senso anche l’Assonime, la quale nella circ. 46 del 18 novembre 2009 auspica anche che possano essere esclusi dall'applicazione dell'indeducibilità (articolo 90 del Tuir) non solo «gli interessi passivi relativi a finanziamenti contratti per l'acquisizione degli immobili» ma anche quelli per l'acquisizione tramite leasing.
L’introduzione della norma di interpretazione autentica in esame supera anche l’interpretazione fornita dall’Agenzia con la Ris. n. 71/E del 18 aprile 2007, secondo la quale gli interessi passivi di finanziamento corrisposti dalle cooperative edilizie a proprietà indivisa, per effetto della loro assimilazione alle persone fisiche, erano da considerarsi deducibili con le stesse modalità e nei medesimi limiti stabiliti dall’articolo 15 del Tuir in favore delle persone fisiche.
L’espressa qualificazione del comma 35, dell’articolo 1, della legge finanziaria 2008 quale norma di interpretazione autentica, comporta che lo stesso possiede efficacia retroattiva. In proposito, si ricorda che la retroattività della norma incontra in ogni caso il limite dei cosiddetti rapporti esauriti, intendendosi per tali quelli per cui sia intervenuto un giudicato o un atto amministrativo definitivo o, comunque, siano decorsi i termini di prescrizione o decadenza stabiliti dalla legge per l’esercizio dei diritti ad essi relativi (cfr., sul punto,
risoluzione n. 2/E del 3 gennaio 2005).
In applicazione della predetta disposizione di interpretazione autentica non sono più sostenibili gli atti di accertamento che s i ispirano ad un’interpretazione diversa da quella ora fatta propria dal legislatore.
Si pone poi il problema di capire se gli interessi passivi civilsiticamente capitalizzati assumono rilevanza dal punto di vista fiscale. Occorre infatti considerare che l’articolo 96 del Tuir esclude dal proprio campo di applicazione gli interessi passivi “compresi nel costo dei beni ai sensi del comma 1, lettera b), dell’articolo 110”, rendendoli, pertanto, pienamente deducibili ma la lettera b) del 1° comma dell’articolo 110 del Tuir stabilisce, che nel costo fiscale dei “beni materiali ed immateriali strumentali per l’esercizio dell’impresa” si comprendono anche gli interessi passivi, qualora questi ultimi risultino “iscritti in bilancio ad aumento del costo stesso per effetto di disposizioni di legge”. Secondo l’Agenzia delle entrate (Cfr. Circ. 18 giuugno 2008, 47/E, risp. 5.4 e Circ. 19/E del 2009) occorre applicare la norma di carattere generale contenuta nel primo periodo della lettera b, 1° comma, dell’articolo 110 del TUIR, per cui non possono comprendersi nel relativo costo fiscale dei beni patrimonio gli interessi passivi. Ne consegue che - dal momento che l’eventuale patrimonializzazione di interessi passivi operata in bilancio ad incremento del valore di iscrizione di immobili-patrimonio è, in ogni caso, priva di rilevanza fiscale - gli interessi passivi portati in bilancio ad incremento del costo degli immobili in esame rientreranno nell’ambito di applicazione della disciplina contenuta nell’articolo 96 del TUIR. Resta inteso che qualora gli interessi passivi sostenuti riguardo agli immobili-patrimonio siano relativi a finanziamenti diversi da quelli contratti per la relativa “acquisizione” (di cui alla norma dell’articolo 1, comma 35, della L. n. 244 del 2007), gli stessi risulteranno integralmente indeducibili conformemente a quanto stabilito dall’art. 90, comma 2, del TUIR. In merito si veda anche quanto detto a commento dell’art. 96.
Il comma 36 dell’articolo 1 della legge n. 244 del 2007 prevede, con disposizione di carattere transitorio, secondo la quale “la non rilevanza ai fini dell’articolo 96 … degli interessi passivi relativi a finanziamenti garantiti da ipoteca su immobili destinati alla locazione”.
Per meglio comprendere la ratio della norma e definirne l’ambito applicativo è opportuno ricordare la disposizione in cui risulta inserita. In particolare, la prima parte del comma 36 dell’articolo 1 della legge finanziaria per il 2008 demanda ad una commissione di studio sulla fiscalità diretta e indiretta delle imprese immobiliari il compito di proporre l’adozione di modifiche normative volte alla semplificazione e alla razionalizzazione del sistema vigente. In prospettiva di attuare questa revisione organica della fiscalità riguardante le “imprese immobiliari”, la norma citata ha poi stabilito, in via transitoria, “la non rilevanza ai fini dell’articolo 96 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, degli interessi passivi relativi a finanziamenti garantiti da ipoteca su immobili destinati alla locazione”. Trattasi, più precisamente, di una norma programmatica contenente due disposizioni tra loro collegate che regolamentano il settore immobiliare. In sostanza, la disposizione introdotta dalla legge finanziaria per il 2008, nel prevedere una riforma della fiscalità delle imprese immobiliari, dispone, nel periodo transitorio, la temporanea esclusione dal meccanismo di deducibilità del nuovo articolo 96 del TUIR degli interessi passivi corrisposti dalle medesime società immobiliari e derivanti da finanziamenti garantiti da ipoteca su immobili dati in locazione.
Secondo la Circ. 37/E/2009, da ciò ne consegue che l’ambito soggettivo di applicazione del comma 36 citato è limitato alle cd. “immobiliari di gestione”. Come chiarito dalla risoluzione n. 323/E del 9 novembre 2007, sono immobiliari di gestione le società il cui valore del patrimonio (assunto a valori correnti) è prevalentemente costituito da beni immobili diversi dagli immobili alla cui produzione o al cui scambio è effettivamente diretta l’attività, nonché dagli immobili direttamente utilizzati nell’esercizio dell’impresa: si tratta in sintesi delle società la cui attività consiste principalmente nella mera utilizzazione passiva degli immobili cd. “patrimonio” e strumentali per natura locati o comunque non utilizzati direttamente.
Per quanto concerne, inoltre, l’ambito oggettivo della disposizione la Circ. 37/E/2009 conferma che, con la locuzione “interessi passivi relativi a finanziamenti garantiti da ipoteca su immobili destinati alla locazione”, il legislatore abbia voluto riferimento sia agli immobili patrimoniali che agli immobili strumentali per natura, purché destinati all’attività locativa, non essendo determinante la natura dell’immobile posto a garanzia dell’impegno assunto.
L’Agenzia delle entrate nella Circ. 37/E/2009 ritiene inoltre che affinché la previsione di deducibilità piena degli interessi passivi ipotecari trovi applicazione è necessario, inoltre, che il mutuo ipotecario abbia ad oggetto gli stessi immobili successivamente destinati alla locazione.
Nella stessa circolare, l’Agenzia delle entrate, al pari di quanto previsto dall’art. 1 comma 35 della legge 244/2007 per quanto concerne la deducibilità limitata degli immobili patrimonio, fa rifermento a “gli interessi passivi corrisposti per l’acquisto o la costruzione di immobili”. Ciò ancorchè, a differenza della previsione appena sopra richiamata, la norma non faccia riferimento a finanziamenti contratti per l’“acquisizione” degli immobili.
Da ultimo, al fine di “assicurare nel tempo, in relazione alle mutevoli condizioni di mercato, la necessaria neutralità fiscale della scelta aziendale tra acquisizione dei beni proprietà e in leasing” (cfr. relazione ministeriale al decreto legge n. 414 del 1989; circolare del 17 ottobre 2001, n. 90/E; risoluzione del 25 febbraio 2005, n. 27/E; risoluzione del 10 maggio 2004, n. 69/E; risoluzione del 23 febbraio 2004, n. 19/E; risoluzione del 17 dicembre 2007, n. 379) la Circ. 37/E del 2009 conferma che le medesime considerazioni valgono nell’ipotesi in cui gli immobili, oggetto di locazione, siano detenuti in virtù di un contratto di leasing. Infatti, l’acquisto di un bene mediante un contratto di locazione finanziaria può considerarsi come un’operazione sostanzialmente equivalente, sul piano fiscale, all’acquisto del bene in proprietà. Inoltre, per sua intrinseca natura, il contratto di leasing garantisce, ancor più di un mutuo ipotecario, quel collegamento imprescindibile tra l’immobile (da destinare alla locazione) ed il finanziamento ricevuto, la cui sussistenza è richiesta dalla norma in esame quale presupposto necessario per escludere i relativi interessi passivi dall’ambito applicativo dell’articolo 96 del TUIR.
Ammontare di interessi attivi
In merito all’individuazione degli interessi attivi, si segnala che, a differenza di quanto previsto per gli interessi passivi, nel computo di quelli attivi devono considerarsi, oltre ai proventi “derivanti da contratti di mutuo, da contratti di locazione finanziaria, dall’emissione di obbligazioni e titoli similari e da ogni altro rapporto avente causa finanziaria” (Cfr. art. 96, comma 3 del Tuir), anche quelli impliciti derivanti da crediti di natura commerciale e, per i soggetti operanti con la Pubblica Amministrazione, “quelli virtuali, calcolati al tasso ufficiale di riferimento aumentato di un punto, ricollegabili al ritardato pagamento dei corrispettivi”.
Con riferimento agli interessi impliciti nelle dilazioni di pagamento di natura commerciale, si noti il legislatore ha previsto un’asimmetria “doppiamente” favorevole al contribuente: il comma 3 dell’art. 96 del Tuir, infatti, ai fini dell’applicazione della norma, dispone non solo che gli interessi passivi di tale specie non debbano considerarsi rilevanti (e, quindi, “sfuggano” ai limiti di deducibilità ivi previsti), ma anche che di quelli attivi si debba – al contrario – tener conto, con conseguente aumento (di pari importo) degli interessi passivi deducibili.
Per quanto concerne quelli con la pubblica Amministrazione, si può ritenere si tratta del riconoscimento di una sorta di interessi di mora “figurativi”, riconosciuti al fine di evitare penalizzazioni a scapito dei soggetti che ordinariamente intrattengono rapporti con la Pubblica Amministrazione, che notoriamente pagatrice applica condizioni di pagamento “sfavorevoli”.
Poiché la norma ricollega espressamente gli interessi attivi virtuali “al ritardato pagamento dei corrispettivi”, la Circ. 19/E del 2009 ritiene che essi debbano essere calcolati con decorrenza dal giorno successivo a quello previsto per il pagamento e fino alla data di incasso del corrispettivo.
Con riguardo alla definizione di pubblica amministrazione si deve fare riferimento a quanto disposto dall’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Rientrano, pertanto, nella suddetta definizione lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane e loro consorzi e associazioni, le aziende e amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, gli istituti e scuole di ogni ordine e grado, le istituzioni educative e universitarie, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, aziende ed enti del servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, nonché le amministrazioni della Camera dei Deputati, del Senato,
della Corte Costituzionale, della Presidenza della Repubblica e gli organi legislativi delle regioni a statuto speciale.
Determinazione del Rol
Come detto, il comma 1 dell’articolo 96 dispone che l’ammontare degli interessi passivi che eccede in ciascun periodo di imposta quello degli interessi attivi è deducibile nel limite del 30 per cento del risultato operativo
lordo della gestione caratteristica (Rol).
Tale grandezza, come previsto dal comma 2 dell’art. 96 del Tuir, dev’essere calcolata come “differenza tra il valore e i costi della produzione di cui alle lettere A) e B) dell’art. 2425 del Codice civile, (…)così come risultanti dal conto economico dell’esercizio”.
Il medesimo comma 2 esclude dalla determinazione del ROL i seguenti componenti negativi di reddito:
- gli ammortamenti delle immobilizzazioni immateriali e materiali, di cui alla lettera B), n. 10), voci a) e b) dello s chema di conto economico;
- i canoni di locazione finanziaria di beni strumentali, ricompresi nella lettera B), n. 8).
Tale ultima esclusione si è resa necessaria al fine rendere irrilevante ai fini della deducibilità degli interessi passivi la modalità in concreto seguita per l’acquisizione delle immobilizzazioni, in proprietà ovvero tramite contratto di locazione finanziaria.
L'Assonime (circ. 46 del 18 novembre 2009) critica che, per determinare il Rol, non si possano escludere dai costi della produzione le svalutazioni dei beni strumentali (voce B.10.c). Questa impostazione penalizza le imprese che applicano i corretti principi di prudenza del bilancio: le svalutazioni di beni strumentali sono valutazioni di bilancio collegate agli ammortamenti. Questi ultimi, invece, vengono tolti dai costi delle produzioni (alzando il Rol). La mancata esclusione delle svalutazione ha effetti più negativi per le imprese che adottano gli Ias, quando la valutazione riguarda beni non ammortizzabili ma solo svalutabili, come i beni a vita utile indefinita (ad esempio, i marchi) e l'avviamento.
Il 30% di tale valore costituisce il limite massimo di deducibilità degli interessi passivi (considerati al netto di quelli attivi).
Va al riguardo evidenziato che il legislatore, nella stesura dell’articolo 96 in esame, ha esplicitamente previsto che il ROL rilevante ai fini del medesimo articolo sia tassativamente determinato mediante la differenza (con gli aggiustamenti appena menzionati) tra le voci A) e B) dello schema di conto economico contenuto nell’articolo 2425 del codice civile.
Secondo la Circ. 19/E del 2009 ne consegue che ai fini dell’applicabilità della disciplina in esame non potranno trovare applicazione i principi affermati:
- nella risoluzione n. 337/E del 29 ottobre 2002 in cui, con riferimento alle holding industriali, la scrivente - ad altri fini - ha precisato che “il conto economico di tali società (…) risulta fortemente influenzato da componenti reddituali di tipo finanziario che, pur non essendo imputati alla voce A) del conto economico, costituiscono, comunque, proventi relativi alla loro attività caratteristica”;
- nella risoluzione n. 143/E del 10 aprile 2008 secondo cui - ai limitati fini del test di vitalità richiesto, ai sensi dell’articolo 172, comma 7, del TUIR, per la trasferibilità delle perdite nelle operazioni di fusione - i soggetti economici che, come le holding di partecipazioni, classificano “i proventi dell’attività caratteristica in voci del conto economico diverse da quelle qualificabili come ricavi di cui all’art. 2425 del c.c. (…) potranno considerare ai fini del calcolo del test di vitalità, oltre ai ricavi e ai proventi di cui alle voci di conto economico A1 e A5, anche i proventi finanziari iscritti nelle voci C15 e C16”.
Le holding “industriali” (alle quali, come in precedenza ricordato, non s i applica l’ipotesi di esclusione prevista nel comma 5 dell’articolo 96) sono, dunque, tenute a determinare il ROL rilevante ai fini dell’applicazione dell’articolo 96 con le modalità puntualmente dettate dal menzionato comma 2 di tale ultima disposizione.
Per quanto concerne i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali IAS/IFRS si evidenzia che l’ultimo periodo del comma 2 dell’articolo 96 stabilisce che per tali soggetti “si assumono le voci di conto economico corrispondenti”.
In altri termini, posto che, in linea generale, le società che adottano i principi contabili internazionali non hanno l’obbligo di seguire uno schema di conto economico predefinito, la Circ. 19/E del 2009 ritiene che le s tesse debbano individuare tra le voci del conto economico redatto sulla base dei suddetti principi quelle corrispondenti alle voci contenute nello schema di conto economico di cui all’articolo 2425 del c.c., indicate dalla norma in esame.
Per le società di investimento immobiliare quotate (SIIQ), è necessario considerare che le s tesse s i avvalgono di due distinti regimi contabili e fiscali.
Come è noto, infatti, le SIIQ possono optare per un regime speciale, per cui il reddito d’impresa derivante dall’attività di locazione immobiliare (e attività assimilate) è esente dall’IRES a decorrere dal periodo d’imposta di efficacia dell’opzione stessa. Viceversa, il reddito derivante dall’esercizio di attività diverse rispetto a quella della locazione immobiliare rimane assoggettato all’IRES secondo le regole ordinarie. Al riguardo, la Circ. 19/E del 2009 ritiene che la determinazione del ROL rilevante ai fini del calcolo degli eventuali interessi passivi indeducibili deve essere effettuata esclusivamente con riguardo alle attività diverse da quella di locazione immobiliare. Nella determinazione del reddito riferibile alla gestione imponibile, infatti, l’inclusione nel calcolo del ROL dei proventi derivanti dall’attività di locazione immobiliare potrebbe comportare, infatti, un doppio beneficio per il contribuente, in quanto lo s tesso godrebbe sia dell’esenzione ai fini IRES del reddito derivante dalla sopradetta attività (gestione esente) e, nel contempo, vedrebbe incrementato il ROL ottenendo, di fatto, un maggiore ammontare di interessi deducibili. In pratica, l’ulteriore ammontare di interessi passivi deducibili sarebbe correlato a proventi che non subiscono tassazione.
Secondo la Circ. 19/E del 2009, rimangono in ogni caso ferme le considerazioni effettuate nella Circ. n. 8/E del 31 gennaio 2008, per cui le SIIQ non sono esonerate dall’onere di determinare, in base all’ordinaria disciplina dell’IRES, il reddito fiscale relativo all’attività di locazione immobiliare e assimilate il quale, seppur esente in capo alla medesima società, deve in ogni caso essere indicato nella dichiarazione dei redditi. A tal fine, le SIIQ devono tenere contabilità separate per rilevare i fatti gestionali dell’attività di locazione immobiliare e assimilate rispetto a quelli che si riferiscono alle altre attività eventualmente svolte. In particolare, con riguardo a corretti principi contabili, la citata Circolare ha precisato che nel risultato della gestione esente devono confluire i costi e i ricavi caratteristici dell’attività di locazione immobiliare, nonché gli altri oneri amministrativi, finanziari e tributari che possono essere direttamente riferiti alla medesima attività. Gli interessi passivi ed oneri assimilati possono essere considerati diretti qualora siano relativi a finanziamenti specificamente assunti per l’esercizio dell’attività di locazione.
La Circ. 19/E del 2009 ritiene che le medesime conclusioni possano valere anche per le imprese marittime che rientrano nel regime di cui agli articoli da 155 a 161 del TUIR (c.d. tonnage tax). Tali imprese, infatti, determinano il loro reddito imponibile derivante dall’utilizzo delle navi in base a determinati coefficienti parametrati agli scaglioni di tonnellaggio netto delle navi medesime. Tuttavia, per le attività che non ricadono nell’attività agevolata, le imprese marittime che si sono avvalse dell’opzione di cui all’articolo 155 del TUIR continuano a determinare il reddito ai fini dell’IRES secondo le ordinarie disposizioni del TUIR. Conseguentemente, il ROL deve essere calcolato con esclusivo riferimento all’attività tassabile in via ordinaria, senza tenere conto dei costi e proventi dell’attività caratteristica inclusi nella determinazione in via forfetaria dell’imponibile. Del pari, il trattamento previsto dall’articolo 96 del TUIR può essere riferito es clusivamente agli interessi passivi ed oneri assimilati rientranti nell’attività ordinaria.
Riporto del Rol
L’ultimo periodo del comma 1 dell’articolo 96 in esame consente al contribuente, a partire dal terzo periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007, di portare ad incremento del ROL dei successivi periodi di imposta l’eventuale quota del ROL non utilizzata per la deduzione degli interessi passivi e degli oneri finanziari di competenza. In sostanza, per un contribuente con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare, sarà possibile a partire dal 2010 riportare in avanti l’eventuale importo del ROL inutilizzato nel corso del medesimo anno (in quanto l’eccedenza di interessi passivi su quelli attivi è risultata inferiore al 30 per cento del ROL di periodo). Detto importo andrà ad incrementare il 30 per cento del ROL del successivo periodo di imposta, al quale commisurare gli interessi passivi da dedurre.
Detta disposizione consente di riportare agli esercizi successivi, senza alcun limite temporale, il ROL maturato in un determinato periodo di imposta e nello s tesso non utilizzato (rectius, assorbito) ai fini del confronto di cui all’art. 96, comma 1, primo periodo, in quanto eccedente la differenza tra gli interessi passivi e attivi di periodo (quest’ultima comprensiva dell’eventuale eccedenza di interessi passivi indeducibili riportata da esercizi
precedenti).
Si noti come la norma in commento offre al contribuente la facoltà di utilizzare l’eccedenza di ROL al fine di compensare eventuali eccedenze di interessi passivi netti indeducibili. Di conseguenza, il mancato utilizzo dell’eccedenza di ROL nel caso siano presenti interessi passivi netti indeducibili comporterà l’impossibilità di utilizzare il ROL eccedente – per una quota pari all’ammontare degli interessi passivi indeducibili – negli anni successivi, comportando di fatto la perdita della predetta eccedenza di ROL utilizzabile (ma di fatto non utilizzata) in compensazione. In tal senso anche al Circ. 19/E del 2009, secondo la quale nel caso contrario, infatti, si verificherebbe uno spostamento di imponibile da un esercizio all’altro con fenomeni di refreshing delle perdite fiscali, pos to che per queste ultime c’è un limite al riporto che invece manca per l’utilizzo del ROL.
Da quanto sopra esposto, si evince inoltre che nel caso di contestuale presenza di ROL disponibile e di perdite fiscali pregresse, l’eventuale eccedenza di interessi passivi netti indeducibili dovrà essere compensata prioritariamente con l’eccedenza di ROL e, una volta esaurita questa, mediante le perdite pregresse. .
Pertanto, l’eccedenza di ROL, la stessa dovrà essere prioritariamente utilizzata per compensare l’eventuale eccedenza di interessi passivi netti indeducibili dell’esercizio in corso ovvero di esercizi precedenti.
Qualora, pur versando in presenza delle predette condizioni, il ROL disponibile risulti inutilizzato, lo s tesso non potrà più essere utilizzato in futuro: ciò in quanto il meccanismo di funzionamento del confronto tra ROL e interessi passivi netti di cui all’articolo 96, comma 1, primo periodo, è strutturato in modo da prevedere un utilizzo, per cos ì dire, automatico del ROL (di periodo e di quello eventualmente riveniente da annualità pregresse) ogniqualvolta si registri una situazione di eccedenza degli interessi passivi su quelli attivi.
Da tanto consegue che il contribuente tenuto all’applicazione della disciplina dell’articolo 96 non può riportare in avanti con riferimento al medesimo periodo d’imposta eccedenze di ROL inutilizzato ed eccedenze di
interessi passivi netti indeducibili.
Il riporto in avanti dell’eccedenza di ROL è, pertanto, consentito solo nelle seguenti ipotesi:
- assenza di interessi passivi netti (di periodo o pregressi) da compensare;
- importo degli interessi passivi netti (di periodo o pregressi) inferiore alla disponibilità di ROL (di periodo o, se del caso, riveniente da annualità pregresse).
In entrambe le ipotesi sopra menzionate l‘eccedenza di ROL riportata dovrà, comunque, essere utilizzata in compensazione alla prima occasione utile (i.e. nel primo esercizio in cui si manifesterà un’eccedenza degli interessi passivi di periodo su quelli attivi).
Riporto degli interessi passivi
Il comma 4 dell’articolo 96 del TUIR disciplina il trattamento degli interessi passivi netti che, in quanto eccedenti il 30 per cento del ROL dell’esercizio, non sono deducibili in un determinato periodo di imposta, prevedendo che detti interessi indeducibili possono essere portati in deduzione -senza limiti temporali - dal reddito dei periodi successivi.
Tale possibilità di “riporto in avanti” costituisce il principale tratto distintivo del nuovo regime di deducibilità degli interessi passivi per i soggetti IRES. In definitiva, l’eventuale indeducibilità degli interessi passivi, per effetto dei limiti imposti dall’articolo 96, non è mai assoluta, potendo essere sempre “recuperata” nei successivi esercizi, qualora in questi ultimi si verifichino le condizioni opposte a quelle che in precedenza hanno determinato il prodursi dell’eccedenza indeducibile.
In particolare, la norma consente detto recupero “se e nei limiti in cui in tali [successivi] periodi l’importo degli interessi passivi e degli oneri assimilati di competenza eccedenti gli interessi attivi e i proventi assimilati sia inferiore al 30 per cento del risultato operativo lordo di competenza.”
In altri termini, qualora in un determinato periodo di imposta l’importo degli interessi passivi netti è superiore al 30 per cento del ROL, l’eccedenza (che in quel periodo d’imposta deve essere, in ogni caso, “sterilizzata” all’atto della determinazione del reddito imponibile) può essere recuperata in deduzione nei periodi di imposta successivi; tuttavia, tale deduzione è consentita esclusivamente qualora, in detti successivi periodi, l’importo degli interessi passivi maturati eccedenti gli interessi attivi sia inferiore al 30 per cento del ROL di competenza.
Valga al riguardo l’esempio riportato nella seguente tabella.
In sostanza, qualora siano presenti, in un determinato periodo di imposta, interessi passivi eccedenti la soglia del 30 per cento del ROL, pertanto indeducibili in detto esercizio, gli stessi potranno essere dedotti negli esercizi successivi nei limiti della differenza positiva tra il 30 per cento del ROL di competenza di ogni annualità futura e gli interessi passivi netti dell’esercizio.
Così come previsto per il riporto in avanti delle eccedenze inutilizzate del 30 per cento del ROL (come descritto nel precedente paragrafo) anche il riporto negli esercizi successivi dell’eccedenza di interessi passivi netti indeducibili non è soggetto ad alcun limite temporale.
E’ appena il caso di rilevare che non è consentito riportare in avanti l’eventuale eccedenza degli interessi attivi, rispetto a quelli passivi, maturati in un determinato periodo d’imposta.
ARTICOLO - Pubblicato il: 2 maggio 2010 - Da: G. Manzana E. Iori
AMBITO SOGGETTIVO - ART. 4 DEL DL 167/1990
Obbligati alla compilazione del quadro RW sono:
- Persone fisiche (compresi i soggetti titolari di reddito d’impresa o di lavoro autonomo)
- Enti non commerciali
- Società semplici e associazioni equiparate ai sensi dell’art. 5, Tuir
fiscalmente residenti in Italia (la residenza fiscale in Italia deve «verificarsi» nel periodo d’imposta di presentazione della dichiarazione).
Restano, invece, escluse tutte le società di capitali (Spa, Sapa, Srl), le società di persone diverse dalle società semplici (Snc e Sas), nonché gli enti commerciali, gli enti pubblici e soggetti di cui all’articolo 74 del Tuir.
Secondo la Cassazione (sentenze 9320/03 e 10332/07), la compilazione di RW non riguarda il solo intestatario formale delle attività detenute all’estero, ma anche coloro che hanno la disponibilità di fatto e la possibilità di movimentazione di somme di denaro non proprie. In base a tale impostazione, risulterebbe obbligato alla dichiarazione anche il soggetto che, pur non essendo il beneficiario effettivo, abbia la disponibilità di somme di denaro non proprie, con l’obbligo di retrocederle all’effettivo beneficiario. Applicando tale interpretazione si vendono a verificare inutili duplicazione di adempimenti: si pensi al caso di un procuratore e dell’intestatario formale di un conto corrente, tenuti entrambi alla compilazione del modello RW.
AMBITO OGGETTIVO - ART. 4 DEL DL 167/1990
Gli obblighi dichiarativi (quadro RW) riguardano:
- i cd. «flussi», ossia “l'ammontare dei trasferimenti da, verso e sull'estero” di denaro, titoli e certificati in serie o di massa.
- le cd. «consistenze», ossia “investimenti all'estero ovvero attività estere di natura finanziaria, attraverso cui possono essere conseguiti redditi di fonte estera imponibili in Italia”.
IL MODELLO DICHIARATIVO
Il Quadro RW si compone di tre Sezioni:
- Sezione II, destinata ad accogliere l'ammontare complessivo degli “investimenti esteri ovvero attività estere di natura finanziaria (le cd. «consistenze di fine periodo») attraverso cui possono essere conseguiti redditi di fonte estera imponibili in Italia”.
- Sezione III, nella quale vanno indicati “trasferimenti da, verso e sull'estero (vale a dire estero su estero) che nel corso dell'anno hanno interessato gli investimenti all'estero e le attività estere di natura finanziaria” (cd. «operazioni correnti»).
- Sezione I, ove vanno indicati “i trasferimenti da o verso l'estero per causali diverse dagli investimenti esteri e dalle attività estere di natura finanziaria”.
SEZIONE II “INVESTIMENTI ESTERI OVVERO ATTIVITÀ ESTERE DI NATURA FINANZIARIA ATTRAVERSO CUI POSSONO ESSERE CONSEGUITI REDDITI DI FONTE ESTERA IMPONIBILI IN ITALIA”:
Nella sezione II del quadro RW vanno indicati gli investimenti esteri ovvero attività estere di natura finanziaria attraverso cui possono essere conseguiti redditi di fonte estera imponibili in Italia detenute al termine del periodo d'imposta attraverso cui possono essere conseguiti redditi di fonte estera imponibili in Italia.
L'obbligo non sussiste se l'ammontare complessivo degli investimenti ed attività al termine del periodo d'imposta non supera a euro 10.000.
Rientrano fra le attività da dichiarare anche i beni immateriali, quali marchi e brevetti (Cric. 49/E/2009).
A titolo esemplificativo, sono oggetto di segnalazione le seguenti attività finanziarie (istr. Modello Unico 2010):
– attività i cui redditi sono corrisposti da soggetti non residenti, tra cui, ad esempio, le partecipazioni al capitale o al patrimonio di soggetti non residenti, le obbligazioni estere e i titoli similari, i titoli non rappresentativi di merce e i certificati di massa emessi da non residenti (comprese le quote di OICR esteri), le valute estere rivenienti da depositi e conti correnti, i titoli pubblici italiani emessi all’estero, depositi e conti correnti bancari costituiti all’estero indipendentemente dalle modalità di costituzione (ad esempio, accrediti di stipendi,
di pensione o di compensi);
– contratti di natura finanziaria stipulati con controparti non residenti, tra cui, ad esempio, finanziamenti, riporti, pronti contro termine e prestito titoli, nonché polizze di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione sempre che il contratto non sia concluso per il tramite di un intermediario finanziario italiano o le prestazioni non
siano pagate attraverso un intermediario italiano;
– contratti derivati e altri rapporti finanziari se i relativi contratti sono conclusi al di fuori del territorio dello Stato, anche attraverso l’intervento di intermediari, in mercati regolamentati;
– metalli preziosi allo stato grezzo o monetato detenuti all’estero;
– atti di disposizione patrimoniale in favore di trust, fondazioni ed organizzazioni similari;
– forme di previdenza complementare individuale o collettiva organizzate o gestite da società ed enti di diritto estero;
– altri strumenti finanziari anche di natura non partecipativa o diritti all’acquisto o alla sottoscrizione di azioni o strumenti finanziari della medesima natura.
In merito alla produzione di reddito:
- le attività di natura finanziaria devono essere sempre indicate nel modulo RW in quanto produttive in ogni caso di redditi di fonte estera imponibili in Italia (Cric. 43/E/2009)
- dal 2009 e non prima, gli investimenti all’estero di altra natura devono essere indicati indipendentemente dalla effettiva produzione di redditi imponibili in Italia (Cric. 43/E/2009); il riferimento è agli gli immobili e per i beni mobili suscettibili di utilizzazione economica (preziosi, opere d'arte, yacht): infatti, la locazione, il noleggio, la concessione in uso, costituisce presupposto impositivo ai sensi dell'articolo 67, comma 1, lettera h), del Tuir e, quindi, sussiste una potenziale capacità, in astratto, di produzione di reddito.
Nella Circ. 43/E/2009, l'Agenzia, con la finalità dichiarata di rendere più incisivi i presidi posti in ambito internazionale a tutela del corretto assolvimento degli obblighi tributari, ha ritenuto che l'articolo 4 del Dl 167/90 dal periodo d’imposta 2009 deve essere inteso come riferito non solo a fattispecie di effettiva produzione di redditi imponibili in Italia ma anche a ipotesi in cui la produzione dei predetti redditi era soltanto astratta o potenziale. Ne deriva che:
- fino al 2008 se Tizio deteneva una casa a disposizione in un Paese estero che non assoggetta a tassazione tale immobile (ad esempio, la Francia) non era tenuto né alla indicazione dell'abitazione nella sezione II del modulo RW (stock degli investimenti), né alla compilazione della sezione III del quadro RW per gli eventuali trasferimenti effettuati all'estero (ad esempio, bonifici di banca italiana) per l'acquisto di tale immobile.
- dal 2009 e, quindi, in Unico 2010, anche tali immobili e i relativi trasferimenti dovranno trovare evidenza in RW.
L'obbligo non sussiste (co. 4 , art. 4 del Dl 167/1990):
- per i certificati in serie o di massa e i titoli affidati in gestione o in amministrazione agli intermediari residenti,
- per i contratti conclusi attraverso il loro intervento, anche in qualità di controparti,
- per i depositi e i conti correnti,
a condizione che i redditi derivanti da tali attività estere di natura finanziaria siano riscossi attraverso l'intervento degli intermediari stessi
Le attività finanziarie italiane detenute all’estero – ossia, ad esempio, i titoli pubblici ed equiparati emessi in Italia, le partecipazioni in soggetti residenti ed altri strumenti finanziari emessi da soggetti residenti – soltanto nel periodo di imposta in cui la cessione o il rimborso delle stesse ha realizzato plusvalenze imponibili.
L'obbligo non sussiste per gli investimenti la cui amministrazione sia stata data in affidamento a una fiduciaria italiana (la fiduciaria si occupa degli adempimenti giuridici e fiscali connessi all' amministrazione del bene) (si vedano le Circ. 6 e 12 del 2010). Sarebbe comunque opportuno che questa interpretazione ricevesse un esplicito avallo legislativo in quanto essa appare indubbiamente largheggiante, per il motivo che l'articolo 4, comma 4, del Dl 167/1990 prevede l'esonero dagli obblighi dichiarativi per le sole «attività finanziarie» e non anche per i «beni patrimoniali».
Secondo quanto previsto dalla Circ. 54/E/2002 – par. 14 “Affinché sussistano le condizioni per usufruire di tale esonero [qualora i redditi derivanti dal conto corrente siano riscossi attraverso l’intervento di intermediari italiani, non sussiste l’obbligo di dichiarazione nel modulo RW] è, pertanto, necessario che il contribuente dia disposizioni alla banca estera, presso cui è detenuto il conto, di bonificare automaticamente gli interessi maturati sul conto estero (immediatamente, o comunque entro il mese della maturazione) su un conto corrente italiano, dando specificazione nella causale, dell’ammontare lordo e dell’eventuale ritenuta applicata all’estero, in modo che la banca italiana sia in grado di operare la ritenuta d’ingresso di cui all’articolo 26, comma 3, del Dpr 600/1973 sull’ammontare lordo degli interessi”.
Tra gli atti da indicare nel quadro Rw le istruzioni alla dichiarazione dei redditi fanno menzione anche «Atti di disposizione patrimoniale a favore di trust, fondazioni, o organizzazioni simili» (vedi cod. 11). Dovrebbe riguardare unicamente gli atti di destinazione in entità interposte fittiziamente, vale a dire, dovrebbe riguardare i trust interposti, esclusi quindi, i trust esteri (magari ubicati in Paesi white list) che, per effetto dell'atto di destinazione, siano gli effettivi possessori dell'attività. Se,invece,l’entità estera, per l’atto di destinazione diventa l’effettivo possessore delle attività, il disponente non deve compilare il modulo RW, perché non ha fatto un trasferimento che abbia interessato un "suo" investimento all’estero e quindi non è tenuto a compilare le Sezioni II e III; e neppure la I,che va compilata solo per trasferimenti da e verso l’estero effettuati attraverso non residenti e senza il tramite degli Intermediari.
SEZIONE III “TRASFERIMENTI DA, VERSO E SULL'ESTERO CHE NEL CORSO DELL'ANNO HANNO INTERESSATO GLI INVESTIMENTI ALL'ESTERO E LE ATTIVITÀ ESTERE DI NATURA FINANZIARIA”
Nella sezione III del quadro RW vanno indicati i trasferimenti da, verso e sull'estero che nel corso dell'anno hanno interessato gli investimenti all'estero e le attività estere di natura finanziaria. Ciò anche se al termine del periodo d’imposta i soggetti interessati non detengono investimenti all’estero né attività estere di natura finanziaria, in quanto a tale data è intervenuto, rispettivamente, il disinvestimento o l’estinzione dei rapporti finanziari.
Non è rilevante che vi sia stato o meno l’intervento di intermediari italiani.
L'obbligo non sussiste se l'ammontare complessivo dei movimenti effettuati nel corso dell'anno, computato tenendo conto anche dei disinvestimenti, non supera a euro 10.000
Secondo la Circ. 54/E72002 – par. 14 “Appare chiaro come il legislatore abbia inteso che la particolare segnalazione di cui al comma appena illustrato [co. 2, art. 4 del Dl 167/1990 - Sezione III “trasferimenti da, verso e sull'estero che nel corso dell'anno hanno interessato gli investimenti all'estero e le attività estere di natura finanziaria”] debba avere ad oggetto i soli trasferimenti che interessano le tipologie di attività finanziarie e gli investimenti potenzialmente oggetto di indicazione nella Sezione II. Tale interpretazione sistematica trova riscontro anche nelle istruzioni al modulo RW, ove viene esplicitamente affermato che nella Sezione III vanno indicati i trasferimenti che hanno interessato gli investimenti di cui alla Sezione II”.
Secondo quanto previsto nella Circ. 49/E/2009, il contribuente italiano iscritto a un fondo di previdenza complementare estero ha l'obbligo di indicare:
- “nella sezione II del modello RW: l'ammontare dei contributi versati al fondo (consistenza)
- nella sezione III del modello RW: i trasferimenti relativi ai contributi effettuati nel periodo di imposta (nonché gli eventuali rendimenti o prestazioni pensionistiche erogati in via anticipata)”.
Secondo quanto previsto nella Circ. 54/E/2002, il contribuente italiano che ha conferimento partecipazioni di società italiana in società estera:
- “nella sezione II dovrà essere indicata la consistenza delle “attività finanziarie estere” rappresentate dalle azioni della società conferitaria ricevute
- nella sezione III va segnalato il trasferimento verso l’estero (se le azioni conferite erano detenute in Italia) o estero su estero (se le azioni conferite erano già detenute all’estero (direttamente o per interposta persona). (…)
Nel caso sopra esposto il contribuente non è tenuto ad indicare sia il trasferimento dall’Italia all’estero (o estero su estero) delle partecipazioni conferite che il trasferimento dall’estero all’Italia (o sull’estero) delle partecipazioni ricevute in cambio, essendo sufficiente evidenziare nel modulo RW le operazioni sopra descritte”.
SEZIONE I “I TRASFERIMENTI DA O VERSO L'ESTERO PER CAUSALI DIVERSE DAGLI INVESTIMENTI ESTERI E DALLE ATTIVITÀ ESTERE DI NATURA FINANZIARIA”.
Nella sezione I del quadro RW vanno indicati i trasferimenti da o verso l'estero per causali diverse dagli investimenti esteri e dalle attività estere di natura finanziaria attuati mediante denaro, titoli e certificati in serie o di massa sempreché:
- siano stati e attraverso soggetti non residenti, senza il tramite di intermediari residenti.
- Siano di ammontare complessivo, nel corso del periodo di imposta sia stato, superiore a euro 10.000,00. Nell’ ammontare complessivo vanno computati tutti i trasferimenti e, quindi, sia quelli verso l’estero che quelli dall’estero.
ARTICOLO - Pubblicato il: 9 marzo 2015 - Da: G. Manzana E. Iori
E’ data la facoltà di regolarizzare attività patrimoniali e finanziarie detenute all’estero attivando una procedura con l’amministrazione finanziaria nella quale, il vantaggio sostanziale consiste nella riduzione dei reati penali.
NORMA
Al Dl n. 167/1990, sono inseriti i seguenti articoli:
Art. 5-quater - del Dl n. 167/1990 (Collaborazione volontaria)
Art. 5- quinquies. - (Effetti della procedura di collaborazione volontaria)
Art. 5-sexies. - (Ulteriori disposizioni in materia di collaborazione volontaria)
Art. 5-septies. - (Esibizione di atti falsi e comunicazione di dati non rispondenti al vero)
SOGGETTI INTERESSATI
Possono accedere alla procedura per regolarizzare la propria posizione fiscale con riferimento a quanto illecitamente detenuto all’estero, tutti i soggetti destinatari degli obblighi di monitoraggio fiscale.
Come indicati dall’articolo 4 del D.L. n. 167/1990: persone fisiche, enti non commerciali e società semplici ed equiparate ai sensi dell'articolo 5 del testo unico delle imposte sui redditi.
VOLUNTARY «DOMESTICA»
Estensione della voluntary disclosure ai soggetti diversi rispetto a chi ha commesso violazioni relative al monitoraggio fiscale, applicabile anche in relazione ad attivi situati in Italia.
L’ambito soggettivo è esteso, sia che siano residenti sia che non lo siano, alle persone fisiche diverse dalla platea della disclosure internazionale, ovvero quelle che non sono tenute alla compilazione del quadro RW e quelle che lo hanno regolarmente compilato che siano interessati a sanare altre violazioni, nonché alle società e a ogni altro ente.
Nello specifico «anche contribuenti diversi da quelli soggetti all’obbligo di monitoriaggio e i contribuenti destinatari degli obblighi dichiarativi ivi previsti che vi abbiano adempiuto correttamente».
>> Pure l’ambito oggettivo è onnicomprensivo: la procedura può essere utilizzata «per sanare le violazioni *degli obblighi di dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, **delle imposte sostitutive delle imposte sui redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché le violazioni ***relative alla dichiarazione dei sostituti d'imposta, commesse fino al 30 settembre 2014».
Si possono quindi regolarizzare tutte le violazioni dichiarative, riferite alla detenzione di attivi sia esteri sia italiani, in materia di imposte sui redditi e relative addizionali, di imposte sostitutive, Irap, Iva, nonché per le eventuali violazioni relative alla dichiarazione dei sostituti di imposta, commesse fino al 30 settembre 2014.
ANNUALITA’ INTERESSATE
Dal 2010 al 2013 (anche 2009, in caso di dichiarazione omessa)
Dal 2006, se sono stati commessi reati tributari (dal 2004, in caso di dichiarazione omessa)
Dal 2006, se vi sono violazioni a RW in paesi black list (per black list senza accordo)
Il costo varia soprattutto in base allo Stato in cui le attività sono state detenute nei periodi accertabili:
- black list o
- non black list.
>>Nell’ambito black list si deve poi distinguere quelli che hanno firmato o firmeranno entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge un accordo con l’Italia che garantisca un adeguato scambio di informazione a partire dalla firma dell’accordo stesso.
BLACK LIST SENZA ACCORDO
RW | DIRETTE |
Periodi contestabili: dal 2004 al 2013 - articolo 12, comma 2-ter, del Dl 78/2009 – raddoppio termine monitoraggio. Sanzioni minime per il quadro RW: 5% dei valori non dichiarati, dal 2004 al 2007; 6% dal 2008 al 2013. In base all’articolo 5 quinquies, comma 4 del Dl 167/90, se - l’interessato rimpatria, anche attraverso il rimpatrio giuridico, le attività all’estero o le trasferisce in uno Stato Ue o See white list, - pur mantenendo le attività in un Paese black list è di rilasciare all’intermediario locale una autorizzazione (da questo controfirmata) a trasmettere, su richiesta, informazioni al fisco italiano (è peraltro improbabile che gli intermediari black list firmino tale autorizzazione) la sanzione minima è ridotta al 50 per cento. Negli altri casi la procedura di collaborazione volontaria comporta una riduzione delle sanzioni per il quadro RW del 25%. In caso di adesione all'atto di contestazione, la sanzione come sopra determinata viene ridotta a un terzo (articolo 16 del Dlgs 472/97). |
Redditi: i periodi accertabili vanno dal 2006 (2004 in caso di omessa dichiarazione) al 2013. Sanzione minima è del 100 per cento. Per i redditi prodotti all’estero è aumentata di un terzo fino al 2007 e diventa dal 2008 del 200% (circolare 11/E del 2010). Se vi è stata omissione della dichiarazione, la sanzione minima è del 120 per cento. Per i redditi prodotti all’estero è aumentata di un terzo fino al 2007 (160%) e raddoppiata dal 2008 (240%). La sanzione così determinata viene ridotta, in caso di collaborazione volontaria, del 25% (articolo 5 quinquies , comma 4 del Dl 167/90) e poi, in caso di adesione all’invito al contraddittorio, ulteriormente ridotta a un sesto (articolo 5, comma 1 bis del Dlgs 218/97); in caso di adesione all'atto di contestazione, la sanzione come sopra determinata viene ridotta a un terzo (articolo 16 del Dlgs 472/97). |
BLACK LIST CON ACCORDO
RW | DIRETTE |
Rispetto al caso dei Paesi che non hanno firmato l’accordo la collaborazione volontaria prevede i seguenti ulteriori benefici, in termini di sanzioni (articolo 5 quinquies, comma 7, Dl. 167 del 1990): - Quadro RW: la sanzione minima è del 3% per tutti gli anni accertabili (dal 2004 al 2013 - articolo 12, comma 2-ter, del Dl 78/2009 – raddoppio termine monitoraggio) e non del 5% fino al 2007 e 6% dal 2008; - Non applicazione del raddoppio dei termini di accertamento compilazione del quadro RW (DL n. 192/2014, Decreto c.d. “Milleproroghe”). *** I contribuenti che avessero violato le norme sul quadro RW con riferimento ad attività detenute in questi Paesi, accedendo alla voluntary disclosure, non sono soggetti al raddoppio delle sanzioni sui redditi e sul quadro RW. Inoltre viene neutralizzato il raddoppio dei termini d’accertamento previsto dall’articolo 12 del Dl 78 del 2009 e le sanzioni sul modulo RW sono ridotte, in caso di definizione dell’avviso, allo 0,5% delle attività non dichiarate anziché allo 0,75%; ma questi benefici scattano solo se il contribuente adotterà un “comportamento trasparente” (ad esempio, rimpatriando le attività). Anche nel caso di attività detenute in Paesi che hanno firmato, però, non è neutralizzato il raddoppio dei termini d’accertamento in presenza di reati tributari che comportino l’obbligo di denuncia penale alla magistratura, anche se la concreta operatività di questo raddoppio dipende dal decreto legislativo sulla certezza del diritto in corso di emanazione. Il decreto dovrebbe disporre che il prolungamento del termine sia ammesso solo se la denuncia viene fatta entro l’ordinaria scadenza dell’accertamento (il 2009, in caso di dichiarazione non omessa, sarebbe dunque prescritto). |
Redditi: non si applica il raddoppio della sanzione minima dal 2008. La sanzione minima resta quella del 100% (120% in caso di dichiarazione omessa), aumentata di un terzo per i redditi prodotti all’estero. Se l’interessato rimpatria anche attraverso il rimpatrio giuridico le attività all’estero, o le trasferisce in uno Stato Ue o See white list, o, infine, pur mantenendole in un Paese black list, rilascia all’intermediario locale l’autorizzazione alla trasmissione delle informazioni, sono accertabili, ai fini delle imposte sui redditi, solo i periodi dal 2010 (2009 in caso di omessa dichiarazione) al 2013, salvo il raddoppio dei termini nei periodi d’imposta in cui siano commessi reati tributari che comportino l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del Codice di procedura penale. |
Svizzera (23/2/2015) , Liechtenstein (26/2/2015) e Principato di Monaco (3/3/2015 hanno firmato entro il 2 marzo 2015 (termine ultimo) accordi con l’Italia per lo scambio d’informazioni.
Con gli accordi in vigore (con lo scambio degli strumenti di ratifica) i tre Stati forniranno informazioni su richiesta alle autorità fiscali italiane con effetto retroattivo alle operazioni compiute dalla data di firma dell’accordo (febbraio 2015).
Svizzera, Liechtenstein e Montecarlo, attualmente, sono ancora nella black list. Ne consegue che, se il contribuente non accede alla disclosure, resterà applicabile il raddoppio dei termini e delle sanzioni.
Peraltro, l’abbattimento delle sanzioni a un quinto del minimo, previsto dal nuovo ravvedimento operoso nel caso di regolarizzazione successiva alla notifica del processo verbale, non è sufficiente a rendere conveniente il ravvedimento rispetto alla disclosure.
Singapore e Mauritius si trovano in una situazione analoga a quella di Svizzera, Liechtenstein e Monte Carlo. Questi Stati sono ancora nella black list, ma con essi sono in vigore dal 2012 protocolli che consentono lo scambio d’informazione secondo lo standard Ocse.
Altri Stati (Bermuda, Cayman, Cook, Gibilterra, Guernsey, Hong Kong, Jersey e Panama) hanno firmato accordi di scambio secondo lo standard Ocse, ma gli accordi non sono ancora in vigore o non prevedono che la trasmissione dei dati abbia efficacia retroattiva. Quindi non servono per ottenere sconti in termini di sanzioni e periodi d’imposta accertabili in caso di adesione alla voluntary disclosure.
Con Malta, Cipro, Corea del Sud, San Marino e Lussemburgo gli accordi per lo scambio d’informazione sono già in vigore e questi Paesi sono fuori dalla black list (i primi tre dal 2010 e gli ultimi due dal 2014).
***
Si è detto che un modo per neutralizzare il raddoppio dei termini per le attività detenute in Paesi black list che hanno firmato l’accordo è rimpatriare le attività anche attraverso il rimpatrio giuridico, cioè lasciando le attività all’estero, ma facendole amministrare con o senza intestazione da una fiduciaria italiana.
Ma alcuni intermediari italiani si rifiutano di accettare le attività provenienti dall’estero fino a quando non si è perfezionata (con il pagamento di imposte e sanzioni) la procedura di emersione per timore delle conseguenze in termini di riciclaggio.
Il contribuente, quindi non potrà documentare di aver rimpatriato le attività prima della notifica dell’invito al contraddittorio.
L’inconveniente sopra descritto potrebbe essere attenuato se le banche situate in Paesi black list accettassero di controfirmare l’autorizzazione alla trasmissione delle informazioni sulla clientela alle autorità fiscali italiane richiedenti. In questo modo, anche in mancanza di rimpatrio materiale o giuridico, si potrà neutralizzare il raddoppio dei termini d’accertamento. Il rimpatrio, per coloro che vogliano in futuro evitare di compilare il quadro RW, potrà essere fatto dopo il perfezionamento della procedura.
Vi era molto scetticismo sulla disponibilità delle banche svizzere a controfirmare l’autorizzazione, ma il rapporto dell’Esecutivo federale al protocollo di modifica della convenzione fra Italia e Svizzera ha chiarito che la trasmissione dei dati da parte delle banche svizzere direttamente all’autorità fiscale italiana non costituisce violazione al Codice penale svizzero. È quindi auspicabile che questo meccanismo possa avere concreta attuazione.
PAESI NON BLACK LIST
RW | DIRETTE |
Per il quadro RW i periodi contestabili vanno dal 2009 al 2013. Le sanzioni minime sono del 3% per tutti gli anni considerati. La procedura di collaborazione volontaria consente di ridurre la sanzione minima del 50 per cento; in caso di adesione all’atto di contestazione, la sanzione come sopra determinata viene ridotta a un terzo. |
Redditi: i periodi accertabili vanno dal 2010 (2009 in caso di omessa dichiarazione) al 2013. La sanzione minima è del 100% (120% in caso di dichiarazione omessa) . Per i redditi prodotti all’estero è aumentata di un terzo. La sanzione così determinata viene ridotta, in caso di collaborazione volontaria, del 25% e poi, in caso di adesione all’invito al contraddittorio, ulteriormente ridotta a un sesto |
COSA SI PUO’ REGOLARIZZARE
Patrimoni non dichiarati al fisco, non necessariamente all’estero.
La regolarizzazione riguarda *conti correnti, *polizze assicurative, *trust, *fondi comuni, *deposito di metalli preziosi, *partecipazioni, *immobili, *beni mobili registrati (per esempio, natanti).
Tali beni possono essere detenuti anche attraverso strutture «interposte» o «esterovestite».
COPERTURA PENALE
Esclusa la punibilità per i seguenti delitti tributari previsti dal decreto legislativo 74/2000:
- dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di false fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 2);
- dichiarazione fraudolenta mediante altri artifizi (articolo 3);
- dichiarazione infedele (articolo 4);
- omessa presentazione della dichiarazione (articolo 5);
- omesso versamento delle ritenute (articolo 10 bis);
- omesso versamento Iva (articolo 10-ter).
La non punibilità vale sia per coloro che si avvalgono della procedura per regolarizzare disponibilità estere, sia per i contribuenti che intendono sanare evasioni fiscali senza avere trasferito all’estero le somme (la cosiddetta «voluntary domestica»).
>>Resta ferma, invece, la punibilità per il reato di emissione di false fatture (articolo 8).
Va considerato che
- molte violazioni fiscali con costituzione delle disponibilità estere vengono realizzate tramite emissione di false fatture o di sovrafatturazioni (che restano punite e possono scoraggeranno la voluntary)
- il contribuente che ha utilizzato in dichiarazione le false fatture e aderisce alla voluntary perché non è punito, probabilmente tra i documenti che dovrà obbligatoriamente fornire alle Entrate fare emergere l’emittente (denuncia del proprio fornitore?)
L’adesione alla procedura di collaborazione volontaria non fa venire meno l’eventuale punibilità per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte.
>>La copertura penale, invece, si estende ai reati di riciclaggio e reimpiego: viene, infatti, prevista l’esclusione della punibilità delle condotte previste dagli articoli 648 bis e 648 ter del Codice penale, commesse in relazione ai delitti tributari di cui sopra.
>>Esclusa la punibilità anche per il nuovo reato di autoriciclaggio (articolo 648 ter 1 del Codice penale), sempre commesso in relazione a reati fiscali.
ENTRO QUANDO E COME FARE
Istanza entro il 30 settembre 2015 per le violazioni commesse fino al 30 settembre 2014.
Occorre ricostruire tutta la storia fiscale del contribuente, risalendo all’anno in cui è stata costituita o trasferita l’attività all’estero, per valutare se questa operazione ha rilevanza reddituale.
Poi bisogna ricostruire analiticamente tutti i redditi finanziari che il possesso di attività all’estero ha generato nel corso degli anni; in pratica, si tratta di vere e proprie dichiarazioni “ora per allora”, con la complicazione che la ricostruzione dei movimenti e degli importi avviene a distanza di anni: si pensi al caso più lontano nel tempo, in cui occorre ricostruire le movimentazioni del periodo di imposta 2006.
È di tutta evidenza che il ruolo dei consulenti fiscali è fondamentale: non devono fornire un semplice supporto, come avveniva con lo scudo fiscale, bensì una consulenza complessa e specifica.
Gli intermediari esteri devono dimostrarsi collaborativi con i contribuenti e i loro consulenti: difficile recuperare informazioni e ricostruire proventi e perdite relativi a periodi lontani, magari con rapporti con il cliente chiusi tempo fa.
La corposa documentazione dovrà poi essere gestita in forma estremamente riservata, altrimenti si corre il rischio di incappare in un’indagine da parte del fisco italiano che potrebbe rivelarsi fatale: la presenza di accessi, ispezioni o verifiche, infatti, rende impraticabile l’accesso alla procedura di disclosure.
Gli uffici fiscali devono ricevere le richieste dei contribuenti; un provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate dovrà varare modelli e istruzioni per la gestione della disclosure. Il compito più rilevante degli uffici, però, dovrà essere svolto dopo la ricezione della domanda: dovranno convocare i contribuenti e i loro rappresentanti per vagliare la documentazione di supporto e, alla fine, dovranno determinare le imposte e le sanzioni e gli interessi commisurati alle maggiori imposte accertate.
È stata anche prevista la possibilità di ricorrere alla determinazione forfetaria delle imposte dovute, su istanza del contribuente, nei casi in cui l’ammontare complessivo annuo delle attività finanziarie oggetto della collaborazione volontaria non ecceda i 2 mln euro.
In luogo della determinazione analitica dei rendimenti, al contribuente è quindi consentito di:
- applicare un coefficiente di redditività nella misura del 5% al valore complessivo della consistenza di fine anno;
- liquidare l’ammontare corrispondente all’imposta da versare utilizzando l’aliquota del 27%.
QUESTIONI APERTE
RADDOPPIO DEI TERMINI PER I PAESI BLACK LIST
Non è chiaro entro quando il contribuente debba concretamente attuare il comportamento “trasparente” (trasferimento delle attività in Italia o in Stato Ue o See white list o autorizzazione alla banca estera alla trasmissione dei dati) per beneficiare della neutralizzazione del raddoppio dei termini d’accertamento e della riduzione al 50% della sanzione base per il modulo RW. È auspicabile che gli uffici si accontentino dell’assunzione, da parte del contribuente, dell’“impegno a rimpatriare” (anche con il rimpatrio giuridico), salvo verifica a posteriori. Bisogna inoltre che gli uffici notifichino gli inviti al contraddittorio velocemente per consentire una rapida definizione dell’emersione. Tutto il periodo che va dal 31 dicembre 2013 alla data di affidamento delle attività all’amministrazione dell’intermediario italiano è soggetto, infatti, ai complicatissimi adempimenti di compilazione del quadro RW
TERMINI RADDOPPIATI PER IL PENALE
Nel caso in cui le attività siano state detenuti in Paesi white list o in Paesi che hanno firmato l’accordo di scambio d’informazioni, è auspicabile che venga chiarito che una richiesta di ammissione in cui siano indicate solo le attività e i redditi rispettivamente dal 2009 e dal 2010 sia valida anche se, in un successivo momento, nel corso del contraddittorio con l’ufficio emergessero reati tributari commessi in precedenza. Altrimenti c’è il rischio concreto che gli invii delle richieste, per le pratiche di maggiori dimensioni, restino congelati fino allo sblocco del decreto sulla certezza del diritto
PAESI USCITI DALLA BLACK LIST
Occorre sapere se Malta, Cipro, Corea del Sud, Lussemburgo e San Marino devono essere considerati non black list “da sempre” o solo a partire dal periodo d’imposta in cui sono usciti dalla lista. È rilevante per chi decidesse di aderire alla voluntary disclosure senza rimpatriare le attività o autorizzare l’intermediario estero alla trasmissione delle informazioni. Solo se questi Stati saranno considerati non black list “da sempre”, infatti, fermo restando che, in ogni caso non si applicherà il raddoppio delle sanzioni, sarà possibile evitare il raddoppio dei termini
INTERPOSIZIONE FITTIZIA
Altro tema di interesse generale la cui soluzione è determinante per la stima del costo della disclosure è sapere se le attività materialmente gestite (attività finanziarie) o localizzate (immobili e altri beni materiali) in uno Stato non black list oppure black list che abbia firmato l’accordo, ma fittiziamente intestate a entità (trust, fondazioni, società, compagnie d’assicurazione, veicoli di cartolarizzazione) residenti in Stati black list che non hanno firmato l’accordo, debbano considerarsi detenute nei primi o nei secondo Stati. Solo nel primo caso, infatti, sarebbe neutralizzato il raddoppio dei termini d’accertamento e delle sanzioni
DOCUMENTAZIONE DI ESISTENZA DELLE SOMME
In molti casi i contribuenti riusciranno a dimostrare che le attività erano presenti all’estero già alla data del 31 dicembre 2009, e che quindi gli importi corrispondenti non sono da assoggettare a prelievo ai fini delle imposte (se la disclosure inizia dal 2010). Ci si chiede in queste circostanze se l’amministrazione richiederà informazioni anche relativamente alle annualità pregresse. È da ritenere che le richieste non possano che essere di tipo generale, soprattutto per verificare che la provenienza delle somme non derivi da reati di natura extra fiscale. Richieste più puntuali hanno poco senso, soprattutto se si tiene conto che il contribuente potrebbe non avere più memoria di operazioni molto vecchie e che comunque le informazioni acquisite non potrebbero essere comunque più utilizzate per accertamenti su anni prescritti
CONTANTI E SANATORIA NAZIONALE
È fondamentale che vengano preventivamente indicati i criteri con cui l’Agenzia vorrà imputare temporalmente la regolarizzazione di violazioni che hanno creato una provvista in contanti. Sono possibili diversi criteri, che vanno dalla ripartizione in misura uguale negli anni di attività a quella in più anni però in proporzione al volume di ricavi o compensi dichiarati. Se invece si vuole sostenere l’approccio più rigoroso, e cioè l’esigenza, in assenza di una documentazione che è impossibile da fornire, di imputare tutti i contanti solo agli anni che vengono regolarizzati, allora è bene mettere in conto che questo tipo di sanatoria sarà adottata in ben pochi casi. Un problema analogo, peraltro, riguarda tutti i contribuenti che anziché denaro contante detengono oro o preziosi. In questa ultima ipotesi, molto spesso le ricchezze sono conservate in cassette di sicurezza, in Italia o all’estero, ma non si riesce a dare data certa all’immissione dei beni nella cassetta
SOGGETTI COLLEGATI DA INDICARE
Il modello di dichiarazione richiede di indicare (sezione I) i dati dei soggetti che hanno concorso a commettere le violazioni. In molti casi si tratta di un aspetto troppo invasivo per consentire la disclosure. Non ci sono problemi quando il collegamento è ovvio, come nel caso di società trasparenti e soci, oppure di rapporti cointestati. La questione si complica quando il contribuente deve indicare le informazioni di soggetti terzi. In questo caso la disclosure finisce per scoprire situazioni slegate dalla volontà del contribuente che sta sanando la propria posizione. Occorrerebbe chiarire che l’indicazione costituisce un obbligo solo nelle ipotesi che abbiamo prima indicato, e cioè in tutti i casi in cui la determinazione dell’imponibile da sanare coinvolge altri soggette in modo automatico, come tipicamente avviene tra società e soci
SOCIETÀ E SOCI
Una situazione che si può essere creata in passato è quella di una società di capitali che ha conseguito ricavi non dichiarati, a fronte dei quali sono state costituite provviste all’estero in capo ai soci. In questa ipotesi è evidente che la violazione iniziale deve essere regolarizzata da parte della società. Ai soci dovrebbe competere la sanatoria dei redditi derivanti dalle attività estere e delle violazioni in materia di quadro RW. Quindi si dovrebbe confermare che l’importo incassato dal socio di fatto rappresenta la percezione di un dividendo, da sanare mediante aumento dell’imponibile dello stesso socio (dividendo qualificato) o mediante dichiarazione di maggiori ritenute a carico della società (dividendo non qualificato).In questi casi spesso vi è un ulteriore problema che si concretizza nell’ipotesi in cui le somme in nero sono finite nella disponibilità di un solo socio. In questa situazione, anche se i ricavi derivano da un soggetto collettivo, si dovrebbe arrivare a concludere che la sanatoria individuale interessa solo il socio che ha beneficato dell’attribuzione. Questo comporterebbe, però, una situazione anomala dal punti di vista dichiarativo, che andrebbe spiegata nella relazione di accompagnamento all’istanza. Chiariamo la vicenda con un esempio: è il caso di una Snc, con ricavi non dichiarati per 100 attribuiti integralmente a uno dei due soci, il quale ha una percentuale di partecipazione del 70 per cento. Dovrebbe essere possibile una sanatoria su 100 con integrale imputazione dei redditi ai fini Irpef al solo socio che ne ha avuto la disponibilità, senza che sia minimamente coinvolto il socio che detiene l’altro 30 per cento. Vi sono situazioni delicate sempre con riferimento al rapporto società/soci che potrebbero essere risolte solo con la tassazione con aliquota marginale Irpef in capo al percettore che ha violato la normativa sul monitoraggio fiscale: si pensi, ad esempio, ai casi di vendite effettuate da società estere del gruppo che hanno determinato la realizzazione di margini non dichiarati da parte dell’amministratore della società capogruppo italiana, oppure a ipotesi di violazioni tributarie commesse dagli amministratori di società di capitali che hanno sottratto margini alle società, attraverso vendite all’estero, per integrare il proprio compenso a danni dei soci. In tutte queste ipotesi, qualora si possa dimostrare che non vi sono rilievi imponibili ai fini Iva, sarebbe opportuno, anche in un’ottica di semplificazione, consentire la voluntary solo in capo alla persona fisica, senza coinvolgere la società
ATTIVITÀ COINTESTATE
Dovrebbe essere stabilito in modo chiaro che in caso di attività cointestate a più soggetti ai fini della disclosure è semplicemente richiesto che le sanatorie, da chiunque presentate, coprano l’importo totale delle attività. Così, ad esempio, nel caso di un conto cointestato a tre fratelli con violazioni rilevanti pari a 100, occorre semplicemente che la somma delle istanze presentate copra l’intera somma di 100, indipendentemente dalla ripartizione degli ammontari tra i tre contitolari
ATTIVITÀ INTESTATE A PRESTANOME
Se il contribuente dichiara che le attività estere sono a lui riconducibili anche se intestate a un altro soggetto, la disclosure dovrebbe interessare solo il reale beneficiario economico delle attività stesse. Il rapporti fiduciario di intestazione o comunque l’interposizione del soggetto formalmente intestatario dei beni dovrebbe risultare dalla relazione di accompagnamento. Ad analoghe conclusioni si dovrebbe arrivare nel caso di situazioni “miste”: pensiamo ad esempio al conto estero intestato a un solo fratello, ma dichiaratamente spettante anche ad altri fratelli. In questa ipotesi dovrebbe essere chiarito che la disclosure dovrebbe seguire le reali disponibilità dei beni
PRELIEVI
Si dovrebbe adottare un approccio semplificato alla vicenda degli eventuali prelievi avvenuti sui conti esteri. Poiché si presume che le somme appartengono a soggetti privati, si dovrebbe concludere che eventuali prelevamenti di denaro non costituiscono mai presunzioni utilizzabili per accertamenti
ARTICOLO - Pubblicato il: 09 marzo 2015 - Da: G. Manzana E. Iori
Viene sanzionato il comportamento di chi abbia commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, provvedendo successivamente alla sostituzione, trasferimento, impiego in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, del denaro, beni o altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa.
Art. 3 legge 186/2014 – modifiche all’art. 648-ter.1 del CPP «Art. 648-ter. 1. - (Autoriciclaggio). Si applica la pena (…) a chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa».
Autoriciclaggio modifiche
Viene ora colpito anche chi ha commesso un delitto da cui derivano i proventi illeciti [finora infatti le fattispecie di riciclaggio e reimpiego riguardavano soltanto una persona estranea al reato “fonte” che, consapevole della provenienza delittuosa delle somme o delle altre utilità, le reimpiegava, occultava e così via].
Per chi commette un reato tributario, la possibilità di cadere nell'autoriciclaggio è abbastanza elevata [verosimilmente chi *evade cerca poi di **occultare o reimpiegare il denaro oggetto dell'evasione. Ne consegue che con la condotta illecita integrante il delitto tributario, si potrebbe di fatto consumare anche l'autoriciclaggio].
Autoriciclaggio giurisprudenza
Peraltro, la Cassazione (sezione III penale 43881/2014) ha chiarito che integra il reato di riciclaggio
- sia qualsiasi #prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti,
- sia il mero #trasferimento di denaro di provenienza illecita da un conto bancario a un altro diversamente intestato.
E ancora (sentenza 546/2011), che il riciclaggio è integrato anche nel caso in cui venga #depositato in banca denaro di provenienza illecita, atteso che, stante la natura fungibile del bene, per il solo fatto dell'avvenuto deposito il denaro viene automaticamente sostituito.
>> In sostanza, secondo la Suprema Corte, non è necessario che sia efficacemente impedita la tracciabilità del percorso dei beni, essendo sufficiente che essa sia anche solo ostacolata. Il contribuente che non dichiara le somme incassate per importi idonei a configurare la dichiarazione infedele o la dichiarazione fraudolenta, certamente dovrà poi trasferire le somme e quindi il rischio di commettere anche l'autoriciclaggio è elevato.
Autoriciclaggio sanzione
La pena è la #reclusione da «due a otto anni e la multa da 5mila a 25mila euro» (comma 1).
Si applica invece la #reclusione «da uno a quattro anni e la multa da 2.500 a 12.500 euro se il denaro, i beni o le altre utilità provengono dalla commissione di un delitto non colposo punito a sua volta con la reclusione inferiore nel massimo a cinque anni» (comma 2).
>> «Si applicano comunque le pene previste dal primo comma se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da un delitto commesso con le condizioni o le finalità di cui all’art. 7 del Dl 152/1991 (concorso esterno in associazione mafiosa)» (comma 3).
>> «Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale» (comma 4).
>> «La pena è aumentata quando i fatti sono commessi nell'esercizio di un'attività bancaria o finanziaria o di altra attività professionale». (comma 5)
>> «La pena è diminuita fino alla metà per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l'individuazione dei beni, del denaro e delle altre utilità provenienti dal delitto». (comma 6)
>>quindi, una volta commessi sostituzione, trasferimento, impiego in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, c’è il delitto anche se le somme o i beni di provenienza illecita sono destinate all'uso personale o familiare.
Autoriciclaggio termine inziale di decorrenza prescrizione
Il termine inizia a decorrere da quando si reimpiega il denaro o si pongono in essere le altre condotte descritte dall'articolo 648-ter 1.
>>Pertanto, anche chi ad esempio ha commesso un reato tributario parecchio tempo fa, qualora reimpiegasse ora il denaro frutto di evasione, rischierebbe di rispondere per l'autoriciclaggio.
>>La prescrizione del reato fiscale non ha infatti riflessi su quello di autoriciclaggio, che si consuma (e dunque si prescrive) in maniera autonoma.
L'autoriciclaggio si prescrive in otto anni (10 con interruzione), *sia per l'ipotesi base **sia per quella attenuata (salvo che quest'ultima non venga considerata una fattispecie autonoma di reato e allora in quel caso si prescriverebbe in sei anni, ma tale circostanza appare poco verosimile).
Autoriciclaggio_Dlgs 231/2001
L'autoriciclaggio è stato inserito tra i reati “fonte” che possono far scattare la responsabilità dell'ente a norma del Dlgs 231/2001.
>>Pertanto, se il manager di una società commette un reato fiscale a vantaggio dell'ente e poi cerca di trasferire, sostituire o reimpiegare il provento dello stesso, anche la società potrà essere chiamata a rispondere di autoriciclaggio.
>>A questo proposito sarà interessante comprendere come sia possibile predisporre idonei modelli organizzativi che possano prevenire tale delitto in azienda soprattutto con riferimento ai delitti tributari che – si ricorda – non costituiscono reati fonte di responsabilità ex “231”.
Autoriciclaggio norma
Legge 15 dicembre 2014, n. 186. (Gazz. Uff. n. 292 del 17 dicembre 2014 Serie Generale)
Art. 3.
Modifiche al codice penale in materia di autoriciclaggio
Entrata in vigore:
1 gennaio 2015
1. All'articolo 648-bis, primo comma, del codice penale, le parole:
«1.032 a euro 15.493» sono sostituite dalle seguenti: «5.000 a euro 25.000».
2. All'articolo 648-ter, primo comma, del codice penale, le parole:
«1.032 a euro 15.493» sono sostituite dalle seguenti: «5.000 a euro 25.000».
3. Dopo l'articolo 648-ter del codice penale è inserito il seguente:
«Art. 648-ter. 1. - (Autoriciclaggio).
Si applica la pena della reclusione da due a otto anni e della multa da euro 5.000 a euro 25.000 a chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa.
Si applica la pena della reclusione da uno a quattro anni e della multa da euro 2.500 a euro 12.500 se il denaro, i beni o le altre utilità provengono dalla commissione di un delitto non colposo punito con la reclusione inferiore nel massimo a cinque anni.
Si applicano comunque le pene previste dal primo comma se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da un delitto commesso con le condizioni o le finalità di cui all'articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e successive modificazioni.
Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale.
La pena è aumentata quando i fatti sono commessi nell'esercizio di un'attività bancaria o finanziaria o di altra attività professionale.
La pena è diminuita fino alla metà per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l'individuazione dei beni, del denaro e delle altre utilità provenienti dal delitto.
Si applica l'ultimo comma dell'articolo 648».
4. All'articolo 648-quater del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, le parole: «articolo 648-bis e 648-ter» sono sostituite dalle seguenti: «articoli 648-bis, 648-ter e 648-ter.1»;
b) al terzo comma, le parole: «648-bis e 648-ter» sono sostituite dalle seguenti: «648-bis, 648-ter e 648-ter.1».
5. All'articolo 25-octies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 1, le parole: «e 648-ter» sono sostituite dalle seguenti: «, 648-ter e 648-ter.1»;
b) alla rubrica sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «nonché autoriciclaggio».
ARTICOLO - Pubblicato il: 9 marzo 2015 - Da: G. Manzana E. Iori
Dalla situazione patrimoniale ed economica del bilancio è possibile effettuare delle rielaborazioni (dalle semplici riclassificazioni, fino ad arrivare al rendiconto finanziario) necessarie per ottenere informazioni utili sulla gestione passata dell’impresa e per pianificare quella futura. Particolare significato vengono assumere le grandezze quali il capitale circolante netto (CCN), l’attivo commerciale netto c.d. Net Working Capital (NWC) e il margine operativo lordo (MOL) sia come dato dell’anno che come variazione.
RICLIASSIFICAZIONE DELLO STATO PATRIMONIALE
La struttura dello stato patrimoniale imposta dal codice civile si ispira a un criterio ibrido di difficile interpretazione.
Al fine di dare informazioni circa:
- la struttura finanziaria dell’impresa (rapporto tra debito e patrimonio netto, identificazione delle fonti di raccolta),
- la composizione del capitale di investimento (rapporto tra investimenti strutturali e circolari, impiego delle risorse raccolte), e
- l’equilibro nel rapporto tra fondi (passive del bilancio) e impieghi dell’attivo si ritiene possa essere conveniente procedere ad una riclassificazione del bilancio.
La base di partenza è rappresentata dalla contrapposizione tra la
- sezione destra, che esprime le fonti di raccolta delle attività, con
- sezione sinistra, che rappresenta le destinazioni (impieghi) definitive di tale fonti.
Gli schemi di riclassificazione, presentati in sezioni contrapposte, sono riconducibili a due modelli:
1. criterio c.d. finanziario
le voci attive e passive dello stato patrimoniale vengono classificate con riferimento all’attitudine o meno delle voci stesse a divenire liquide ed esigibili nell’arco dei dodici mesi successivi
2. criterio c.d. funzionale
le voci di bilancio sono classificate tenendo conto del loro inserimento nelle diverse aree gestionali, distinguendo soprattutto la gestione operativa da quella finanziaria
1. La riclassificazione secondo il criterio finanziario
La riclassificazione dello stato patrimoniale in base a questo criterio presuppone che le poste vengano classificate secondo il grado di liquidità e di esigibilità, distinguendo cioè le singole voci a seconda della loro più o meno breve “permanenza” all’interno dell’impresa.
Questo metodo, utile per le analisi dell’equilibrio tra tipi di impieghi (a breve e a lungo termine) e tipi di finanziamento (a breve e consolidati), trova impiego nelle analisi volte a valutare la solvibilità a breve termine dall’azienda. In altre parole, permette di valutare la capacità dell’azienda di far fronte agli impegni.
ATTIVO IMMOBILIZZATO
Comprende le voci relative alle immobilizzazioni (ad eccezione delle azioni proprie, più opportunamente da portare in diminuzione del patrimonio netto) ovviamente al netto dei relativi fondi di ammortamento e di tutte le eventuali poste rettificative. Si tratta quindi degli investimenti a lunga permanenza nell’impresa. Si può distinguere tra:
- immobilizzazioni tecniche (sono compresi in questa categoria gli immobili civili e quelli strumentali; i primi, stante il presumibile superiore rado di liquidità, potrebbero essere considerati alla stregua di attività disponibili),
- immobilizzazioni finanziarie (che potrebbero comprendere anche eventualidisaggi su prestiti), e
- immobilizzazioni immateriali
ATTIVO CIRCOLANTE
Comprende le rimanenze, i crediti, le attività finanziarie non costituenti immobilizzazioni (eccetto le azioni proprie), le disponibilità liquide e i ratei e risconti attivi (ovviamente per la sola quota parte relativa agli importi esigibili entro l’esercizio successivo, dovendo considerarsi quelle in scadenza più protratta alla stregua di immobilizzazioni).
Sono quindi considerate tali quelle attività di facile e rapido realizzo (o rotazione), che possono così distinguersi:
- liquidità immediata comprende le sole disponibilità liquide potenzialmente trasformabili in moneta in tempi molto rapidi (ad es. titoli di facile realizzabilità);
- liquidità differite, che comprendono i crediti, le attività finanziarie e i ratei e risconti;
- disponibilità che accolgono i valori del magazzino.
Il magazzino è la voce meno “liquida” tra quelle considerate. La possibilità per l’azienda di trasformare in liquidità le scorte dipende infatti dalla sua capacità di vendere tali scorte in tempi brevi e di incassarne il prezzo. Si tratta di una manovra che potrebbe non essere agevole, vuoi per il tipo di prodotto vuoi per il rischio di compromettere la continuità del processo produttivo.
Gli anticipi a fornitori per acquisti di merci devono essere correttamente computati in aumento delle scorte, poiché si tratta di importi che si trasformano in scorte entro breve. Per lo stesso motivo, dal magazzino deve sottrarsi quanto ricevuto dai clienti a titolo di acconto su ordini di prossima evasione.
PATRIMONIO NETTO
Accoglie le voci relative al patrimonio netto, opportunamente ridotte delle azioni proprie (anche se queste potrebbero rimanere a formare le poste dell’attivo immobilizzato, in quanto espressione di un precisa scelta di destinazione dell’impresa, che ha evidentemente voluto investire in questo modo con quote di utile regolarmente formate e accantonate). Si tratta pertanto di poste legate all’azienda in modo pressoché permanente, con l’esclusione delle riserve, di cui l’assemblea potrebbe deliberare la distribuzione, e del risultato di esercizio che, nel caso sia positivo, potrebbe essere distribuito. La quota di utile di esercizio destinato alla distribuzione va in effetti evidenziata tra le passività a breve termine.
PASSIVITA’ A MEDIO – LUNGO PERIODO
Sono ricompresi
- i debiti da rimborsarsi non prima di un anno,
- il trattamento di fine rapporto, almeno per la quota non in scadenza nei 12 mesi e
- i fondi per rischi e oneri, se non direttamente imputabili a voci dell’attivo, nonché
- le quote relative ad aggio sui prestiti.
PASSIVITA’ A BREVE TERMINE
Comprendono
- la quota parte dei debiti da estinguersi entro l’anno dalla data di riferimento del bilanci
- i ratei e risconti ed eventualmente la quota parte dei fondi (TFR e rischi ed oneri) in scadenza entro i dodici mesi,
- i debiti tributari, almeno per quanto attiene gli impegni da onorare nei confronti dell’Erario entro pochi mesi dalla scadenza dell’esercizio.
Sarebbe opportuno individuare quelle voci di debito facilmente rinnovabili alla scadenza: per esse infatti la catalogazione tra le passività a breve termine potrebbe essere discutibile: è il caso delle aperture di credito in conto corrente, di fatto rinnovabili, a condizione che l’andamento aziendale non sia tale da indurre qualche preoccupazione nell’intermediario.
La differenza tra le attività circolanti e le passività a breve termine determina il capitale circolante netto (CCN), cui spesso si assegna un significato improprio ai fini dell’analisi.
Si è soliti infatti distinguere due casi:
- se il capitale circolante netto è positivo (e quindi le attività a breve superano le passività a breve), l’impresa è presumibilmente in grado di fare fronte ai prossimi impegni in scadenza senza intaccare l’attivo immobilizzato e senza dover accedere a nuovo indebitamento. Tale dato a prima vista andrebbe considerato in modo positivo, nel senso che da indicazione che per fronteggiare gli impegni relativi alle prossime scadenze, l’impresa dispone della liquidità riveniente dalle attività a breve scadenza.
- se il capitale circolante netto è negativo (e quindi le attività a breve sono inferiori alle passività a breve), l’impresa potrebbe avere difficoltà a fare fronte agli impegni di prossima scadenza. Tale dato a prima vista andrebbe considerato in modo negativo, nel senso che, per fronteggiare gli impegni relativi alle prossime scadenze, all’azienda non è sufficiente la liquidità riveniente dalle attività disponibili, rendendosi necessario realizzare parte dell’attivo immobilizzato, con pesanti conseguenze in termini di tempi di realizzo e di operatività futura.
Queste affermazioni si ritiene siano in parte criticabili, perché sembrano assegnare valore eccessivo al concetto di scadenza, oggi assolutamente privo del suo probabile significato originario. In particolare, è assai poco probabile che si verifichi la effettiva necessità di onorare gli impegni di cui alle voci del passivo a breve termine, stante la loro capacità di “rinnovarsi” continuamente quindi di fatto non obbligando mai ad un effettivo realizzo delle attività corrispondenti.
E’ piuttosto vero invece che il significato del CCN>O sia da considerare positivo in quanto la logica conseguenza è che è che il valore dell’attivo immobilizzato e inferiore del valore del passivo a medio/lungo termine aumentato del patrimonio netto: principio molto caro alla stragrande maggioranza degli analisti, i quali guardano con timore l’impresa che ricorra ad investimenti durevoli per il tramite di fonti di raccolta diverse dal patrimonio netto e, in subordine, dal passivo a medio/lungo termine.
E’ questo un principio condivisibile, in quanto l’attivo immobilizzato è generatore di tensione finanziaria (richiede un impegno all’esborso immediato, a fronte di benefici effetti monetari diluiti nel tempo per il tramite del “recupero” sugli ammortamenti).
2. La riclassficazione secondo il criterio funzionale
La riclassificazione dello Stato Patrimoniale eseguita secondo il criterio funzionale mira da un lato al superamento del principio rigoroso di scadenza delle voci, tipico della riclassificazione precedente, e dall’altra all’identificazione delle fonti di raccolta distinte tra finanziarie e patrimonio netto, a ben evidenziare l’alternatività tipica cui si trova di fronte l’impresa nel momento in cui necessita di risorse finanziarie (e quindi deve operare la scelta tra mezzi propri e mezzi di terzi).
Tale riclassiflcazione può essere condotta a due livelli, a seconda del grado di complessità dell’attività dell’azienda indagata da un lato e della importanza della gestione accessoria dall’altro.
Ad un primo livello la distinzione tra le singole categorie di voci può essere operata nel modo seguente:
Stato patrimoniale riclassificato secondo il criterio funzionale
ATTIVO IMMOBILIZZATO (1)
ATTIVO COMMERCIALE NETTO (2)
LIQUIDITÀ (3)
ATTIVITÀ ACCESSORIE
PATRIMONIO NETTO (4)
PASSIVO COMMERCIALE (5)
PASSIVO FINANZIARIO (6)
In una seconda fase, si potrebbero compattare le voci relative alla liquidità (che verrebbe portata in diminuzione del passivo finanziario), del capitale commerciale (con le passività portate in riduzione delle attività), così giungendo alla seguente formulazione sintetica:
Stato patrimoniale riclassificato secondo il criterio funzionale
ATTIVO IMMOBILIZZATO (1)
ATTIVO COMMERCIALE NETTO (2-5)
c.d. Net Working Capital (NWC)
ATTIVITÀ ACCESSORIE
PATRIMONIO NETTO (4)
POSIZIONE FINANZIARIA NETTA (6-3)
In questo seconda fase la compattazione delle voci agevola l’analisi successiva, ma ovviamente potrebbe fare perdere informazioni di rilievo: è pertanto consigliabile procedere in sequenza, e se del caso evitare di compattare le voci relative alla gestione commerciale e alla liquidità- passivo finanziario, nel caso possa ritenersi utile una loro esposizione separata.
Si noti che in entrambi i casi vengono comunque evidenziate le attività accessorie, espressione di quegli impieghi di risorse non strettamente collegati all’attività operativa dell’impresa (così, ad esempio, sarà da considerarsi operativo l’impiego in un fabbricato adibito alla produzione delle merci oggetto dell’attività, ed invece extra-operativo un fabbricato civile utilizzato dall’impresa con il solo fine di produrre reddito addizionale).
ATTIVO IMMOBILIZZATO E PATRIMONIO NETTO
Hanno la stessa natura di quelli esaminati a riclassiflcazione precedente, ad eccezione del fatto che il valore del trattamento di fine rapporto, del trattamento di quiescenza e gli altri fondi relativi alle immobilizzazioni (ad es. un fondo per il rinnovamento degli impianti) vengono portati in diminuzione del valore delle immobilizzazioni (si potrebbe anche considerare tali fondi tra le componenti del passivo commerciale, ma poiché la loro natura è in genere di passività consolidata, si ritiene utile inserirle tra le immobilizzazioni).
ATTIVITA’ ACCESSORIA
Accoglie le voci di impiego relative ad investimenti estranei dalla gestione tipica dell’impresa; potrebbe pertanto accogliere voci tipicamente immobilizzazioni non operative (ad esempio una partecipazione “speculativa” o fabbricati non di uso: industriale) o anche attività finanziarie che non abbiano natura di immobilizzazione, ma che comunque non siano considerabili alla stregua di una liquidità immediata generatrice di proventi finanziari imputabili appunto alla gestione finanziaria del conto economico.
ATTIVO COMMERCIALE NETTO
Accoglie la differenza tra le componenti di attivo circolante relative a rimanenze, crediti (a prescindere dalla loro scadenza e con inclusione delle sole componenti legate a rapporti commerciali) e ratei e risconti (con esclusione del disaggio su prestiti, che ha natura di attivo immobilizzato) da un lato e acconti, debiti verso fornitori, debiti rappresentati da titoli di credito (se commerciali), verso imprese controllate, collegate e controllanti (se relativi a rapporti commerciali) debiti tributari, debiti verso istituti di previdenze e di sicurezza sociale, altri debiti commerciali e ratei e risconti dall’altro (con esclusione dell’aggio su prestiti, che ha natura di passivo finanziario).
POSIZIONE FINANZIARIA NETTA
Accoglie le voci relative a obbligazioni (anche convertibili) debiti v/banche, debiti verso altri finanziatori, altri debiti di natura finanziaria eventualmente anche rappresentati da titoli di credito, aggio su prestiti, al netto di attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni, disponibilità liquide ed eventualmente del disaggio su prestiti.
Sia l’attivo commerciale netto che il passivo finanziario possono assumere valore positivo o negativo.
L’ATTIVO COMMERCIALE NETTO c.d. Net Working Capital (NWC)
- attivo commerciale netto > O (se quindi l’attivo commerciale supera il passivo commerciale) esprime il fabbisogno di risorse da reperire, principalmente sui mercati finanziari, per fronteggiare l’esigenza di finanziamento generata dall’attività di acquisto/trasformazione/vendita; in pratica, in questo caso, a prescindere dalle voci generalmente di minore rilievo, l’investimento in crediti verso la clientela e il magazzino supera il finanziamento ottenuto da fornitori.
- un attivo commerciale netto < O (se quindi il passivo commerciale superala l’attivo commerciale) esprime l’eccedenza di risorse che è possibile impiegare in altri ambiti gestionali, da quelli più tradizionali per il rafforzamento dell’attività operativa (ad esempio incrementando le immobilizzazioni realizzando nuovi investimenti) a quelle ritenute pro-tempore più convenienti.
Il valore dell’attivo commerciale netto è di notevole interesse non solo nella sua definizione puntuale, ma anche considerando la variazione intervenuta da un periodo all’altro; calcolando la variazione di attivo commerciale netto (definita anche variazione di capitale commerciale, o di capitale circolante in senso stretto, per distinguerla da quella ottenuta con la riclassificazione precedente) si ottiene infatti una immediata percezione:
- delle risorse investite, se l’attivo commerciale netto è aumentato: se infatti cresce nel periodo, l’impresa è obbligata a reperire (e a pagare) le risorse finanziarie necessarie alla copertura del fabbisogno. Un tipico esempio di aumento dell’attivo commerciale netto si riscontra nelle imprese in crescita: in questo caso infatti l’espansione dell’attività potrebbe provocare un aumento dei crediti verso clienti e del magazzino, solo in parte compensata dall’aumento dei debiti nei confronti dei fornitori. L’impresa sarebbe pertanto obbligata a reperire, tipicamente sul mercato dei capitali, le risorse sufficienti a coprire il fabbisogno generato dalla crescita;
- delle risorse disinvestite, se l’attivo commerciale netto è diminuito: vale in questo caso un ragionamento simmetrico al precedente, nel senso che la riduzione dell’attivo commerciale netto consente all’impresa di liberare risorse finanziarie. La riduzione potrebbe essere positivo sintomo di una accresciuta capacità contrattuale nei confronti dei clienti e dei fornitori, che si trasforma in una riduzione dei tempi di incasso e in un allungamento di quelli di pagamento, ma anche preoccupante segnale di una riduzione del volume di attività, con conseguente alleggerimento degli impegni nei confronti di clienti e fornitori, e con progressivo svuotamento del magazzino.
POSIZIONE FINANZIARIA NETTA
- se il passivo finanziario è > O, ciò evidenzia il necessario ricorso al finanziamento esterno per fare fronte al fabbisogno generato dall’attività, sia sotto forma di immobilizzazioni che eventualmente di attivo commerciale (si tratta ad evidenza dell’ipotesi più frequente)
se il passivo finanziario è < O, ciò evidenzia la capacità dell’impresa di generare risorse finanziarie eccedenti destinabili ad investimenti di altra natura, quali tipicamente liquidità ovvero impieghi di tipo “accessorio”.
RICLIASSIFICAZIONE DEL CONTO ECONOMICO
Di seguito vengono presentate tre modalità di riclassificazione del conto economico, di notevole diffusione anche a livello internazionale, e cioè:
1. Conto economico a ricavi netti e costo del venduto;
2. Conto economico a valore della produzione e valore aggiunto;
3. Conto economico a ricavi e margine di contribuzione.
1. Conto economico a ricavi netti e costo del venduto
Lo schema è il seguente:
CONTO ECONOMICO A RICAVI NETTI E COSTO DEL VENDUTO
+ Ricavi netti
- Costo del Venduto
+ rimanenze iniziali (indipendentemente dalla tipologia)
+ costi della produzione per materie prime
+ costi per servizi acquisiti per l’esercizio dell’attività produttiva
+ costi per il godimento di beni di terzi impiegati nell’attività produttiva
+ costi del personale coinvolto nell’attività produttiva
+ ammortamenti e svalutazioni di beni legati all’attività produttiva
+ accantonamenti per rischi e altri accantonamenti legati all’attività produttiva
+ oneri diversi di gestione legati all’attività produttiva
- variazioni dei lavori in corso
- incrementi di immobilizzazioni per lavori interni
- rimanenze finali (indipendentemente dalla tipologia)
= Risultato Industriale
- costi generali e amministrativi
- costi commerciali e distributivi
= Reddito Operativo
+o - risultato della gestione finanziaria
+o - risultato della gestione accessoria
+o - risultato della gestione straordinaria
= Reddito Ante Imposte
- Gestione fiscale
= Reddito Netto
Grazie a tale schema è possibile evidenziare in maniera particolareggiata tutte le aree gestionali, vale a dire:
ï€ gestione operativa
Comprende tutte i costi e ricavi inerenti i processi di acquisizione, trasformazione, vendita dei prodotti e/o servizi tipici dell’attività aziendale;
ï€ gestione accessoria
Ha per oggetto tutte quelle attività svolte con continuità ma estranee alla gestione tipica dell’impresa (è tipico il caso della riscossione di affitti attivi su immobili non strumentali all’esercizio di impresa, dove il concetto di strumentalità deve essere inteso non in senso fiscale, quanto in senso operativo, e quindi in questo caso fare riferimento al fatto che l’attività operativa può essere svolta anche a prescindere dalla disponibilità di tali immobili; un altro tipico esempio è costituito dalla gestione degli investimenti finanziari, quando questi non appartengono all’ambito dell’attività operativa dell’impresa;
ï€ gestione finanziaria
E’ rappresentata dai costi e dai ricavi collegati alla struttura dei finanziamenti e degli investimenti aziendali, ossia dagli oneri e dai proventi finanziari (tipicamente interessi passivi su conti correnti o su mutui in essere, ovvero interessi attivi sulla liquidità impiegata);
ï€ gestione straordinaria
Ha per oggetto quelle operazioni che determinano componenti di costo o di ricavo la cui manifestazione non ha carattere di prevedibilità e di ricorrenza, in genere quindi non attribuibili alle combinazioni produttive dell’esercizio (ad esempio plus e minusvalenze o ancora sopravvenienze attive o passive);
ï€ la gestione fiscale
Da intendersi come l’insieme del carico fiscale relativo alle sole imposte sul reddito, trovando le altre posizioni nei confronti dell’erario naturale allocazione tra gli oneri di carattere più specificatamente operativo.
Tale rilassificazione, interessa in modo particolare le imprese che svolgono un’attività produttiva, di trasformazione industriale, ed è invece di scarso imparo per aziende di servizi o commerciali. Attraverso la presente riclassificazione si vuole cercare di capire, infatti, l’incidenza del costo della produzione venduta, nonché della gestione commerciale e amministrativa.
Le singole categorie di voci sono composte, ricordando lo schema di cui all’art. 2425 c.c., nel modo seguente:
Ricavi netti
Comprendono ricavi delle vendite e delle prestazioni, espressi al netto di eventuali elementi correttivi quali abbuoni, sconti e ribassi;
Costo del venduto
Il costo del venduto esprime il costo dei fattori produttivi utilizzati per ottenere il prodotto posto sul mercato ed è costituito dalla somma algebrica delle seguenti voci:
+ rimanenze iniziali (indipendentemente dalla tipologia)
+ costi della produzione per materie prime
+ costi per servizi acquisiti per l’esercizio dell’attività produttiva
+ costi per il godimento di beni di terzi impiegati nell’attività produttiva
+ costi del personale coinvolto nell’attività produttiva
+ ammortamenti e svalutazioni di beni legati all’attività produttiva
+ accantonamenti per rischi e altri accantonamenti legati all’attività produttiva
+ oneri diversi di gestione legati all’attività produttiva
- variazioni dei lavori in corso
- incrementi di immobilizzazioni per lavori interni
- rimanenze finali (indipendentemente dalla tipologia)
Gli incrementi di immobilizzazioni per lavori interni sono una tipica voce il cui significato contabile e economico è indiscutibile, ma la cui influenza in sede di analisi potrebbe essere eccessiva, poiché si rischia di non riuscire a neutralizzare l’effetto dei costi operativi sostenuti in modo ed esauriente. Si noti che un’eventuale svalutazione/rivalutazione di partecipazioni considerata operativa e finalizzata all’esercizio
dell’attività produttiva dovrebbe essere inserita tra gli elementi di composizione del costo del venduto, così come un ricavo generato da una partecipazione operativa potrebbe essere assimilato ai ricavi di vendita tradizionali (in realtà vi sono voci di conto economico la cui imputazione è assai poco chiaramente definibile con certezza);
RISULTATO INDUSTRIALE
Di notevole importanza per l’analisi, esprime la capacità o l’incapacità dell’impresa, relativamente all’area gestionale di pertinenza, di svolgere in modo conveniente l’attività di trasformazione, e quindi di generare risorse sufficienti a sostenere gli oneri indotti dalla gestione amministrativa e commerciale, nonché a remunerare i prestatori e i sottoscrittori di capitale (oltre che ovviamente a far fronte alle gestioni accessoria, straordinaria e fiscale).
Un risultato industriale negativo esprime la probabile incapacità dell’impresa di stare sul mercato a condizioni vantaggiose, ed è tipico di situazioni in cui ad esempio al calo del fatturato non si è riusciti a porre rimedio attraverso un’adeguata e corrispondente contrazione degli oneri di trasformazione. Ciò è tutt’altro che improbabile, perché sono proprio gli oneri di produzione quelli più frequentemente caratterizzati da condizioni di rigidità (i c.d. costi dello stabilimento) che se in periodi di congiuntura positiva consentono all’impresa di generare margini via via crescenti (perché la loro crescita è in genere meno che proporzionale), altrettanto in periodi di tensione sul fatturato ribadiscono la loro sostanziale staticità provocando appunto una forte contrazione del risultato industriale. L’ipotesi di un risultato industriale minore di zero è quindi al contempo monito e stimolo per il management dell’impresa, costretto a rivedere analiticamente le procedure di acquisto/trasformazione/vendita che hanno condotto ad un simile risultato;
Costi generali e amministrativi
Comprendono costi per servizi, per il godimento di beni di terzi, del personale, ammortamenti e svalutazioni, accantonamenti per rischi e altri accantonamenti, oneri diversi di gestione tutti imputabili all’area amministrativa e delle spese generali (sono genericamente definibili come i costi “d’ufficio”). L’imputazione corretta di tali voci implica ovviamente la disponibilità degli opportuni riferimenti contabili;
Costi commerciali e distributivi
Comprendono costi per servizi, per il godimento di beni di terzi, del personale, ammortamenti e svalutazioni, accantonamenti per rischi e altri accantonamenti, oneri diversi di gestione tutti imputabili all’area commerciale e distributiva (sono genericamente definibili come i costi di vendita, e anche in questo caso è necessaria una loro possibile identificazione “contabile”);
REDDITO OPERATIVO
E’ sicuramente l’indicatore che meglio sintetizza la capacità di svolgere in modo conveniente la propria attività tipica; valori di RO>O esprimono la superiorità dei ricavi operativi rispetto all’insieme dei costi coinvolti nell’attività tradizionale, e quindi prescindendo dall’esercizio di eventuali attività accessorie, dal conseguimento di oneri/proventi straordinari, dalla destinazione di impiego ovvero dalla raccolta di capitale finanziario (sintetizzato nella gestione finanziaria) e dal peso delle imposte sul reddito. Ovviamente non significa che un RO>O sia sufficiente a remunerare in modo adeguato il capitale di rischio attraverso il reddito netto; è piuttosto vero il contrario, e quindi che un RO<O deve rappresentare un importante elemento di valutazione delle scelte aziendali. Se a tale risultato hanno contribuito elementi di forte contingenza (ad es. repentine fluttuazioni nei prezzi di acquisto ovvero di vendita) si può ragionevolmente pensare che la situazione possa rapidamente cambiare; livelli di RO non casualmente negativi devono invece portare a più serie e definite riflessioni sulla compatibilità dell’area di attività esercitata, e se del caso anche ad una riconversione da parte dell’impresa.
Il reddito operativo rappresenta un elemento di grande rilievo nel confronto tra aziende operanti negli stessi comparti: valori di RO più elevati (in percentuale sul fatturato, o sul capitale investito) evidenziano la migliore capacità competitiva dell’ impresa, che potrebbe peraltro essere vanificata per la remunerazione del capitale finanziano. Redditi operativi molto elevati sono in genere caratteristici di alcuni tipi di aziende, tra cui quelle industriali con ingenti capitali investiti. D’altro canto esistono aziende che possono permettersi un reddito operativo negativo in quanto la loro attività le porta a conseguire redditi attraverso la gestione finanziaria (ad esempio le imprese della grande distribuzione).
In condizioni di acquisto e di vendita normali il reddito operativo esprime il reddito che l’impresa produce dalla sua attività caratteristica a prescindere da come essa sia finanziata.
Quando, peraltro, l’impresa concede più credito del normale o utilizza più debiti commerciali rispetto al normale il reddito operativo risente molto delle componenti finanziarie. In particolare si possono presentare due situazioni:
ï€ il maggior credito commerciale concesso o goduto genera un incremento dei ricavi o dei costi (per gli oneri finanziari impliciti contenuti) che si riflette sul reddito operativo stesso; in altri termini, l’impresa che vende con forti dilazioni di pagamento, e che riesce a farsi riconoscere questa posizione dal cliente, registrerà ricavi superiori al normale, e di conseguenza avrà un maggiore livello di reddito operativo;
ï€ il maggior credito commerciale concesso o goduto non genera incrementi di ricavi o di costi (per il potere contrattuale dei clienti o dell’impresa nei confronti dei suoi fornitori), per cui a parità di reddito operativo si modificherà il reddito netto a causa rispettivamente di maggiori o minori oneri finanziari (in pratica se l’impresa non riesce a modificare il valore della vendita con pagamento dilazionato, si troverà a dover fare fronte ad un maggiore livello di oneri finanziari).
Ciò porta di fatto ad una commistione tra le gestioni operativa e finanziaria, di cui si è già detto parlando delle rilcassificazioni dello stato patirmoniale, che spesso genera qualche problema interpretativo in fase di analisi.
Risultato della gestione finanziaria
Tale valore accoglie con segno positivo o negativo a seconda dei casi i proventi e gli oneri finanziari.
Si tratta di un risultato molto importante, che esprime la capacità dell’impresa di fare fronte alle scelte di raccolta ed eventualmente di impiego delle risorse finanziarie in modo conveniente, vale a dire privilegiando quelle forme la cui onerosità ovvero il tasso di rendimento si presenta come più conveniente. La gestione finanziaria è spesso fonte di distorsioni nell’analisi di bilancio, per il verificarsi di alcuni fenomeni; sarebbe infatti opportuno distinguere:
ï€ gli oneri finanziari derivanti dalle scelte di statura finanziaria, e quindi dalla maggiore o minore incidenza dell’indebitamento (in genere, mutui o finanziamenti a fronte di investimenti in immobilizzazioni);
ï€ gli oneri finanziari derivanti dal fabbisogno generato dalIa normale e ricorrente attività di acquisto-trasformazione-vendita: questi sono giustamente censiti come oneri finanziari; in sede di analisi però, ed eventualmente di comparazione con i risultati di precedenti periodi, si dovrebbe ricordare la loro natura operativa, e quindi la loro diretta influenza sulla determinazione del reddito operativo. Ad esempio, accade che alcune operazioni di acquisto/vendita vengano concordate a prezzi diversi da quelli correnti per compensare le maggiori dilazioni. Nel caso di una cessione di servizi con forte dilazione di pagamento, l’azienda venditrice contabilizzerà minori redditi finanziari (o maggiori oneri, se già comunque indebitata) rispetto a quelli che avrebbe registrato se l’operazione fosse stata regolata per contanti, l’azienda acquirente invece contabilizzerà maggiori oneri finanziari (o minori oneri, se già comunque indebitata).
Un’altra situazione che genera difficoltà interpretative riguarda la presenza di canoni di leasing: tali canoni infatti incorporano tanto la componente di ammortamento che quella di onere finanziario, ma vengono iscritti per intero tra i costi operativi. E evidente che il confronto tra due aziende, delle quali solo una facesse ricorso ai contratti di leasing, sarebbe in parte fuorviante se non tenesse in conto anche questo fenomeno (al riguardo una possibile soluzione è rappresentata dalla scissione del canone nelle due componenti di quota interessi e quota capitale, con quest’ultima assimilata a costo di natura operativa; in pratica parte del canone di leasing verrebbe estrapolato dalla voce spese per il godimento di beni di terzi e diversamente allocato).
Un altro caso di difficile interpretazione del valore degli oneri finanziari riguarda le differenze di cambio; sulle monete corrono infatti tassi di interesse sostanzialmente diversi, a fronte dei quali vi sono anche prospettive di variazione del rapporto di cambio. Così, se un’azienda si finanziasse contraendo un debito denominato in una valuta su cui gravano interessi contenuti, dovrebbe di norma alla scadenza registrare la presumibile perdita su cambi subita alla stregua di onere finanziano.
Risultato della gestione accessoria
Accoglie la voce relativa ad alti ricavi e proventi, con esclusione dei contributi in conto capitale (che, se presenti con carattere di straordinarietà, come presumibile, a tale gestione andrebbero ricondotti) ed eventualmente i costi a tali ricavi collegati, che andranno estrapolati tra le categorie di costi operativi di cui sopra; inoltre, a tale gestione vengono imputate le risultanze economiche (rivalutazioni e svalutazioni comprese) di quegli impieghi la cui natura è definibile come non collegata all’attività operativa dell’impresa.
La gestione accessoria dovrebbe accogliere quindi componenti di scarso peso relativo sulle altre voci di conto economico: qualora si riscontrasse il contrario, sarebbe opportuno procedere ad un’indagine riguardo alla capacità di affrontare ambiti operativi ormai anche molto diversi da quelli tradizionali. Ciò quindi a ricordare che un peso elevato della gestione accessoria e dei suoi componenti non deve a priori essere rigettato, ma certo implica la capacità di svolgere operazioni diverse a quelle classiche di acquisto-trasformazione e vendita, e forse denota che con il passare del tempo si è realizzata una sorta di inversione tra quella che erano le attività operativa e accessoria, con una prevalenza di quest’ultima, la quale ragionevolmente deve allora considerarsi la “vera” attività operativa (è il caso delle imprese per le quali nel tempo assume rilievo l’investimento immobiliare, e che si trovano appunto a svolgere tale attività con preminenza, o di quelle che sfruttando ad esempio condizioni vantaggiose negli elementi di incasso e pagamento realizzano la possibilità di destinare ingenti somme a investimenti di vario tipo, non collegati con l’attività tradizionale).
Risultato della gestione straordinaria
Le voci di cui ai punti 20 e 21 dello schema di conto economico, e quindi proventi e oneri straordinari. Benché tale aggettivo lasci presumere l’assoluta eccezionalità di tali poste, è raro trovare un bilancio che ne sia privo.
Volendo esaminare in maniera corretta la natura delle voci che le compongono, si potrebbe sostenere che plusvalenze e minusvalenze di fatto esprimono la scorrettezza delle politiche di ammortamento adottate negli anni precedenti, soprattutto se la loro entità è elevata e la loro presenza sistematica, e quindi si dovrebbe giungere ad un “ripensamento” delle politiche di ammortamento (sottinteso, dal punto di vista civilistico).
Quanto alle sopravvenienze attive o passive, esse sono spesso collegate al venire meno di posizioni rispettivamente debitorie ovvero creditorie, e forse sarebbe più opportuno ricondurne la destinazione tra le componenti di carattere operativo, anche se si tratta di una prassi assolutamente poco utilizzata. Un peso elevato delle componenti straordinarie deve comunque portare ad una riflessione da un lato in merito alle politiche contabili adottate nel corso degli anno, e dall’altro alla caratteristica di scarsa ripetitività dell’attività tipica d’azienda.
REDDITO ANTE IMPOSTE
Viene calcolato col solo fine di evidenziare in modo separato l’incidenza della variabile fiscale; diventa un riferimento importante, qualora confrontato con il reddito operativo, per valutare il peso delle gestioni finanziarie, accessoria e straordinaria.
Imposte sul reddito
Tale voce accoglie le sole imposte sul reddito, la cui procedura di calcolo, implica il passaggio attraverso una ricostruzione del reddito assoggettato a tassazione. Tale voce deve inoltre contenere l’imposizione differita (attiva o passiva).
REDDITO NETTO
Benché attraverso la riclassificazione sia possibile evidenziare anche e altri importanti indicatori di redditività, rappresenta sempre il riferimento imprescindibile di un’analisi di bilancio a qualsiasi livello condotta. E’ nota al riguardo l’influenza delle politiche seguite nella stesura, e dei margini di discrezionalità che possono portare a valori anche sostanzialmente diversi per la stessa azienda a seconda dei principi che si intende seguire. Ciò nonostante il reddito netto è l’indicatore più immediatamente “osservato” dall’analista, che ricondurrà a questa voce anche eventuali elementi di costo imputati con finalità fiscali (si pensi a compensi per gli amministratori-proprietari in misura eccedente rispetto al loro contributo lavorativo).
2. Conto economico a valore della produzione e valore aggiunto
Attraverso tale riclassificazione è possibile evidenziare tre indicatori fondamentali relativi all’attività operativa, vale a dire:
ï€ il valore della produzione;
ï€ il valore aggiunto;
ï€ il margine operativo lordo.
Lo schema è il seguente:
CONTO ECONOMICO A VALORE DELLA PRODUZIONE E VALORE AGGIUNTO
Valore della produzione
+ Ricavi delle vendite e delle prestazioni (al netto delle relative rettifiche);
+ variazione del magazzino prodotti in corso di lavorazione, semilavorati eprodotti finiti;
+ variazione di lavori in corso su ordinazione
+ incrementi di immobilizzazioni per lavori interni;
- Acquisti di prodotti finiti destinati alla commercializzazione
- acquisti dell’esercizio
- variazione magazzino materie prime, sussidiarie di consumo e merci
- spese generali
= Valore aggiunto
- costo del personale
= margine operativo lordo (M.O.L.)
- Ammortamenti e accantonamenti
= Reddito operativo
+ o - risultato della gestione finanziaria
+ o - risultato della gestione accessoria
+ o - risultato della gestione straordinaria
= Reddito Ante Imposte
- Gestione fiscale
= Reddito Netto
Le singole categorie di voci sono composte, ricordando lo schema di cui all’at 2425 del codice civile, nel modo seguente:
Valore della produzione
E’ dato da:
+ +Ricavi delle vendite e delle prestazioni (al netto delle relative rettifiche);
+ +variazione del magazzino prodotti in corso di lavorazione, semilavorati eprodotti finiti;
+ +variazione di lavori in corso su ordinazione
+incrementi di immobilizzazioni per lavori interni;
- Acquisti di prodotti finiti destinati alla commercializzazione.
Tale valore è quindi calcolato in modo analogo a quanto esposto nello schema civilistico di conto economico, ad eccezione della voce relativa ad altri ricavi e proventi, che come sopra evidenziato finisce con il confluire nella gestione accessoria ed eventualmente in quella straordinaria ed inoltre della componente di acquisti di beni destinati direttamente alla commercializzazione (in pratica è necessario isolare, all’interno della voce relativa agli acquisti, questa componente, in modo che sia possibile portarla in diretta diminuzione del valore della produzione).
~ Il valore della produzione è di notevole importanza per l’impresa. Esso indica, meglio del fatturato, quanto essa ha lavorato e prodotto: in effetti il fatturato potrebbe essere artificiosamente elevato da una componente di mera “commercializzazione” di prodotti finiti (tipico caso dell’impresa che si trova talvolta a “trattare” partite di merce senza che le sia richiesto di intervenire nella trasformazione), ovvero contenuto in quei periodi in cui si è lavorato per il magazzino, sfruttando magari momenti favorevoli per quanto attiene l’approvvigionamento di materia prima e la successiva vendita sul mercato. Con ciò non si vuole sminuire l’enorme portata segnaletica ed informativa del fatturato, che rappresenta, unitamente al reddito, un elemento di grande attenzione da parte dell’analista: semplicemente si vuole ricordare che in certi casi tale contenuto informativo è notevolmente ridotto o addirittura fuorviante.
Ovviamente una produzione elevata in periodi di fatturato decrescente deve opportunamente destare l’attenzione dell’analista, chiamato a riconoscere i motivi sottostanti a tale situazione, che potrebbero ad esempio essere sintomatici di una chiara difficoltà dell’impresa sul mercato di sbocco delle merci (per cui la produzione “per il magazzino” è di fatto una produzione “forzata”) ovvero della capacità di sfruttare le già citate favorevoli condizioni di approvvigionamento. Il valore della produzione assume notevole e diverso significato a seconda del tipo di impresa oggetto di analisi.
Nelle imprese industriali la produzione è determinata in parte da beni venduti, valorizzati in base ai prezzi di vendita, e in altra parte da beni in giacenza e da costruzioni interne, valorizzati in base ai costi di produzione: si crea pertanto una commistione tra elementi espressi secondo diversi criteri di valorizzazione, e pertanto si avrà:
- una stima prudenziale del valore della produzione ogni volta che i processi produttivi hanno alimentato il magazzino di prodotti finiti
- una stima meno prudenziale qualora si sia proceduto allo smantellamento del magazzino esistente all’inizio del periodo, non procedendo ad una sua
Nelle imprese commerciali dove non si realizza un processo di trasformazione, la produzione corrisponde semplicemente alla differenza fra il fatturato e il costo delle merci vendute. In questo tipo di imprese il significato della produzione è assai elevato, rappresentando il primo importante margine di redditività.
Acquisti dell’esercizio
In questa voce sono accolti gli acquisti di materie prime, sussidiarie di consumo e merci (con evidente eccezione di quelle destinate alla commercializzazione), ad espressione dell’incidenza del costo della materia prima.
Variazione magazzino materie prime, sussidiarie di consumo e merci
Deve essere indicata la variazione del magazzino materie prime, sussidiarie di consumo e merci, necessaria affinché sia possibile, unitamente alla voce precedente relativa agli acquisti, valutare l’incidenza del costo della materia prima nel processo di trasformazione. In tale componente possono riscontrarsi vistosi fenomeni legati alla stagionali, nel caso in cui gli acquisti non possano essere adeguati con immediatezza alle esigenze del ciclo produttivo spese generali: accolgono tutti gli altri oneri della produzione, oltre all’acquisto della materia prima, sostenuti “all’esterno”, e quindi i costi per servizi, per godimento di beni di terzi e gli oneri diversi di gestione.
VALORE AGGIUNTO
L’impresa attraverso la propria capacità produttiva trasforma le materie prime e i materiali e servizi acquistati all’esterno in prodotti/servizi vendibili sul mercato o utilizzabili all’interno; la differenza tra il valore della produzione e i costi a tal fine sostenuti costituisce il valore che l’impresa aggiunge a detti prodotti e/o servizi, appunto definito valore aggiunto. La sua adeguatezza si misura nella capacità di remunerare i fattori produttivi seguenti, vale a dire in primis il lavoro incorporato nei prodotti, espresso dal costo del lavoro nella sua globalità, quello del capitale immobilizzato per il tramite degli ammortamenti, quello del capitale di terzi espresso dagli oneri finanziari e quello del capitale proprio attraverso il reddito netto.
Solitamente l’analisi del valore aggiunto diventa rilevante anche ai fini della valutazione del grado di integrazione verticale dell’impresa, perché è presumibile che ad elevati gradi di integrazione verticale si accompagnino elevati livelli di valore aggiunto (l’impresa integrata svolge all’interno la maggior parte della lavorazione, sfrattando il differenziale tra produzione e costi di approvvigionamento per fare fronte a notevoli costi del lavoro e ammortamenti; al contrario, un minor livello di valore aggiunto esprime in genere, a parità di altre condizioni, un minor grado di integrazione verticale, poiché l’impresa decide in questo caso di fare ricorso a produzioni esterne; tale scelta sarà evidentemente dettata dalla prospettiva di risparmiare, in termini di costo del lavoro e ammortamenti, quanto inevitabilmente si perde a livello di valore aggiunto), e pertanto tale indicatore diventa spesso di grande importanza anche ai fini della valutazione della politica industriale per l’impresa ovvero per il settore di appartenènza. Il valore aggiunto è elevato ogni volta che il margine sui costi di acquisto è elevato: l’analisi delle componenti successive permette di valutare se l’ampiezza di tale margine è dovuta ad un notevole ricorso al fattore lavoro o al fattore capitale, o non sia invece semplicemente sintomo della capacità dell’impresa di occupare spazi competitivi di grande interesse economico, ad esempio applicando forti maggiorazioni di prezzo grazie alla notorietà dei marchi disponibili.
Costo del lavoro
In questa voce vengono accolti tutti gli oneri relativi al costo del personale e quindi salari e stipendi, oneri sociali, trattamento di fine rapporto, trattamento di quiescenza e simili e gli altri costi; si noti che gli accantonamenti al fondo TFR vengono qui inseriti benché nello schema sia evidenziata la voce ammortamenti e accantonamenti in modo separato; ciò è dovuto alla necessità di evidenziare il costo del lavoro nel suo valore complessivo, a prescindere dalla monetarietà immediata ovvero differita degli oneri relativi.
MARGINE OPERATIVO LORDO
da un punto di vista economico esso esprime la redditività dell’impresa a prescindere dagli ammortamenti e accantonamenti effettuati, sulla cui definizione possono essere di forte impatto sulle scelte adottate in sede di stesura del bilancio d’esercizio (a questo riguardo va segnalato che in molti casi si sostiene che gli accantonamenti dovrebbero essere imputati prima del MOL, che quindi sarebbe espressione del reddito operativo al lordo dei soli ammortamenti; in questa sede, per i motivi che sarà facile individuare di seguito, si ritiene più utile operare compatendo le voci relative ad ammortamenti e accantonamenti).
Il MOL ha però anche un importante significato dal punto di vista finanziario, ed è definibile come un “quasi” flusso di cassa. Esso infatti esprime la differenza tra i ricavi e i costi operativi in gran parte di natura monetaria, anche se la reale consistenza monetaria del MOL finisce con l’essere pesantemente influenzata dalle politiche di incasso-pagamento e gestione delle scorte adottate (che determinano il naturale sfasamento tra cosi di acquisto e pagamenti da un lato e i ricavi di vendita e incassi dall’altro) nonché dalla presenza di componenti non monetarie, quali ad esempio gli accantonamenti al TFR o gli incrementi di immobilizzazioni per lavori interni. Ovviamente poi, la “distanza” tra il MOL e il reale flusso monetario complessivo sarà tanto maggiore quanto più intensi sono stati gli altri interventi di investimento/disinvestimento e raccolta e rimborso di capitale e, in genere, tutte le scelte di natura extra-operativa.
Ammortamenti e accantonamenti
Vengono inserite le voci relative a ammortamenti e svalutazioni (e quindi anche le svalutazioni dei crediti compresi nell’attivo circolante e delle disponibilità liquide), gli accantonamenti per rischi e gli altri accantonamenti. Si tratta di voci sulle quali l’influenza delle politiche di bilancia è spesso marcata: ciò giustifica ulteriormente l’individuazione di un indicatore di redditività operativa, il MOL appunto, che ne prescinde completamente.
E’ opportuno sottolineare alcuni tratti caratteristici degli ammortamenti:
- essendo computati sui valori storici d’acquisto la dinamica monetaria ne svilisce progressivamente il valore;
- sebbene un bene sia stato completamente ammortizzato può comunque mantenere una sua utilità e partecipare al processo produttivo pur senza essere più ammortizzato nel conto economico;
- benché siano stati elaborati molteplici criteri per il calcolo delle quote di ammortamento, non esiste un metodo che sia oggettivamente esatto; ne consegue che nel calcolo degli ammortamenti entra sempre una grossa componente di discrezionalità;
- il valore degli ammortamenti dovrebbe riflettere da un lato la perdita di valore subita dalle immobilizzazioni per effetto dei processi congiunti di obsolescenza e senescenza, dall’altro la possibilità di ricostruire la capacità finanziaria per fare fronte ai nuovi investimenti; in realtà, il valore iscritto in bilancia riprende spesso semplicemente quanto definito e ammesso dalla normativa fiscale (e questo svilisce ulteriormente l’analisi portandola a semplificazioni talvolta fuorvianti).
Per quanto attiene i valori di reddito operativo, gestione finanziaria, accessoria, straordinaria e delle imposte sul reddito valgono le considerazioni sviluppate in precedenza riguardo l’altro modello di riclassificazione.
3. Conto economico a ricavi netti e margine di contribuzione
Si tratta di una riclassificazione che mette in evidenza la convenienza alla produzione dell’impresa di fronte alle tipiche scelte in relazione all’opportunità o meno di proseguire alla produzione. Isolando infatti i costi fissi si cerca di valutare la copertura dei ricavi rispetto ai costi variabili, che come è noto rappresenta la prima soglia di convenienza allo sviluppo dell’attività produttiva (in altri termini, se il prezzo di vendita del prodotto supera l’incidenza dei costi variabili esiste comunque una convenienza alla produzione).
Il presupposto fondamentale per procedere nella riclassificazione è che vi sia una contabilità che consenta di separare i costi fissi da quelli variabili, dove per costi fissi si intendono tutti quei costi la cui variazione non è correlata direttamente (non esistono infatti costi fissi in assoluto, ma solo costi “fissi per intervalli di produzione”) al variare dei volumi di produzione e vendita realizzati e per costi variabili quelli la cui entità dipende dalla variazione intervenuta nei volumi di produzione e vendita.
CONTO ECONOMICO A RICAVI NETTI E MARGINE DI CONTRIBUZIONE
+ Ricavi di Vendita
- Costi variabili
= Margine di Contribuzione
- Costi fissi specifici
= Margine di Contribuzione
- Costi comuni aziendali
= Reddito operativo
+o - risultato della gestione finanziaria
+o - risultato della gestione accessoria
+o - risultato della gestione straordinaria
= Reddito Ante Imposte
- Gestione fiscale
= Reddito Netto
Non è possibile, con riguardo a questo schema, fornire indicazioni puntuali in merito all’imputazione delle voci: essa dipende infatti dalla natura degli oneri dell’impresa, e dalla distinzione operata tra costi variabili (tipicamente gli acquisti di materie) costi fissi specifici (oneri direttamente imputabili ad un determinato ciclo produttivo, come ad esempio il costo del lavoro, sempre che nel contesto aziendale assuma natura di costo fisso, per il personale direttamente coinvolto in una specifica produzione) e i costi comuni aziendali (tipicamente le spese generali, il cui sostenimento non è direttamente imputabile alle singole categorie di prodotto).
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2014 - Da: G. Manzana E. Iori
Sono nulli gli avvisi emanati prima dei 60 giorni dalla chiusura della verifica. A meno che non si tratti di particolare e motivata urgenza. Ma che sia particolare e motivata. No il fatto che stia per decadere il potere di accertamento per il periodo di imposta oggetto di rettifica.
Nullità dell’atto
Sono nulli gli avvisi emanati prima dei 60 giorni dalla chiusura della verifica (art. 12 co. 7 della Legge 212/2000 - Cass. Sezioni Unite Sent. n. 18184 del 2013).
Calcolo dei 60 giorni
La norma (art. 12 co. 7 della Legge 212/2000) non fa riferimento alla notifica dell'atto di accertamento ma alla sua emanazione, ossia alla data in cui è stata apposta la firma del direttore dell'Ufficio o della persona da lui delegata.
Particolare e motivata urgenza
L'unica deroga prevista per l'emanazione anticipata dell'avviso è costituita dalla prova della sussistenza di una «particolare e motivata urgenza».
Non rappresenta una causa di urgenza la decadenza del potere di accertamento per il periodo di imposta oggetto di rettifica (Cass. Sent. n. 1869 depositata il 29 gennaio 2014).
Pertanto, «il caso di particolare urgenza» deve consistere in un fatto impeditivo «non imputabile alla condotta dell'Amministrazione finanziaria" (Cassazione, sentenza 10069/14).
Imposte
La prescrizione del rispetto del termine dei sessanta giorni, essendo contenuta nella legge 212 del 2000, non è circoscritta soltanto alle imposte sui redditi e all'Iva, ma è estendibile anche a tutti gli altri comparti impositivi, quali ad esempio tributi locali e imposta di registro, con l'eccezione dei diritti doganali.
Tipologia d’atto
Ancorchè la norma faccia espresso riferimento all'avviso di accertamento, il termine di sessanta giorni deve essere rispettato per tutti gli atti aventi natura impositiva anche se non formalmente denominati avvisi di accertamento (come nel caso, ad esempio, di avviso di liquidazione dell'imposta di registro) (Cassazione, sent. nn. 2280/14 e 27831/13).
Tipologia di verifica
Il termine di sessanta giorni opera sia quando venga rilasciato un vero e proprio «processo verbale di constatazione» (Pvc), sia allorquando venga rilasciato un verbale meramente descrittivo delle operazioni svolte o comunque di chiusura delle operazioni di accesso, verifica o ispezione nei locali, indipendentemente dal loro contenuto (Cass. sent. n. 5273 del 2014).
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2014 - Da: G. Manzana E. Iori
Le legge 147/2013 (e più nello specifico l’articolo 1, comma 611, lett. a) modifica l’art. 17-bis, D.Lgs. n. 546/92, semplificando da un lato l’istituto (obbligatorio) del reclamo e mediazione e dall’altro introducendo delle previsioni “dimenticate” dal legislatore del Dl 98/2011.
Le modifiche in particolare riguardano:
La condizione di procedibilità (e non più di ammissibilità) della presentazione del reclamo
La decorrenza dei termini previsti per il compimento degli atti processuali
L’applicazione delle disposizioni sui termini processuali
La sospensione ex lege della riscossione e del pagamento delle somme dovute in pendenza del procedimento di mediazione
La produzioni di effetti del reclamo anche sui contributi previdenziali e assistenziali e la non applicazione di sanzione e interessi.
Per espressa previsione normativa le nuove norme sulla mediazione entrano in vigore con gli atti giunti ai contribuenti dal prossimo 2 marzo anche se redatti e spediti precedentemente dall'ufficio. La Cir. 1/E/2014 a tal proposito precisa che rileva il momento in cui la notifica si perfeziona per il destinatario. Quindi, nel caso di un atto notificato a mezzo posta anteriormente a tale data, ma ricevuto dal contribuente in data successiva, si applicano le nuove norme. Per quanto riguarda le impugnazioni del silenzio-rifiuto sulle istanze di rimborso, le novità si applicheranno sugli atti per i quali alla data del 2 marzo 2014 non sia già decorso il termine di 90 giorni dalla presentazione della istanza di rimborso medesima.
In merito a tale novità è intervenuta l’Agenzia delle entrate con la cir. 1/E del 12 febbraio 2014.
La condizione di procedibilità (e non più di ammissibilità) della presentazione del reclamo
L’articolo 1, comma 611, della legge n. 147 del 2013, ha sostituito il comma 2 dell’articolo 17-bis del D.Lgs. n. 546 del 1992 che nella versione attuale prevede “La presentazione del reclamo è condizione di procedibilità del ricorso. In caso di deposito del ricorso prima del decorso del termine di novanta giorni di cui al comma 9, l’Agenzia delle entrate, in sede di rituale costituzione in giudizio può eccepire l’improcedibilità del ricorso e il presidente, se rileva l’improcedibilità, rinvia la trattazione per consentire la mediazione”.
Le nuove mediazioni non sono più quindi condizione di ammissibilità del ricorso, rilevando solo quale condizione di procedibilità dello stesso.
A seguito di presentazione dell'istanza, si attiva dunque l'istituto del reclamo che deve essere concluso entro 90 giorni. Il ricorso depositato dal contribuente prima del decorso del predetto termine è improcedibile. In tali ipotesi l'ufficio potrà eccepire l'improcedibilità chiedendo al giudice l'eventuale rinvio dell'udienza, per consentire l'esecuzione della fase di reclamo.
Nella circolare 1/E del 2014 è precisato che qualora il giudice non accolga l'eccezione sollevata in tal senso dall'ufficio, da ciò deriverebbe un ostacolo alla difesa e pertanto la sentenza emessa all'esito del giudizio dovrà essere impugnata per tale violazione.
L'improcedibilità per la prematura costituzione del contribuente, varrà anche per i ricorsi proposti contro l'agente della riscossione.
La decorrenza dei termini previsti per il compimento degli atti processuali
Il comma 9 dell’articolo 17-bis del D.Lgs. n. 546 del 1992, stabilisce che “Decorsi novanta giorni senza che sia stato notificato l'accoglimento del reclamo o senza che sia stata conclusa la mediazione, il reclamo produce gli effetti del ricorso. I termini di cui agli articoli 22 e 23 decorrono dalla predetta data”.
L’articolo 1, comma 611, della legge n. 147 del 2013, ha eliminato i successivi periodi, in base ai quali “Se l’Agenzia delle entrate respinge il reclamo in data antecedente, i predetti termini decorrono dal ricevimento del diniego. In caso di accoglimento parziale del reclamo, i predetti termini decorrono dalla notificazione dell’atto di accoglimento parziale”, ed ha aggiunto il seguente “Ai fini del computo del termine di novanta giorni, si applicano le disposizioni sui termini processuali”.
Ne consegue che per le istanze presentate avverso gli atti notificati a decorrere dal 2 marzo 2014, qualora il procedimento di mediazione non si sia concluso con un accoglimento o con la formalizzazione di un accordo, i termini per la costituzione in giudizio delle parti di cui agli articoli 22 e 23 del D.Lgs. n. 546 del 1992 decorrono, in ogni caso, dal compimento dei 90 giorni dal ricevimento dell’istanza da parte dell’Ufficio.
Diversamente quindi da quanto stabilito dalla previgente disciplina, la notifica del provvedimento dell’Ufficio che respinge o accoglie parzialmente l’istanza non rileva ai fini della decorrenza dei termini per la costituzione in giudizio delle parti. Si ricorderà infatti che, stando la previgente normativa i termini per la costituzione in giudizio del ricorrente e del resistente iniziano a decorrere: dal compimento dei 90 giorni dal ricevimento dell’istanza da parte dell’Ufficio, qualora non sia stato notificato il provvedimento di accoglimento della stessa ovvero non sia stato formalizzato l’accordo di mediazione; dalla notificazione, prima del decorso dei predetti 90 giorni, del provvedimento con il quale l’Ufficio respinge o accoglie parzialmente l’i stanza.
L’applicazione delle disposizioni sui termini processuali
L’articolo 1, comma 611, della legge n. 147 del 2013, ha aggiunto il seguente periodo “Ai fini del computo del termine di novanta giorni, si applicano le disposizioni sui termini processuali”.
Per espressa previsione normativa quindi, il termine di 90 giorni deve essere computato applicando le disposizioni sui termini processuali e quindi, diversamente da quanto previsto dalla previgente disciplina, tenendo conto anche della sospensione feriale dei termini processuali dal 1° agosto al 15 settembre, di cui alla legge n. 742 del 1969. Si ha quindi che sia il termine per la costituzione in giudizio che quello del reclamo sono soggetti alla sospensione feriale
Trovano inoltre applicazione tutte le disposizioni relative alla sospensione o interruzione dei termini processuali.
TERMINI | |
PROPOSIZIONE DEL RICORSO | COSTITUZIONE IN GIUDIZIO |
60 gg dalla notifica dell’avviso di accertamento + 46 gg in caso di sospensione feriale(*) + 90 gg in caso di accertamento con adesione |
30 gg dalla proposizione del ricorso + 90 gg in caso di reclamo e mediazione (90 gg) - termine fisso + 46 gg in caso di sospensione feriale(*) |
(*) inteso come sospensione feriale dei termini processuali dal 1° agosto al 15 settembre.
La sospensione ex lege della riscossione e del pagamento delle somme dovute in pendenza del procedimento di mediazione
L’articolo 1, comma 611, della legge n. 147 del 2013, ha aggiunto all’articolo 17-bis, dopo il comma 9, il comma 9-bis secondo cui “La riscossione e il pagamento delle somme dovute in base all’atto oggetto di reclamo sono sospesi fino alla data dalla quale decorre il termine di cui all’articolo 22, fermo restando che in assenza di mediazione sono dovuti gli interessi previsti dalle singole leggi d’imposta. La sospensione non si applica nel caso di improcedibilità di cui al comma 2”.
Si ha quindi che per gli accertamenti esecutivi o le intimazioni di pagamento, gli uffici non procederanno all'affidamento del carico all'agente della riscossione. Nei casi di ruoli o di altri atti per i quali è richiesta l'iscrizione a ruolo, sarà comunicata ad Equitalia la sospensione della riscossione.
Pertanto, a seguito della ricezione dell’istanza, l’Ufficio durante il procedimento di mediazione: non procede all’affidamento del carico, qualora l’atto impugnato sia un accertamento esecutivo o una successiva intimazione di pagamento di cui all’art. 29 del Dl n. 78/2010; comunica all’Agente della riscossione la sospensione della riscossione se l’atto impugnato è un ruolo; non procede all’iscrizione a ruolo negli altri casi.
La circolare 1/E/2014 chiarisce che:
la sospensione della riscossione non opera con riferimento alle istanze improponibili, ossia che non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 17-bis del D.Lgs. n. 546 del 1992.
Decorso il termine di 90 giorni dalla presentazione dell’istanza senza che vi sia stato accoglimento della stessa o sia stato formalizzato un accordo di mediazione, la sospensione viene meno e sono dovuti gli interessi previsti dalle singole leggi d’imposta.
In caso di deposito del ricorso prima del decorso del termine di 90 giorni dalla presentazione dell’istanza, la sospensione non opera, senza necessità di attendere la dichiarazione giudiziale di improcedibilità del ricorso.
Resta ferma la possibilità di avvalersi delle disposizioni “speciali” in materia di riscossione straordinaria (in particolare, articoli 29, comma 1, lettera c), del Dl n. 78/2010 e 15-bis del Dpr 602/1973).
La produzioni di effetti del reclamo anche sui contributi previdenziali e assistenziali e la non applicazione di sanzione e interessi
L’articolo 1, comma 611, della legge n. 147 del 2013, ha inserito al comma 8 dell’articolo 17-bis del D.lgs. n. 546 del 1992 il seguente periodo “L’esito del procedimento rileva anche per i contributi previdenziali e assistenziali la cui base imponibile è riconducibile a quella delle imposte sui redditi. Sulle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali non si applicano sanzioni e interessi”.
Si ha quindi che l'esito del procedimento rileva anche per i contributi previdenziali ed assistenziali e sulle somme dovute a tal fine, non si applicano sanzioni ed interessi. In caso di pagamento rateale anche i contributi sono rateizzati e versati unitamente alle imposte.
Con circolare n. 9/E del 2012 (punto 1.4) l’Agenzia delle Entrate aveva già chiarito che “La mediazione produce effetti anche sui contributi previdenziali e assistenziali, in quanto la loro base imponibile è riconducibile a quella delle imposte sui redditi. Si tratta, in particolare, dei casi in cui la mediazione riguardi avvisi di accertamento o iscrizioni a ruolo conseguenti a liquidazione o controllo formale delle dichiarazioni. In tal caso, il valore della lite va, ovviamente, determinato al netto dei contributi accertati. L’atto di mediazione deve quindi indicare anche i contributi ricalcolati sulla base del reddito imponibile determinato nell’atto stesso”.
La Cir. 1/E del 2014 chiarisce che in caso di pagamento rateale, anche i contributi sono rateizzati e le singole rate versate tramite modello F24 con le causali indicate.
La chiamata in causa di Equitalia
La cir. 1/E/2014 percisa che i termini previsti per la fase di mediazione sono validi anche quando è chiamata in causa Equitalia. In particolare viene detto che nel caso in cui il contribuente impugni un atto emesso dall’Agente della riscossione e sollevi eccezioni concernenti sia l’attività dell’Agenzia delle entrate sia quella dell’Agente della riscossione, deve attendere il decorso dei 90 giorni per la costituzione in giudizio.
In passato l'agenzia delle Entrate (circolare 9/2012) aveva chiarito che, non potendosi "sdoppiare" il ricorso proposto, anche per l'agente della riscossione doveva valere la sospensione di 90 giorni prevista dall'articolo 17 bis. A Telefisco 2014, in risposta a uno specifico quesito, l'agenzia delle Entrate, contestando il comportamento assunto in alcuni giudizi da parte di Equitalia – secondo i quali mediazione è una procedura obbligatoria solo per l'agenzia delle Entrate -, ha confermato che la questione della tardività è infondata.
L’incostituzionalità dell’istituto
Le modifiche intervenute in ogni caso non risolvono del tutto le questioni costituzionali sulla sua legittimità dell’istituto. Se infatti risolvono il problema dell’'irragionevole discriminazione tra il diritto del contribuente a corrispondere il giusto tributo e la potestà impositiva dell'Amministrazione finanziaria (violando così il principio di eguaglianza e ragionevolezza) conseguente all'inammissibilità del ricorso per omessa presentazione del reclamo ovvero la perdita definitiva del diritto di adire il giudice per omessa attivazione di un rimedio amministrativo, dall’altra non risolvono le (altre) censure già evidenziate nelle ordinanze delle Commissioni tributarie provinciali di Perugia e Benevento nonché, da ultimo, dalla Ctp di Campobasso, con l'ordinanza del 17 aprile 2013
I giudici di Campobasso, in particolare, hanno ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma in oggetto, rilevando che l'istituto rappresenta un'inutile duplicazione dei rimedi transattivi preprocessuali: condiziona l'accesso alla giurisdizione tributaria, prevedendo a pena di inammissibilità del ricorso l'esperimento, in via preliminare, della mediazione tributaria; impone che il contenuto del reclamo sia identico a quello del ricorso; grava sul contribuente; impedisce la sospensione cautelare immediata, così incorrendo in violazione di varie norme costituzionali (articoli 3, 24, 25, 111 e 113 della Costituzione).
Si dubita, perciò, che possano essere lesi i principi di eguaglianza, il diritto di difesa, il divieto di distrazione dal giudice naturale, il diritto a un giusto processo e il diritto alla tutela giurisdizionale riservato al cittadino. Ciò in quanto, innanzitutto, l'organo deputato a gestire il reclamo, per quanto diverso e presuntivamente autonomo, è pur sempre un organo della stessa Amministrazione finanziaria.
Senza trascurare, inoltre, che l'iter procedurale previsto dalla norma limita la tutela giurisdizionale solo nei confronti dei contribuenti interessati da una determinata categoria di provvedimenti (controversie non superiori a 20.000 euro), con conseguente irrazionalità e diversità di trattamento anche in ordine alla tutela cautelare.
Pertanto, l'istanza di mediazione-reclamo porta in sé, sin dall'origine, il carattere e il contenuto del ricorso giurisdizionale, con evidente anticipazione della tesi difensiva del contribuente nella fase amministrativa e conseguente immodificabilità della stessa nell'eventuale giudizio, limitandone il diritto di difesa.
La tutela giudiziaria del contribuente non può essere garantita da uno strumento che, differendo radicalmente dal modello della mediazione, civile in particolare (così come di recente novellato dal decreto del Fare), rappresenta esclusivamente un impedimento all'immediato ricorso alla giustizia tributaria e alla necessità di avvalersi della sospensione dell'atto impugnato, ex articolo 47 del Dlgs 546/92.
Le limitazioni della tutela giurisdizionale con misure di conciliazione extragiudiziale, in conformità anche con la giurisprudenza comunitaria (vedi Corte di giustizia, causa C-28/05), «corrispondono ad obiettivi di interesse generale purché non si traducano in un intervento sproporzionato ed inaccettabile, tale da ledere la sostanza dei diritti così garantiti» (Cfr. Il reclamo tributario limita i diritti del contribuente, E. De Mita, Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2013).
ARTICOLO - Pubblicato il: 03 novembre 2014 - Da: G. Manzana E. Iori
Sulla prova di uscita non si scherza. Sul numero dei partita Iva del cessionario …. forse si … forse. Resta il fatto che sbagliare sulle cessioni intracomunitarie o sugli acquisti, può costare il 100% caro.
Il requisito oggettivo: il trasferimento fisico del bene
Uno dei requisiti sostanziali della cessione intracomunitaria è rappresentato dal trasferimento fisico del bene da uno Stato membro all’altro.
La prova della cessione
Ai fini della prova, la Cmr (vale a dire la c.d. lettera di vettura internazionale) e da considerata il principale documento di prova. La stessa e gli altri documenti di prova (Cmr, Ddt eccetera) in ogni caso devono essere firmati, oltre che dal mittente e/o dal vettore/trasportatore, anche dal destinatario che attesta in tal modo il ricevimento dei beni a destino. In alternativa, è necessaria una dichiarazione scritta del cliente che confermi l’avvenuta ricezione dei beni nello Stato membro di arrivo (in tal senso, paiono orientate anche le amministrazioni fiscali di altri Paesi comunitari). Ris. 9/E del 2013. In tal senso anche Ris. 345/E del 2007, Ris. 477/E del 2008, Ris. 123/E del 2009 e Ris. 71/E/2014
Nelle cessioni intracomunitarie, l’onere di provare l’avvenuto trasferimento fisico del bene nell’altro Stato Ue spetta al cedente. Le condizioni per applicare la non imponibilità Iva devono rispettare i principi della certezza del diritto e di proporzionalità. Per assicurare la riscossione dell’imposta, gli Stati non possono adottare provvedimenti che ledono la neutralità Iva. Corte di giustizia Ue, sentenza del 27 settembre 2007 nella causa C-409/04.
Le vendite “franco fabbrica”
Nelle vendite “franco fabbrica”, il cedente non è tenuto a svolgere attività investigativa sulla movimentazione dei beni ceduti dopo la loro consegna al vettore. Ma deve comunque verificare con la diligenza dell’operatore commerciale professionale l’affidabilità della controparte e lo svolgimento dell’operazione. Corte di cassazione, sentenza 13457 del 27 luglio 2012.
La mancanza dei documenti
Se la documentazione idonea a provare il trasferimento dei beni a destino non è disponibile, il cedente deve fornire la prova di averla richiesta, prevedendone la restituzione nei contratti stipulati con vettore, spedizioniere e cessionario. Se la controparte non fornisce quanto richiesto, bisogna dimostrare di aver fatto tutto il possibile per ottenere l’adempimento. Corte di cassazione, sentenza 19747 del 28 agosto 2013
Il requisito soggettivo: indicazione in fattura del numero iva del cessionario verificato
La non imponibilità delle cessioni intra-Ue è subordinata all’indicazione nella fattura del numero Iva che il cessionario comunitario deve comunicare al fornitore e che quest’ultimo è tenuto a verificare (articolo 50, commi 1 e 2, Dl 331/93).
Identificativo iva mancante
Non si può negare la non imponibilità della cessione intracomunitaria effettuata solo perché manca il numero identificativo Iva o perché non è stata confermata la sua validità. Devono però essere presenti le condizioni sostanziali dell’operazione intracomunitaria, fra cui è compresa la dimostrazione che il cessionario è un soggetto passivo che agisce in quanto tale. Corte di cassazione, sentenza 22127 del 27 settembre 2013.
Le condizioni sostanziali
Il numero d’identificazione Iva fornisce la prova dello status fiscale del soggetto passivo e agevola i controlli delle autorità sulle operazioni intracomunitarie. Questo numero, tuttavia, è soltanto un requisito formale che non può rimettere in discussione il diritto all’esenzione Iva qualora ricorrano i requisiti sostanziali della cessione intraUe. Corte di cassazione, sentenza 17254 del 29 luglio 2014.
Numero iva cessato
Le conclusioni raggiunte dai giudici con riguardo ai casi di mancata indicazione in fattura della partita Iva si possono estendere al caso del numero Iva cessato. Infatti, l’indicazione nella fattura di un numero identificativo Iva cessato non è sanzionata dalla legge. Inoltre, l’assoggettamento a imposta della cessione comporterebbe un’infrazione al divieto della doppia imposizione per cui i beni e i servizi vanno tassati solo nel Paese di consumo. Corte di cassazione, sentenza 21183 dell’8 ottobre 2014.
PRINCIPI COMUNITARI
Le forme di prova richiesta non possono portare gli stati membri a provvedimenti che ledono la naturalità fiscale
Per assicurare la riscossione dell’imposta, gli Stati non possono adottare provvedimenti che ledono la neutralità Iva. Corte di giustizia Ue, sentenza del 27 settembre 2007 nella causa C-409/04
Divieto di doppia imposizione
L’assoggettamento a imposta della cessione a fronte di un errore formale comporterebbe un’infrazione al divieto della doppia imposizione per cui i beni e i servizi vanno tassati solo nel Paese di consumo. Corte di cassazione, sentenza 21183 dell’8 ottobre 2014.
NORME E TRIBUTI 03 Novembre 2014 Il Sole 24 Ore - IL SET DEI DOCUMENTI DI TRASPORTO
“Uno dei requisiti sostanziali della cessione intracomunitaria è rappresentato dal trasferimento fisico del bene da uno Stato membro all’altro. In assenza di specifici obblighi normativi in materia di documentazione da utilizzare per provare tale trasferimento, l’Amministrazione finanziaria ha affrontato un lungo percorso interpretativo, avviato con la risoluzione 345/E del 2007, ripreso con le risoluzioni 477/E del 2008 e 123/E del 2009, e completato nella risoluzione 19/E del 2013 - le cui conclusioni sono state recentemente confermate, per il settore della nautica da diporto, dalla risoluzione 71/E/2014, la quale ne ha “raffinato” alcuni aspetti per tener conto del fatto che, in tale ambito, i beni spesso si muovono in modo autonomo e non sono trasportati.
Con la risoluzione 19/E del 2013, in particolare, sebbene in modo indiretto, le Entrate paiono aver definito il quadro delle prove, indicando i documenti alternativi rispetto alla Cmr (la cosiddetta lettera di vettura internazionale, considerata quale documento principale) utilizzabili in sua mancanza e precisando che, in ogni caso, è necessario che tali documenti (Cmr, Ddt eccetera) siano firmati, oltre che dal mittente e/o dal vettore/trasportatore, anche dal destinatario che attesta in tal modo il ricevimento dei beni a destino. In alternativa, è necessaria una dichiarazione scritta del cliente che confermi l’avvenuta ricezione dei beni nello Stato membro di arrivo (in tal senso, paiono orientate anche le amministrazioni fiscali di altri Paesi comunitari).
Questa evoluzione interpretativa, peraltro, si è sviluppata parallelamente alla produzione giurisprudenziale comunitaria (a partire dalle cause C-146/05 e C-409/04) ed è stata accompagnata dagli esiti della giurisprudenza nazionale che non ha mancato di sottolineare gli obblighi di diligenza professionale richiesti agli operatori coinvolti nelle operazioni della specie (Cassazione, n. 13457/2012) oltre che il rigore dei comportamenti idonei a provare la loro buona fede nel caso in cui la documentazione inerente il trasferimento dei beni manchi o sia carente (Cassazione, n. 19747/2013).
In ogni caso, l’attuale quadro è il risultato delle indicazioni distribuite su un periodo non breve: non dovrebbe apparire strano, pertanto, se i contribuenti hanno adeguato nel tempo i propri comportamenti alle indicazioni fornite dall’Amministrazione finanziaria. Tanto più se si considera che tali indicazioni non sempre appaiono pienamente coerenti: la risoluzione 477/E/2008, per esempio, più generosamente rispetto alla risoluzione n. 345/E/2007, ammette che la prova dell’invio dei beni possa essere fornita con qualsiasi altro documento diverso da quello di trasporto.
Si consideri in particolare la presenza di un documento (Cmr o altro) debitamente sottoscritto, la cui necessità emerge nella risoluzione 19/E del 2013 (seppur non così perentoriamente, visto che è indicata fra parentesi).
Una diversa impostazione che, in sede di controllo, non tenesse conto della cronologia con cui sono stati forniti i vari contributi interpretativi, rischierebbe di penalizzare eccessivamente gli operatori ponendosi in contrasto con il principio della certezza del diritto, secondo cui i soggetti passivi devono avere conoscenza dei loro obblighi fiscali prima di concludere un’operazione (causa C-409/04).”
NORME E TRIBUTI 03 Novembre 2014 Il Sole 24 Ore - MENO FORMALITA’ NELLE FATTURE UE
“Giudici meno rigidi sulle irregolarità nella fatturazione delle cessioni intracomunitarie. È l’orientamento che emerge dalle più recenti sentenze della Cassazione, che si allinea così alle pronunce della Corte di giustizia Ue.
A inaugurare il revirement interpretativo è stata la sentenza 22127/2013 della Cassazione. Il punto di partenza è che la non imponibilità delle cessioni intra-Ue è subordinata all’indicazione nella fattura del numero Iva che il cessionario comunitario deve comunicare al fornitore e che quest’ultimo è tenuto a verificare (articolo 50, commi 1 e 2, Dl 331/93). La Corte, però, fa due passi avanti importanti: riconosce che la mancata indicazione del numero Iva o l’omessa richiesta di conferma della sua validità non possono di per sé giustificare il diniego del regime di non imponibilità; pone come condizione il fatto che il cedente dimostri l’esistenza dei requisiti sostanziali dell’operazione intracomunitaria, compreso quello per cui l’acquirente comunitario è un soggetto passivo d’imposta che agisce in quanto tale nell’ambito dell’operazione.
Questo riallineamento è illustrato dalla sentenza 17254/2014, in cui la Cassazione, richiamando alcuni precedenti di segno diverso (fra cui la sentenza 3167/2012) che legittimavano il recupero a tassazione quando il cessionario non avesse comunicato il numero di partita Iva o l’operatore nazionale non ne avesse accertato la validità, afferma che solo il più recente orientamento è compatibile con i principi della Corte Ue. In quest’ottica, nonostante il numero di identificazione fornisca la prova dello status di soggetto passivo e agevoli i controlli, esso rappresenta pur sempre un requisito formale, la cui mancanza non può escludere la sussistenza di una cessione intracomunitaria, se l’operatore può dimostrare «in modo rigoroso» tutti i requisiti sostanziali dell’operazione.
Con la sentenza 21183 dell’8 ottobre scorso, infine, i giudici affermano che questi principi possono essere estesi al caso in cui l’operatore indichi in fattura (e negli elenchi Intrastat) una partita Iva “cessata”. Precisando anche che una diversa conclusione comporterebbe la violazione del divieto di doppia imposizione, poiché la tassazione della vendita nel Paese di partenza si sommerebbe a quella nello Stato membro di consumo del bene.
Proprio quest’ultima considerazione, tuttavia, insieme con il fatto che anche questa sentenza afferma la necessità di offrire la dimostrazione certa che le condizioni sostanziali dell’operazione sono soddisfatte, induce a riflettere su alcuni esempi concreti di cessazione della partita Iva. Vediamoli.
Numero cessato, ma errato. Un caso frequente è quello del numero che risulta sì cessato, ma che non corrisponde a quello del cessionario o perché questi lo ha comunicato sbagliato o perché il cedente ha indicato in fattura un identificativo errato, senza aver eseguito alcun controllo. Nella fattispecie, l’errore è facilmente rilevabile e giustificabile, senza pregiudizio per l’inquadramento dell’operazione come cessione non imponibile.
Numero cessato senza perdita della soggettività. In altre situazioni la partita Iva può essere effettivamente cessata, ma ciò non determina la perdita della soggettività passiva ai fini impositivi. Potrebbe trattarsi dell’adesione a regimi forfettari che talvolta, all’estero, non prevedono l’attribuzione del numero Iva o, ancora, dell’inclusione del cessionario in un gruppo Iva dotato di un unico (e diverso) identificativo. Potendo provare tali circostanze, l’operazione potrebbe restare detassata.
Chiusura dell’attività. Se la cessazione del numero identificativo corrisponde a una reale cessazione dell’attività economica ai fini Iva, non si può dimostrare il rispetto dei requisiti sostanziali della cessione intracomunitaria, che dovrà essere assoggettata a imposta nello Stato del cedente (l’acquirente non è più soggetto passivo e non può assolvere l’Iva a destino). Tuttavia, come precisa la Corte Ue (cause C- 273/11 e C-492/13) va verificato se la partita Iva è cessata con effetto retroattivo o no: in tale ipotesi i principi del diritto comunitario “salvano” la non imponibilità se l’operatore - estraneo a eventuali frodi - si è basato sui dati disponibili al momento d’effettuazione della cessione.”
ARTICOLO - Pubblicato il: 18/03/2013 - Da: G. Manzana E. Iori
Il trattamento fiscale dei prezzi di trasferimento, ossia dei prezzi praticati nell’ambito di transazioni fra società, imprese, stabili organizzazioni o in generale enti appartenenti al medesimo gruppo multinazionale, è disciplinato dall’art. 110, comma 7 del Tuir.
La norma non interferisce sui criteri di determinazione contrattuale/civilistica dei prezzi di trasferimento limitandosi a stabilire che, qualora detti prezzi siano inferiori a quelli praticati in condizioni di libera concorrenza, si richiede una variazione in aumento nella dichiarazione dei redditi.
Articolo 110- Norme generali sulle valutazioni
(…)
7. I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l'impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l'impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali "procedure amichevoli" previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La presente disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali l'impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione di prodotti. (…)
La norma riguarda le operazioni svolte da imprese italiane con società estere le quali:
- controllano, direttamente o indirettamente, l'impresa italiana;
- sono controllate dall'impresa italiana;
- sono controllate dalla stessa società che ha il controllo sull'impresa italiana.
Nel caso in cui, valutando i componenti di reddito derivanti da tali operazioni al valore normale, così come definito dal comma 2 dell'art. 110,
- - dei beni ceduti e dei servizi prestati,
- - dei beni e servizi ricevuti,
si ottenga un aumento del reddito per le imprese nazionali, questi devono essere valutati a tale valore.
In pratica, quindi, al verificarsi di tale condizione, il valore normale può essere adottato nella valorizzazione di tali operazioni con forza di presunzione legale.
La finalità della norma è quella di impedire il travaso di utili dall'Italia a uno Stato estero attraverso operazioni contabilizzate ad un valore diverso da quello normale.
In base al secondo periodo del comma 7 le disposizioni in argomento si applicano anche nel caso in cui dall'applicazione del valore normale risulti una diminuzione di reddito solo però nel caso in cui l'intervento dell'Amministrazione finanziaria sia previsto da accordi con le autorità competenti degli stati esteri nell'ambito delle speciali procedure amichevoli contro le doppie imposizioni.
La normativa nazionale in materia di prezzi di trasferimento prevede in sostanza che il prezzo dell'operazione infragruppo oggetto di verifica ("operazione in verifica") sia confrontato con il valore normale di una distinta operazione ("operazione campione") e che, ai fini della determinazione del reddito dell'impresa residente, il primo sia sostituito con il secondo:
- sempre: quando da tale sostituzione deriva un incremento di tale reddito;
- soltanto qualora siano stati stipulati accordi con l'autorità competente del Paese estero: quando da tale sostituzione deriva una diminuzione del reddito dell'impresa residente.
Sul piano oggettivo, la disciplina si applica a tutte le transazioni che presentano una rilevanza reddituale e, quindi, a titolo meramente esemplificativo, alle operazioni (quali cessioni e locazioni anche finanziarie) che hanno per oggetto beni materiali (beni - merce o beni strumentali) o beni immateriali (quali brevetti, marchi, know how, ecc.), alle operazioni di finanziamento ed alle prestazioni di servizi infragruppo (ad esempio per ricerca e sviluppo, servizi di tesoreria, marketing, pubblicità e così via).
In ordine ai presupposti soggettivi della disciplina in rassegna, nella nozione di "società non residente" devono farsi rientrare anche forme giuridiche non espressamente previste nel nostro sistema, ma riconosciute come società nello Stato estero.
Relativamente, poi, al concetto di "impresa residente", sottoposta al regime fiscale in parola, deve essere considerando tale chiunque eserciti professionalmente, in forma individuale o collettiva, un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi. Pertanto, la disciplina sul transfer pricing sarà applicabile anche ai rapporti tra le stabili organizzazioni in Italia di enti non residenti e le stesse società straniere di cui le prime fanno parte.
Quanto al rapporto di "controllo" che deve intercorrere tra i due soggetti economici - nazionale ed estero - va tenuto conto, ai fini dell'applicazione della disciplina, che la citata norma del Tuir non richiama l'art. 2359 c.c. Secondo l’Agenzia delle entrate ciò sta a significare che il concetto di controllo non va inteso in senso restrittivo, ma abbraccia tutte le ipotesi in cui tra le due entità vi sia un legame, di natura formale o fattuale, da cui derivi il rischio che le transazioni poste in essere tra di esse non vengano valorizzate a prezzi di mercato (Cfr. Cir. Min. n. 32/9/2267 del 22 settembre 1980).
In proposito, la stessa circolare contiene un’ esemplificazione casistica, nel cui ambito vale la pena di ricordare, in particolare:
- l'impossibilità di funzionamento per un'impresa senza il capitale,
- i prodotti e la cooperazione tecnica dell'altra impresa (fattispecie comprensiva della joint venture),
- la presenza nelle due imprese di membri comuni del consiglio di amministrazione,
- la concessione da parte di un'impresa all'altra di ingenti finanziamenti,
- la partecipazione da parte delle due imprese a centrali comuni di approvvigionamento o vendita
- e, "in generale, tutte le ipotesi in cui un'impresa esercita potenzialmente un'influenza dominante sulle decisioni imprenditoriali dell'altra".
La concreta applicazione della normativa presuppone quindi l'identificazione del valore normale della "operazione campione".Tale valore trova la propria definizione normativa nell'art. 9, comma 3 del Tuir, ai sensi del quale "per valore normale [...] si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi".La norma prosegue poi affermando che per la determinazione del valore normale si deve fare riferimento "in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d'uso". Lo stesso art. 9 del TUIR prevede poi autonome e specifiche regole per azioni, obbligazioni e quote di partecipazione al capitale di enti diversi dalla società. In merito si veda quanto viene detto subito dopo trattando di determinazione del prezzo di trasferimento.
In considerazione del fatto che la tematica dei prezzi di trasferimento è intimamente connessa con il fenomeno della doppia imposizione internazionale, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (di seguito OCSE) ha codificato il principio di libera concorrenza (arm’s length principale), quale principio guida nell’ambito delle operazioni rientranti tra imprese associate residenti in due o più giurisdizioni fiscali differenti, nell’art. 9 del Modello di Convenzione contro le doppie imposizioni. E, in virtù dell’esplicito riferimento operato dal Commentario al Modello OCSE all’art. 9, la tematica dei prezzi di trasferimento è stata ampiamente trattata dall’OCSE, soprattutto con la predisposizione, nel 1979, delle Linee Guida sul transfer pricing, le quali nel corso degli anni, hanno subìto significativi aggiornamenti, l’ultimo dei quali, particolarmente incisivo, recepito nel documento pubblicato in data 22 luglio 2010. La metodica desumibile dalle citate Linee Guida comporta l’effettuazione di analisi approfondite aventi ad oggetto una molteplicità di aspetti che debbono essere tenuti in debita considerazione, tra i quali il tipo di transazioni da esaminare, le politiche commerciali realizzate dal gruppo multinazionale, le condizioni del mercato esistenti, la contrattualistica di riferimento ed una analisi delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni strumentali (in particolare delle immobilizzazioni immateriali) utilizzati dalle parti coinvolte nell’operazione. L’obiettivo è quello di definire nel modo più corretto possibile le caratteristiche delle operazioni in modo da poter procedere all’individuazione di operazioni comparabili per poter determinare il valore normale delle operazioni medesime da assumere a fini fiscali.
Inoltre, in ambito comunitario, in data 27 giugno 2006 il Consiglio dell’Unione Europea e i rappresentanti dei governi degli Stati membri hanno deliberato l’approvazione di un Codice di Condotta relativo alla ocumentazione dei prezzi di trasferimento per le imprese associate nell’Unione europea, con l’obiettivo di incoraggiare la diffusione di una documentazione dei prezzi di trasferimento standardizzata e parzialmente centralizzata per le imprese associate nell'Unione europea. La documentazione definita nel Codice di Condotta costituisce un insieme standardizzato di informazioni che debbono essere fornite alle amministrazioni fiscali, declinata in modo generale così da poter essere opportunamente adattata dagli Stati membri in base alle normative nazionali e ai diversi contesti di riferimento.
Notevole rilievo, nell’ambito delle riflessioni sul transfer pricing, assume il tema dell’onere della prova. Si tratta di stabilire a chi spetti (tra Amministrazione finanziaria e contribuente) l’onere di fornire gli elementi di prova della conformità (o meno) dei prezzi di trasferimento alle norme di legge. Negli ultimi anni, si sono susseguite sentenze della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza di merito che hanno contribuito a delineare la ripartizione dell’onus probandi nelle controversie sui prezzi di trasferimento.
Ex multis si richiama la sent. 13 ottobre 2006, n. 22023 con la quale la Corte di Cassazione ha stabilito che “l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti dell’elusione grava in ogni caso sull’Amministrazione che intenda operare le conseguenti rettifiche (...). Ciò trova conferma anche in materia di transfer pricing posto che le direttive OCSE (...) nel rapporto del 1995 hanno espressamente sottolineato che, laddove la disciplina di ciascuna giurisdizione nazionale preveda che sia l’Amministrazione finanziaria ad essere gravata dell’onere di provare le proprie pretese, il contribuente non è tenuto a dimostrare la correttezza dei prezzi di trasferimento applicati, se non prima che l’Amministrazione fiscale abbia essa stessa provato prima facie il non rispetto del principio del valore normale (...). Ebbene l’Ufficio (...) avrebbe dovuto, innanzitutto, accertare se veramente la fiscalità in Italia era all’epoca superiore rispetto a quella in vigore nei Paesi di provenienza dei veicoli compravenduti. In secondo luogo, determinare il valore normale dei veicoli acquistati da F. Italia verificando, in concreto, se i corrispettivi pagati dalla stessa alle proprie consociate estere fossero effettivamente superiori a tale valore con indagine estesa alla sufficienza del margine di utile ricavato per coprire le spese di riparazione in garanzia ed analisi delle condizioni del mercato automobilistico mediante confronto dei prezzi praticati all’interno del gruppo F. con quello praticato da altre imprese concorrenti’’.
In altri termini, nella sentenza in oggetto la Corte di Cassazione ha stabilito che il contribuente non è tenuto a dimostrare la correttezza dei prezzi di trasferimento applicati, se prima l’Amministrazione fiscale non
abbia essa stessa provato prima facie il mancato rispetto del valore normale.
Ancora a titolo di esempio, si cita la sent. n. 11226 del 16 maggio 2007 con cui la Suprema Corte è tornata ad esaminare la concreta applicazione della disciplina del transfer pricing, ribadendo ancora una volta che l’onere della prova nelle controversie aventi ad oggetto la determinazione dei prezzi di trasferimento grava sull’Amministrazione finanziaria che intende operare le conseguenti rettifiche al reddito del contribuente.
La determinazione dei prezzi di trasferimento
Al fine di individuare il valore normale da attribuire ai prezzi che si formano nell'ambito delle transazioni infragruppo sul piano internazionale, come si è già avuto modo di dire, assumono rilievo le Linee Guida sul transfer pricing, dell’Ocse (predisposte nel 1979 e successivamente oggetto di aggiornamenti, l’ultimo dei quali, particolarmente incisivo, recepito nel documento pubblicato in data 22 luglio 2010) e gli artt. 9 e 25 del modello OCSE di convenzione contro le doppie imposizioni.
Il Provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate del 29 settembre 2010 (prot. n. 2010/137654) che prevede il regime premiale di cui si dirà dopo, fa riferimento, per la determinazione del valore normale, ai criteri dell’Ocse.
L'Amministrazione finanziaria ha emanato le circolari n. 32/9/2267 del 22 settembre 1980 e n. 12/1587 del 12 dicembre 1981, la circ. n. 53/E del 26 settembre 1999 e, da ultimo la Cir. n. 58/E del 2010. In tali circolari i metodi di determinazione dei prezzi di trasferimento elaborati dall’Ocse vengono riconosciuti, dall’Amministrazione finanziaria, come validi.
La metodica desumibile dalle citate Linee Guida comporta l’effettuazione di analisi approfondite aventi ad oggetto una molteplicità di aspetti che debbono essere tenuti in debita considerazione, tra i quali:
- il tipo di transazioni da esaminare,
- le politiche commerciali realizzate dal gruppo multinazionale,
- le condizioni del mercato esistenti,
- la contrattualistica di riferimento ed
- una analisi delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni strumentali (in particolare delle immobilizzazioni immateriali) utilizzati dalle parti coinvolte nell’operazione.
L’obiettivo è quello di definire nel modo più corretto possibile le caratteristiche delle operazioni in modo da poter procedere all’individuazione di operazioni comparabili per poter determinare il valore normale delle operazioni medesime da assumere a fini fiscali.
Sul piano generale il documento OCSE afferma infatti che l'individuazione del prezzo di libera concorrenza non possa prescindere da alcune variabili, quali, in particolare:
- le caratteristiche dei prodotti e dei servizi oggetto dell'operazione;
- le funzioni svolte dalle singole imprese considerate ed i rischi rispettivamente assunti;
- l'entità di capitale o patrimonio che è necessario investire per la produzione dei beni o servizi oggetto dell'operazione;
- le condizioni commerciali praticate, di natura sia economica sia finanziaria;
- le politiche commerciali adottate.
Ciò detto, nelle linee guida dell’Ocse sono elaborati specifici metodi, alcuni principali ed altri sussidiari.
Quelli c.d. "principali" sono, i metodi :
- del "confronto di prezzo",
- del "prezzo di rivendita" e
- del "costo maggiorato".
Il metodo del confronto del prezzo (CUP) si basa, in sostanza, nella comparazione del prezzo "in verifica" con quello praticato per transazioni comparabili.
Questo confronto può essere sia "esterno", se riguarda il prezzo di una transazione comparabile posta in essere tra imprese indipendenti, sia "interno", se relativo ad un'operazione tra l'impresa sottoposta a verifica ed un'impresa "terza", cioè esterna al gruppo di riferimento.
Nell'applicazione del metodo e, più in particolare, nell'individuazione delle transazioni comparabili, la circolare dell’Amministrazione finanziaria del 1980 precisa che occorre primariamente tener conto del "mercato rilevante", cioè del mercato del destinatario dei beni oggetto della transazione, della qualità del bene o servizio oggetto della transazione medesima e di altri fattori, quali il trasporto, l'imballaggio, la pubblicità, la commercializzazione, la garanzia, i tassi di cambio, le condizioni generali di vendita, il tempo della vendita, l'eventuale esistenza di diritti immateriali abbinati alla vendita, di vendite promozionali e di sconti sulla quantità.
In assenza delle condizioni per poter applicare il metodo del "confronto del prezzo", è prevista la possibilità di fare ricorso, tendenzialmente in via alternativa, ai due citati metodi del "prezzo di rivendita" e del "costo maggiorato".
Il metodo del prezzo di rivendita (Resale Minus) si basa sul prezzo al quale il bene o il servizio acquistato da un'impresa appartenente ad un gruppo viene rivenduto ad un'impresa indipendente.
Si presuppone, quindi, l'esistenza di due transazioni collegate, la prima tra due imprese consociate e la seconda tra la cessionaria del gruppo ed un'impresa terza.
L'elemento di partenza è quello noto del prezzo di rivendita del prodotto all'impresa esterna al gruppo, cioè il corrispettivo della seconda operazione.
Questo importo viene, poi, diminuito delle spese di distribuzione e di un ammontare pari al "profitto normale" per l'impresa cedente, da individuare tenendo presente anche la funzione ricoperta all'interno del gruppo ed il rischio insito nello specifico settore; in tal modo, si ottiene il valore da confrontare con il prezzo praticato per la prima transazione, cioè per quella tra le due società del gruppo (e, quindi, per la transazione).
In questo caso, l'aspetto maggiormente problematico dal punto di vista operativo è costituito dalla corretta individuazione del margine di utile da attribuire all'impresa che effettua la rivendita del bene.
A tal fine, possono essere presi in considerazione o il margine ricavato in cessioni a terzi indipendenti di beni similari precedentemente acquistati da imprese del pari indipendenti o, in alternativa, attraverso mirati controlli di coerenza esterna, il margine ricavato da terzi indipendenti nella rivendita comparabile di beni similari (cioè in una transazione del tutto estranea ai soggetti considerati, ma relativa al medesimo settore di business).
Attraverso il metodo del costo maggiorato (Cost Plus), il valore normale della transazione si ottiene aggiungendo al costo di produzione del bene un margine di utile lordo.
Detto margine può essere determinato dall'esame di quanto ricavato dalla medesima impresa in vendite a terzi di prodotti similari sul medesimo mercato (confronto interno), ovvero, in assenza di tali condizioni, con quello realizzato da terzi indipendenti in vendite similari (confronto esterno); il tutto, naturalmente, a condizione che vengano svolte uguali funzioni rispetto a quelle esercitate dal rivenditore nella transazione in verifica.
Nella quantificazione del costo di produzione, da considerare come base di partenza, devono essere ricompresi sia gli oneri diretti (materie prime, manodopera, ecc.), che quelli indiretti (spese industriali, spese generali, ricerca e sviluppo, oneri finanziari, spese commerciali, spese direzionali, ecc.).
In aggiunta ai tre metodi principali di cui si è finora detto, sono previsti alcuni metodi alternativi. A tali metodi si farà ricorso qualora risultassero maggiormente affidabili rispetto a quelli tradizionali (nel senso che a parità di affidabilità occorrerà fare riferimento ai metodi tradizionali – in tal senso vendi quanto viene detto dopo).
Si tratta, tra gli altri, dei metodi che si va di seguito brevemente a richiamare.
Il metodo della ripartizione dei profitti globali (c.d. profit split method), individua il prezzo di trasferimento da applicare in base alla ripartizione degli utili complessivi del gruppo del quale fanno parte le imprese considerate. Questo metodo è realisticamente percorribile nel caso in cui la controllante sia fiscalmente residente in Italia e possa, quindi, documentare adeguatamente le procedure interne adottate ai fini dell'allocazione dell'utile di gruppo fra le varie imprese controllate in funzione della loro partecipazione al ciclo complessivo.
Il metodo della comparazione dei profitti (c.d. comparable profit method), presuppone la determinazione del profitto lordo di ciascuna impresa in relazione alla percentuale del fatturato delle vendite o ai costi di esercizio rispettivamente sostenuti rispetto al totale.
Il metodo della comparazione della redditività del capitale investito o dei margini netti delle transazioni (c.d. transactional net margin method), presuppone la determinazione del profitto lordo di ciascuna impresa in relazione al capitale investito, a prescindere dai costi di produzione o di vendita.
Di particolare rilevanza è la scelta del metodo più appropriato. Il provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate del 29 settembre 2010 (che regola in merito al regime premiale di cui si dirà dopo) recependo l’impostazione delle Linee Guida OCSE richiede che, in caso di selezione di un metodo transazionale reddituale (Transactional net margin method e Transactional profit split method ), in presenza del potenziale utilizzo di un metodo tradizionale (Comparable uncontrolled price method, Resale price method e Cost plus method), oppure in caso di selezione di un metodo diverso dal metodo del confronto del prezzo, in presenza di potenziale utilizzo di tale ultimo metodo, siano evidenziate le ragioni della mancata adozione dei metodi non selezionati.
In ogni caso occorre ricordare che quanto previsto dalle direttive OCSE al paragrafo 2.8 delle Linee Guida, ove si afferma che: “Le indicazioni di cui al par. 2.2 secondo le quali la selezione di un metodo per la determinazione del prezzo di trasferimento deve mirare a trovare il metodo più appropriato al caso specifico, non vanno intese nel senso che sia necessario analizzare in dettaglio o testare ogni volta ognuno dei metodi per la determinazione del prezzo di trasferimento per individuare quello più appropriato. Secondo un approccio corretto, la selezione del metodo più appropriato e dei comparabili dovrebbe essere dimostrata e può essere parte di un processo tipizzato quale quello proposto nel paragrafo 3.4.”
In merito si veda anche quanto detto nel paragrafo che tratta della redazione del “Documento Nazionale”.
Il ruling internazionale
Con l’art. 8 del Dl 30 settembre 2003, n. 269 convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, il legislatore ha posto l’accento sulla tematica dei prezzi di trasferimento e, in ragione della complessità della fattispecie, ha introdotto la procedura del ruling di standard internazionale.
Articolo 8 del Dl 30 settembre 2003, n. 269 - Ruling internazionale
1. Le imprese con attività internazionale hanno accesso ad una procedura di ruling di standard internazionale, con principale riferimento al regime dei prezzi di trasferimento, degli interessi, dei dividendi e delle royalties.
2. La procedura si conclude con la stipulazione di un accordo, tra il competente ufficio dell'Agenzia delle entrate e il contribuente, e vincola per il periodo d'imposta nel corso del quale l'accordo è stipulato e per i due periodi d'imposta successivi, salvo che intervengano mutamenti nelle circostanze di fatto o di diritto rilevanti al fine delle predette metodologie e risultanti dall'accordo sottoscritto dai contribuenti.
3. In base alla normativa comunitaria, l'amministrazione finanziaria invia copia dell'accordo all'autorità fiscale competente degli Stati di residenza o di stabilimento delle imprese con i quali i contribuenti pongono in essere le relative operazioni.
4. Per i periodi d'imposta di cui al comma 2, l'Amministrazione finanziaria esercita i poteri di cui agli articoli 32 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 soltanto in relazione a questioni diverse da quelle oggetto dell'accordo.
5. La richiesta di ruling è presentata al competente ufficio, di Milano o di Roma, della Agenzia delle entrate, secondo quanto stabilito con provvedimento del direttore della medesima Agenzia.
6. Le disposizioni del presente articolo si applicano a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto.
7. Agli oneri derivanti dal presente articolo, ammontanti a 5 milioni di euro a decorrere dal 2004, si provvede a valere sulle maggiori entrate derivanti dal presente decreto.
La duplice finalità della procedura, realizzata mediante la stipulazione di un accordo tra l'Agenzia delle entrate e il contribuente, è identificabile nel garantire, da un lato, all’impresa con attività internazionale, certezza in merito ai metodi di calcolo dei prezzi da praticarsi nell’ambito di operazioni concluse con imprese associate non residenti, dall’altro all’Amministrazione finanziaria la possibilità di vigilare attivamente sul rispetto del principio di libera concorrenza da parte della stessa impresa con attività internazionale in via preventiva e senza dover ricorrere a mezzi di accertamento ordinari. E’ noto, infatti, come tali mezzi siano sovente suscettibili di generare contenzioso, in quanto un appuramento rigoroso ed esaustivo dell’effettivo rispetto delle condizioni di libero mercato nell’ambito di transazioni tra contribuenti residenti e imprese associate non residenti risulta particolarmente complesso.
Il regime premiale introdotto dal Dl 78 del 2010
Con l’art. 26 del Dl 31 maggio 2010, n. 78 convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 30 luglio 2010 n. 122, (rubricato “Adeguamento alle direttive OCSE in materia di documentazione dei prezzi di trasferimento”) è stato introdotto nell’ordinamento italiano un regime di oneri documentali con riferimento ai prezzi di trasferimento.
E’ stato infatti inserito, all’art. 1 Dlgs n. 471 del 1997, il comma 2- ter con il quale il legislatore ha previsto la non applicabilità delle sanzioni connesse alla rettifica del valore normale dei prezzi di trasferimento praticati nell'ambito delle operazioni di cui all'art. 110, comma 7 da cui derivi una maggiore imposta o una differenza del credito, qualora il contribuente, nel corso dell’accesso, ispezione, verifica o altra attività istruttoria, consegni agli organi di controllo una specifica documentazione prevista con Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, emanato in data 29 settembre 2010, idonea a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati.
Articolo 1 Dlgs n. 471 del 1997
(…)
2-ter. In caso di rettifica del valore normale dei prezzi di trasferimento praticati nell'ambito delle operazioni di cui all'articolo 110, comma 7, del Tuir, da cui derivi una maggiore imposta o una differenza del credito, la sanzione di cui al comma 2 non si applica qualora, nel corso dell'accesso, ispezione o verifica o di altra attività istruttoria, il contribuente consegni all'Amministrazione finanziaria la documentazione indicata in apposito provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle Entrate idonea a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati. Il contribuente che detiene la documentazione prevista dal provvedimento di cui al periodo precedente, deve darne apposita comunicazione all'Amministrazione finanziaria secondo le modalità e i termini ivi indicati. In assenza di detta comunicazione si rende applicabile il comma 2.(…)
Il beneficio in questione, consiste nell’esclusione dell’applicazione della sanzione prevista dal comma 2 dell’art. 1 del Dlgs 471/1997 in caso di infedeltà della dichiarazione (nonché, per ragioni di coerenza sistematica, delle analoghe sanzioni previste per il comparto Irap). Detto beneficio è, pertanto, subordinato al realizzarsi della condizione, consistente nella consegna, da parte del contribuente, agli organi di controllo, di specifica documentazione idonea a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati e che garantisca un più agevole espletamento delle operazioni di controllo.
Si tratta nella sostanza di un regime premiale che tiene conto dell’impegno profuso dai contribuenti che, in buona fede, predispongono la documentazione con l’effetto di agevolare, in sede di controllo, il riscontro della conformità al valore normale delle operazioni infragruppo realizzate.
Provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate del 29 settembre 2010 (prot. n. 2010/137654)
Con il Provvedimento sono stati individuati, nel rispetto dei principi stabiliti dal citato Codice di Condotta deliberato in data 27 giugno 2006 dal Consiglio dell’Unione Europea e i rappresentanti dei governi degli Stati membri, gli elementi documentali la cui predisposizione e detenzione costituisce onere per le imprese soggette ex lege all’applicazione della disciplina sui prezzi di trasferimento, che vogliano beneficiare del regime di esenzione dall’irrogazione delle ordinarie sanzioni contemplate in caso di dichiarazione infedele.
Il Provvedimento fornisce indicazioni specifiche sul tipo di set documentale da predisporre al fine di fornire una corretta descrizione e valutazione delle operazioni con imprese associate tali da incrementare il livello di certezza sulla documentazione da detenere in vista di un eventuale controllo dell’amministrazione fiscale.
La normativa prevede, inoltre, a carico della società un obbligo di comunicazione in merito al possesso della documentazione prevista. Le modalità ed i termini di effettuazione di tale adempimento sono regolamentati nel Provvedimento del 29 settembre 2010 e variano a seconda che la documentazione si riferisca o meno ai periodi d’imposta antecedenti a quello in corso alla data di entrata in vigore del decreto-legge (31 maggio 2010). Infatti, la comunicazione relativa al periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del decreto-legge e ai successivi deve essere effettuata in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi, mentre quella concernente i periodi d’imposta antecedenti deve essere inviata entro 90 giorni dalla data di pubblicazione del Provvedimento (e cioè, entro il 28 dicembre 2010), ovvero oltre tale termine, ma, in ogni caso, prima dell’inizio di accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento delle quali il soggetto abbia avuto formale conoscenza.
Qualora tali modalità e termini di presentazione della comunicazione non vengano rispettati dal contribuente, l’Amministrazione finanziaria non potrà accordare il beneficio previsto dal comma 2-ter dell’art. 1 del decreto legislativo n. 471 del 1997.
Il Provvedimento chiarisce inoltre cosa debba intendersi per “documentazione idonea” che il contribuente deve predisporre al fine della disapplicazione della sanzione di cui al comma 2 dell’art. 1 del predetto decreto n. 471. La stessa è costituita da un documento denominato “Masterfile” e da un documento denominato “Documentazione Nazionale”.
Il regime documentale è stato, peraltro, diversificato a seconda che lo stesso venga adottato da una società holding, da una sub-holding o da una impresa controllata. Sono inoltre previste specifiche indicazioni per le stabili organizzazioni in Italia di soggetti non residenti e alleggerimenti dell’onere per le piccole e medie imprese, così come individuate secondo le definizioni che vengono fornite dal Provvedimento.
La disciplina in parola non ha introdotto un obbligo generalizzato, bensì un onere a carico del contribuente, al fine di incentivare l’adesione al regime in un’ottica di adempimento spontaneo. Invero, qualora il contribuente non predisponga, con le modalità e nei termini previsti, la documentazione contemplata dal Provvedimento, lo stesso non sarà passibile di sanzioni specifiche ed ulteriori rispetto a quelle previste in via ordinaria dall’art. 1 Dlgs 471/1997 per il caso di infedele dichiarazione.
Ove, al contrario, il contribuente predisponga, con le modalità e nei termini previsti, la documentazione idonea contemplata dal Provvedimento, ne dia rituale comunicazione all’Agenzia e, all’atto del controllo, la esibisca agli organi incaricati della conduzione dell’attività ispettiva, non sarà passibile delle ordinarie sanzioni previste dall’art. 1 del Dlgs 471/1997 per il caso di infedele dichiarazione, ovviamente limitatamente ad eventuali recuperi a tassazione derivanti dalla rettifica dei prezzi di trasferimento praticati.
In merito è intervenuta l’Agenzia delle entrate con la circ. 58/E del 15 dicembre 2010.
La comunicazione e gli oneri documentali
Per poter beneficiare del regime premiale occorre che:
1)che il possesso della documentazione sia comunicato anno per anno all’agenzia delle entrate;
2) la documentazione deve essere consegnata all’atto della verifica o, al più tardi, entro 10 giorni dalla richiesta.
Il Provvedimento, salve le specifiche previsioni per talune categorie di soggetti di cui si dirà in seguito, stabilisce, all’art. 2, che la documentazione idonea a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati nell’ambito di operazioni infragruppo è costituita
- da un documento denominato “Masterfile”, che raccoglie informazioni relative al gruppo, e
- da un documento denominato “Documentazione Nazionale” contenente informazioni relative alla singola società del gruppo multinazionale.
Si rileva che il sistema, per come impostato, assicura e dà piena garanzia agli altri stati membri della UE sul fatto che, in caso di necessità, i contenuti della documentazione detenuta da imprese italiane siano coerenti con quanto stabilito dal Codice di Condotta deliberato in data 27 giugno 2006 dal Consiglio dell’Unione Europea e i rappresentanti dei governi degli Stati membri.
L’Agenzia delle entrate nella cir. 58/E del 2010 evidenzia come il concetto di “idoneità” dei documenti, non va ricondotto al mero rispetto formale delle indicazioni previste dal Provvedimento, bensì a un’ottica più ampia e sostanzialistica, che premi l’attitudine della documentazione predisposta dal contribuente a fornire all’Amministrazione finanziaria i dati e gli elementi conoscitivi necessari ad effettuare una completa e approfondita analisi dei prezzi di trasferimento praticati. In altre parole, la documentazione potrà essere considerata “idonea” laddove sia in grado di fornire un quadro informativo che consenta il riscontro della conformità dei prezzi di trasferimento praticati al principio del valore normale, assicurando adeguata coerenza con i principi declinati dal Codice di Condotta UE e dalle Linee Guida OCSE. E ciò indipendentemente dalla circostanza che, in esito a tale analisi, dovesse risultare che tale valore sia diverso da quello individuato dal contribuente.
Proprio alla luce di quanto detto, il punto 8.3 del Provvedimento precisa che la documentazione non può essere considerata idonea qualora, pur rispettando la struttura formale prevista, non presenti contenuti informativi completi e conformi alle disposizioni previste nello stesso Provvedimento ovvero quando le informazioni fornite nella documentazione esibita non corrispondano in tutto o in parte al vero. Tale contrappeso, finalizzato a scongiurare pratiche di strumentalizzazione del regime, deve tuttavia essere utilizzato in modo appropriato ed equilibrato in sede di controllo, al fine di evitare contestazioni indiscriminate in ordine all’idoneità della documentazione, che non tengano conto della natura della documentazione stessa e dell’impegno del contribuente.
L’Agenzia delle entrate nella cir. 58/E del 2010 puntualizzare che, sia con riferimento al Masterfile che alla Documentazione nazionale, la struttura dei capitoli, paragrafi e sottoparagrafi nonché la relativa titolazione e numerazione deve intendersi non modificabile, a meno che non siano richieste modifiche parziali o integrazioni volte a consentire una migliore intelligibilità del documento.
Il paradigma che definisce il concetto di documentazione idonea espresso all’art. 2 del Provvedimento, come anticipato in premessa, risulta tuttavia diversificato a seconda della tipologia di soggetto interessato dalla norma in commento.
Tale diversificazione trova la sua ragion d’essere nell’assunto che il livello di informazioni richiesto ad un contribuente ai fini dell’assolvimento dell’onere deve essere proporzionato alla sua capacità effettiva di accesso alle informazioni stesse.
Il riconoscimento di tale principio di base ha portato ad una diversa graduazione dell’onere a seconda che il soggetto considerato sia
- una holding,
- una sub-holding (o una stabile organizzazione in Italia di una holding o di una sub-holding estera) residente in Italia oppure che
- si tratti di una impresa controllata (o una stabile organizzazione in Italia di una controllata estera), sempre residente a fini fiscali in Italia.
Occorre in ultimo segnalare che, in ragione del grado di complessità dell’attività e delle operazioni poste in essere da alcune imprese associate appartenenti a un gruppo multinazionale, il Provvedimento, rispettando l’impegno richiesto in ambito comunitario dal Codice di Condotta UE, ha stabilito per le piccole e medie imprese una semplificazione nella presentazione della documentazione che si sostanzia in un alleggerimento dell’onere documentale.
La comunicazione
L’ultimo periodo del primo comma dell’art. 26 del decreto-legge prevede che: “il contribuente che detiene la documentazione prevista dal provvedimento (…), deve darne apposita comunicazione all’Amministrazione finanziaria secondo le modalità ed i termini ivi indicati”.
I termini e le modalità relativi alla trasmissione della comunicazione differiscono a seconda che la documentazione si riferisca al periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del decreto legge (ossia il 31 maggio 2010) e ai successivi periodi di imposta, oppure a quelli precedenti.
Per quanto riguarda
- i periodi di imposta a partire da quello in corso al 31 maggio 2010 (vale a dire 2010 e successivi), il punto 9.1. del Provvedimento dispone che il contribuente dovrà comunicare l’adozione degli oneri documentali in materia di prezzi di trasferimento con la dichiarazione annuale dei redditi.
- i periodi di imposta precedenti a quello in corso al 31 maggio 2010 (vale a dire 2009 e precedenti), l’art. 26 del decreto-legge dispone che la comunicazione deve essere trasmessa entro 90 giorni dalla data di pubblicazione del Provvedimento, ossia entro il 28 dicembre 2010, in via telematica tramite il servizio Entratel 5 , secondo le modalità di cui alle specifiche tecniche allegate al Provvedimento.
Si precisa che nel caso di comunicazione riguardante più periodi d’imposta pregressi, la trasmissione telematica dei dati potrà farsi mediante un unico invio o, alternativamente, con più comunicazioni inviate in tempi diversi, purché venga rispettato il termine previsto dal Provvedimento.
Nel caso di esercizi non coincidenti con l’anno solare e per i quali la data di chiusura sia compresa tra il 31 maggio 2010 e il 30 dicembre 2010, la comunicazione deve essere effettuata anche in tali casi tramite il servizio Entratel, ma entro i termini previsti per la relativa presentazione della dichiarazione dei redditi.
Il Provvedimento, inoltre, attribuisce validità alla comunicazione relativa a un periodo d’imposta pregresso, qualora la stessa sia stata trasmessa successivamente al 28 dicembre 2010, ma antecedentemente all’avvio di accessi, ispezioni, verifiche o altre attività istruttorie aventi ad oggetto il medesimo periodo d’imposta e delle quali il soggetto abbia avuto formale conoscenza. Resta comunque impregiudicata la facoltà del contribuente di predisporre la documentazione, e comunicarne il possesso, qualora la stessa sia relativa a un periodo d’imposta diverso da quello oggetto di controllo.
REGIME TRANSITORIO
La Circ. 58/E del 2010, in applicazione del c.d. principio del “favor rei” (di cui all’art. 3 del 472/1997 - che informa il sistema sanzionatorio tributario e secondo il quale il nuovo regime premiale vale anche per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore della disposizione più favorevole) prevede che:
- in presenza di attività istruttorie in corso o, comunque, non ancora perfezionatesi in un atto di accertamento, il contribuente, qualora intendesse accedere al regime di disapplicazione delle sanzioni previste dalla norma in commento, dovrà trasmettere la comunicazione di possesso della documentazione all’Agenzia delle entrate entro il 28 dicembre 2010.
- nelle ipotesi in cui siano stati già notificati atti di accertamento, l’applicazione del regime in parola dovrà basarsi su un appuramento del comportamento tenuto dal contribuente nel corso delle attività istruttorie antecedenti alla notifica dell’atto di accertamento, che abbia consentito il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati, come, ad esempio, il fatto che lo stesso abbia consegnato nel corso di verifica una documentazione idonea secondo le modalità e i termini declinati in premessa al presente paragrafo.
Ciò avuto riguardo, in generale, alla circostanza che il principio del favor rei trova un limite soltanto nel fatto che, se la sanzione è già stata irrogata con un provvedimento definitivo, il debito residuo si estingue, ma non è ammessa ripetizione di quanto pagato.
Il contenuto del masterfile
Come precisato dal Provvedimento, il Masterfile raccoglie le informazioni relative al gruppo.
È consentita la presentazione di più Masterfile qualora il gruppo operi in modo diversificato, in differenti settori di attività (o linee di business) disciplinati da specifiche politiche di transfer pricing.
Ci si riferisce, ad esempio, al caso dei gruppi multinazionali con una struttura organizzativa, giuridica o operativa decentralizzata ovvero costituita da divisioni con linee di attività e/o politiche in materia di prezzi di trasferimento diverse. La previsione richiamata risponde pertanto all’esigenza di consentire alle imprese di documentare la propria politica di prezzi di trasferimento, segregando l’analisi in modo appropriato, venendo in tal modo incontro a esigenze di chiarezza delle analisi nonché di omogeneità e confrontabilità delle informazioni fornite.
Le informazioni da riportare nel Masterfile sono le seguenti:
1. Descrizione generale del gruppo multinazionale
Storia, evoluzione recente, settori di operatività e lineamenti generali dei mercati di riferimento.
2. Struttura del gruppo
2.1. Struttura organizzativa: organigramma, elenco e forma giuridica dei membri del gruppo e relative quote partecipative.
2.2. Struttura operativa: con evidenza della descrizione sommaria del ruolo che ciascuna delle imprese associate svolge nell’ambito delle attività del gruppo.
Sul punto la circ. n. 58/E del 2010 precisa che – ai fini della descrizione sommaria del “ruolo” che ciascuna impresa associata svolge nell’ambito delle attività del gruppo – non è sufficiente la mera apposizione, a fianco del nome dell’impresa, di una semplice etichetta riassuntiva (i.e. “contract manufacturer”, “limited risk distributor”,
ecc.). La descrizione, infatti, per quanto sommaria deve essere fornita mediante una esposizione succinta del profilo funzionale e operativo del soggetto, in relazione all’operatività complessiva del gruppo e a quella
delle altre società o imprese del gruppo con cui l’entità oggetto della descrizione si relaziona.
3. Strategie generali perseguite dal gruppo (con particolare riferimento alle strategie di sviluppo e consolidamento) ed eventuali mutamenti di strategia rispetto al periodo d’imposta precedente.
La circ. n. 58/2010 ritiene insufficienti le descrizioni delle “Strategie generali perseguite dal gruppo” esposte in maniera generica e succinta, senza alcun riferimento ad evidenze documentate e/o documentabili e/o oggettivamente riscontrabili.
4. Flussi delle operazioni, incluse le modalità di fatturazione e i relativi importi, le motivazioni economiche/giuridiche per le quali l’attività è stata strutturata secondo la dinamica dei flussi.
Le transazioni dovranno essere descritte in un diagramma di flusso che ricomprende anche quelle relative ad operazioni non appartenenti all’area della gestione ordinaria. Ciò implica anche l’evidenza delle informazioni relative alla struttura dei flussi derivanti, ad esempio, da operazioni di business restructurings definite dal nuovo capitolo IX delle Guidelines come “the cross-border redeployment by a multinational enterprise of functions, assets and/or risks”.
Sul punto, la circ. n. 58/2010 chiarisce che il Masterfile deve fornire un quadro generale dei flussi delle operazioni infragruppo rientranti nell’ambito di applicazione delle norme in materia di prezzi di trasferimento. Si ritiene che, in tale capitolo, debbano essere anche descritte eventuali operazioni realizzate con terzi indipendenti, qualora assimilabili o aventi la stessa natura di quelle infragruppo. Le operazioni infragruppo dovranno essere sintetizzate in un diagramma che sia in grado di dare evidenza della struttura e della dinamica dei flussi delle operazioni all’interno del gruppo multinazionale. A tal proposito il Provvedimento precisa che il diagramma dovrà prendere in considerazione tutte le operazioni, ivi incluse quelle non riconducibili alla gestione ordinaria ed aventi dunque carattere di straordinarietà, eccezionalità o unicità. La rappresentazione grafica dei flussi delle operazioni infragruppo dovrà essere ulteriormente chiarita descrivendo le modalità e i flussi di fatturazione delle operazioni e i relativi importi, nonché la logica economico-giuridica che ha indotto a strutturare la dinamica dei flussi come rappresentata. Occorre chiarire che tale ordine di motivazione risponde a una duplice esigenza: da un lato si ricollega a elementi della cd. prima parte del Masterfile (capitoli da 1 a 3) e, pertanto, rappresenta una sorta di cerniera tra l’oggetto dell’attività, e relativo assetto organizzativo, e le modalità con le quali tale attività si estrinseca nei connessi flussi di operazioni; dall’altro risponde anche all’esigenza di consentire al contribuente di declinare motivazioni utili a sostenere la coerenza tra forme giuridiche adottate e le operazioni effettivamente poste in essere. Occorre segnalare, tuttavia, che l’eventuale non riconoscimento delle forme giuridiche adottate rispetto alla sostanza delle operazioni poste in essere rappresenta, in base alle Linee Guida OCSE (v. par. 1.64-1.69) e al di fuori di ipotesi abusive, una eccezione alla regola generale, in base alla quale l’amministrazione è tenuta a riconoscere le forme giuridiche utilizzate dalle parti nella strutturazione delle proprie operazioni.
5. Operazioni infragruppo.
5.1. Cessioni di beni materiali o immateriali, prestazioni di servizi, prestazioni di servizi finanziari: (per ogni tipologia di transazione si dovranno fornire i seguenti dettagli:
(i) natura delle operazioni infragruppo, con facoltà di escludere quelle aventi ad oggetto beni o servizi intercorrenti tra imprese associate entrambe residenti in Paesi diversi da quelli membri dell’Unione europea;
(ii) soggetti appartenenti al gruppo, tra quelli elencati al precedente punto 2, tra cui sono intercorse le operazioni aventi ad oggetto i beni e i servizi descritti. Categorie omogenee di beni e servizi potranno essere trattate unitariamente in conformità a quanto previsto dalle Guidelines OCSE).
Secondo la circ. n. 58/2010, tale paragrafo deve articolarsi in tanti sottoparagrafi quante sono le tipologie di operazioni infragruppo. Ognuno dei sottoparagrafi dovrà fornire informazioni circa la natura delle operazioni infragruppo, con facoltà di escludere quelle aventi ad oggetto beni o servizi intercorrenti tra imprese associate entrambe residenti in paesi diversi da quelli membri dell’Unione europea. Per ogni tipologia di operazione, inoltre, si dovrà precisare quali dei soggetti elencati al capitolo 2 (parte relativa alla struttura organizzativa del gruppo) hanno preso parte alle operazioni aventi ad oggetto i beni ed i servizi descritti. Occorre inoltre segnalare che il riferimento alla possibilità di trattare unitariamente categorie omogenee di beni e servizi va interpretato in maniera coerente con le indicazioni fornite dalle Linee Guida OCSE e con la scelta dei metodi di valorizzazione delle operazioni adottati. Per ragioni di coerenza sistematica, tale impostazione vale anche per i servizi e gli accordi per la ripartizione di costi di cui alle operazioni indicate ai paragrafi 5.2 e 5.3.
5.2. Servizi funzionali allo svolgimento delle attività infragruppo: il Provvedimento richiede di indicare con “sufficiente precisione” le caratteristiche dei servizi funzionali allo svolgimento delle attività di gruppo resi da una o più associate a beneficio di una o più associate.
Secondo la circ. n. 58/2010, tale paragrafo deve articolarsi in tanti sottoparagrafi quante sono le tipologie di servizi funzionali allo svolgimento delle attività di gruppo. Per servizi funzionali resi da una o più associate a beneficio di una o più delle altre associate si intendono i servizi di cui al capitolo VII rubricato “Special consideration for Intra-Group Services” delle Linee Guida OCSE (v. paragrafi 7.14, 7.22 e 7.27). A titolo di esempio, sono considerati servizi funzionali ai fini delle presenti istruzioni, quelli da cui originano le spese di regia ossia le spese relative a servizi infragruppo accentrati (quali, ad esempio, gestione della tesoreria, marketing, gestione delle IT). In ciascun sottoparagrafo si dovrà dare indicazione della natura dei servizi oltre ad una precisa definizione delle caratteristiche dei servizi di cui trattasi, degli accordi tra le parti per la ripartizione dei costi derivanti dalla prestazione dei servizi in commento. Per ogni tipologia di servizio, si dovrà precisare quali dei soggetti appartenenti al gruppo ed elencati al capitolo 2 relativo alla struttura organizzativa del gruppo, hanno preso parte alle operazioni descritte.
In termini generali si osserva, ad esempio, che le modalità di riaddebito delle spese di regia (nonché dei servizi infragruppo) devono essere oggettive e documentabili, in modo da evitare, per quanto possibile, le censure di eventuali organi di controllo.
I requisiti di oggettività e di dimostrabilità sono tanto più verificabili quanto maggiore è il grado di formalizzazione degli accordi intervenuti e dei criteri concretamente applicati.
Quanto all’oggettività, è opportuno fare riferimento alla necessità di:
– operare in analogia, ove possibile, con i metodi per la determinazione dei prezzi di trasferimento i beni materiali;
– individuare con puntualità il criterio adottato nel caso concreto (anche per giustificare eventuali inapplicabilità dei metodi tradizionali);
– rendicontare i costi e i tempi di prestazione dei servizi;
– rendicontare l’utilità conseguita in seno al gruppo dalle singole consociate che hanno fruito dei servizi, almeno nel senso che il costo riaddebitato dovrebbe essere, in linea di principio, inferiore a quello che si sarebbe sostenuto acquisendo i medesimi servizi da prestatori terzi;
– circostanziare tutti gli elementi in grado di dimostrare l’applicazione del principio di libera concorrenza;
5.3. Accordi per la ripartizione di costi: deve riportare, oltre all’elenco completo degli accordi per la ripartizione di costi, l’indicazione, per ciascuno, del relativo oggetto, della durata dell’accordo, dei soggetti partecipanti, del perimetro delle attività e dei progetti coperti.
6. Funzioni svolte, assets utilizzati e rischi assunti.
Descrizione generale delle funzioni svolte, degli assets e dei rischi assunti da ciascuna delle imprese coinvolte nelle operazioni e dei cambiamenti intervenuti nelle funzioni, nei beni e nei rischi rispetto al periodo d’imposta precedente, con particolare riferimento a quelli derivanti da
operazioni di business restructurings come precedentemente definite.
Secondo la circ. n. 58/2010, tale capitolo accoglie informazioni in merito alle funzioni svolte, ai beni strumentali impiegati e i rischi assunti da ognuna delle imprese associate coinvolte nelle operazioni infragruppo dando evidenza dei cambiamenti intervenuti rispetto al periodo di imposta precedente sia nelle funzioni svolte, sia nei beni strumentali utilizzati sia nei rischi assunti dalle singole imprese.
Particolare attenzione dovrà essere posta ai cambiamenti intervenuti a seguito di operazioni di riorganizzazione aziendale. E’ di tutta evidenza che, con riferimento ai beni strumentali, non viene richiesta una minuziosa elencazione di ogni singola variazione intervenuta a seguito di dismissioni o acquisto di singoli cespiti, bensì un’indicazione di massima di mutamenti rilevanti nella composizione e nel peso dei beni strumentali complessivamente considerati, allocati presso le singole entità del gruppo.
7. Beni immateriali.
Intangibles detenuti da ciascuna impresa coinvolta nelle operazioni, con separata indicazione di eventuali royalties, distinte per soggetto percipiente o erogante, corrisposte per lo sfruttamento degli stessi.
Secondo la circ. n. 58/2010, tale capitolo è destinato alla trattazione dei beni immateriali detenuti da ogni singola impresa associata coinvolta nelle operazioni infragruppo. Di tali beni dovrà essere fornito un elenco completo con separata indicazione di eventuali canoni corrisposti per l’utilizzo degli stessi specificando il soggetto percipiente ed erogante. Si precisa che, tenuto conto dell’importanza che i beni immateriali assumono ai fini della valutazione della correttezza dei prezzi di trasferimento praticati nell’ambito delle imprese multinazionali, dovrà essere data descrizione anche di eventuali intangibles non iscritti in bilancio. Ci si riferisce, per esempio, al know how di processo, agli effetti positivi generati dalle sinergie, agli effetti positivi di network e così via. Particolare attenzione dovrà essere posta, oltre che alla proprietà e al momento della creazione dei beni, ad eventuali operazioni di riorganizzazione aziendale che abbiano comportato una riallocazione dei beni immateriali.
8. Politica di determinazione dei prezzi di trasferimento del gruppo.
descrizione della politica di determinazione dei prezzi di trasferimento del gruppo e delle ragioni per le quali la stessa si ritenga essere conforme all’arm’s length principle. A sostegno di tali informazioni, occorrerà fornire anche sintetica menzione dell’esistenza e dei contenuti essenziali di contratti a base della politica di pricing adottata.
Secondo la circ. n. 58/2010, tale capitolo il capitolo 8 del Masterfile descrive la politica di determinazione dei prezzi di trasferimento del gruppo e offre evidenza delle ragioni per le quali la politica adottata dal gruppo viene ritenuta conforme al principio di libera concorrenza. Nell’ambito della trattazione si dovranno fornire informazioni circa i contratti stipulati dalle imprese associate del gruppo sui quali la politica sui prezzi di trasferimento si basa approfondendo l’analisi attraverso una descrizione della natura dei contratti, dei contraenti e una sintesi del contenuto degli stessi.
9. Rapporti con le Amministrazioni fiscali dei Paesi membri dell’Unione Europea concernenti “Advance Pricing Arrangements” (APA) e ruling in materia di prezzi di trasferimento.
Il Masterfile si conclude con una sintetica descrizione degli accordi preventivi sui prezzi di trasferimento, siano essi gli “ Advance Price Arrangements” (APA) ovvero ruling rispettivamente sottoscritti con o rilasciati dalle amministrazioni fiscali dei paesi in cui il gruppo opera, descrivendo oggetto, contenuti e periodi di validità.
Il contenuto della documentazione nazionale
I primi quattro capitoli della Documentazione Nazionale (1. Descrizione generale della società; 2. Settori in cui opera la società; 3. Struttura operativa della società; 4. Strategie generali perseguite dall’impresa ed eventuali mutamenti di strategia rispetto al periodo d’imposta precedente) compongono idealmente una prima parte della Documentazione Nazionale, in quanto sono destinati a fornire un quadro generale della società. La seconda parte, rappresentata dai successivi capitoli, descrive le operazioni infragruppo oggetto della documentazione e, per ciascuna tipologia di operazioni (qualora ve ne fosse più di una), trova illustrazione l’analisi di comparabilità, il metodo adottato per la determinazione dei prezzi trasferimento, nonché le connesse analisi economiche e i risultati derivanti dall’applicazione del metodo adottato.
La Documentazione Nazionale contiene le informazioni relative alla società:
1. Descrizione generale della società.
Storia, evoluzione recente e lineamenti generali dei mercati di riferimento.
2. settori in cui opera la società.
3. Struttura operativa della società.
Descrizione sommaria del ruolo che ciascuna delle articolazioni e delle business units dell’impresa svolge nell’ambito dell’attività.
4. Strategie generali perseguite dall’impresa ed eventuali mutamenti di strategia rispetto al periodo d’imposta precedente: informazioni relative anche a specifiche strategie legate a particolari settori o mercati.
La circ. n. 58/2010 precisa che la struttura generale della Documentazione Nazionale non differisce sostanzialmente da quella del Masterfile, salvo rilevare che la stessa si riferisce unicamente alla realtà dell’impresa, alla sua collocazione all’interno del gruppo e alle operazioni infragruppo che alimentano in tutto o in parte la sua attività.
5. Operazioni infragruppo, quali le cessioni di beni materiali o immateriali, le prestazioni di servizi, le prestazioni di servizi finanziari: le informazioni da inserire devono essere relative a tutte le operazioni intercorse con i soggetti appartenenti al gruppo. È richiesta la definizione con sufficiente precisione della natura delle operazioni aventi ad oggetto i beni e/o i servizi oggetto di trattazione, ivi inclusi i servizi funzionali allo svolgimento delle attività di gruppo resi o ricevuti da una o più associate, nonché i relativi importi e le motivazioni economiche/giuridiche alla base della struttura dei flussi.
Secondo la Cir. 58/E del 2010, nella parte introduttiva del capitolo dovrà essere fornito un sommario delle operazioni intercorse tra la società e gli altri soggetti del gruppo in maniera da fornire un primo quadro sintetico delle operazioni descritte in maniera più ampia e precisa nei successivi paragrafi. In tale ambito, si dovrà dare evidenza, in maniera dettagliata, dei flussi delle operazioni infragruppo, ivi inclusi i relativi importi, descrivendo la logica economico-giuridica sottesa alla scelta di conferire alle attività della società la struttura già rappresentata nel diagramma di flusso. A tal fine, il Provvedimento prevede che alla Documentazione Nazionale debba essere allegato un diagramma di flusso che sintetizzi quanto descritto nell’ambito del capitolo 5 in commento. Si osserva che, il contribuente è tenuto a dare indicazione di tutte le operazioni che ricadono nell’ambito di applicazione dell’art. 110 c. 7 del Tuir.
Il capitolo descrive le operazioni infragruppo, siano esse cessioni di beni materiali o immateriali, prestazioni di servizi o prestazioni di servizi finanziari. Nella struttura del capitolo dovranno essere previsti tanti paragrafi quante sono le operazioni intercorse con i soggetti appartenenti al gruppo. Ogni paragrafo dovrà descrivere, con precisione, i beni e/o i servizi oggetto delle operazioni trattate oltre che i servizi funzionali allo svolgimento delle attività di gruppo resi o ricevuti da una o più associate. In analogia a quanto rilevato in merito al Masterfile, anche per la Documentazione Nazionale vale il riferimento alla possibilità di trattare unitariamente categorie omogenee di beni e servizi in conformità alle indicazioni fornite dalle Linee Guida OCSE.
Con particolare riferimento alle prestazioni di servizi si osserva che alcune indicazioni in merito alla documentazione da predisporre a supporto dell’effettiva prestazione dei servizi sono state fornite dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, con sent. n. 158 del 29 luglio 2005, avente ad oggetto la deducibilità dei costi per servizi infragruppo resi da un centro di servizio europeo; aveva individuato gli elementi necessari a dimostrare l’effettività e l’inerenza di tali costi ai sensi dell’art. 109 del Tuir:
– esistenza di un contratto da cui si rilevino chiaramente i servizi prestati e le relative modalità di prestazione;
– regolare fatturazione alla società beneficiaria e contabilizzazione da parte della stessa dei costi sostenuti per l’ottenimento del servizio;
– presenza di documentazione contabile della società fornitrice dei servizi che attesti l’ammontare dei costi sostenuti;
– presenza di una relazione di certificazione emessa da una primaria società di revisione che attesti i costi sostenuti nella prestazione dei servizi;
– produzione di documentazione atta a supportare l’effettività del servizio reso e il beneficio reso.
Passando ai punti successivi, il Provvedimento prevede la predisposizione di uno specifico paragrafo (da 5.1 a 5.n), per ogni operazione infragruppo. Nel seguito si riportano specifiche indicazioni in relazione ai contenuti dei relativi sottoparagrafi atte a fornire informazioni in ordine alle medesime operazioni (sottoparagrafi declinati, nel Provvedimento, con la numerazione da 5.1.1 a 5.1.3).
Per ogni operazione devono essere fornite le seguenti informazioni:
a) 5.n.1. Descrizione delle entità del gruppo con le quali le transazioni sono poste in essere
b) 5.n.2 Analisi di comparabilità
c) 5.n.3 Metodo adottato per la determinazione dei prezzi di trasferimento delle operazioni
a) 5.n.1. Descrizione delle entità del gruppo con le quali le transazioni sono poste in essere (stessa indicazione deve essere fornita anche quando tali transazioni sono realizzate con soggetti indipendenti).
Secondo la Cir. 58/E del 2010, il sottoparagrafo in commento è destinato ad accogliere la descrizione della tipologia di operazioni presa in esame, unitamente all’indicazione delle relative controparti da distinguersi tra imprese associate e imprese diverse da quelle associate (il richiamo, posto nel Provvedimento tra parantesi quadra, a soggetti indipendenti è infatti da intendersi riferito a soggetti estranei al gruppo multinazionale di appartenenza, sia che si tratti di soggetti appartenenti a loro volta a gruppi, sia che si tratti di soggetti non appartenenti ad alcun gruppo). Ogni tipologia di operazione dovrà essere corredata dalla descrizione della natura e delle relative modalità di svolgimento. Anche in questo caso si dovrà avere cura di distinguere le operazioni condotte nei confronti di imprese associate da quelle intrattenute con soggetti terzi rispetto al gruppo di appartenenza.
b) 5.n.2 Analisi di comparabilità (coerente con i cinque fattori di comparabilità contemplati dalle Guidelines OCSE).
Il cuore del Documento nazionale è certamente il capitolo in cui il contribuente deve descrivere il percorso di esame della transazione controllata per esplicitarne le caratteristiche peculiari rispetto ai fattori rilevanti di comparazione (cosiddetti 5 fattori di comparabilità) , per stabilire, infine, i parametri entro i quali ricercare operazioni simili tra soggetti indipendenti e definire il metodo per il calcolo del corretto prezzo di trasferimento. Coerentemente con quanto indicato dalle Linee Guida OCSE, l’analisi di comparabilità costituisce una delle parti fondamentali nel processo di determinazione dei prezzi di trasferimento e, pertanto, assume un ruolo centrale nella Documentazione Nazionale. A tal fine, al punto 2.2, il Provvedimento individua nel sottoparagrafo in commento i cosiddetti cinque fattori della comparabilità, ossia quei fattori che possono assumere, in varia misura, rilevanza nel determinare la confrontabilità tra operazioni infragruppo rispetto a quelle intercorse tra parti indipendenti in condizioni similari.
Trattasi, nella specie dei seguenti fattori:
a) Caratteristiche dei beni e dei servizi : identificazione e comparazione di caratteristiche fisiche/natura, qualità, volumi di vendita, canali di approvvigionamento, eccetera;
b) Analisi delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni strumentali utilizzati: identificazione e comparazione delle principali funzioni esercitate (ideazione/R&D, produzione, approvvigionamento, distribuzione, pubblicità e marketing, eccetera), assets impiegati (impianti, beni immateriali), rischi assunti (investimenti/R&D, mercato, credito, tasso, eccetera);
c) Termini contrattuali: identificazione della modalità effettiva di esecuzione delle transazione, della ripartizione dei rischi e della remunerazione;
d) Aspetti / condizioni economiche: identificazione e comparazione delle caratteristiche dei mercati di riferimento (localizzazione geografica, dimensioni, grado di concorrenza, posizione concorrenziale relativa, stadio di commercializzazione, eccetera);
e) Strategie di business: identificazione delle politiche strategiche che incidono sulla determinazione del prezzo.
Se da un lato è necessario che il sindacato di idoneità della documentazione si basi in misura rilevante su un’analisi di comparabilità rigorosa, dettagliata e ben argomentata, dall’altro la Cir. 58/E del 2010 rileva che l’importanza relativa dei predetti fattori di comparabilità, come anche riconosciuto dalle Linee Guida OCSE, varia in relazione al metodo adottato per la determinazione dei prezzi di trasferimento. Tale ultimo aspetto vale, in particolare, in presenza di analisi basate su operazioni comparabili esterne.
Le imprese, nella compilazione del capitolo 5 del Documento nazionale, non devono fare altro che documentare l’approccio metodologico adottato e le scelte effettuate, motivandole adeguatamente.
Particolare attenzione andrà posta sulle eventuali transazioni realizzate nei confronti di soggetti terzi indipendenti che possono essere considerate ad una prima analisi analoghe a quelle intercompany (comparabili
interni): l’obiettivo, innanzitutto, dovrà essere quello di capire se le stesse possano essere utilizzate per la determinazione del prezzo di trasferimento in conformità col principio di libera concorrenza, una volta confermata l’omogeneità di caratteristiche con quelle infragruppo; in caso contrario, occorrerà dare evidenza degli elementi sostanziali che differenziano le due categorie di transazioni a tal punto da escludere la possibilità di procedere con il confronto interno.
Con riferimento all’analisi di comparabilità è opportuno svolgere alcune (Cfr. Transfer pricing: Primi chiarimenti in materia di oneri di documentazione in Italia, P. Valente, “Il fisco” n. 2 del 10 gennaio 2011, pag. 1-219) . In termini generali si rileva che le Transfer Pricing Guidelines dell’OCSE (Cap. III “Comparability Analysis) identificano un tipico processo di selezione dei comparabili che include i seguenti steps:
– step 1: identificazione degli anni oggetto di analisi;
– step 2: un’analisi generale (broad-based analysis) relativa alle circostanze afferenti il contribuente;
– step 3: understanding delle transazioni controllate oggetto di analisi in relazione all’analisi funzionale svolta, al fine di selezionare la tested party, “the most appropriate transfer pricing method to the circumstances of
the case” e gli indicatori finanziari e di identificare i fattori di comparabilità oggetto di valutazione;
– step 4: review dei comparabili interni nel caso in cui esistano;
– step 5: identificazione delle fonti di informazione relative ai comparables esterni;
– step 6: scelta del transfer pricing method in relazione alle circostanze del caso di specie e conseguente selezione degli indicatori finanziari (in caso di applicazione del TNMM, determinazione del net profit indicator);
– step 7: identificazione dei potenziali comparabili, con particolare riferimento alle caratteristiche delle transazioni indipendenti, rilevate secondo lo step 3 e conformemente a quanto previsto dalle Guidelines
dell’OCSE nei paragrafi 1.38-1.63;
– step 8: effettuazione degli aggiustamenti, ove richiesti;
– step 9: “interpretazione” dei dati ottenuti e determinazione della remunerazione at arm’s length.
Focalizzando l’attenzione sulla selezione di soggetti comparabili esterni (di cui allo step n. 5), le Guidelines evidenziano l’esistenza di diverse fonti di informazione:
– database commerciali, che possono essere utilizzati per svolgere una ricerca sia su base locale che su base multi-country;
– dati in possesso dell’Amministrazione finanziaria interessata che derivano da accertamenti compiuti su altri contribuenti o da fonti non accessibili al contribuente (trattasi, nel caso di specie, dei c.d. secret comparables).
L’approccio che fa ricorso alle informazioni contenute nel database per la selezione dei comparables è quello che viene identificato dall’OCSE come deductive approach: “the «deductive approach» starts with a wide set of companies that operate in the same sector of activity, perform similar broad functions and do not present economic characteristics that are obviously different. The list is then refined using publicly available information (databases, internet sites, taxpayer’s knowledge of its competitors) and, in particular, using qualitative criteria such as those relating to product portfolios and business strategies”.
Il ricorso a tale approccio rende necessaria, da parte del contribuente, la predisposizione della documentazione atta a supportare i criteri di selezione utilizzati per l’inclusione/esclusione di soggetti terzi, nonché a garantire un adeguato livello di trasparenza ed oggettività.
Con riferimento a tale ultimo aspetto si ritiene opportuno evidenziare che gli steps devono essere “riproducibili” da parte dell’Amministrazione finanziaria che intende ripetere la selezione.
Pertanto, l’approccio in esame presenta un grado di affidabilità maggiore in termini di trasparenza, oggettività e “riproducibilità”.
Nella selezione dei comparabili esterni (non necessariamente i competitors sono anche comparables) occorre tenere in debita considerazione quanto previsto dallo step di selezione n. 2 con riferimento alle
circostanze afferenti il contribuente.
L’OCSE, inoltre, afferma che due transazioni sono comparabili se viene soddisfatta almeno una delle seguenti condizioni:
– nessuna delle differenze (se esistono) tra letransazioni comparate può sostanzialmente influenzare il prezzo riconosciuto alla transazione;
– l’effetto di tali differenze, se significativo ai fini della determinazione del prezzo, può essere eliminato con opportuni “aggiustamenti”.
Accanto alle differenze riguardanti in maniera specifica le transazioni in esame, occorre, inoltre, tenere in considerazione quelle relative alle imprese coinvolte nelle transazioni stesse.
A tal fine, la determinazione del grado di comparabilità e le operazioni volte all’effettuazione delle opportune correzioni di prezzo necessitano di un lavoro di confronto delle caratteristiche intrinseche alle transazioni esaminate, nonché alle imprese che le pongono in essere.
L’analisi verte su talune verifiche inerenti i c.d. “fattori di comparabilità”:
– caratteristiche dei beni/servizi: la nuova versione delle Transfer Pricing Guidelines chiarisce che differenze nelle caratteristiche dei beni e/o servizi possono influenzare la concreta applicazione dei metodi; in tal senso, si rileva che i metodi reddituali risultano essere meno “sensibili”, rispetto ai metodi tradizionali, all’esistenza di differenze nelle suddette caratteristiche;
– analisi funzionale: si rileva la possibilità di procedere ad aggiustamenti nel caso in cui esistano differenze significative tra la “tested party” e i soggetti terzi. In ogni caso, occorre valutare il significato economico delle funzioni svolte dai soggetti coinvolti in termini di frequenza, natura e valore;
– condizioni contrattuali: nella pratica, risulta assai complesso acquisire informazioni relative ai termini contrattuali stabiliti tra soggetti terzi. L’effetto di eventuali lacune (se non della totale assenza di informazioni) deve essere valutato in relazione alle caratteristiche della transazione in esame e al metodo selezionato;
– circostanze di carattere economico: le nuove Guidelines dell’OCSE pongono particolare enfasi sulle caratteristiche del mercato di riferimento ed, in particolare, sull’ampiezza del mercato/dei mercati in cui opera il
gruppo multinazionale. Nel caso in cui, in relazione a determinati settori merceologici, i Paesi in cui opera il gruppo possono essere considerati ragionevolmente omogenei è possibile procedere ad un’analisi multi-country
al fine di supportare la politica dei prezzi di trasferimento adottata. In ogni caso, l’identificazione del mercato di riferimento deve essere considerata come una “factual question”;
– strategie commerciali: l’OCSE ha espresso particolari considerazioni in merito alla “sostenibilità” temporale ed economica di una strategia, considerando il giusto bilanciamento tra la redditività attesa e i costi sostenuti in un’ottica at arm’s length.
c) 5.n.3 Metodo adottato per la determinazione dei prezzi di trasferimento delle operazioni (in conformità al nuovo standard di selezione e applicazione dei metodi previsto dall’OCSE, il metodo prescelto dovrà essere “the most appropriate method to the circumstances of the case”).
La parte centrale del provvedimento, e cioè il fulcro di qualunque politica, sta nell’individuazione del metodo più appropriato. Il sottoparagrafo accoglie il processo di selezione, e relativi esiti, del metodo che il contribuente ritiene, sulla base dell’analisi di comparabilità e delle informazioni disponibili, essere quello più appropriato alle circostanze del caso.
In particolare, sono previste le seguenti tre sezioni:
a) Enunciazione del metodo prescelto e delle ragioni della sua conformità al principio di libera concorrenza
b) Criteri di applicazione del metodo prescelto.
c) Risultati derivanti dall’applicazione del metodo adottato.
a) Enunciazione del metodo prescelto e delle ragioni della sua conformità al principio di libera concorrenza (in conformità al nuovo standard di selezione e applicazione dei metodi previsto dall’OCSE, il metodo prescelto dovrà essere “the most appropriate method to the circumstances of the case”).
Secondo la Cir. 58/E del 2010, la sezione dovrà dare contezza degli esiti dell’analisi di comparabilità, nonché delle informazioni disponibili, e dei relativi effetti in ordine alla scelta del metodo. Più in particolare, tale sezione dovrà illustrare le ragioni che hanno portato a qualificare il metodo prescelto per la determinazione dei prezzi di trasferimento come il metodo più appropriato alle circostanze del caso. Occorre altresì rilevare che, qualora sulla base delle informazioni desumibili dall’analisi di comparabilità, dovesse emergere la possibilità di utilizzare un metodo transazionale reddituale (Transactional net margin method e Transactional profit split method ) e, in maniera egualmente affidabile, anche il potenziale utilizzo di un metodo transazionale tradizionale (Comparable uncontrolled price method, Resale price method e Cost plus method), il Provvedimento recepisce l’impostazione di cui alle Linee Guida OCSE, prevedendo l’utilizzo di tale ultimo metodo. Per tale ragione, in presenza delle condizioni suddette, qualora il contribuente si dovesse discostare dall’adozione del metodo tradizionale in ipotesi applicabile, lo stesso dovrà fornire adeguate motivazioni. Tali motivazioni, di contro, non devono essere addotte, laddove l’analisi di comparabilità non dovesse fornire evidenze in merito al potenziale utilizzo di un metodo transazionale tradizionale in misura altrettanto affidabile. Stesso discorso vale in caso di selezione di un metodo diverso dal metodo del confronto del prezzo (Comparable uncontrolled price), in presenza di potenziale utilizzo di tale ultimo metodo.
In altre parole il provvedimento richiede che, in caso di selezione di un metodo transazionale reddituale, in presenza del potenziale utilizzo di un metodo tradizionale,oppure in caso di selezione di un metodo diverso dal metodo del confronto del prezzo, in presenza di potenziale utilizzo di tale ultimo metodo, siano evidenziate le ragioni della mancata adozione dei metodi non selezionati.
In ogni caso occorre ricordare che quanto previsto dalle direttive OCSE al paragrafo 2.8 delle Linee Guida, ove si afferma che: “Le indicazioni di cui al par. 2.2 secondo le quali la selezione di un metodo per la determinazione del prezzo di trasferimento deve mirare a trovare il metodo più appropriato al caso specifico, non vanno intese nel senso che sia necessario analizzare in dettaglio o testare ogni volta ognuno dei metodi per la determinazione del prezzo di trasferimento per individuare quello più appropriato. Secondo un approccio corretto, la selezione del metodo più appropriato e dei comparabili dovrebbe essere dimostrata e può essere parte di un processo tipizzato quale quello proposto nel paragrafo 3.4.”
E’ di tutta evidenza, comunque, che l’eventuale sindacato in sede di verifica della scelta del metodo e/o delle ragioni addotte dal contribuente a difesa delle proprie scelte, in nessun caso costituisce presupposto autonomamente idoneo all’esclusione dal regime premiale stabilito dalla norma.
La ratio del Transactional Profit Split risiede, in primis, nella circostanza per la quale possono sussistere alcune differenze tra le transazioni controllate e le transazioni indipendenti, dovute all’esistenza di un’integrazione verticale tra le società appartenenti ad un gruppo multinazionale.
Infatti, nella pratica, la rilevazione di margini elevati tra società appartenenti ad un gruppo multinazionale è riconducibile alla riduzione dei costi connessi alle transazioni, all’integrazione tra i diversi processi (management, planning, administration), alla centralizzazione del risk management conseguente all’integrazione verticale tra le varie entità che compongono il gruppo (i.e. upstream entities e downstream entities).
Con riferimento allo status di “last resort methods” dei Transactional Profit Methods, il Working Party dell’OCSE aveva chiarito quanto segue:
– la selezione di un metodo è volta alla corretta determinazione di una metodologia appropriata per la determinazione del transfer pricing per ogni caso di specie;
– la selezione deve essere effettuata tenendo in considerazione le caratteristiche di ogni metodo accettato dall’OCSE, l’adeguatezza del metodo rispetto all’analisi di comparabilità (e all’analisi funzionale) delle transazioni controllate, la disponibilità delle informazioni relative a transazioni comparabili indipendenti al fine di applicare il metodo selezionato, il grado di comparabilità esistente tra le transazioni controllate e le transazioni indipendenti e l’affidabilità degli aggiustamenti da (eventualmente) applicare al fine di eliminare le
differenze esistenti tra le transazioni in verifica.
Il nuovo standard delle Guidelines emanate il 22 luglio 2010 è volto alla selezione del metodo più idoneo considerando il caso di specie e le transazioni oggetto di analisi.
Il Transactional Net Margin Method (TNMM) consente di esaminare l’utile netto riferito a una base appropriata – costi, vendite, attività – che l’impresa realizza in una transazione infragruppo o in un gruppo di transazioni (qualora sia possibile procedere all’aggregazione delle transazioni secondo quanto previsto dai paragrafi 1.42 e seguenti delle Guidelines). Con riferimento a tale metodo, valgono i concetti applicabili al prezzo di rivendita e al costo maggiorato poiché i principi di funzionamento sono simili. Infatti:
– il margine netto di una transazione controllata è confrontato con quella che l’impresa realizza in transazioni comparabili con soggetti terzi (trattasi pertanto del confronto interno);
– ove ciò non fosse possibile, il margine netto realizzato in transazioni simili tra soggetti indipendenti può servire da guida.
Il maggior pregio di tale metodo risiede nella possibilità di utilizzarlo anche quando risulta difficoltosa l’applicazione dei metodi tradizionali in presenza di differenze nelle transazioni e delle funzioni che non possono essere eliminate attraverso aggiustamenti; infatti, i margini netti sono meno influenzati da differenze riscontrabili nelle transazioni (che incidono sui prezzi) e nelle funzioni (che incidono sui margini lordi).
Le diversità funzionali si riflettono spesso in variazioni delle spese operative: ne consegue che, per funzioni distinte, a margini lordi diversi, possono corrispondere margini netti uguali.
Per converso, il maggior difetto del metodo consiste nella difficoltà di determinare il valore di libera concorrenza poiché i margini netti sono influenzati da fattori che non incidono sui prezzi o sui margini lordi. Infatti:
– i margini netti sono influenzati dalle spese operative che variano considerevolmente tra le imprese;
– i margini netti sono soggetti agli effetti prodotti dalle forze attive nel settore economico in cui opera l’impresa.
Nell’applicare il TNMM occorre prestare attenzione a:
– calcolare correttamente gli indici finanziari da confrontare;
– selezionare transazioni comparabili a quelle oggetto di analisi;
– scegliere per la verifica una società del gruppo che non possieda beni (immateriali) unici.
Il metodo può essere utilizzato per valorizzare funzioni di routine (i.e. funzioni a basso valore aggiunto) come ad esempio la produzione, la distribuzione o altre e si fonda sulla comparabilità dei fattori produttivi impiegati piuttosto che su quella delle funzioni svolte, dei rischi assunti o dei prodotti oggetto della transazione (fermo restando che un certo grado di comparabilità delle funzioni e dei prodotti è comunque richiesto).
Il principio economico su cui si basa è il seguente: se il mercato dei fattori produttivi è in equilibrio, il rendimento del capitale (o di fattori produttivi simili) in relazione alle diverse tipologie di attività e tenendo in considerazione il diverso livello di rischio dovrebbe tendere ad eguagliarsi.
Ai fini dell’applicazione del metodo si richiede la comparabilità in:
– capacità imprenditoriale;
– composizione del capitale;
– dimensione delle operazioni;
– efficienza manageriale;
– struttura dei costi;
– posizione nel ciclo produttivo.
Aggiustamenti nei rendimenti netti possono essere effettuati al fine di contemplare differenze nei citati fattori secondo i principi esposti dall’OCSE con riferimento all’applicazione dei metodi tradizionali.
Un cenno a parte meritano i servizi funzionali infragruppo, tipicamente l’attività di ricerca e sviluppo, i servizi contabili ed amministrativi, finanziari, legali, di consulenza informatica, assistenza tecnica, marketing, che dovranno trovare adeguata rappresentazione nel Documento nazionale. Relativamente a detti servizi, si avrà cura di descrivere dettagliatamente l’interesse specifico dell’utilizzatore a ricevere quel servizio nell’ambito del gruppo, il contesto in cui il servizio viene reso, il grado di autonomia che il beneficiario potrebbe avere in assenza di supporto dal gruppo, il processo di valorizzazione con particolare riguardo alla scelta della configurazione di costo, del driver di ripartizione (ove vi sia una pluralità di soggetti a beneficiare del medesimo servizio) e della percentuale di mark-up operata.
b) Criteri di applicazione del metodo prescelto.
Tale sezione deve illustrare i criteri di applicazione del metodo prescelto, ivi incluso il procedimento di selezione delle operazioni e/o dei soggetti comparabili ed i singoli passaggi intermedi del procedimento, corredati dei relativi esiti. Secondo la Cir. 58/E del 2010, la sezione dovrà dare conto puntuale anche della fonte di dati e informazioni eventualmente utilizzati e, se del caso, dovrà parimenti essere data chiara indicazione dell’eventuale intervallo di risultati ritenuti conformi al principio del valore normale e delle ragioni sottese alla sua identificazione;
c) Risultati derivanti dall’applicazione del metodo adottato.
La sezione dovrà rendere conto del confronto tra la valorizzazione attribuita alle operazioni infragruppo realizzate nel periodo d’imposta di riferimento e i valori riscontrati in esito alla procedura di selezione delle operazioni e/o dei soggetti comparabili.
6. Operazioni infragruppo.
Vanno illustrati gli Accordi per la ripartizione di costi o “CCA” (“Cost Contribution Arrangements”) a cui l’impresa partecipa. Valgono, anche in tal caso, per quanto compatibili, le indicazioni delle Linee Guida OCSE. Occorre dare indicazione:
6.1. soggetti, oggetto e durata del CCA;
6.2. perimetro delle attività e progetti coperti;
6.3. metodo di determinazione dei benefici attesi in capo ad ognuna delle imprese associate partecipanti all’accordo e relative previsioni in cifre, esiti parziali e scostamenti;
6.4 forma e valore dei contributi forniti da ognuna delle imprese partecipanti, nonché metodi e criteri di determinazione dei medesimi;
6.5 formalità, procedure e conseguenze dell’ingresso e dell’uscita dall’accordo di imprese associate ad esso partecipanti, nonché del termine dello stesso;
6.6 previsioni negoziali relative a versamenti compensativi o modifiche dei termini dell’accordo dipendenti dal mutare delle circostanze;
6.7. mutamenti intervenuti medio tempo nell’accordo.
Il Provvedimento specifica inoltre che alla Documentazione Nazionale (e non anche al Masterfile) dovranno essere allegati i seguenti documenti:
- all. 1 diagrammi di flusso relativi alle transazioni infragruppo, nonché alle transazioni non afferenti all’area ordinaria (ad esempio le transazioni poste in essere a seguito di operazioni di business restructurings);
- all. 2 copia dei contratti che disciplinano le transazioni poste in essere (vale a dire i contratti scritti in base ai quali le operazioni infragruppo e i cost contribution agreements sono regolate).
È possibile includere nel masterfile le informazioni richieste per il
Documento nazionale, sempre che le dette informazioni siano complete
rispetto a quelle previste per quest’ultimo documento.
La diversificazione dell’onere documentale a seconda del contribuente
Il Provvedimento, agli articoli da 3 a 5, ha disciplinato, attraverso specifiche previsioni, le modalità di adempimento dell’onere documentale a seconda della tipologia di soggetto interessato. In particolare, è stata prevista una diversificazione dell’onere a seconda che il soggetto sia qualificabile (in base alle definizioni di cui al punto 1 del Provvedimento) come holding, sub-holding o impresa controllata.
Specifiche disposizioni sono state previste in riferimento alle stabili organizzazioni in Italia di imprese non residenti (punto 6) e, indipendentemente dalla tipologia di soggetto, alle piccole e medie imprese (punto 7), allo scopo, in tale ultimo caso, di pervenire ad una semplificazione dell’onere documentale in argomento. Tali previsioni trovano approfondimento nel prosieguo.
La Cir. 58/E del 2010 sottolinea come le definizioni fornite dal punto 1 del Provvedimento non hanno la finalità di tipizzare nuove categorie di soggetti o di introdurre una nuova classificazione giuridica rispetto a quelle già previste dall’ordinamento. In altri termini, tali definizioni non hanno effetto sui presupposti soggettivi di applicabilità dell’art. 110, comma 7 del TUIR, che, in quanto tali, restano impregiudicati. Si tratta, pertanto, di definizioni convenzionali finalizzate alla corretta applicazione dei contenuti del Provvedimento.
Documentazione idonea per le Holding e le Sub-holding
Per quanto concerne le cc.dd. “holding” e “sub-holding” , il punto 3 del Provvedimento dispone che la documentazione idonea deve essere costituita sia dal Masterfile sia dalla Documentazione Nazionale.
Art. 1 del Provvedimento
Per “società holding appartenente ad un gruppo multinazionale” si intende una società residente a fini fiscali nel territorio dello Stato che:
- non è controllata da altra società o impresa commerciale o da altro soggetto dotato di personalità giuridica ed esercente attività commerciale, ovunque residente;
- controlla, anche per il tramite di una sub-holding, una o più società non residenti a fini fiscali nel territorio dello Stato”.
Per “società sub-holding appartenente ad un gruppo multinazionale” si intende una società residente a fini fiscali nel territorio dello Stato che:
- è controllata da altra società o impresa commerciale o da altro soggetto dotato di personalità giuridica ed esercente attività commerciale, ovunque residente;
- controlla a sua volta una o più società non residenti a fini fiscali nel territorio dello Stato”.
Mentre per le holding si applica in misura piena il paradigma previsto dal punto 2 del Provvedimento - secondo il quale la documentazione idonea è costituita appunto dal Masterfile e dalla Documentazione Nazionale - alle società sub-holding è consentito includere nel Masterfile informazioni riguardanti il solo sotto-gruppo al cui vertice è posta la sub-holding. Tale facoltà è infatti coerente con uno dei principi alla base del sistema, che implica il diverso atteggiarsi dell’onere in ragione del grado di informazioni e documentazione ragionevolmente in possesso del soggetto (di cui si è detto al precedente par. 3). La sub-holding residente potrà in ogni caso presentare, in luogo del Masterfile richiesto dal Provvedimento, il Masterfile relativo all’intero gruppo, anche se predisposto da un soggetto residente in altro Stato membro dell’Unione Europea. Tale ulteriore facoltà, tuttavia, è subordinata a due condizioni: la prima è che lo stesso sia conforme ai contenuti del Codice di Condotta; la seconda prevede che qualora il Masterfile dell’intero gruppo predisposto dalla holding rechi minori informazioni relative al sottogruppo rispetto a quelle previste dal Provvedimento, la sub-holding ne integri i contenuti. Tale ultima considerazione è giustificata dalla considerazione che gli Stati Membri hanno facoltà di implementare il Codice di Condotta, adattandone i contenuti al contesto interno.
La Cir. 58/E del 2010 precisa che la facoltà prevista per la sub-holding di presentare il Masterfile dell’intero gruppo vale sia nel caso in cui la holding che ha redatto il Masterfile sia un soggetto residente in Italia, sia nel caso in cui si tratti di soggetto residente in altro Stato membro dell’Unione Europea. In ogni caso, il Masterfile predisposto dalla holding non residente, ovvero le eventuali integrazioni a cura della sub-holding, potranno essere formulati in lingua inglese (v. anche punto 8.1 del Provvedimento). In coerenza con quanto previsto dal punto 8.1 del Provvedimento, l’utilizzo della lingua inglese non è consentito nel caso in cui il Masterfile utilizzato dalla sub-holding sia stato predisposto da una holding residente in Italia.
In ultimo la Circ. 58/E del 2010 ritiene che, per ragioni di coerenza con gli standard internazionali, potrà essere consentita, alle medesime condizioni sopra declinate, la presentazione del Masterfile predisposto da una holding non residente in uno Stato membro dell’Unione Europea, a condizione che tra detto Stato e l’Italia sia in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni ovvero un accordo per lo scambio di informazioni.
Documentazione idonea per le imprese controllate
Il punto 5 del Provvedimento statuisce che le imprese controllate4 residenti appartenenti ad un gruppo multinazionale dovranno predisporre solo la Documentazione Nazionale.
Art. 1 del Provvedimento
Per impresa controllata, il Provvedimento intende “una società o un’impresa residente a fini fiscali nel territorio dello Stato che:
- è controllata da altra società o impresa commerciale o da altro soggetto dotato di personalità giuridica ed esercente attività commerciale, ovunque residente;
- non controlla altre società o imprese non residenti a fini fiscali nel territorio dello Stato”.
Anche in tal caso trovano piena conferma i principi sottesi alla diversificazione dell’onere: in analogia a quanto previsto per le sub-holding - per le quali la predisposizione del Masterfile può riguardare il solo sottogruppo al cui vertice è posta la sub-holding - tale principio non può che esplicitarsi, nella specie, nel senso di richiedere all’impresa controllata unicamente informazioni cui la stessa può legittimamente accedere.
Documentazione idonea per le stabili organizzazioni
Per quanto riguarda invece le stabili organizzazioni in Italia di imprese non residenti, il Provvedimento pone a carico delle stesse un regime di oneri che varia a seconda che il soggetto non residente di cui la stabile organizzazione è parte si qualifichi come holding, sub-holding o impresa controllata. Anche in tal caso, vige il più volte richiamato principio, in base al quale l’onere documentale trova specifica diversificazione in ragione del grado di accessibilità alle informazioni da parte dell’impresa. Pertanto, se la società non residente di cui la stabile organizzazione è parte si qualifica come una holding o una sub-holding, la stabile organizzazione in Italia, al fine di adempiere al proprio onere documentale, dovrà presentare sia il Masterfile sia la Documentazione Nazionale, con la precisazione che, in presenza di sub-holding non residente, la stabile organizzazione potrà presentare, in luogo del Masterfile relativo al sottogruppo al cui vertice è posta la sub-holding non residente, il Masterfile predisposto da altro soggetto secondo i termini e le condizioni di cui al punto 4 del Provvedimento. Infine, se la società non residente di cui la stabile organizzazione è parte si qualifica come società controllata, la stabile organizzazione dovrà presentare solo la Documentazione Nazionale.
Conclusioni in merito alla diversificazione dell’onere documentale
In sintesi, la documentazione idonea, a seconda della diversa tipologia di contribuente interessato, può essere riepilogata nella tabella che segue:
La disciplina specifica per le piccole e medie imprese
In considerazione del fatto che le informazioni contenute nella documentazione devono essere aggiornate anno per anno, ivi inclusa l’analisi di comparabilità e le relative procedure di selezione di operazioni comparabili, il Provvedimento prevede per le piccole e medie imprese la facoltà di non aggiornare, in esito alle risultanze dell’analisi di comparabilità, i dati derivanti dalla procedura di selezione dei comparabili indicati al sottoparagrafo 5.1.3 (“Metodo adottato per la determinazione dei prezzi di trasferimento delle operazioni”) della Documentazione Nazionale in merito ai due periodi di imposta successivi a quello cui si riferisce detta documentazione. Trattasi, in particolare, delle modalità di ricerca e selezione di transazioni comparabili basate su informazioni pubblicamente disponibili, quali ad es. bilanci d’esercizio depositati presso Camere di Commercio ovvero desumibili da banche dati commerciali. Tale semplificazione, tuttavia, è subordinata alla condizione che i fattori di cui alle lettere da a) ad e) del sottoparagrafo 5.1.2 della Documentazione Nazionale non subiscano modificazioni significative in detti periodi di imposta. I fattori richiamati che, ai fini della semplificazione, non devono aver subito modificazioni significative, sono quelli che rilevano ai fini dell’analisi di comparabilità ossia le caratteristiche dei beni e servizi, le funzioni svolte, i rischi assunti, i beni strumentali utilizzati, i termini contrattuali, le condizioni economiche e le strategie di impresa. La circ. 58/E del 2010 raccomanda di prestare particolare cautela in ordine all’appuramento o meno di variazioni nei cosiddetti cinque fattori della comparabilità sopra indicati, in quanto ordinariamente, nel corso dell’attività di un’impresa, è assolutamente normale che tali fattori subiscano variazioni più o meno rilevanti. “Pertanto l’utilizzo del termine “modificazioni significative” va inteso nel senso di variazioni di tale rilevanza che, in un contesto di soggetti indipendenti, le stesse sarebbero suscettibili di incidere in modo importante sulle condizioni delle operazioni tra gli stessi intervenute e, quindi, sulla valorizzazione delle stesse”.
Il verificarsi delle condizioni previste dal Provvedimento al fine di poter godere della semplificazione di cui si è detto non esime le piccole e medie imprese dal fornire informazioni, per ogni singolo anno, sulla società, sui settori di attività, sulla struttura e le strategie, sulle operazioni infragruppo oltre che sui fattori di cui alle lettere da a) ad e) del sottoparagrafo 5.1.2 della Documentazione Nazionale in precedenza richiamati. Dovranno aggiornarsi, altresì, i dati di cui al capitolo 9 in merito ai rapporti con le Amministrazioni fiscali dei Paesi UE concernenti APA e ruling in materia di prezzi di trasferimento.
Si segnala che, con tale intervento, il Provvedimento ha di fatto recepito le indicazioni delle Linee Guida OCSE sui prezzi di trasferimento e del Codice di Condotta UE, in merito alla previsione di misure atte a ridurre il peso degli oneri documentali per le piccole e medie imprese.
La forma, l’estensione e le condizioni di efficacia della documentazione idonea
Aspetti formali: la lingua e il formato della documentazione. Il punto 8.1 del Provvedimento, prevede che il Masterfile e la Documentazione Nazionale debbano essere redatti in lingua italiana, salvi i casi in cui si rendano applicabili le disposizioni in materia di tutela delle minoranze linguistiche. E’ comunque possibile presentare eventuali allegati in lingua inglese.
Il Masterfile potrà invece essere presentato in lingua inglese nell’ipotesi in cui una sub-holding si avvalga della facoltà, prevista al punto 4 del Provvedimento ed esplicitata al punto 6.1, di esibire, in luogo di un proprio Masterfile, quello predisposto da un soggetto non residente.
La circ. 58/E del 2010 precisa che gli allegati alla Documentazione Nazionale e gli eventuali allegati al Masterfile, qualora consistenti in documenti in lingua diversa dall’italiano o dall’inglese, dovranno essere tradotti in una delle suddette due lingue, e consegnati in copia dell’originale.
Sia il Masterfile sia la Documentazione Nazionale devono essere siglati in ogni pagina dal legale rappresentante del contribuente onerato o da un suo delegato e firmati in calce all’ultimo foglio dal medesimo o autenticati mediante firma elettronica. Nel caso di Masterfile prodotto da una sub-holding appartenente ad un gruppo multinazionale che si sia avvalsa della citata facoltà di cui al punto 4 del Provvedimento di presentare il Masterfile predisposto da un soggetto non residente, la firma del rappresentante legale del contribuente onerato fa fede della conformità della copia esibita all’originale del documento.
Il Provvedimento stabilisce, altresì, che la documentazione deve essere presentata in formato elettronico, intendendosi per tale un documento digitalizzato in formato non modificabile. Qualora la documentazione venga esibita in formato cartaceo, tale circostanza non pregiudica l’applicazione del regime di disapplicazione delle sanzioni, a condizione che la stessa sia resa disponibile entro un termine congruo assegnato dagli incaricati all’attività di controllo così come previsto dal punto 8.1. del Provvedimento.
Termini di consegna. La disapplicazione del regime sanzionatorio si basa sull’apprezzamento del comportamento in buona fede e collaborativo del contribuente, in ragione di uno sforzo finalizzato alla predisposizione di documentazione idonea a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati. Questa impostazione è volta ad apprezzare una spontanea predisposizione di documentazione, in quanto non sollecitata da accessi, ispezioni, verifiche o da altre attività istruttorie. La circ. 58/E del 2010 rileva che la consegna della documentazione, a richiesta dell’Amministrazione finanziaria, può comportare, per i contribuenti, un normale lasso di tempo necessario per la collazione della stessa (si pensi, ad esempio, al caso della richiesta del Masterfile relativo all’intero gruppo da parte della sub-holding italiana nei casi previsti dall’art. 4 del Provvedimento). Tale essendo l’ottica di riferimento, in assenza di consegna immediata, il contribuente, ai sensi del punto 8.2. del Provvedimento ha la facoltà di consegnare la documentazione all’Amministrazione finanziaria entro e non oltre 10 giorni dalla richiesta, pena l’esclusione dal beneficio previsto dal comma 2-ter dell’art. 1 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471.
Qualora nel corso della verifica o di altra attività istruttoria dovesse rendersi necessario disporre di informazioni supplementari rispetto a quelle contenute nella documentazione consegnata dal contribuente all’Amministrazione finanziaria, le stesse dovranno essere fornite entro 7 giorni dalla richiesta. Compatibilmente con i tempi del controllo, potrà essere previsto un termine più ampio in funzione della complessità delle operazioni oggetto di analisi. Le richieste supplementari di cui al punto 8.2 del Provvedimento devono avere a oggetto informazioni costituenti parte del contenuto ordinario della documentazione come declinato dal Provvedimento nei punti 2.1 e 2.2. Qualora, invece, l’integrazione richiesta avesse ad oggetto informazioni supplementari che esulano dal contenuto ordinario della documentazione previsto dal Provvedimento, l’eventuale mancata consegna non costituisce presupposto per il venir meno del regime di disapplicazione delle sanzioni.
Estensione delle condizioni di efficacia della documentazione idonea. Il punto 8.3 del Provvedimento dispone che la documentazione deve essere redatta su base annuale relativamente alle operazioni realizzate dal contribuente che ricadono nell’ambito di applicazione del comma 7 dell’art. 110 del Tuir e deve essere disponibile per ciascuno dei periodi di imposta soggetti ad accertamento secondo i termini previsti dall’art. 43 del Dpr n. 600 del 1973.
Si rileva, pertanto, che la documentazione deve riguardare uno specifico periodo d’imposta e, coerentemente con il principio di unitarietà previsto dall’art. 76 del Tuir, rimane impregiudicata la facoltà del contribuente di adottare o meno il regime di oneri documentali per altri periodi.
In ultimo la circ. 58/E del 2010 osserva che il riferimento del punto 8.3 del Provvedimento al fatto che l’amministrazione non utilizza le informazioni per scopi diversi da quelli istituzionali mira a circoscrivere l’utilizzo delle stesse e, in particolare quelle relative a processi produttivi, brevetti, formule o segreti industriali, alle attività istruttorie riconducibili al controllo in essere.
La valutazione della idoneità della documentazione
Il Provvedimento dispone al punto 8.3 che l’Amministrazione finanziaria non è vincolata alla disapplicazione della sanzione in materia di dichiarazione infedele, qualora la documentazione esibita nel corso dell’attività di controllo, pur essendo coerente con la struttura formale di cui ai punti 2.1 e 2.2 dello stesso, non presenta contenuti completi o conformi alle disposizioni ivi contenute.
Tale considerazione è legata al fatto che il concetto di “idoneità” introdotto dalla norma non va assunto su un piano meramente formale, bensì sostanziale, nel senso di un apprezzamento dell’idoneità, appunto, della documentazione predisposta dal contribuente a fornire all’Amministrazione finanziaria dati ed elementi conoscitivi necessari per una completa e approfondita analisi dei prezzi di trasferimento praticati. In tal senso, al fine di fornire un paradigma di riferimento e minimizzare, per quanto possibile, profili di discrezionalità in merito al giudizio di idoneità, la norma e il Provvedimento operano un esplicito riferimento ai principi declinati dal Codice di Condotta UE e dalle Linee Guida OCSE.
Il Provvedimento, come già evidenziato, chiarisce in specie che la documentazione non può essere considerata idonea quando, pur rispettando la prevista struttura formale, non contenga informazioni complete e conformi a quanto previsto nel Provvedimento medesimo, così come quando le informazioni ivi contenute non corrispondano in tutto o in parte al vero.
La cir. 58/E del 2010 segnala che, nel caso in cui, pur in presenza della comunicazione di cui al punto 9 del Provvedimento, non venga riscontrato in sede di controllo il possesso della documentazione (vale a dire è stata effettuata la comunicazione ma non vi è il possesso della documentazione ) e, più in generale, ogni qualvolta venga riscontrato un utilizzo strumentale del regime da parte del contribuente, tali circostanze andranno tenute in debito conto ai fini della irrogazione della sanzione amministrativa conseguente alla rettifica avente ad oggetto i prezzi di trasferimento infragruppo (mediante un inasprimento delle sanzioni proporzionato alla gravità del comportamento).
La circolare precisa inoltre che le omissioni o le inesattezze parziali relative anche ad operazioni residuali, non suscettibili di compromettere l’analisi degli organi di controllo e la correttezza degli esiti di detta analisi, non pregiudicano l’applicazione del regime premiante di cui al comma 2-ter dell’art. 1 del Dlgs n. 471 del 1997. La stessa precisazione vale con riferimento al caso della omissione degli allegati citati al punto 2.2 del Provvedimento.
Ovviamente, gli organi di controllo potranno richiedere la documentazione mancante o integrativa nel corso del controllo applicando i termini previsti al punto 8.2 del Provvedimento (sette giorni dalla richiesta o un termine più ampio a seconda della complessità delle operazioni sottoposte ad analisi).
Nelle menzionate omissioni parziali può ritenersi compresa anche l’omessa documentazione di operazioni residuali rispetto al totale delle operazioni oggetto di documentazione, qualificabili come tali proprio in quanto non sono in grado di pregiudicare l’attendibilità dell’analisi nel suo complesso e la correttezza degli esiti della stessa.
La valutazione dell’idoneità della documentazione deve essere effettuata dai verificatori se la stessa viene consegnata in sede di accesso, ispezione o verifica, salvo il potere dell’Ufficio competente di valutare criticamente il giudizio fornito nel processo verbale di constatazione ai fini dell’irrogazione delle sanzioni.
La cir. 58/E del 2010 precisare che, nell’ipotesi in cui il contribuente abbia aderito al regime di oneri documentali previsto dalla normativa in commento, è da ritenere esclusa la possibilità di adesione al verbale di constatazione che contenga rilievi sui prezzi di trasferimento ai sensi dell’art. 5-bis del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218,. Ciò in quanto, “in tale ipotesi, il verbale non consente di individuare le sanzioni minime sulle quali opererebbe la riduzione prevista dalla norma citata, dato che l’applicabilità di quelle connesse ai rilievi sui prezzi di trasferimento è rimessa alla successiva valutazione dell’Ufficio accertatore”.
La circolare prevede inoltre che
- Qualora emergano, in sede di controllo, situazioni di particolare complessità nella valutazione di idoneità della documentazione presentata dal contribuente, l’Ufficio procedente deve immediatamente interessare la competente Direzione Regionale, per ricevere le direttive del caso.
- Qualora l’Ufficio pervenga ad una prognosi di inidoneità motivatamente non condivisa dal contribuente, la questione va sempre tempestivamente rimessa, per la relativa decisione, alla Direzione Regionale. Qualora la rettifica avente ad oggetto i prezzi di trasferimento infragruppo sia di importo superiore a dieci milioni di euro, la questione deve essere tempestivamente rimessa alla Direzione Centrale Accertamento, per il tramite della Direzione Regionale. .
Nelle suddette situazioni, l’Ufficio inoltra un’apposita relazione sulla valutazione effettuata, evidenziando eventuali situazioni di complessità nonché le deduzioni del contribuente, allegando e commentando eventuali memorie dallo stesso presentate in merito alla pretesa idoneità della documentazione consegnata, oltre che copia dei verbali dai quali si rilevi il contraddittorio con la parte avente ad oggetto gli elementi documentali forniti. Per le ipotesi rimesse alla decisione della Direzione Centrale Accertamento, la Direzione Regionale inoltra, a propria volta, un’apposita relazione che riassuma gli elementi forniti dall’Ufficio ed esprima la propria posizione.
ARTICOLO - Pubblicato il: 17 febbraio 2014 - Da: G. Manzana E. Iori
Le legge 147/2013 (e più nello specifico l’articolo 1, comma 611, lett. a) modifica l’art. 17-bis, D.Lgs. n. 546/92, semplificando da un lato l’istituto (obbligatorio) del reclamo e mediazione e dall’altro introducendo delle previsioni “dimenticate” dal legislatore del Dl 98/2011.
Le modifiche in particolare riguardano:
La condizione di procedibilità (e non più di ammissibilità) della presentazione del reclamo
La decorrenza dei termini previsti per il compimento degli atti processuali
L’applicazione delle disposizioni sui termini processuali
La sospensione ex lege della riscossione e del pagamento delle somme dovute in pendenza del procedimento di mediazione
La produzioni di effetti del reclamo anche sui contributi previdenziali e assistenziali e la non applicazione di sanzione e interessi.
Per espressa previsione normativa le nuove norme sulla mediazione entrano in vigore con gli atti giunti ai contribuenti dal prossimo 2 marzo anche se redatti e spediti precedentemente dall'ufficio. La Cir. 1/E/2014 a tal proposito precisa che rileva il momento in cui la notifica si perfeziona per il destinatario. Quindi, nel caso di un atto notificato a mezzo posta anteriormente a tale data, ma ricevuto dal contribuente in data successiva, si applicano le nuove norme. Per quanto riguarda le impugnazioni del silenzio-rifiuto sulle istanze di rimborso, le novità si applicheranno sugli atti per i quali alla data del 2 marzo 2014 non sia già decorso il termine di 90 giorni dalla presentazione della istanza di rimborso medesima.
In merito a tale novità è intervenuta l’Agenzia delle entrate con la cir. 1/E del 12 febbraio 2014.
La condizione di procedibilità (e non più di ammissibilità) della presentazione del reclamo
L’articolo 1, comma 611, della legge n. 147 del 2013, ha sostituito il comma 2 dell’articolo 17-bis del D.Lgs. n. 546 del 1992 che nella versione attuale prevede “La presentazione del reclamo è condizione di procedibilità del ricorso. In caso di deposito del ricorso prima del decorso del termine di novanta giorni di cui al comma 9, l’Agenzia delle entrate, in sede di rituale costituzione in giudizio può eccepire l’improcedibilità del ricorso e il presidente, se rileva l’improcedibilità, rinvia la trattazione per consentire la mediazione”.
Le nuove mediazioni non sono più quindi condizione di ammissibilità del ricorso, rilevando solo quale condizione di procedibilità dello stesso.
A seguito di presentazione dell'istanza, si attiva dunque l'istituto del reclamo che deve essere concluso entro 90 giorni. Il ricorso depositato dal contribuente prima del decorso del predetto termine è improcedibile. In tali ipotesi l'ufficio potrà eccepire l'improcedibilità chiedendo al giudice l'eventuale rinvio dell'udienza, per consentire l'esecuzione della fase di reclamo.
Nella circolare 1/E del 2014 è precisato che qualora il giudice non accolga l'eccezione sollevata in tal senso dall'ufficio, da ciò deriverebbe un ostacolo alla difesa e pertanto la sentenza emessa all'esito del giudizio dovrà essere impugnata per tale violazione.
L'improcedibilità per la prematura costituzione del contribuente, varrà anche per i ricorsi proposti contro l'agente della riscossione.
La decorrenza dei termini previsti per il compimento degli atti processuali
Il comma 9 dell’articolo 17-bis del D.Lgs. n. 546 del 1992, stabilisce che “Decorsi novanta giorni senza che sia stato notificato l'accoglimento del reclamo o senza che sia stata conclusa la mediazione, il reclamo produce gli effetti del ricorso. I termini di cui agli articoli 22 e 23 decorrono dalla predetta data”.
L’articolo 1, comma 611, della legge n. 147 del 2013, ha eliminato i successivi periodi, in base ai quali “Se l’Agenzia delle entrate respinge il reclamo in data antecedente, i predetti termini decorrono dal ricevimento del diniego. In caso di accoglimento parziale del reclamo, i predetti termini decorrono dalla notificazione dell’atto di accoglimento parziale”, ed ha aggiunto il seguente “Ai fini del computo del termine di novanta giorni, si applicano le disposizioni sui termini processuali”.
Ne consegue che per le istanze presentate avverso gli atti notificati a decorrere dal 2 marzo 2014, qualora il procedimento di mediazione non si sia concluso con un accoglimento o con la formalizzazione di un accordo, i termini per la costituzione in giudizio delle parti di cui agli articoli 22 e 23 del D.Lgs. n. 546 del 1992 decorrono, in ogni caso, dal compimento dei 90 giorni dal ricevimento dell’istanza da parte dell’Ufficio.
Diversamente quindi da quanto stabilito dalla previgente disciplina, la notifica del provvedimento dell’Ufficio che respinge o accoglie parzialmente l’istanza non rileva ai fini della decorrenza dei termini per la costituzione in giudizio delle parti. Si ricorderà infatti che, stando la previgente normativa i termini per la costituzione in giudizio del ricorrente e del resistente iniziano a decorrere: dal compimento dei 90 giorni dal ricevimento dell’istanza da parte dell’Ufficio, qualora non sia stato notificato il provvedimento di accoglimento della stessa ovvero non sia stato formalizzato l’accordo di mediazione; dalla notificazione, prima del decorso dei predetti 90 giorni, del provvedimento con il quale l’Ufficio respinge o accoglie parzialmente l’i stanza.
L’applicazione delle disposizioni sui termini processuali
L’articolo 1, comma 611, della legge n. 147 del 2013, ha aggiunto il seguente periodo “Ai fini del computo del termine di novanta giorni, si applicano le disposizioni sui termini processuali”.
Per espressa previsione normativa quindi, il termine di 90 giorni deve essere computato applicando le disposizioni sui termini processuali e quindi, diversamente da quanto previsto dalla previgente disciplina, tenendo conto anche della sospensione feriale dei termini processuali dal 1° agosto al 15 settembre, di cui alla legge n. 742 del 1969. Si ha quindi che sia il termine per la costituzione in giudizio che quello del reclamo sono soggetti alla sospensione feriale
Trovano inoltre applicazione tutte le disposizioni relative alla sospensione o interruzione dei termini processuali.
TERMINI | |
PROPOSIZIONE DEL RICORSO | COSTITUZIONE IN GIUDIZIO |
60 gg dalla notifica dell’avviso di accertamento + 46 gg in caso di sospensione feriale(*) + 90 gg in caso di accertamento con adesione |
30 gg dalla proposizione del ricorso + 90 gg in caso di reclamo e mediazione (90 gg) - termine fisso + 46 gg in caso di sospensione feriale(*) |
(*) inteso come sospensione feriale dei termini processuali dal 1° agosto al 15 settembre.
La sospensione ex lege della riscossione e del pagamento delle somme dovute in pendenza del procedimento di mediazione
L’articolo 1, comma 611, della legge n. 147 del 2013, ha aggiunto all’articolo 17-bis, dopo il comma 9, il comma 9-bis secondo cui “La riscossione e il pagamento delle somme dovute in base all’atto oggetto di reclamo sono sospesi fino alla data dalla quale decorre il termine di cui all’articolo 22, fermo restando che in assenza di mediazione sono dovuti gli interessi previsti dalle singole leggi d’imposta. La sospensione non si applica nel caso di improcedibilità di cui al comma 2”.
Si ha quindi che per gli accertamenti esecutivi o le intimazioni di pagamento, gli uffici non procederanno all'affidamento del carico all'agente della riscossione. Nei casi di ruoli o di altri atti per i quali è richiesta l'iscrizione a ruolo, sarà comunicata ad Equitalia la sospensione della riscossione.
Pertanto, a seguito della ricezione dell’istanza, l’Ufficio durante il procedimento di mediazione: non procede all’affidamento del carico, qualora l’atto impugnato sia un accertamento esecutivo o una successiva intimazione di pagamento di cui all’art. 29 del Dl n. 78/2010; comunica all’Agente della riscossione la sospensione della riscossione se l’atto impugnato è un ruolo; non procede all’iscrizione a ruolo negli altri casi.
La circolare 1/E/2014 chiarisce che:
la sospensione della riscossione non opera con riferimento alle istanze improponibili, ossia che non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 17-bis del D.Lgs. n. 546 del 1992.
Decorso il termine di 90 giorni dalla presentazione dell’istanza senza che vi sia stato accoglimento della stessa o sia stato formalizzato un accordo di mediazione, la sospensione viene meno e sono dovuti gli interessi previsti dalle singole leggi d’imposta.
In caso di deposito del ricorso prima del decorso del termine di 90 giorni dalla presentazione dell’istanza, la sospensione non opera, senza necessità di attendere la dichiarazione giudiziale di improcedibilità del ricorso.
Resta ferma la possibilità di avvalersi delle disposizioni “speciali” in materia di riscossione straordinaria (in particolare, articoli 29, comma 1, lettera c), del Dl n. 78/2010 e 15-bis del Dpr 602/1973).
La produzioni di effetti del reclamo anche sui contributi previdenziali e assistenziali e la non applicazione di sanzione e interessi
L’articolo 1, comma 611, della legge n. 147 del 2013, ha inserito al comma 8 dell’articolo 17-bis del D.lgs. n. 546 del 1992 il seguente periodo “L’esito del procedimento rileva anche per i contributi previdenziali e assistenziali la cui base imponibile è riconducibile a quella delle imposte sui redditi. Sulle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali non si applicano sanzioni e interessi”.
Si ha quindi che l'esito del procedimento rileva anche per i contributi previdenziali ed assistenziali e sulle somme dovute a tal fine, non si applicano sanzioni ed interessi. In caso di pagamento rateale anche i contributi sono rateizzati e versati unitamente alle imposte.
Con circolare n. 9/E del 2012 (punto 1.4) l’Agenzia delle Entrate aveva già chiarito che “La mediazione produce effetti anche sui contributi previdenziali e assistenziali, in quanto la loro base imponibile è riconducibile a quella delle imposte sui redditi. Si tratta, in particolare, dei casi in cui la mediazione riguardi avvisi di accertamento o iscrizioni a ruolo conseguenti a liquidazione o controllo formale delle dichiarazioni. In tal caso, il valore della lite va, ovviamente, determinato al netto dei contributi accertati. L’atto di mediazione deve quindi indicare anche i contributi ricalcolati sulla base del reddito imponibile determinato nell’atto stesso”.
La Cir. 1/E del 2014 chiarisce che in caso di pagamento rateale, anche i contributi sono rateizzati e le singole rate versate tramite modello F24 con le causali indicate.
La chiamata in causa di Equitalia
La cir. 1/E/2014 percisa che i termini previsti per la fase di mediazione sono validi anche quando è chiamata in causa Equitalia. In particolare viene detto che nel caso in cui il contribuente impugni un atto emesso dall’Agente della riscossione e sollevi eccezioni concernenti sia l’attività dell’Agenzia delle entrate sia quella dell’Agente della riscossione, deve attendere il decorso dei 90 giorni per la costituzione in giudizio.
In passato l'agenzia delle Entrate (circolare 9/2012) aveva chiarito che, non potendosi "sdoppiare" il ricorso proposto, anche per l'agente della riscossione doveva valere la sospensione di 90 giorni prevista dall'articolo 17 bis. A Telefisco 2014, in risposta a uno specifico quesito, l'agenzia delle Entrate, contestando il comportamento assunto in alcuni giudizi da parte di Equitalia – secondo i quali mediazione è una procedura obbligatoria solo per l'agenzia delle Entrate -, ha confermato che la questione della tardività è infondata.
L’incostituzionalità dell’istituto
Le modifiche intervenute in ogni caso non risolvono del tutto le questioni costituzionali sulla sua legittimità dell’istituto. Se infatti risolvono il problema dell’'irragionevole discriminazione tra il diritto del contribuente a corrispondere il giusto tributo e la potestà impositiva dell'Amministrazione finanziaria (violando così il principio di eguaglianza e ragionevolezza) conseguente all'inammissibilità del ricorso per omessa presentazione del reclamo ovvero la perdita definitiva del diritto di adire il giudice per omessa attivazione di un rimedio amministrativo, dall’altra non risolvono le (altre) censure già evidenziate nelle ordinanze delle Commissioni tributarie provinciali di Perugia e Benevento nonché, da ultimo, dalla Ctp di Campobasso, con l'ordinanza del 17 aprile 2013
I giudici di Campobasso, in particolare, hanno ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma in oggetto, rilevando che l'istituto rappresenta un'inutile duplicazione dei rimedi transattivi preprocessuali: condiziona l'accesso alla giurisdizione tributaria, prevedendo a pena di inammissibilità del ricorso l'esperimento, in via preliminare, della mediazione tributaria; impone che il contenuto del reclamo sia identico a quello del ricorso; grava sul contribuente; impedisce la sospensione cautelare immediata, così incorrendo in violazione di varie norme costituzionali (articoli 3, 24, 25, 111 e 113 della Costituzione).
Si dubita, perciò, che possano essere lesi i principi di eguaglianza, il diritto di difesa, il divieto di distrazione dal giudice naturale, il diritto a un giusto processo e il diritto alla tutela giurisdizionale riservato al cittadino. Ciò in quanto, innanzitutto, l'organo deputato a gestire il reclamo, per quanto diverso e presuntivamente autonomo, è pur sempre un organo della stessa Amministrazione finanziaria.
Senza trascurare, inoltre, che l'iter procedurale previsto dalla norma limita la tutela giurisdizionale solo nei confronti dei contribuenti interessati da una determinata categoria di provvedimenti (controversie non superiori a 20.000 euro), con conseguente irrazionalità e diversità di trattamento anche in ordine alla tutela cautelare.
Pertanto, l'istanza di mediazione-reclamo porta in sé, sin dall'origine, il carattere e il contenuto del ricorso giurisdizionale, con evidente anticipazione della tesi difensiva del contribuente nella fase amministrativa e conseguente immodificabilità della stessa nell'eventuale giudizio, limitandone il diritto di difesa.
La tutela giudiziaria del contribuente non può essere garantita da uno strumento che, differendo radicalmente dal modello della mediazione, civile in particolare (così come di recente novellato dal decreto del Fare), rappresenta esclusivamente un impedimento all'immediato ricorso alla giustizia tributaria e alla necessità di avvalersi della sospensione dell'atto impugnato, ex articolo 47 del Dlgs 546/92.
Le limitazioni della tutela giurisdizionale con misure di conciliazione extragiudiziale, in conformità anche con la giurisprudenza comunitaria (vedi Corte di giustizia, causa C-28/05), «corrispondono ad obiettivi di interesse generale purché non si traducano in un intervento sproporzionato ed inaccettabile, tale da ledere la sostanza dei diritti così garantiti» (Cfr. Il reclamo tributario limita i diritti del contribuente, E. De Mita, Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2013).
ARTICOLO - Pubblicato il: 18 marzo 2013 - Da: G. Manzana E. Iori
Le norme che regolano la residenza Stando il contenuto del comma 3 dell’art. 73 e dell’art. 5 comma 3 lett. d) del Tuir sono considerati residenti nel territorio dello Stato le società e gli enti che abbiano per la maggior parte del periodo di imposta la sede legale o la sede amministrativa o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.
Articolo 73- Soggetti passivi
(…)
3. Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale nel territorio dello Stato. (…)
4. L'oggetto esclusivo o principale dell'ente residente è determinato in base alla legge, all'atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata. Per oggetto principale si intende l'attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall'atto costitutivo o dallo statuto.
5. In mancanza dell'atto costitutivo o dello statuto nelle predette forme, l'oggetto principale dell'ente residente è determinato in base all'attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato; tale disposizione si applica in ogni caso agli enti non residenti. (…)
Articolo 5 – Redditi prodotti in forma associata
(…)
3. Ai fini delle imposte sui redditi: (…)
d) si considerano residenti le società e le associazioni che per la maggior parte del periodo d'imposta hanno la sede legale o la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale nel territorio dello Stato. L'oggetto principale è determinato in base all'atto costitutivo, se esistente in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, e, in mancanza, in base all'attività effettivamente esercitata. (…)
Legge 31 maggio 1995, n. 218 - Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato.
TITOLO III - Diritto applicabile
CAPO III - Persone giuridiche
Articolo 25 - Società ed altri enti.
1. Le società, le associazioni, le fondazioni ed ogni altro ente, pubblico o privato, anche se privo di natura associativa, sono disciplinati dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione. Si applica, tuttavia, la legge italiana se la sede dell'amministrazione è situata in Italia, ovvero se in Italia si trova l'oggetto principale di tali enti.
2. In particolare sono disciplinati dalla legge regolatrice dell'ente:
a) la natura giuridica;
b) la denominazione o ragione sociale;
c) la costituzione, la trasformazione e l'estinzione;
d) la capacità;
e) la formazione, i poteri e le modalità di funzionamento degli organi;
f) la rappresentanza dell'ente;
g) le modalità di acquisto e di perdita della qualità di associato o socio nonché i diritti e gli obblighi inerenti a tale qualità;
h) la responsabilità per le obbligazioni dell'ente;
i) le conseguenze delle violazioni della legge o dell'atto costitutivo.
3. I trasferimenti della sede statutaria in altro Stato e le fusioni di enti con sede in Stati diversi hanno efficacia soltanto se posti in essere conformemente alle leggi di detti Stati interessati.
Ai fini della classificazione di un soggetto diverso dalle persone fisiche come residente o non residente occorre quindi valutare:
1) la localizzazione o meno nel territorio italiano di uno dei seguenti elementi:
− la sede legale,
− la sede amministrativa,
− l’oggetto principale;
2) la durata della presenza di tali elementi nell’arco del periodo di imposta.
Stante il tenore letterale della norma, basta che anche uno solo dei suddetti requisiti sia soddisfatto in quanto tali elementi sono da considerare alternativi tra loro (anche se non sempre sufficienti, se presi singolarmente, per stabilire il luogo effettivo di residenza fiscale della società o dell’ente).
Sede legale: è la sede stabilita nell’atto costitutivo, ed è pertanto irrilevante il luogo di costituzione della società.
Sede amministrativa: è il luogo nel quale gli amministratori esercitano l’attività di gestione della società o ente.
Escluso il primo dei tre elementi discriminanti, quello cioè della sede legale, la cui collocazione territoriale non presenta particolari problematiche (infatti, se l’atto costitutivo o lo statuto stabiliscono in Italia la sede legale di una società od ente, questo sarà da considerarsi residente), meritano invece alcune considerazioni la verifica dei requisiti di collocazione territoriale della sede dell’amministrazione e dell’oggetto principale dell’attività.
Per quanto concerne la sede amministrativa occorre fare riferimento alla situazione di fatto e quindi individuare il luogo dove effettivamente gli amministratori della società esercitano l’attività amministrativa in modo stabile.
Gli elementi che potrebbero maggiormente costituire la prova del concreto svolgimento in Italia dell’amministrazione di società estere parrebbero essere, in genere, i seguenti (in merito si veda anche quanto detto dopo trattando di società ed enti esterovestiti):
- la presenza nell’organo amministrativo di persone fisiche residenti in Italia, almeno qualora non si possa dimostrare che queste si sono di volta in volta effettivamente recate all’estero per esercitare il proprio mandato;
- il rinvenimento di documentazione probatoria di una costante e puntuale attività di gestione della società estera, esperita impartendo dettagliate istruzioni direttamente dall’Italia a mezzo fax, corrispondenza commerciale, per via telematica o altro, da parte di soggetti residenti, anche non necessariamente coincidenti con gli amministratori formalmente incaricati ma, di fatto, privi di un effettivo potere gestorio;
- il rinvenimento di contratti, accordi commerciali o altri documenti costantemente formalizzati in Italia a nome della società estera, talvolta con l’intervento di controparti straniere all’uopo convocate nel territorio dello Stato presso lo studio del legale di fiducia dell’imprenditore italiano, ovvero presso la sede della società controllante o controllata italiana;
- e così via.
Per ciò che concerne la determinazione dell’oggetto esclusivo o principale dell’ente, dopo le modifiche apportate dal Dlgs 460/1997, la norma individua due criteri.
A norma del comma 4, dell’art. 73 del Tuir il primo di questi criteri previsto per gli enti residenti, è determinato in base a quanto stabilito dalla legge in relazione a detto ente (si pensi ad esempio alle leggi istitutive di nuovi enti pubblici), oppure alle risultanze dell’atto costitutivo o dello statuto. Le risultanze di detti ultimi documenti rilevano se essi sono redatti nelle forme dell’atto pubblico, della scrittura privata autentica o della scrittura privata registrata. Per evitare che il fisco debba attenersi alle risultanze dei sopra citati documenti, l’ultima parte del comma in esame sancisce la rilevanza anche dell’attività in concreto esercitata. Nonostante la struttura della norma ponga questa condizione come ultima, è da pensare che essa sia in realtà da considerare quella principale, in quanto altrimenti il fisco si troverebbe costretto ad attenersi a statuti in cui le attività commerciali sono descritte come secondarie, mentre invece sono di fatto le principali. L’indagine, pertanto, deve attenersi alla sostanza dei fatti, e non alla semplice descrizione formale datane negli atti costitutivi o statuti (Cfr. Corte di Cass. n. 10/4094 ottobre 1991; Corte di Cass. n. 467 del 5 novembre 1992 - dep. 19 novembre 1992).
Il secondo criterio è individuato dal comma 5 dell’art. 73 del Tuir e regola i casi in cui lo statuto o l’atto costitutivo non esistano, prevedendo che in tal caso rilevi esclusivamente l’attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato. Per espressa previsione della norma, questo criterio si applica in ogni caso per gli enti non residenti; per tali soggetti quindi, la norma non rinvia formalmente allo statuto (comma 4), bensì, in senso sostanziale, all’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto.
Il Dlgs n. 460 del 1997 ha apportato, infine, un’importante innovazione in relazione alla definizione di oggetto principale o prevalente dell’attività; secondo la nuova disposizione, infatti, per oggetto principale si deve intendere “l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto”: cio` significa che se gli atti indicati prevedono lo svolgimento di piu` attività, di cui solo alcune non commerciali, si deve fare “riferimento all’attività che per lo stesso risulta essere essenziale, vale a dire quella che gli consente il raggiungimento degli scopi primari e che tipicizza l’ente medesimo” (Cfr. Cir. Min. n. 124/E del 12 maggio 1998).
Dell’oggetto principale dell’attività, identificato nei modi suddetti, dovrà essere quindi localizzato il luogo di esercizio, quale elemento discriminante per la determinazione della residenza fiscale della società. Una società con il principale, ovvero l’unico oggetto della propria attività territorialmente localizzato in Italia, parrebbe dover essere quindi considerata come ivi residente ai fini fiscali, anche quando avesse la propria sede legale all’estero. Il caso più frequente ed eclatante parrebbe essere quello delle società holding che, pur avendo sede legale all’estero, partecipassero solo società italiane (in merito si veda anche quanto detto dopo parlando di estero vestizione), ovvero al caso di una società estera il cui unico provento sia costituito da royalty di fonte italiana, ovvero ancora quello analogo di società immobiliari estere il cui unico bene sociale coincidesse con un immobile sito in Italia (diverso, invece, il caso in cui le partecipazioni o gli immobili posseduti siano più di uno e siti in Stati diversi).
Il Ministero ha chiarito che l’esistenza in Italia di una sede secondaria non costituisce residenza della società, ma stabile organizzazione della medesima, con conseguente tassazione dei redditi ivi prodotti in capo alla sede secondaria (Cfr. Ris. n. 9/724 del 18 maggio 1978).
Il Ministero ha escluso che la semplice presenza in Italia di un ufficio di pubbliche relazioni e rappresentanza possa permettere di acquisire la residenza) (Cfr. Ris. n. 9/724 del 18 maggio 1978).
Nei casi in cui si determinasse una situazione di “doppia residenza” fiscale, quale quella che si verifica, per esempio, nel caso citato di società con sede legale all’estero e oggetto principale o unico nel territorio dello Stato, la soluzione dovrà essere trovata, almeno quando siano vigenti norme convenzionali, in ragione del luogo in cui viene amministrata la società, dovendosi rilevare, ancora una volta, come tale elemento (la sede dell’amministrazione) risulti di assoluta e decisiva importanza.
Con risoluzione n. 9/E del 17 gennaio 2006, l’Agenzia delle Entrate è intervenuta in merito al momento in cui si considera perfezionato il trasferimento della sede legale all’estero specificando che “in mancanza di apposite disposizioni convenzionali, la L. 31 maggio 1995, n. 218, relativa alla riforma del diritto internazionale privato, individua all’art. 25 i seguenti criteri di collegamento tra l’ordinamento italiano e quello dello stato estero:
- le società sono disciplinate dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione. La legge italiana risulta comunque applicabile nel caso in cui la sede dell’amministrazione ovvero l’oggetto principale della società sono situati in Italia (art. 25, comma 1). In quest’ultima ipotesi si richiede il necessario adeguamento ai requisiti previsti in Italia dall’ordinamento per le società. Se ne desume che le società straniere che hanno in Italia la sede dell’amministrazione ovvero l’oggetto principale devono sottoporsi a una sorta di “trasformazione giuridica” per conformarsi al nostro ordinamento;
- il trasferimento della sede legale indicata nello statuto è efficace solo se posto in essere conformemente agli ordinamenti dello Stato di provenienza e dello Stato di destinazione (art. 25, comma 3)”.
Dunque, l’efficacia del trasferimento della sede statutaria è subordinata al duplice rispetto sia delle norme del paese di provenienza sia di quelle del paese di destinazione. Ne consegue che la continuità giuridica della società è condizionata all’ammissibilità del trasferimento nei due ordinamenti.
Muovendo da tale presupposto, l’Agenzia delle Entrate ha concluso che “le conseguenze di ordine fiscale relative al trasferimento in Italia dall’estero o, viceversa, dall’Italia verso l’estero della sede sociale dipendono dalla continuità giuridica o meno dell’ente ai sensi dell’art. 25, comma 3, della L. n. 218 del 1995.
Nella prima ipotesi, qualora il trasferimento in Italia avvenga in condizioni di continuità giuridica, il periodo d’imposta, costituito dall’esercizio sociale, non si interrompe. Pertanto, [...], l’ente risulterà residente in Italia per l’intero esercizio se il trasferimento di sede si è perfezionato prima che sia decorso un numero di giorni inferiore alla metà del periodo d’imposta.
Nell’ipotesi di inefficacia del trasferimento di sede, la società, costituita ex novo secondo l’ordinamento italiano, inizia un nuovo periodo d’imposta e sarà considerata da subito residente, alla stregua delle società neocostituite.
Del pari, in ipotesi di trasferimento in continuità giuridica della sede statutaria dall’Italia in un altro Stato, la società risulterà residente in Italia per tutto il periodo d’imposta, coincidente con l’esercizio, se per la maggior parte dello stesso la sede legale è stata nel territorio dello Stato”.
In base alla lettera d) del primo comma dell’art. 73 del Tuir le società e gli enti di ogni tipo non residenti in Italia sono soggetti passivi Ires indipendentemente dalla circostanza che si tratti di soggetti dotati o privi di personalità giuridica, di enti commerciali o non commerciali. In altre parole un ente non residente e` sempre soggetto Ires, mai soggetto Irpef.
Una specificazione di questo principio e` contenuta nel secondo comma della norma, che fra i soggetti di cui alla lettera d) del primo comma ricomprende espressamente le societa` di persone e le associazioni che, se residenti, ai sensi dell’articolo 5 Tuir sono assoggettate all’Irpef. L’assoggettamento ad Ires delle societa` di persone non residenti consente di superare problemi di accertamento del reddito in capo a soggetti fiscalmente “trasparenti”.
Articolo 73- Soggetti passivi
1. Sono soggetti all'imposta sul reddito delle società: (…)
d) le società e gli enti di ogni tipo compresi i trust, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato.
2. Tra gli enti diversi dalle società, di cui alle lettere b) e c) del comma 1, si comprendono, oltre alle persone giuridiche, le associazioni non riconosciute, i consorzi e le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti delle quali il presupposto dell'imposta si verifica in modo unitario e autonomo. Tra le società e gli enti di cui alla lettera d) del comma 1 sono comprese anche le società e le associazioni indicate nell'articolo 5. (…)
Per le società e gli enti non residenti il reddito complessivo è determinato a norma dell’articolo 153 del Tuir.
Articolo 153 - Reddito complessivo
(…)
1. Il reddito complessivo delle società e degli enti non residenti di cui alla lettera d) del comma 1 dell'articolo 73 è formato soltanto dai redditi prodotti nel territorio dello Stato, ad esclusione di quelli esenti dall'imposta e di quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva.
2. Si considerano prodotti nel territorio dello Stato i redditi indicati nell'articolo 23, tenendo conto, per i redditi d'impresa, anche delle plusvalenze e delle minusvalenze dei beni destinati o comunque relativi alle attività commerciali esercitate nel territorio dello Stato, ancorché non conseguite attraverso le stabili organizzazioni, nonché gli utili distribuiti da società ed enti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell'articolo 73 e le plusvalenze indicate nell'articolo 23, comma 1, lettera f). (…)
L’esterovestizione
Articolo 73- Soggetti passivi
(…)
5 bis. Salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell'amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell'articolo 2359 primo comma, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa:
a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell'articolo 2359 primo comma, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
5 ter. Ai fini della verifica della sussistenza del controllo di cui al comma 5 bis, rileva la situazione esistente alla data di chiusura dell'esercizio o periodo di gestione del soggetto estero controllato. Ai medesimi fini, per le persone fisiche si tiene conto anche dei voti spettanti ai familiari di cui all'articolo 5, comma 5. (…)
Gli ultimi commi dell’art. 73 del Tuir, vale a dire i commi 5-bis e 5-ter, sono stati introdotti dal Dl n. 223 del 2006. Essi individuano, nei casi specificati, una presunzione legale relativa di localizzazione in Italia della sede della amministrazione, e quindi della residenza, di società ed enti, invertendo a loro carico l’onere della prova. L’art. 35 del Dl n. 223 del 2006 stabilisce che la disposizione decorra dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del decreto, vale a dire il 4 luglio 2006.
Come si è avuto modo di vedere, ai sensi dell’art. 73, comma 3 del Tuir, la residenza fiscale delle società e degli enti viene individuata sulla base di tre criteri: la sede legale, la sede dell’amministrazione ed il luogo in cui è localizzato l’oggetto principale. Tali criteri sono alternativi ed è sufficiente che venga soddisfatto anche uno solo di essi perché il soggetto possa considerarsi residente ai fini fiscali nel territorio dello Stato.
In particolare, la sede legale si identifica con la sede sociale indicata nell’atto costitutivo o nello statuto e dà evidenza ad un elemento giuridico “formale”. Diversamente, la localizzazione dell’oggetto principale o l’esistenza della sede dell’amministrazione devono essere valutati in base ad elementi di effettività sostanziale e richiedono – talora – complessi accertamenti di fatto del reale rapporto della società o dell’ente con un determinato territorio, che può non corrispondere con quanto rappresentato nell’atto costitutivo o nello statuto.
In sede internazionale, ed in particolare nelle “osservazioni” contenute nel Commentario all’art. 4 del modello Ocse, l’Amministrazione finanziaria italiana si è - da sempre - preoccupata di salvaguardare i principi di effettività, richiamati nell’ordinamento domestico, ritenendo che la sede della “direzione effettiva” di un ente debba definirsi non soltanto come il luogo di svolgimento della sua prevalente attività direttiva e amministrativa, ma anche come il luogo ove è esercitata l’attività principale.
Coerentemente con quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 136 del 22 gennaio 1958, la sede effettiva della società deve considerarsi come “il luogo in cui la società svolge la sua prevalente attività direttiva ed amministrativa per l’esercizio dell’impresa, cioè il centro effettivo dei suoi interessi, dove la società vive ed opera, dove si trattano gli affari e dove i diversi fattori dell’impresa vengono organizzati e coordinati per l’esplicazione ed il raggiungimento dei fini sociali”.
Il comma 5-bis dell’art. 73 del Tuir viene a collocarsi in questo contesto. Esso consente all’Amministrazione finanziaria di presumere (“salvo prova contraria”) l’esistenza nel territorio dello Stato della sede dell’amministrazione di società ed enti che detengono direttamente partecipazioni di controllo in società di capitali ed enti commerciali residenti, quando, alternativamente:
a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’art. 2359, comma 1 del Codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione o altro organo di gestione equivalente, formato in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
Gli elementi di collegamento con il territorio dello Stato individuati dalla norma sono astrattamente idonei a sorreggere la presunzione di esistenza nel territorio dello Stato della sede dell’amministrazione delle società in esame. Si tratta infatti di elementi già valorizzati nella esperienza interpretativa e applicativa, sia a livello internazionale che nazionale. Essi si ispirano sia a criteri di individuazione dell’effective place of management and control elaborati in sede Ocse, sia ad alcuni indirizzi giurisprudenziali.
La norma prevede, in definitiva, l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, dotando l’ordinamento di uno strumento che solleva l’amministrazione finanziaria dalla necessità di provare l’effettiva sede della amministrazione di entità che presentano molteplici e significativi elementi di collegamento con il territorio dello Stato. In tale ottica la norma persegue l’obiettivo di migliorare l’efficacia dell’azione di contrasto nei confronti di pratiche elusive, facilitando il compito del verificatore nell’accertamento degli elementi di fatto per la determinazione della residenza effettiva delle società. In particolare, essa intende porre un freno al fenomeno delle c.d. esterovestizioni, consistenti nella localizzazione della residenza fiscale delle società in Stati esteri al prevalente scopo di sottrarsi agli obblighi fiscali previsti dall’ordinamento di appartenenza; a tal fine la norma valorizza gli aspetti certi, concreti e sostanziali della fattispecie, in luogo di quelli formali, in conformità al principio della “substance over form” utilizzato in campo internazionale.
Si è già avuto modo di dire che le disposizioni in esame si applicano alle società ed enti che presentano due rilevanti e continuativi elementi di collegamento con il territorio dello Stato, in quanto:
- detengono partecipazioni di controllo, di diritto o di fatto ai sensi dell’art. 2359, comma 1 del Codice civile, in società ed enti residenti;
- sono, a loro volta, controllati anche indirettamente ovvero amministrati da soggetti residenti.
Con riguardo a tale ultima ipotesi, l’Agenzia delle entrate nella Circ. 11/E del 2007 ha avuto modo di dire che:
- la residenza degli amministratori della società deve essere stabilita sulla base dei criteri previsti dall’articolo 2 del Tuir;
- la società, inoltre, sarà considerata fiscalmente residente in Italia qualora, per la maggior parte del periodo di imposta, risulti prevalentemente amministrata da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
Telefisco 2007 – Circ. 11/E del 16 febbraio 2007
12.3 Esterovestizione: residenza degli amministratori della società estera
D. I commi 5-bis e 5-ter, dell’art. 73 del Tuir, introdotti dall’art. 35, comma 13, del d.l. n. 223 del 2006, non stabiliscono il momento di riferimento per la verifica della residenza degli amministratori, ai fini della determinazione della residenza fiscale della società. E’ corretto ritenere che, in analogia con il criterio utilizzato per la verifica del “controllo”, si debba fare riferimento alla data di chiusura dell’esercizio della società estera?
R. Il comma 5-bis dell’art. 73 del Tuir consente all’Amministrazione finanziaria di presumere (“salvo prova contraria”) l’esistenza della sede dell’amministrazione di società ed enti nel territorio dello Stato, nell’ipotesi di detenzione di partecipazioni di controllo ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, del codice civile in società ed enti commerciali residenti (di cui all’articolo 73, comma 1, lettere a) e b) del Tuir), quando, alternativamente:
a) sono controllati, anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, od organo di gestione equivalente, formato in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
Con riguardo a tale ultima ipotesi, si precisa anzitutto che la residenza degli amministratori della società deve essere stabilita sulla base dei criteri previsti dall’articolo 2 del Tuir. La società, inoltre, sarà considerata fiscalmente residente in Italia qualora, per la maggior parte del periodo di imposta, risulti prevalentemente amministrata da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
Il controllo al quale fa riferimento la norma, sia quello a monte sia quello a valle, è quello disciplinato dall’articolo 2359 c.c. In particolare il comma 1 del predetto articolo contiene una nozione ampia di controllo in quanto considera:
- il controllo di diritto, cioè la maggioranza dei voti in assemblea ordinaria (cosiddetto controllo interno di diritto);
- il controllo di fatto, cioè il possesso di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante (cosiddetto controllo interno di fatto);
- il controllo in virtù di particolari vincoli contrattuali (cosiddetto controllo esterno).
Quando la norma fa riferimento al controllo a monte, cioè quello esercitato da parte di un soggetto residente in Italia, fa riferimento anche alle persone fisiche. Per queste il requisito del controllo viene verificato considerando anche i voti spettanti ai familiari ai sensi dell’articolo 5, comma 5, DPR n. 917/1986, ossia il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado.
Ai sensi del comma 5-ter, il presupposto per la sussistenza del controllo (dei soggetti residenti sull’entità estera e di questa su società e enti residenti) – e quindi della localizzazione in Italia della sede dell’amministrazione – deve valutarsi con riferimento alla data di chiusura dell’esercizio della entità controllata localizzata all’estero.
Né la norma né la circolare 28/E del 4 agosto 2006 chiariscono se anche la verifica degli amministratori debba essere fatta alla data di chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto controllato, così come avviene per il controllo ex articolo 2359 c.c.
La norma è applicabile anche nelle ipotesi in cui tra i soggetti residenti controllanti e controllati si interpongano più sub-holding estere. La presunzione di residenza in Italia della società estera che direttamente controlla una società italiana, renderà operativa, infatti, la presunzione anche per la società estera inserita nell’anello immediatamente superiore della catena societaria; quest’ultima si troverà, infatti, a controllare direttamente la sub-holding estera, considerata residente in Italia.
Si consideri questo esempio:
Si ipotizzi che: S1 controlli S2; S2 controlli S3; S3 controlli S4: in questo caso l’inversione dell’onere della prova opera per S2 e S3. Se viene fornita la prova contraria per S3, la presunzione per S2 non può operare, perché essa non controlla “direttamente” una società residente in Italia. Se viene fornita la prova contraria per S2, la presunzione per S3 continua a operare perché S3 è controllata indirettamente da S1, residente in Italia.
Risulta evidente che in alcuni casi possono sorgere difficoltà anche insormontabili relativamente all’acquisizione della prova. Si pensi infatti al caso in cui l’anello superiore della catena di controllo estera sia una società residente in un paese che non fornisca adeguata pubblicità alle compagini sociali delle società in esso residenti.
Nel suo complesso la previsione normativa vale a circoscrivere l’inversione dell’onere della prova alle ipotesi in cui il collegamento con il territorio dello Stato è particolarmente evidente e continuativo quali, per l’appunto, i casi in cui la gestione dell’attività rimane in Italia ovvero quello quello delle società holding che, pur avendo sede legale all’estero, controllano società italiane. Ovviamente, la norma non preclude all’Amministrazione la possibilità di dedurre – anche in altri casi e assumendosene l’onere – la residenza in Italia di entità estero vestite utilizzano le altre norme del sistema, quali, per esempio, il principio dell’interposizione fittizia di cui al comma 3 dell’art. 37 DPR 600/1973.
In applicazione della norma, il soggetto estero si considera, ad ogni effetto, residente nel territorio dello Stato e sarà quindi soggetto a tutti gli obblighi strumentali e sostanziali che l’ordinamento prevede per le società e gli enti residenti.
A titolo esemplificativo, gli effetti di più immediato impatto per le sub-holding esterovestite riguarderanno:
- i capital gain realizzati dalla cessione di partecipazioni da assoggettare al regime di imponibilità o di esenzione previsti dagli artt. 86 e 87 del Tuir;
- le ritenute da operare sui pagamenti di interessi dividendi e royalty corrisposti a non residenti o sui pagamenti di interessi e royalty corrisposti a soggetti residenti fuori del regime di impresa;
- il concorso al reddito in misura pari al 100 per cento del loro ammontare degli utili di partecipazione provenienti da società residenti in Stati o territori a fiscalità privilegiata.
Al contrario, i predetti soggetti non dovranno subire ritenute sui flussi di dividendi, interessi e royalty in uscita dall’Italia e potranno scomputare in sede di dichiarazione annuale le ritenute eventualmente subite nel periodo di imposta per il quale sono da considerare residenti, anche se – ad inizio - operate a titolo di imposta.
Secondo la cir. 28/E del 4 agosto 2006 “Il contribuente, per vincere la presunzione, dovrà dimostrare con argomenti adeguati e convincenti, che la sede di direzione effettiva della società non è in Italia, bensì all’estero. Tali argomenti e prove dovranno dimostrare che, nonostante i citati presupposti di applicabilità della norma, esistono elementi di fatto, situazioni od atti, idonei a dimostrare un concreto radicamento della direzione effettiva nello Stato estero”.
Come chiarito dal paragrafo 24 del Commentario all’articolo 4 del Modello OCSE, al fine di determinare la sede di direzione effettiva, non è possibile stabilire una regola precisa, ma devono essere presi in considerazione tutti i fatti e le circostanze. Coerentemente con quanto affermato nel Commentario, l’Amministrazione finanziaria ha da sempre sostenuto, fornendo sul punto un chiarimento nelle “osservazioni” contenute nel Commentario all’articolo 4 del Modello OCSE, che per determinare la sede della direzione effettiva di un ente non si deve fare esclusivo riferimento al luogo di svolgimento della prevalente attività direttiva e amministrativa, ma occorre prendere in considerazione anche il luogo ove è esercitata l’attività principale (Cfr. Ris. Ag. delle entrate del 5 novembre 2007, n. 312/E).
Nella normalità dei casi, le società interessate dovranno limitarsi a conservare la documentazione probatoria che l'attività di amministrazione e direzione dell'ente si svolge effettivamente all'estero. A questo proposito, si osserva che nel caso di holding statiche o di società il cui scopo è la mera detenzione di beni o crediti senza che vi sia svolta una effettiva attività economica non hanno bisogno di particolari strutture produttive per lo svolgimento dell'attività. Non è quindi possibile presumere che la sede dell'amministrazione non sia nello Stato in cui la società ha sede legale solo per il fatto che in tale Stato non vi sia impiego di dipendenti, di locali, di arredi, e che dal bilancio non risultino utenze elettriche, telefoniche, eccetera. In questo senso si veda la Cassazione, Sezione penale, n. 1156 del 19 aprile 2000. La stessa sentenza attribuisce rilevanza determinante alla circostanza che le assemblee sociali (ma si deve intendere anche i consigli d'amministrazione e i comitati esecutivi, ove tali organi abbiano poteri decisionali) siano tenute all'estero.
Cassazione, Sezione penale, n. 1156 del 19 aprile 2000.
La sentenza è relativa al caso di una S.r.l. alla quale veniva contestato di avere una sede nel territorio extra doganale di Livigno con il fine di evitare l’imposizione fiscale derivante dai diritti doganali e dall’Iva.
I presupposti della contestazione si basavano unicamente su elementi quali le utenze dell’energia elettrica e l’assenza di dipendenti.
La difesa, invece, sosteneva che considerare solamente questi elementi era errato in quanto derivava dall’errata interpretazione della norma che disciplina la sede delle persone giuridiche. Al riguardo l’articolo 46 del codice civile stabilisce che “quando la legge fa dipendere determinati effetti dalla residenza o dal domicilio, per le persone giuridiche si ha riguardo al luogo in cui è stabilita la loro sede” (comma 1) e che se la sede legale è diversa dalla sede effettiva i terzi possono considerare quest’ultima (comma 2).
La sentenza obietta che non è possibile affermare che la sede legale non coincide con quella effettiva basandosi solamente su elementi come le utenze telefoniche e l’assenza di dipendenti;occorre considerare aspetti sostanziali quali:
- il luogo dove si svolgono in concreto le attività amministrative e di direzione dell’ente;
- il luogo dove si convocano le assemblee;
- il luogo dove vengono stipulati i contratti;
- il luogo dove avvengono le operazioni bancarie.
Secondo l’Amministrazione finanziaria la dimostrazione della “prova contraria” sulla base non solo del dato documentale, ma anche sulla base di tutti gli elementi concreti da cui risulti, in particolare, il luogo in cui le decisioni strategiche, la stipulazione dei contratti e le operazioni finanziarie e bancarie siano effettivamente realizzate, è peraltro essenziale per permettere quella valutazione caso per caso necessaria al fine di garantire la proporzionalità della norma rispetto al fine perseguito, a mitigare la portata generale della disposizione antielusiva in questione e, pertanto, a confermare la compatibilità della stessa con la normativa comunitaria (Cfr. Ris. Ag. delle entrate del 5 novembre 2007, n. 312/E).
E’ opportuno, allora, che:
- di fatto le decisioni sull'attività societaria siano prese nello stesso luogo in cui si riuniscono gli organi societari: il consiglio d'amministrazione e l'assemblea, cioè, non devono limitarsi ad approvare formalmente decisioni prese, in altra sede, dai soci italiani o da dirigenti della società muniti di poteri esecutivi (Cfr. Ocse, Place of Effective management concept, maggio 2003).
- se la società non dispone di locali e dipendenti all’estero dovrebbe porre in essere contratti di outsourcing per le attività di carattere amministrativo;
- la società non attribuisca poteri di elevata caratura agli amministratori italiani;
- non venga fatto eccessivo ricorso a fax o e-mail dall’Italia verso l’estero, che potrebbero dimostrare che le decisioni strategiche vengono prese in Italia.
La difesa del contribuente: il test per dimostrare che la sede estera non nasce al solo scopo di ottenere vantaggi fiscali secondo i principi stabiliti dalla sentenza della Corte di Giustizia nel caso Cadbury Schweppes.
Per bloccare eventuali pretese dell'Amministrazione finanziaria, il contribuente dovrebbe predisporre una documentazione idonea e convincente, adatta a "vestire" formalmente i principi stabiliti dalla sentenza della Corte di Giustizia nel caso Cadbury Schweppes. In altri termini, il contribuente può, almeno in linea di principio, prevenire il rischio di verifica in tema di residenza fiscale di società localizzate all'estero dimostrando che:
- non ha costituito società estere per esclusive finalità tributarie (le cosiddette "società fantasma");
- le società estere svolgono realmente attività d'impresa;
- le legal entities sono dotate di autonoma organizzazione.
In tal senso, soccorre, nel l'ambito di apposita policy sulla gestione delle società partecipate estere, la dimostrazione dei seguenti tre test:
- esistenza di un'effettiva attività imprenditoriale (industriale, commerciale, di servizi) svolta in loco ("business activity test");
- esistenza di effettiva e idonea organizzazione di uomini e mezzi ("organization test");
- valutazione (e rappresentazione) delle ragioni dell'esercizio di attività d'impresa all'estero mediante specifiche legal entities ("motive test").
L'"esterovestizione" di fonti di reddito astrattamente imponibili in Italia, o di attività d'impresa suscettibili di produrre imponibili nel nostro Paese, può essere più o meno consapevolmente posta in essere dal contribuente italiano (sia esso rappresentato da un gruppo oppure da una piccola o media impresa).
L'utilizzo artificioso e strumentale (quindi, consapevole) di legal entities localizzate all'estero, giustificate da motivazioni unicamente fiscali, comporta per il contribuente «esterovestito» rischi derivanti da eventuali verifiche fiscali sulle società partecipate estere, e l'eventuale attuazione di rimedi tesi a rimpatriare o estinguere la società esterovestita. Diversamente, se si è in presenza di effettiva ragione economica e non si hanno strutture imprenditoriali «di puro artificio» localizzate all'estero, la "inconsapevole" esterovestizione dovrebbe essere adeguatamente supportata da idonea documentazione probatoria, predisposta dal contribuente in via preventiva.
Secondo l'orientamento della giurisprudenza comunitaria, l'esistenza di abusi deve in ogni caso risultare da situazioni obiettive la cui esistenza deve essere verificata caso per caso (sentenza 12 settembre 2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes plc e Cadbury Schweppes Overseas Ltd.).
La constatazione dell'esistenza di una costruzione puramente artificiosa (nel senso inteso dalla citata sentenza Cadbury Schweppes) richiede, infatti, oltre alla volontà del contribuente di conseguire un vantaggio fiscale, anche elementi di fatto (esercizio di effettiva attività d'impresa mediante una reale organizzazione di uomini e mezzi) dai quali appaia inequivocabilmente che, nonostante il rispetto formale dell'ordinamento comunitario, viene "tradito" lo spirito sottostante al principio della libertà di stabilimento (in tal senso: sentenze 14 dicembre 2000, causa C-110/99, Emsland-Stärke; 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax e a., oltre alla citata Cadbury Schweppes).
In altri termini, la costituzione di enti giuridici deve corrispondere a un insediamento reale che abbia per oggetto l'espletamento di attività economiche effettive nello Stato membro di stabilimento.
Se la verifica dei questi elementi portasse a constatare che la società corrisponde a un'installazione fittizia, che non esercita alcuna attività economica effettiva sul territorio dello Stato membro di stabilimento, la creazione di tale legal entity dovrebbe essere ritenuta costruzione di puro artificio.
In merito al momento in cui il contribuente deve fornire la prova, la Ris. dell’Agenzia delle entrate del 5 novembre 2007, n. 312/E, ha avuto modo di dire che la prova contraria necessaria per superare la presunzione di esterovestizione può essere offerta nella competente sede di accertamento e non tramite la procedura di interpello disapplicativo di cui all’articolo 37-bis, comma 8, del Dpr n. 600/1973. Ciò non solo perché la predetta dimostrazione è prevalentemente basata su elementi di fatto non agevolmente desumibili dalla documentazione su cui normalmente è incentrata l’analisi preventiva in sede di interpello, ma anche perché la procedura ex articolo 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973 è in genere esperibile per la disapplicazione di norme che incidono in maniera diretta ed immediata sul quantum dell’obbligazione tributaria, ossia di norme che “limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario” e che per ciò stesso, a differenza della norma recata dall’articolo 73, comma 5-bis che incide sulla soggettività passiva, impattano direttamente sulla determinazione del debito tributario.
Merita, infine, precisare in quali termini la disposizione del nuovo comma 5-bis dell’art. 73 del Tuir può interferire sulla applicabilità del successivo art. 167 del Tuir, nell’ipotesi in cui un soggetto residente controlli una società o un ente residente o localizzato in Stati o territori a fiscalità privilegiata che, a sua volta, detenga partecipazioni di controllo in società di capitali o enti commerciali residenti in Italia.
È evidente che la presunzione di residenza nel territorio dello Stato dell’entità estera rende – in punto di principio – inoperante la disposizione dell’art. 167 del Tuir. Non sarà imputabile al soggetto controllante il reddito che la controllata stessa, in quanto residente, è tenuta a dichiarare in Italia. Qualora, tuttavia, sia fornita la prova contraria, atta a vincere la presunzione di residenza in Italia, la controllata non residente rimane attratta – ricorrendone le condizioni – alla disciplina dell’art. 167 del Tuir. In altri termini, il reddito della controllata estera non assoggettato a tassazione in Italia in dipendenza del suo – comprovato – status di società non residente resta imputabile per trasparenza al soggetto controllante ai sensi del citato art. 167 del Tuir. L’effettiva localizzazione della sede della amministrazione della controllata estera fuori del territorio dello Stato e quindi la sua autonomia decisionale e di gestione non escludono, infatti, che il suo reddito sia da considerare nella disponibilità economica del controllante residente.
La residenza del trust
La residenza del trust è individuata, con taluni adattamenti che tengono conto della natura dell’istituto, secondo i criteri generali utilizzati per fissare la residenza dei soggetti di cui all’art. 73 del Tuir.
Articolo 73 - Soggetti passivi
1. Sono soggetti all'imposta sul reddito delle società: (…)
b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per (…)
d) le società e gli enti di ogni tipo compresi i trust, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato. (…)
3. Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale nel territorio dello Stato. Si considerano altresì residenti nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, i trust e gli istituti aventi analogo contenuto istituiti in Stati o territori diversi da quelli di cui al decreto del Ministro dell'economia e delle finanze emanato ai sensi dell'articolo 168-bis, in cui almeno uno dei disponenti ed almeno uno dei beneficiari del trust siano fiscalmente residenti nel territorio dello Stato. Si considerano, inoltre, residenti nel territorio dello Stato i trust istituiti in uno Stato diverso da quelli di cui al decreto del Ministro dell'economia e delle finanze emanato ai sensi dell'articolo 168-bis, quando, successivamente alla loro costituzione, un soggetto residente nel territorio dello Stato effettui in favore del trust un'attribuzione che importi il trasferimento di proprietà di beni immobili o la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari, anche per quote, nonché vincoli di destinazione sugli stessi. (…)
Ai sensi del comma 3 di tale articolo, un soggetto Ires si considera residente nel territorio dello Stato al verificarsi di almeno una delle condizioni sotto indicate per la maggior parte del periodo di imposta:
- sede legale nel territorio dello Stato;
- sede dell’amministrazione nel territorio dello Stato;
- oggetto principale dell’attività svolta nel territorio dello Stato.
Considerando le caratteristiche del trust, di norma i criteri di collegamento al territorio dello Stato sono la sede dell’amministrazione e l’oggetto principale.
Il primo di essi (la sede dell’amministrazione) risulterà utile per i trust che si avvalgono, nel perseguire il loro scopo, di un’apposita struttura organizzativa (dipendenti, locali, ecc.). In mancanza, la sede dell’amministrazione tenderà a coincidere con il domicilio fiscale del trustee.
Il secondo criterio (l’oggetto principale) è strettamente legato alla tipologia di trust. Se l’oggetto del trust (beni vincolati nel trust) è dato da un patrimonio immobiliare situato interamente in Italia, l’individuazione della residenza è agevole; se invece i beni immobili sono situati in Stati diversi occorre fare riferimento al criterio della prevalenza. Nel caso di patrimoni mobiliari o misti l’oggetto dovrà essere identificato con l’effettiva e concreta attività esercitata.
Per individuare la residenza di un trust si potrà fare utile riferimento alle convenzioni per evitare le doppie imposizioni. Come è noto, le convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni si applicano alle persone residenti di uno o di entrambi gli Stati contraenti che, in qualità di soggetti passivi d’imposta, subiscono una doppia imposizione internazionale. È possibile che i trust diano luogo a problematiche di tassazione transfrontaliera con eventuali fenomeni di doppia imposizione o, all’opposto, di elusione fiscale. Un trust, infatti, può realizzare il presupposto impositivo in più Stati, quando, ad esempio, il trust fund sia situato in uno Stato diverso da quello di residenza del trustee e da quello di residenza del disponente e dei beneficiari.
Annoverato, a seguito della modifica dell’art. 73 del Tuir, tra i soggetti passivi d’imposta, ai fini convenzionali il trust deve essere considerato come “persona” (“una persona diversa da una persona fisica” di cui all’art. 4, comma 3, modello Ocse di convenzione per evitare le doppie imposizioni) anche se non espressamente menzionato nelle singole convenzioni. L’unica convenzione che espressamente comprende i trust tra le persone cui si applica la convenzione è quella sottoscritta dall’Italia con gli Stati Uniti d’America.
La nuova disciplina fiscale contiene, altresì, disposizioni che mirano a contrastare possibili fenomeni di fittizia localizzazione dei trust all’estero, con finalità elusive. Al riguardo, il comma 3 dell’articolo 73 del Tuir, introduce due casi di attrazione della residenza del trust in Italia:
1. Si considerano residenti nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, i trust e gli istituti aventi analogo contenuto istituiti in Paesi che non consentono lo scambio di informazioni (paesi non inclusi nella cosiddetta “white list” approvata con decreto del Ministro delle Finanze 4 settembre 1996 e successive modificazioni) quando almeno uno dei disponenti ed almeno uno dei beneficiari siano fiscalmente residenti nel territorio dello Stato. La Legge n. 244 del 2007 ha previsto l’emanazione di una nuova “white list” ai sensi dell'art. 168-bis del Tuir.
La norma menziona gli “istituti aventi analogo contenuto” a quello di un trust. Si è voluto in questo modo tenere conto della possibilità che ordinamenti stranieri disciplinino istituti analoghi al trust ma assegnino loro un “nomen iuris” diverso. Per individuare quali siano gli istituti aventi contenuto analogo si deve fare riferimento agli elementi essenziali e caratterizzanti dell’istituto del trust.
E’ rilevante, inoltre, stabilire in quale momento la residenza fiscale di un disponente e di un beneficiario attrae in Italia la residenza fiscale del trust. In primo luogo, non sembra necessario che la residenza italiana del disponente e del beneficiario sia verificata nello stesso periodo d’imposta. Infatti la residenza del disponente, in considerazione della natura istantanea dell’atto di disposizione, rileva nel periodo d’imposta in cui questi ha effettuato l’atto di disposizione a favore del trust. Eventuali cambiamenti di residenza del disponente in periodi d’imposta diversi sono irrilevanti.
Per la parte riguardante il beneficiario, la norma è applicabile ai trust con beneficiari individuati. La residenza fiscale del beneficiario attrae in Italia la residenza fiscale del trust anche se questa si verifica in un periodo d’imposta successivo a quello in cui il disponente ha posto in essere il suo atto di disposizione a favore del trust. Ai fini dell’attrazione della residenza in Italia è, infine, irrilevante l’avvenuta erogazione del reddito a favore del beneficiario nel periodo d’imposta.
2. Si considerano, inoltre, residenti nel territorio dello Stato i trust istituiti in uno Stato che non consente lo scambio di informazioni quando, successivamente alla costituzione, un soggetto residente trasferisca a favore del trust la proprietà di un bene immobile o di diritti reali immobiliari ovvero costituisca a favore del trust dei vincoli di destinazione sugli stessi beni e diritti.
In tal caso, è proprio l’ubicazione degli immobili che crea il collegamento territoriale e giustifica la residenza in Italia.
Nelle due ipotesi considerate dalla norma, la residenza è attratta in Italia nel presupposto che il trust sia “istituito” in un Paese con il quale non è attuabile lo scambio di informazioni.
La norma vuole evidentemente colpire disegni elusivi perseguiti attraverso la collocazione fittizia di trust “interni” (trust con disponente, beneficiario e beni in trust nel territorio dello Stato) in paesi che non consentano lo scambio di informazioni.
In buona sostanza, ai fini dell’attrazione della residenza, rileva il fatto che un trust, caratterizzato da elementi collegati con il territorio italiano (un disponente e un beneficiario residente o immobili siti in Italia e conferiti da un soggetto italiano) sia “istituito” ossia abbia formalmente fissato la residenza in un paese non incluso nella white list.
Come conseguenza della presunzione di residenza fiscale nel territorio dello Stato, tutti i redditi del trust, ovunque prodotti, sono imponibili in Italia secondo il principio del world wide income.
Al contrario, per i trust non residenti, l’imponibilità in Italia riguarda solo i redditi prodotti nel territorio dello Stato ai sensi dell’art. 23 del Tuir.
Si ricorda che, fino all’emanazione della nuova white list ai sensi dell'articolo 168-bis del Tuir, sono compresi nella vigente white list i seguenti Paesi:
Albania; Algeria; Argentina; Australia; Austria; Azerbajan; Bangladesh; Belgio; Bielorussia; Brasile; Bulgaria; Canada; Cina; Corea del Sud; Costa d'Avorio; Croazia; Danimarca; Ecuador; Egitto; Emirati Arabi Uniti; Estonia; Federazione Russa; Filippine; Finlandia; Francia; Germania; Giappone; Grecia; India; Indonesia; Irlanda; Israele; Jugoslavia; Kazakistan; Kuwait; Lituania; Lussemburgo; Macedonia; Malta; Marocco; Mauritius; Messico; Norvegia; Nuova Zelanda; Paesi Bassi; Pakistan; Polonia; Portogallo; Regno Unito; Repubblica Ceca; Repubblica Slovacca; Romania; Singapore; Slovenia; Spagna; Sri Lanka; Stati Uniti; Sud Africa; Svezia; Tanzania; Thailandia; Trinidad e Tobago; Tunisia; Turchia; Ucraina; Ungheria; Venezuela; Vietnam; Zambia.
In entrambi i casi di attrazione in Italia di trust non residenti, la norma opera una presunzione relativa di residenza; rimane quindi la possibilità per il contribuente di dimostrare l’effettiva residenza fiscale del trust all’estero.
Ove compatibili, anche le disposizioni in materia di estero-vestizione delle società previste dall’art. 73 del Tuir, commi 5-bis e 5-ter, sono applicabili ai trust ed in particolare a quelli istituiti o comunque residenti in Paesi compresi nella white list, per i quali non trova applicazione la specifica presunzione di residenza di cui all’articolo 73, comma 3 del Tuir nella versione emendata dalla Legge n. 296 del 2007.
L’esterovestizione per i fondi immobiliari
Il Dl n. 112 del 2008 introduce nel Tuir una disciplina volta a contrastare la collocazione strumentale di società all'estero per sottrarsi all'imposizione in Italia, estendendo l'ambito di applicazione alla detenzione di quote di fondi immobiliari.
Articolo 73 - Soggetti passivi
(…)
5-quater. Salvo prova contraria, si considerano residenti nel territorio dello Stato le società o enti che detengano più del 50 per cento delle quote dei fondi di investimento immobiliare chiusi di cui all'articolo 37 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e siano controllati direttamente o indirettamente, per il tramite di società fiduciarie o per interposta persona, da soggetti residenti in Italia. Il controllo e' individuato ai sensi dell'articolo 2359, commi 1 e 2, del codice civile, anche per partecipazioni possedute da soggetti diversi dalle società. (…)
La presunzione di residenza opera solo se si verificano entrambi i presupposti:
1. patrimonio investito in misura prevalente in quote di fondi immobiliari italiani;
2. controllo della società o ente estero da parte di soggetti residenti.
Con il maxiemendamento, il presupposto (originariamente previsto dalle disposizioni del Dl n. 112 del 2008) della detenzione di più del 50% delle quote di un fondo, peraltro facilmente aggirabile e potenzialmente applicabile a fattispecie non elusive, viene sostituito con il requisito della "prevalenza". Tale previsione da un lato si rende la norma potenzialmente applicabile a prescindere dalla soglia di partecipazione al fondo del soggetto non residente; dall'altro fa sì che la presunzione non operi per quelle società estere che non si limitino a investire in un fondo immobiliare italiano, ma detengano, in prevalenza, ulteriori tipologie di investimento (holding estere "vere" che detengono anche altri investimenti).
In merito al secondo presupposto, vale a dire il controllo da parte di soggetti residenti, si noti che a differenza dell'articolo 73, comma 5-bis del Testo unico – che prevede una presunzione di localizzazione in Italia della sola sede dell'amministrazione della società estera – la norma in commento attribuisce direttamente la residenza italiana al soggetto estero, senza ancorarla ad alcuno dei criteri alternativi previsti dal comma 3. Pertanto, al fine di superare la presunzione di residenza in Italia, il soggetto non residente dovrà dimostrare che, oltre alla sede legale, sono all'estero sia l'oggetto principale dell'attività esercitata, sia la sede dell'amministrazione, ferma restando l'applicabilità delle convenzioni contro le doppie imposizioni.
ARTICOLO - Pubblicato il: 7 marzo 2013 - Da: G. Manzana E. Iori
La deducibilità del compenso amministratori è argomento che non tramonta mai. Si ricorderà l’estate del 2010 e l’ordinanza n. 18702 del 23 agosto 2010 con cui la Cassazione ha sostenuto che i compensi corrisposti agli amministratori di società di capitali non costituivano in ogni caso un costo deducibile. Dalla motivazione del provvedimento emergeva che era stato applicato l'articolo 62 del Dpr 917/1986, che disciplinava, fino al 31 dicembre 2003, le spese per prestazioni di lavoro nell'ambito della determinazione del reddito di impresa. Questa norma -che a differenza dell’attuale trattava del reddito d’impresa nell’ambito dell’Irpef e valeva solo per rimando anche per le società di capitali (gli allora soggetti Irpeg) - prevedeva la non deducibilità di somme a titolo di compenso del lavoro prestato o dell'opera svolta dall'imprenditore individuale, mentre al comma 3 prevedeva la deducibilità dei compensi spettanti agli amministratori delle società di persone aventi natura commerciale.
In sintesi secondo la Cassazione il regime di deducibilità dell’allora art. 62 del Tuir non era applicabile agli amministratori delle società di capitali essendo la loro prestazione assimilabile più a quella dell'imprenditore che a quella degli amministratori di società di persone. Per i giudici la posizione dell'amministratore delle società di capitali era equiparabile «sotto il profilo giuridico, a quella dell'imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l'assoggettamento all'altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione».
Secondo la dottrina (unanime), la tesi della Cassazione è errata e comunque veniva del tutto superata dalla riformulazione del testo della norma (nuovo art. 95) avvenuta con la riforma Ires (valida per gli esercizi dal 2004 in poi). Veniva evidenziato che nell’ordinanza la Suprema corte non avesse considerato che esisteva un'altra norma (l’allora art. 95 del Tuir) la quale estendeva la disciplina delle società di persone anche alle società di capitali e che una società ha una propria personalità giuridica (soggettività giuridica in caso di società di persone) che fa si che l’amministratore, ancorchè possa essere anche socio della società, sia soggetto in ogni caso distinto rispetto alla società.
Queste argomentazioni sono state fatte proprie dal Ministero dell’Economica; con la risposta al questione time del 30/9/2010 il Ministero, intervendo circa l’ordinanza 18702 13 agosto 2010 sull’annosa questione dell’indeducibilità a prescindere del compenso amministratori, aveva lasciato intendere di non intravedere alcun vincolo legale alla deduzione (se non l’effettivo pagamento, applicandosi il criterio di cassa). Sottolinea però, ritornando su argomento che si riteneva chiuso che, anche per i compensi in esame, la deduzione soggiace al requisito di inerenza previsto dall’art. 109, comma 5, del Tuir. Il Ministero pare voler richiamare un certo l’orientamento giurisprudenziale che, in passato, aveva legittimato il disconoscimento della deduzione di spese derivanti da atti “antieconomici” e dunque la possibilità per il Fisco di effettuare un sindacato di congruità degli importi attribuiti agli amministratori.
In tale contesto si inserisce la sentenza 24957del 10 dicembre 2010 della Corte di Cassazione la quale neppure affronta il tema dell’ordinanza dell’agosto 2010 - dando evidentemente per scontato che il Tuir comprende i compensi agli amministratori tra gli oneri deducibili - occupandosi invece della congruità degli importi corrisposti affermando, in linea con altre sentenze recenti, che l’importo del costo in esame è insindacabile, in quanto la formulazione attuale della norma non prevede più un limite pari agli importi di amministratori non soci.
Ma tale presa di posizione non convince l’amministrazione che con la Ris. 113/E/2012 riporta in primo piano la questione dell’antieconomicità e dell’abuso del diritto.
C’è poi il problema della deducibilità del compenso in mancanza di delibera.
L’entità del compenso
L'entità del compenso è decisione che di norma spetta all'assemblea dei soci (art. 2364, Codice civile), salva l'ipotesi di amministratori investiti di particolari cariche per i quali la misura del compenso è stabilita dal l'organo amministrativo (art. 2389, comma 3, Codice civile), a meno che lo statuto non affidi anche questa decisione all'assemblea. Il punto delicato è valutare se la misura del compensi deliberati possa essere disconosciuta dal Fisco se giudicata eccessivamente elevata. Negli anni si sono susseguite sentenze di cassazione di segno opposto anche conseguenti all’abrogazione della soglia massima per legittimare la deducibilità fiscale del compenso degli amministratori soci - soglia parametrata alla misura corrente degli emolumenti spettanti ad amministratori non soci - contenuta nel precedente Testo unico (Dpr n. 597 del 1973). Tanto per richiamarne alcune si ricorda le sentenze n. 6599 del 09/05/02; n. 21155 del 31/10/05; n. 28595 del 02/12/08 e n. 24957/2010 per le quali il sindacato di contruità non è possibile e altre (n. 12813 del 27/09/00, n. 13478 del 30/10/01, n. 20748 del 25/09/06) che lo ammettono.
Cass. n. 12813 del 27 settembre 2000
Cass. 30 ottobre 2001 n. 13478
Cass. 27 settembre 2000 n. 12813
Cass. n. 13478/2001
Una prima pronuncia in cui questa tesi fu riconosciuta valida si ha con la sentenza della Cassazione n. 12813 del 27 settembre 2000 (poi seguita dalle sentenze della Corte di Cass. 30 ottobre 2001 n. 13478 e Corte di Cass. 27 settembre 2000 n. 12813). Sulla base del principio generale secondo il quale l'amministrazione può valutare la congruità di costi e ricavi a prescindere dalla contestazione della loro veridicità, la Suprema corte ha riconosciuto fondati i rilievi del Fisco che aveva disconosciuto parte dei compensi erogati all'organo amministrativo.
La questione era inerente i compensi ad amministratori di società in nome collettivo ma la vicenda assume evidentemente contorni generali quando nella sentenza si afferma: “Per quanto attiene ai compensi degli amministratori delle società in nome collettivo, la loro deducibilità, riconosciuta dall'art. 62 del Tuir indipendentemente dal fatto che gli amministratori siano o non siano soci, non significa che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni sociali o contratti, e ciò a prescindere dall'invalidità di questi atti sotto il profilo civilistico”.
Secondo questa pronuncia, il Fisco avrebbe potuto procedere alla rettifica delle dichiarazioni dei redditi, sia pure nel rispetto dei principi dettati dal decreto sull'accertamento e dal Tuir in materia di reddito d'impresa, e negare in tutto o in parte la deducibilità dei costi, se eccessivi rispetto al montante ricavi o all'oggetto dell'impresa. E questo anche in mancanza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi degli atti giuridici compiuti nell'esercizio dell'attività imprenditoriale. I giudici precisano ulteriormente che il Fisco non poteva essere vincolato alle deliberazioni assembleari in tal senso e che questo percorso logico dovesse estendersi anche agli altri elementi di costo sostenuti dall'impresa (Cfr. Corte di Cass. Sentenza n. 13478/2001).
Cass. n. 6599 del 9 maggio 2002
Cass. n. 21155 del 31 ottobre 2005
La vicenda ha suscitato molte critiche per un motivo molto semplice: nel precedente Testo unico (Dpr n. 597 del 1973) era sì prevista una soglia massima per legittimare la deducibilità fiscale del compenso degli amministratori soci - soglia parametrata alla misura corrente degli emolumenti spettanti ad amministratori non soci - ma con l'entrata in vigore del Tuir questo parametro è stato abrogato. Sia nel precedente art. 62 sia nell'attuale art. 95 del Tuir non vi è traccia di alcun tetto limite quale condizione necessaria per la deduzione fiscale del compenso.
Da qui la tesi che la misura del compenso non sia oggetto di possibile sindacato di congruità da parte del Fisco. Questa tesi è stata sostenuta da altre e recenti pronunce della Suprema Corte tra, le quali vale la pena di ricordare la n. 21155 del 31 ottobre 2005 in cui emerge chiaramente l'insindacabilità della misura del compenso (prima la Cassazione n. 6599 del 9 maggio 2002).: “Questo orientamento è basato sul fatto che l'art. 62 del Tuir, nella sua nuova formulazione introdotta dal testo unico, non prevede più il richiamo a un parametro da utilizzare nella valutazione della entità dei compensi, per cui l'interprete non può che prendere atto della modificazione normativa e concludere per l'inesistenza del potere di verificare la congruità delle somme date ad un amministratore di società a titolo di compensi per l'attività svolta”. Va anche ricordato che la società ricorrente aveva aggiunto che in ogni caso il compenso erogato agli amministratori rappresentava il 2,6 per cento dei ricavi contabilizzati ed era da ritenersi congruo anche sulla base delle tariffe professionali dei dottori commercialisti chiamati a svolgere incarichi amministrativi.
La Suprema corte nella sentenza n. 6599/02 ricorda che l'articolo 59 del previgente Dpr n. 597 del 1973 aveva tentato di mettere un argine al fenomeno, sottoponendo i compensi degli amministratori soci ai limiti «delle misure correnti per gli amministratori non soci». Il fatto che tale elemento non sia stato accolto nelle disposizioni successive, elimina ogni possibilità di intervento, anche perché la norma antielusiva (articolo 37-bis del Dpr n. 600 del 1973) non è applicabile alle ipotesi di specie. Inoltre, sempre secondo il richiamato orientamento della Suprema Corte, il comportamento dell'impresa non sarebbe attaccabile neppure sul piano dell'inerenza, dovendo quest'ultimo requisito essere riferito alla "qualità" del costo e non alla sua "quantità".
In buona sostanza, se la spesa serve a produrre ricavi, sindacarne la misura corrisponderebbe a "sostituirsi" all'imprenditore, unico soggetto cui spetta la scelta delle strategie aziendali.
Il nuovo “filone” interpretativo fa notare che l'art. 62 del Tuir (oggi art. 95, comma 5) al comma 3 dispone, sic et simpliciter, che i compensi spettanti agli amministratori, anche in forma di partecipazione agli utili, si deducono nell'anno fiscale in cui sono corrisposti.
Pertanto, la Cassazione non vede in questa norma, né in altre, il riferimento a tabelle o ad altre indicazioni vincolanti sul piano della deducibilità fiscale degli emolumenti all'organo amministrativo. Vincoli che invece esistevano nella norma precedente al Tuir, ove nell'art. 59 del Dpr n. 597 del 1973 era espressamente previsto che i compensi agli amministratori erano deducibili “nei limiti delle misure correnti”. La mancanza nelle nuove norme del Tuir di questo vincolo alla deduzione delle remunerazioni amministrative e di una norma antielusiva generale, impongono al Fisco di osservare un limite netto e preciso al proprio potere di accertamento sulla congruità dei compensi agli amministratori e, in generale, di qualsivoglia voce di costo dell'impresa, onde evitare “il rischio concreto dell'arbitrarietà”.
Ordinanza 18702 del 13 agosto 2010
Con l’ordinanza 18702 del 13 agosto 2010, la Cassazione ha affermato, in base ad una lettura dell’art. 62 del Tuir (attuale art. 95), da più parti ritenuta superficiale ed erronea, che la legge impedisce alle società di capitali di dedurre i compensi erogati agli amministratori.
Il Ministero dell’economia (risposta al question time del 30 settembre 2010), intervendo circa l’ordinanza 18702 13 agosto 2010 sull’annosa questione dell’indeducibilità a prescindere del compenso amministratori (in merito si veda quanto viene detto dopo) aveva lasciato intendere di non intravedere alcun vincolo legale alla deduzione (se non l’effettivo pagamento, applicandosi il criterio di cassa), fermo restando che, anche per i compensi in esame, la deduzione soggiace al requisito di inerenza previsto per ogni onere di impresa dall’art. 109, comma 5, del Testo unico, requisito la cui sussistenza deve essere valutata caso per caso.
Con quest’ultima annotazione, l’Agenzia pare volesse richiamare un certo orientamento giurisprudenziale che, in passato, aveva legittimato il disconoscimento della deduzione di spese derivanti da atti “antieconomici”.
In tale contesto si inserisce la sentenza 24957/2010, sempre della Cassazione, la quale assume sulla questione un approccio legato al contenuto delle norme, sottolineando che non esistono attualmente disposizioni che legittimano un sindacato di congruità del Fisco sulla quantificazione dei compensi. Non lo prevede il Tuir (nel quale non compaiono più, come invece avveniva in passato, limiti connessi con la misura degli amministratori non soci), non lo consente la norma antielusiva in quanto l’art. 37-bis del DPR 600/73 non indica questa fattispecie.
Inoltre, a seguito del ricordato criterio di cassa che sovraintende la deduzione di questi oneri, l’erogazione di compensi di importo estremamente elevato non si presta attualmente a fenomeni di arbitraggio fiscale, considerando che il risparmio della società di capitali è limitato al 27,5% (gli emolumenti infatti non riducono l’imponibile Irap) mentre l’imposizione del manager (tra Irpef e addizionali) può arrivare al 43%, senza considerare gli oneri contributivi della società e dell’amministratore.
La Cassazione ha infine affermato che l’utilizzo del requisito di inerenza (richiamato dal Ministero nella risposta del 30 settembre 2010), al fine di verificare la deducibilità dei compensi in relazione all’importo, appare poco proficuo, dato che l’inerenza rileva sotto il profilo della qualità del componente reddituale piuttosto che della sua quantificazione.
Nell’attuale sistema, chiarisce infine la sentenza, la spettanza e la deducibilità dei compensi agli amministratori è dunque determinata dal consenso che si forma tra le parti o nell’ente (art. 2364 e art. 2389 c.c.), senza che al Fisco sia riconosciuto un potere specifico di valutazione di congruità.
È evidente il contrasto che emerge nella giurisprudenza della Suprema corte che ha prodotto diverse sentenze alternativamente ispirate alla tesi della sindacabilità e dell'insindacabilità dell'entità del compenso. La tesi che evidentemente appare più rispettosa del nuovo dato normativo, e l'unica in grado di spiegare il motivo per cui da un testo in cui era presente un parametro si è passati all'attuale norma priva di qualunque tetto di congruità, è quella che vede la misura del compenso quale decisione che spetta solo al l'organo sociale deputato a prenderla senza che il Fisco possa esercitare alcun sindacato di congruità. Quest’ultima tesi, peraltro, oltre che più recente, è sicuramente maggioritaria.
E è in tale contesto che si inserisce la ris. 113/E/2012 che sottolinea che in sede di controllo la deduzione può essere disconosciuta qualora i compensi risultino “insoliti, sproporzionai o strumentali all’ottenimento di indebiti vantaggi”, argomenti che riguardano questioni legate all’antieconomicità e dell'abuso del diritto (che peraltro sono vicende assolutamente distinte).
Quando il documento dell'Agenzia fa riferimento ai compensi "insoliti e sproporzionati" evidentemente allude alla vicenda dell'antieconomicità; quando, invece, il documento menziona l'"ottenimento di indebiti vantaggi" fa riferimento alla questione dell'abuso.
Per quanto concerne l'antieconomicità, il riferimento è a valori di spesa sproporzionate o "abnormi".
La questione dell'antieconomicità è da ricondurre all'inerenza, che è il principio che nella determinazione del reddito d'impresa coniuga quello (costituzionale) di capacità contributiva. La deduzione di una spesa o di un costo non è infatti una gentile concessione del legislatore (o dell'amministrazione), visto che il reddito d'impresa va assunto nella sua interezza, contrapponendo, in primo luogo, componenti positivi e componenti negativi inerenti. L'inerenza, che è questione prima economica e poi civilistica e fiscale, rappresenta quel collegamento tra un componente economico e l'attività esercitata, o da esercitarsi, da parte dell'imprenditore. Se non vi è questo collegamento, l'amministrazione deve ritenere indeducibili i componenti negativi (visto che è di quest'ultimi che si parla a proposito dell'inerenza). Chiaramente, quando l'Agenzia sostiene la sproporzionalità delle spese e non le ammette interamente in deduzione, deve giustificare le ragioni secondo le quali queste si ritengono non collegabili con la funzione economica dell'impresa. Non basta affermare che le spese sono troppo "alte". L'amministrazione ha l'onere di rappresentare i motivi per i quali quelle spese, in quanto sproporzionate, difettano del necessario collegamento con l'attività d'impresa (l'inerenza è questione sostanzialmente qualitativa e non quantitativa). In questo caso è sbagliato parlare di un onere di prova, riguardando quest'ultimo i fatti e non le valutazioni. L'inerenza è una questione di valutazione, quindi si può parlare di un onere di allegazione da parte dell'amministrazione delle motivazioni secondo le quali la spesa risulta non inerente. Invece, nei casi in cui l'Agenzia rettifica una spesa ritenuta troppo alta e la riduce di una determinata percentuale, si è in presenza di una presunzione semplice, per cui l'amministrazione deve portare (al giudice) degli elementi convincenti (gravi, precisi e concordanti) in grado di stabilire che l'ammontare della spesa non è, ad esempio, pari a 100 ma a 40. Ne consegue quindi che l'antieconomicità non può, da sola, costituire il "quadro accusatorio" della rettifica, ma solo un indizio che, unitamente ad altre considerazioni, può qualificare la presunzione a favore del Fisco e invertire l'onere della prova.
Si può ben comprendere che elusione e abuso sono temi assolutamente contigui: l'abuso "allarga" semplicemente il concetto di elusione, che il legislatore aveva confinato a fattispecie casistiche.
Anche per l'abuso del diritto, va detto che probabilmente è sbagliato parlare di un onere di prova. Normalmente nell'abuso non si è in presenza di fatti da provare e mai di presunzioni. L'abuso è una questione di valutazione dei fatti, per la quale l'amministrazione ha l'onere di allegare i motivi per i quali il contribuente avrebbe conseguito un vantaggio fiscale indebito (Cfr. Compensi eccessivi, niente sconti, D.Deotto, Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2013).
La deducibilità del compenso in caso di mancanza di delibera assembleare
Ci si potrebbe chiedere se la deducibilità fiscale delle remunerazioni erogate agli amministratori sia condizionata dalla regolarità civilistica della procedura adottata dalla società per l'assunzione dell'obbligo e del relativo pagamento.
Sul piano civilistico il compenso agli amministratori è regolato, tra gli altri, dagli artt. 2364, 2389, 2432 e 2421, Codice civile; in particolare, tali norme prevedono che la determinazione del compenso agli amministratori compete all'assemblea dei soci. Il problema si pone nel caso in cui difetti una delibera: perché non si sia provveduto alla verbalizzazione di una deliberazione effettivamente adottata o perché non si sia deliberato alcunché. In materia societaria vige uno statuto speciale che fissa termini di decadenza assai ristretti per impugnare gli atti societari, spirati i quali una delibera (trasfusa in un verbale di assemblea) in ipotesi viziata, non è più impugnabile.
Cass. sentenza n. 2832/2001
Sul tema, su un piano squisitamente civilistico, è intervenuta la Cassazione con la sentenza n. 3774/1995, pronunciata su un motivo di ricorso proposto nei confronti di una sentenza che aveva dichiarato l'illegittimità della ratifica, mediante approvazione del bilancio, dei compensi che gli amministratori di una società per azioni si erano autodeterminati, senza preventiva delibera dell'assemblea (e pertanto con affermazioni che ne costituiscono la ratio decidendi e non mero obiter dictum), il compenso «può essere inserito in bilancio, in quanto sia stato deliberato dalla assemblea con un'autonoma decisione, che non può essere implicita nella approvazione del bilancio stesso». Cass. sentenza n. 3774/1995
Di contro, con la sentenza n. 2832/2001 la Cassazione ha affermato che l'approvazione del bilancio nel quale figuri iscritta la voce relativa al compenso ha valore giuridico di approvazione e ratifica dell'operato dell'amministratore che si sia attribuito tale compenso senza che l'assemblea lo abbia previamente deliberato. L'approvazione del bilancio, infatti, costituirebbe manifestazione di volontà specificamente diretta all'approvazione di tale attribuzione, perchè non costituirebbe una mera presa d'atto di dati contabili, ma rappresenterebbe un atto di appropriazione del rapporto da parte della società e pertanto una ratifica.
Affermando tale principio la sentenza richiama la Cassazione n. 6935/1983 la quale, pronunciando in una fattispecie in cui un soggetto poi nominato amministratore di una società di capitali, in epoca antecedente alla costituzione, aveva stipulato un contratto di locazione, ha ritenuto che la delibera di approvazione del bilancio, in cui sia incluso il debito per i relativi canoni, non costituendo una mera dichiarazione di scienza, nè un semplice atto unilaterale ed interno, ma un atto in cui rileva la volontà che sta alla base della formazione della deliberazione stessa, ove sia provata la conoscenza dell'instaurazione del rapporto locativo da parte dell'assemblea, costituisce un atto di appropriazione di tale rapporto da parte della società e vale come ratifica dell'atto posto in essere da chi ha agito in nome della società stessa senza averne il potere.
Cass. sentenze n. 28243/2005 e n. 11490/2007.
Il principio affermato con la sentenza n. 2832 del 2001, è stato condiviso, in modo espresso e mediante rinvio esplicito, dalla successiva sentenza n. 28243/2005, e implicitamente da Cassazione n. 11490/2007, che tuttavia ha negato che, allo scopo di valutare la possibilità di sanare l'autoattribuzione di compensi da parte dell'amministratore, non preventivamente deliberata dall'assemblea, mediante delibera di approvazione di bilancio, sia sufficiente l'affermazione del principio di diritto astratto di cui alla decisione del 2001, essendo necessario che in concreto siano indicati gli elementi probatori dai quali risulti che la specifica spesa era stata acquisita al bagaglio istruttorio della delibera relativa al bilancio.
La stessa duplicità di orientamenti evidenziata all'interno della giurisprudenza di legittimità si è registra anche nella giurisprudenza di merito e nella dottrina.
Cass. Sezione Unite con la sentenza del 29 agosto 2008, n. 21933.
In tempi successivi alle sentenze sopra riportate è intervenuta la Cassazione a Sezione Unite con la sentenza del 29 agosto 2008, n. 21933. Viene detto che i compensi degli amministratori devono essere determinati con una delibera societaria specifica in quanto non si può pensare che questa delibera possa essere implicita in quella che ha approvato il bilancio.
Nella sostanza le Sezioni unite per arrivare alla conclusione più restrittiva sottolineano innanzitutto che il tema della remunerazione degli amministratori delle società di capitali (che, sulla base della riforma del 2003 può essere costituita in tutto o in parte da partecipazioni agli utili o dall'attribuzione del diritto di sottoscrivere a prezzo predefinito azioni di futura emissione) è tra i più importanti nell'ambito delle problematiche del governo societario. Tanto che la Commissione europea è più volte intervenuta sul punto e il Testo unico sull'intermediazione finanziaria è stato modificato in alcuni aspetti, sempre alla ricerca di un equilibrio tra gli interessi dei soggetti che hanno compiti di direzione delle società e quelli degli azionisti.
L'articolo del Codice civile che disciplina la materia, il 2389, nella lettura delle Sezioni unite, ha una natura imperativa e inderogabile «sia perché, in generale, le discipline della struttura e del funzionamento delle società regolari sono dettate (anche) nell'interesse pubblico al regolare svolgimento dell'attività commerciale e industriale del Paese, sia perché la loro violazione, in particolare la percezione di compensi non previamente deliberati dall'assemblea era prevista dall'articolo 2630, 2° comma n. 1, del Codice civile (...) come delitto che non poteva essere certo scriminato dall'approvazione del bilancio successiva alla consumazione».
Le delibere di approvazione del bilancio e di determinazione del compenso degli amministratori hanno poi oggetti chiaramente diversi. La prima è indirizzata a controllare la legittimità di un atto di competenza degli amministratori, approvandolo o no, mentre l'altra ha la funzione di determinare o stabilire la la remunerazione dei manager. In ogni caso, mette ancora in evidenza la sentenza, anche a volere ipotizzare l'ammissibilità di una ratifica tacita della autodeterminazione del compenso da parte dell'amministratore sarebbe necessaria la prova che, approvando il bilancio, l'assemblea è a conoscenza del vizio ha espresso la volontà di fare proprio l'atto compiuto dall'organo privo di potere non potendo invece essere considerata sufficiente una generica delibera di approvazione.
Prendendo poi in considerazione le pronunce sia di merito sia di legittimità che hanno seguito un indirizzo diverso, le Sezioni unite ricordano che si è di solito trattato di sentenze che non hanno riguardato la violazione di norme imperative come avviene invece nel caso di quelle sui compensi degli amministratori. La stessa dottrina ritiene poi che l'ammissibilità di delibere tacite o implicite sia in contrasto con le regole di formazione della volontà della società e in particolare con la disciplina del Codice civile che stabilisce l'indicazione esplicita dell'ordine del giorno degli argomenti sui quali deliberare in maniera tale da permettere la partecipazione all'assemblea di soci preparati.
Per le Sezioni unite, infine, va conservata la distinzione tra approvazione del bilancio e degli atti gestori a esso sottostanti; distinzione che deve trovare un riflesso anche nella separata indicazione nell'ordine del giorno tra i punti da trattare. L'unica possibilità di un'approvazione dei compensi contestualmente al bilancio è nella prova che l'assemblea dopo avere licenziato il rendiconto ha affrontato e approvato in maniera esplicita il nodo della retribuzione.
La posizione degli organi verificatori è spesso improntata alla valorizzazione, anche sotto il profilo fiscale, della carenza di deliberazione. Gli argomenti utilizzati sono riconducibili essenzialmente al difetto di certezza del costo sostenuto, anche sotto il profilo della mancanza di data certa; e, ancor prima, alla carenza di un idoneo titolo di pagamento. Secondo alcuni, l'eccessiva asprezza di questa conclusione (che cozza anche contro ragioni di "simmetria" fiscale nel caso di regolare tassazione dell'emolumento da parte dell'amministratore) invita a valutare interpretazioni alternative, che però non possono prescindere dal superamento di un ostacolo significativo: la carenza di una delibera determina l'inesistenza del titolo giuridico che legittima il pagamento. In questo caso, infatti, la società mantiene in astratto il diritto alla ripetizione dall'amministratore delle somme "indebitamente" versate. Se il diritto alla restituzione viene non attivato dalla società, si potrebbe configurare una liberalità e, come tutte le donazioni, un onere non rilevante nei rapporti con il Fisco (Cfr.G. Maccagnani e G.P. Ranocchi, Delibera anche retroattiva, Il Sole 24 Ore 27 marzo 2006).
In questa prospettiva va segnalato che nulla impedisce alla società di adottare una delibera dotata di tutti i crismi formali che "sani" la situazione con efficacia espressamente retroattiva (si badi a scanso di equivoci che la delibera in ratifica sarebbe adottata al momento, ad esempio, della verifica fiscale; e si tenga anche nel giusto conto, dell'orientamento ministeriale e giurisprudenziale, a proposito della non utilizzabilità in sede contenziosa dei documenti non esibiti nel corso della verifica). All'eccezione del Fisco secondo cui in questo caso il requisito della certezza sarebbe difettoso perché acquisito posteriormente alla data di deduzione del costo, potrebbe obiettarsi, che sussistono plurimi elementi oggettivamente incardinati nel tempo (ad esempio l'annotazione dei movimenti nelle scritture contabili, i versamenti periodici delle ritenute, il rilascio delle certificazioni, gli elementi risultanti dai bilanci approvati e depositati), indirettamente ma inequivocabilmente idonei a conferire, pur a posteriori, la certezza oggettiva del costo, tale da renderlo fiscalmente deducibile.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 gennaio 2013 - Da: G. Manzana E. Iori
Il Decreto del 24 dicembre 2012, determinando i conteggi necessari per definire il reddito complessivo accertabile, rende operativo il nuovo redditometro le cui modifiche sono state apportate dall’art. 22 del Dl 78/2010 e la cui norma a regime è contenute al comma 5 dell’art. 38 del Dpr 600/1973.
E’ quindi a tale norma che occorre partire al fine di considerare la reale portata della modifica normativa intervenuta.
Le modifiche apportate all’art. 38 del Dpr 600/1973 dal Dl 78/2010
L’art. 22 del Dl 78/2010, al fine di adeguare l’accertamento redditometrico al nuovo contesto socio economico (si consideri che questo metodo di accertamento ha la propria fonte normativa «primaria» nell’art. 38, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 ma risale agli anni ‘50 e ai criteri di determinazione induttiva del reddito basati sul «tenore di vita del contribuente» - art. 137, Tuid del 1958) ha messo mano al contenuto dei vari commi del’art. 38 del Dpr 600/1973.
1. Gli elementi a base della determinazione induttiva del reddito
Viene espressamente detto che gli elementi indicativi di capacità contributiva verranno individuati “mediante l’analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza”.
Si tratta della vera novità: il nuovo accertamento da redditometro risulta maggiormente "calibrato" in funzione del nucleo familiare e dell'area territoriale di appartenenza del contribuente abbandonando elementi di capacità di spesa superati e incapaci di portare a una determinazione statistica del reddito coerente con un certo tenore di vita.
Che individua tali elementi è il Decreto del 24 dicembre 2012. Si è passati da uno strumento (quello individuato nel Dm 10 settembre del 1992) che da alcune (poche) voci di beni e servizi indicativi di una propensione alla spesa associata al contribuente che ha da disponibilità del medesimo bene e servizio a uno strumento (quello individuato dal Decreto del 24 dicembre 2012) che considera un elenco onnicomprensivo di voci di beni e servizi associate a un ben definito cluster di contribuente (rectius: tipologia di famiglia).
Si passa quindi da uno strumento che il reddito presunto viene determinato applicando alle voci di
spese gli effetti incrementativi del reddito accertabile, dovuti, ai sensi dell'articolo 3 del Dm 10 settembre 1992, al coefficiente, a uno che considera la sommatoria degli esborsi anche presunti.
Voci e relativi criteri di valorizzazione per il reddito presunto
- Per 30 voci di spesa per consumi su 56 individuate nella tabella A del decreto (tra cui gas, energia elettrica, collaboratori domestici), si considerano le spese effettivamente sostenute dal contribuente, che risultano dai dati o dalle informazioni di cui l'amministrazione finanziaria è a conoscenza
- Per 24 voci di spesa per consumi su 56 (per esempio alimentari, abbigliamento, medicinali) si considera il maggiore valore tra quello Istat – o quello risultante da studi socio economici (solo per aeromobili, imbarcazioni e cavalli) – e quello effettivamente sostenuto dal contribuente di cui l'amministrazione è a conoscenza
- Per 2 voci di spesa per consumi su 56 si considerano i valori figurativi (quello Istat per "pasti e consumazioni fuori casa" e "il fitto figurativo al metro quadrato basato sui valori OMI" quando si utilizza un'abitazione a titolo diverso dalla proprietà, dalla locazione o dall'uso gratuito da familiari)
Ai fini della determinazione induttiva del reddito complessivo del contribuente tali voci vengono considerate senza coefficienti o moltiplicatori (come invece succedeva nel vecchio redditometro).
A queste va poi sommato:
- il valore degli investimenti (tra cui acquisto di immobili, autovetture, polizze assicurative, azioni) che vanno considerati al netto dei disinvestimenti dell'anno e dei disinvestimenti netti dei quattro anni precedenti all'acquisto
- la quota di risparmio dell'anno
- Altre spese diverse da quelle della tabella A, di cui l'amministrazione finanziaria è a conoscenza, per l'ammontare effettivamente sostenuto.
Questo passaggio è un punto molto delicato in quanto è attorno a questo elemento che si gioca la sfida della credibilità dello strumento e, conseguentemente, della prova che dovrà essere data in caso di difesa. Il nuovo redditometro, infatti, mantenendo delle voci di spesa determinata in modo figurativo, non individua una forma di accertamento riconducibile a quello sintetico puro (inteso come co. 4 dell’art. 38) ma è fuori discussione che porti alla determinazione di un dato che, rispetto a quello precedente, aumenta di credibilità.
2. L’utilizzo degli incrementi patrimoniali per la determinazione induttiva del reddito
Sparisce la previsione degli incrementi patrimoniali. Stando il redditometro vecchia versione il reddito complessivo netto imponibile veniva determinato avendo a riferimento oltre che alla c.d. capacità gestionale del contribuente, ossia il reddito necessario per il contribuente per gestire i propri beni, anche alla capacità patrimoniale del contribuente, riferita ad una serie di negozi e atti incrementativi del proprio patrimonio. A tal fine si presumeva che la spesa era stata sostenuta con redditi conseguiti nell'anno e nei quattro precedenti con l’effetto quindi che gli incrementi patrimoniali rilevavano per un quinto.
Nel nuovo redditometro sparisce il riferimento agli incrementi patrimoniali. Ciò non vuol dire che degli incrementi patrimoniali non si tiene più conto; viceversa significa che della spesa per incrementi patrimoniali, al pari di qualunque altra spesa, gli Uffici nel calcolo del reddito presunto ne terranno conto per intero (nell’anno di sostenimento) e non per un quinto.
Telefisco 2011
I5) Quesito Nel concetto di “spese di qualsiasi genere” rientrano anche quelle che in passato erano annoverabili tra le spese per incrementi patrimoniali ?
Risposta Si conferma che tra le spese “di qualsiasi genere sostenute nel periodo d’imposta” e che rilevano nella determinazione sintetica del reddito rientrano anche quelle che nella disposizione normativa previgente erano individuate come “spese per incrementi patrimoniali”.
Telefisco 2011
I6) Quesito Visto che la norma parla di “spese di qualsiasi genere sostenute” si reputa che occorra avere riguardo al principio di cassa. Pertanto, se, ad esempio, nel 2010 viene corrisposto un acconto per l’acquisto di un immobile pari a 50.000 euro e nel 2011 viene corrisposto il saldo per 150.000 euro, la “spesa” di 50.000 euro può essere imputata a maggiore reddito del 2010 e quella di 150.000 euro al maggiore reddito del 2011?
Risposta Si conferma che in presenza corresponsione di un acconto per l’acquisto di un immobile pari a 50.000 euro nel 2010 e di un saldo per 150.000 euro nel 2011, ai fini dell’accertamento sintetico ex art. 38, IV comma, del DPR n. 600/73 rileverà solamente, per il 2010, l’acconto e per il 2011 il saldo.
Circ. 28/E del 2011 - 6.2 Spesa per l’acquisto di un bene di natura patrimoniale sostenuta tramite finanziamento
Domanda
Qualora l’acquisto di un bene di natura patrimoniale avvenga tramite finanziamento (mutuo, leasing etc) poiché il quarto comma dell’art. 38 parla di “spese sostenute nel corso del periodo d’imposta” si può fondatamente ritenere che in tali casi, ai fini dell’accertamento sintetico, rileveranno soltanto le quote o i canoni pagati nell’anno e non l’intero valore del bene?
Risposta
Si conferma che in presenza di acquisto di un bene di natura patrimoniale effettuato tramite finanziamento (mutuo, leasing etc) ai fini dell’accertamento sintetico, ex art. 38, IV comma, D.P.R. n. 600 del 1973 rileveranno solamente le quote o i canoni pagati nell’anno che andranno ad aggiungersi alle altre spese sostenute nel corso del periodo d’imposta esaminato.
3. L’entità dello scostamento (tra presunto e dichiarato) per giustificare l’accertamento
Viene ridotto l’entità dello scostamento ai fini dell’accertamento: in base alla nuova norma la rettifica potrà essere operata quando il reddito presunto si discosta di almeno un quinto rispetto a quello dichiarato (20%); nella precedente versione normativa lo scostamento richiesto era di un quarto (25 %).
La norma dispone che dal reddito complessivo determinato sinteticamente (compreso quello da redditometro) risultano deducibili gli oneri di cui all’art. 10, del Tuir e che competono, per gli oneri sostenuti dal contribuente, le detrazioni dall’imposta lorda previste per legge.
Telefisco 2011
I8) Quesito Lo scostamento di un quinto (in precedenza, un quarto) tra il reddito accertabile e quello dichiarato si calcola sul reddito determinabile sinteticamente, come affermò in passato il Secit, nella relazione del 31 ottobre 1993?
Risposta La disposizione normativa chiarisce espressamente, al comma VI del novellato art. 38 del DPR 600/73, che la determinazione sintetica del reddito è ammessa a condizione che il reddito complessivo accertabile ecceda di almeno un quinto il reddito dichiarato.
Telefisco 2012
I 3) NUOVO ARTICOLO 38, COMMA 6, DEL DPR 600/1973
Si ponga, ad esempio, che il maggiore reddito accertabile per effetto dell’accertamento sintetico risulti pari a 100 mila euro; il contribuente ha dichiarato un reddito complessivo pari a 82 mila euro. L’accertamento sintetico è effettuabile? In altri termini, l’”un quinto” si calcola su 100 mila o su 82 mila euro?
La disposizione normativa prevede che la determinazione sintetica del reddito è ammessa a condizione che il reddito complessivo accertabile ecceda di almeno un quinto il reddito dichiarato. Detta previsione non si discosta, per la determinazione della detta eccedenza, dalla precedente formulazione. Pertanto, in continuità con il regime precedente, si ritiene che la norma vada interpretata considerando la percentuale riferita al reddito dichiarato. Con riguardo all’esempio oggetto del quesito, il calcolo dell’eccedenza (un quinto) si baserà sul reddito dichiarato pari a 82 mila euro e, pertanto, l’accertamento pari a 100 mila euro sarà effettuabile. Occorre, comunque, specificare che l’Agenzia effettuerà analisi del rischio dirette a selezionare le posizioni dei contribuenti che presentano incongruenze significative tra le spese sostenute per consumi e investimenti ed il reddito dichiarato.
4. Il ripetersi della non congruità per giustificare l’accertamento
Nel nuovo redditometro è sufficiente essere non congrui nel singolo periodo d’imposta per essere accertato. Cade quindi la condizione essenziale, esistente in quello vecchio, che affinché l'accertamento risultasse legittimo occorreva che il contribuente fosse risultato "non congruo" in almeno due periodi d'imposta (in ogni caso, come detto sopra, lo scostamento - sia per il sintetico che per il redditometro – deve comunque essere almeno pari a un quinto del reddito dichiarato).
Il fatto che il contribuente dovesse risultare non congruo in almeno due periodi d'imposta era una conseguenza del presupposto del redditometro basato sulla disponibilità di un determinato bene o di un servizio (e non sulla spesa sostenuta). Infatti, la disponibilità di questi ultimi doveva individuare la possibilità di mantenimento nel tempo dei beni o dei servizi e, quindi, doveva rappresentare un reddito periodico e non occasionale. Tale modifica è dovuta al fatto che il baricentro del nuovo redditometro si è spostato più sulla spesa effettiva che su quella figurativa, vale a dire sulla spesa sostenute più che sui beni a disposizione dei contribuenti.
5. L’obbligatorietà del contraddittorio
Il nuovo comma 7. prevede che “L’Ufficio che procede alla determinazione sintetica dal reddito complessivo ha l’obbligo di invitare il contribuente a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento e, successivamente, di avviare il procedimento di accertamento con adesione ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218”.
Vengono quindi previsti due momenti (obbligatori):
1) il primo al fine di permettere al contribuente di fornire dati e notizie
2) un secondo, il contraddittorio dell'accertamento con adesione.
Nel precedente redditometro, il contraddittorio non era previsto per legge con la conseguenza che le circostanze di fatto in base ai quali il reddito veniva rideterminato non devono essere preventivamente contestate al contribuente; ciò anche se, è bene evidenziare, la circolare n. 49 del 2007 comunque invita gli uffici ad utilizzare il contraddittorio preventivo e, a partire dall’introduzione (o, meglio, dalla esplicita formalizzazione, con la Legge 212/2000 sullo Statuto dei diritti del contribuente) del principio di «collaborazione» fra Amministrazione finanziaria e contribuente (art. 10, L. 212/2000), il «contraddittorio preventivo» dovrebbe essere la «regola» nel procedimento di accertamento dei tributi, così come si può (indirettamente) evincere da taluni recenti pronunciamenti delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cfr. Cass., Sentenza 18 dicembre 2009, n. 26635, in cui – a proposito di applicazione di parametri e studi di settore – la Corte pare voler rinvenire nel «sistema» un principio generale di attivazione del «contraddittorio preventivo»). Se tutto questo, in prima battuta, è visto come garanzia per il contribuente, potrebbe tradursi in collaborazione forzosa; infatti, non va dimenticato come già alla prima chiamata il contribuente dovrà fornire all’Ufficio tutti i dati e le notizie che ritiene utili per la sua difesa pena, oltre alla sanzione di natura economica, la sterilizzazione degli elementi richiesti e non addotti (ai sensi del co. 7 dell’art. 32 del Dpr 600/1973). A ciò va poi aggiunto che il diritto del contribuente di volersi difendere davanti al giudice tributario (e non anche prima in sede amministrativa) potrebbe cosargli caro considerato che quest’ultimo potrebbe valutare non positivamente la sua mancata cooperazione, sulla falsariga del solco giurisprudenziale tracciato dalle sezioni unite della Cassazione in materia di contraddittorio preventivo da studi di settore (Cfr. Sent. Sez. Unite 26.635 del 2009) .
E’ anche vero però che le informazioni date dal contribuente durante il primo incontro, oltre a consentire alle Entrate di proseguire più agevolmente l'istruttoria, nel caso in cui l'Agenzia intendesse comunque procedere alla notifica dell'avviso perché non ha ritenuto valide le deduzioni del contribuente, si obbliga l'ufficio a una motivazione "rinforzata" dell'atto. Ossia l'Agenzia dovrà spiegare perchè sono state disattese le argomentazioni difensive del contribuente, pena la nullità dell'atto stesso per difetto di motivazione (peraltro anche in caso di utilizzo delle c.d. “clausole di stile” (Cfr. Cass., 7 ottobre 1987, n. 7495 sia la Corte costituzionale ordinanza n. 244 del 24 luglio 2009).
ANNAULITA’ ANTE 2009
Il nuovo accertamento sintetico non manderà in pensione quello vecchio. Espressamente viene detto che avrà effetto “per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non e ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto” vale che si applicherà per gli accertamenti relativi al periodo d’imposta 2009 e successivi. Sul punto è già stato fatto notare che tale previsione non sembra in linea con quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità sulle precedenti revisioni del redditometro, per le quali è sempre stata sostenuta la natura procedimentale e, quindi, l'effetto retroattivo (CAss. 13318 del 2007, Cass., Sez. Ia Civ., Sent. 11 agosto 1995, n. 8812; Sent. 20 giugno 2001, n. 8372; Sez. Trib., Sent. 4 settembre 2001, n. 11366; Sez. Trib., Sent. 5 ottobre 2005, n. 19403; 23 giugno 2006, n. 14692; Sez. Trib., Sent. 28 giugno 2006, n. 14951; 30 giugno 2006, n. 15124; Sez. Trib., Sent. 9 agosto 2006, n. 17986. Cass., Sez. Ia Civ., Sent. 1 settembre 1999, n. 9209; Sez. Trib., Sent. 15 giugno 2001, n. 8116). Si dirà, probabilmente, che questa modifica non si limita a rivedere i decreti attuativi, ma, viceversa, attua una vera e propria rivoluzione dell'accertamento sintetico e di quello redditometrico, per cui non si può pensare a una validità retroattiva del nuovo strumento. Su questo aspetto, però, non si è completamente d'accordo, in quanto il presupposto di base dell'accertamento sintetico, così come di quello redditometrico, sostanzialmente non muta. Infatti, sia prima, sia con la manovra economica 2010, il fondamento è quello della ricostruzione del reddito attraverso le spese sostenute dal contribuente. Va rilevato che lo stesso principio valeva anche per il vecchio redditometro: quest'ultimo si basava sulla disponibilità di determinati beni (autovetture, abitazioni eccetera), la quale comunque voleva rappresentare la capacità di mantenimento da parte del contribuente dei beni stessi e, quindi, una spesa. Solamente che con il vecchio redditometro si avevano dei risultati molte volte irrazionali. Quello operato con il Dl 78/2010 appare, quindi, un intervento di chiara natura procedimentale e non di tipo sostanziale, per cui sembrerebbe lecita l'applicazione anche retroattiva. Sicché, la norma relativa all'entrata in vigore delle nuove disposizioni parrebbe illegittima, in quanto lesiva del principio di difesa di cui all'articolo 24 della Costituzione (in merito si veda D. Deotto, Spesa e famiglia misurano il reddito. Il Sole 24 Ore 11 giugno 2010).
La questione è assolutamente rilevante in quanto avendo il redditometro spostato il baricentro di determinazione del reddito induttivo da voci di beni e servizi indicativi di una propensione alla spesa a un elenco tendenzialmente onnicomprensivo di voci di beni e servizi associate a un ben definito cluster di contribuente (rectius: tipologia di famiglia) considera la voce di spesa per l’entità dell’esborso. E da tale situazione emerge che i valori presuntivi sono spesso inferiori rispetto a quelli risultanti dal vecchio strumento. È il caso delle autovetture, o ancora del canone di locazione per l'abitazione principale: con il vecchio metodo, esso si sommava al valore base e poi si moltiplicava per un coefficiente, e ciò comportava la triplicazione del reddito rispetto al canone effettivamente pagato. Ora, invece, la locazione rileva per quanto risulta da contratto e si sommano le possibili spese (utenze, manutenzioni ecc) su base statistica.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 gennaio 2013 - Da: G. Manzana E. Iori
In relazione al vecchio redditometro, la Cassazione ha sempre precisato che si tratta di una presunzione legale relativa, la quale inverte l'onere probatorio e lo addossa sul contribuente.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 5 marzo 2003, n. 10350, dep. il 1° luglio 2003, ha affermato che « (...) la determinazione del reddito effettuata (...) sulla base dell’applicazione del cosiddetto redditometro dispensa l’Am-ministrazione finanziaria da qualunque ulteriore prova rispetto ai fatti indici di maggiore capacità contributiva, individuati dal redditometro stesso e posti a base della pretesa tributaria fatta valere, e pone a carico del contribuente l’onere di dimostrare che il reddito presunto sulla base del redditometro non esiste o esiste in misura inferiore».
In materia la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 283/1987, ha sancito riguardo «(...) al richiamo alla disciplina delle presunzioni semplici dettata dall’art. 2729 cod. civ., che esso è inconferente, essendo le presunzioni alle quali fa riferimento l’art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973, presunzioni legali». Pertanto, essendo la norma in commento a predeterminare il nesso tra il fatto noto (le spese) ed il fatto ignoto (il reddito imponibile) ed ammettendo la stessa la prova contraria da parte del contribuente, il meccanismo del redditometro si basa su una presunzione relativa. La Corte Costituzionale ha ribadito il citato orientamento nell’ordinanza 28 luglio 2004, n. 297, affermando «che i metodi di accertamento induttivo previsti dall’art. 38, quarto comma, del D.P.R. n. 600 del 1973, pur se fondano l’accertamento su presunzioni iuris tantum e non iuris et de iure (v. ordinanza n. 7 del 2001), sono rispettosi dell’art. 53 della Costituzione, in quanto ancorano l’accertamento ad elementi che debbono essere rigorosamente dimostrati e sono idonei a costituire fonte sicura di rilevamento della capacità contributiva».
La Cassazione, con la sentenza n. 2656/2007, ha sancito la legittimità del metodo di accertamento sintetico applicato dai verificatori sulla base di beni quali l’automobile, l’abitazione ed il premio di assicurazione, segnalati con un questionario compilato dal medesimo contribuente. In sostanza, secondo i giudici della Suprema Corte «l’art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973, che disciplina i criteri di rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche, prevede che il controllo della congruità delle stesse venga effettuato partendo da dati certi e utilizzando gli stessi come indici di capacità di spesa per dedurne, avvalendosi di specifici e predeterminati parametri di valorizzazione (cd. redditometro), il reddito presuntivamente necessario a garantirla».
Diversamente, una parte della dottrina ha sempre ritenuto che «non vanno confusi con la presunzione legale i casi in cui la legge autorizza gli uffici finanziari a servirsi di presunzioni semplici: in questi casi non ci troviamo di fronte a una presunzione legale, e la norma si limita a con¬sentire il ricorso all’argomentazione presuntiva, superando autoritativamente i dubbi sulla sua utilizzabilità per dimostrare un certo tipo di questioni» (Cfr. R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario, 2a edizione, pag. 348). Secondo tale approccio, quindi, il metodo accertativo in argomento si basa su presunzioni semplici, contraddistinte dai re¬quisiti della gravità, precisione e concordanza prescritti dall’art. 2729, c.c.
In termini generali, sul tema delle presunzioni si ricorda che il consolidato orientamento della giurisprudenza (Sul tema, si veda Cass., Sei I, 4 febbraio 2005, n. 2363; Cass., Sei III, 18 gennaio 2004, n. 903; Cass., Sei I, 16 luglio 2004, n. 13169; Cass., Lavoro, 8 aprile 2004, n. 6899; Cass., Sei III, 19 febbraio 2004, n. 3321; Cass., Lavoro, 6 agosto 2003, n. 11906) da ultimo richiamato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 1131/2006, dep. il 20 gennaio 2006, afferma che «esse consistono nel ragionamento del giudice, il quale una volta acquisita, tramite fonti materiali di prova (o anche tramite il notorio o a seguito della non contestazione) la conoscenza di un fatto secondario, deduce da questo l’esistenza del fatto principale ignorato (...)».
Dal 2011 c’è un’inversione di tendenza, almeno per quanto concerne il redditometro, anche da parte della giurisprudenza di leggittimità. Con sentenza 13289/2011 la Cassazione afferma che l'accertamento da redditometro (si badi bene, da redditometro e non del "sintetico" in generale) rientra tra quelli cosiddetti "standardizzati" e, quindi, tra quelli che si fondano su presunzioni semplici.
La vicenda riguarda un accertamento subito da un contribuente in relazione al redditometro, nella versione applicabile fino al periodo d'imposta 2008 (prima delle modifiche della manovra 2010: si tratta della modalità con la quale attualmente gli uffici eseguono gli accertamenti).
La Cassazione, nella sentenza, ritorna su un principio già affermato con l'ordinanza 21661 del 22 ottobre 2010: l'accertamento basato sul redditometro fa parte degli accertamenti cosiddetti "standardizzati", come gli studi di settore. La Cassazione fa proprio, quindi, questo concetto (l'ordinanza 21661/2010 sembrava un pronunciamento isolato), stabilendo che il risultato dello standard, dato dal redditometro, deve essere corretto nel corso del contraddittorio, in modo da "fotografare" la reale e specifica situazione del contribuente. L'inquadramento del redditometro tra gli accertamenti standardizzati venne fatto, peraltro, dalla stessa Corte, nella premessa della relazione n. 94 del Massimario e del Ruolo del 9 luglio 2009, che anticipò le sentenze a sezioni Unite del 18 dicembre 2009 sulla rilevanza probatoria degli studi e dei parametri.
accertamenti standardizzati. Sono quella tipologia di accertamenti che partono da un dato medioordinario, il più delle volte determinato con metodi anche statistici, che hanno bisogno di un concreto adeguamento, attraverso l'obbligatorio contraddittorio (anche quando non previsto dalla legge), alla reale situazione del contribuente. Così che se l'amministrazione emette l'atto di accertamento, quest'ultimo deve tenere conto di tale personalizzazione, per cui non si è in presenza di un fatto noto stabilito dalla legge - prerogativa delle presunzioni legali - ma di una presunzione semplice. Il giudice, quindi, deve valutare se la personalizzazione effettuata dall'ufficio integra i requisiti di gravità, precisione e concordanza propri delle presunzioni semplici. Conseguentemente, l'onere probatorio incombe per primo sull'ufficio, il quale deve dare prova di questa personalizzazione.
Dopo la sentenza n. 13289/2011 (a cui si è adeguata la Ctr Torino 76/14/11), la Cassazione era però tornata ad inquadrare il vecchio redditometro tra le presunzioni legali (Cass. 27545/2011).
Con la sent. n. 23554/2012, depositata il 20 dicembre 2012 la Corte di cassazione ritorna sull’argomento stabilendo che il vecchio redditometro (come pure il nuovo) è da inquadrare tra le presunzioni semplici, per cui non si inverte in alcun modo l'onere probatorio nei confronti del contribuente. La sentenza verte circa la possibilità o meno che l'amministrazione avrebbe avuto di esperire l'accertamento sintetico nei confronti di un contribuente che utilizzò il cosiddetto "concordato di massa" del 1994. Nella sue conclusioni, favorevoli al contribuente, la Corte ulteriormente precisa che «l'accertamento sintetico disciplinato dall'articolo 38 Dpr n. 600/1973, già nella formulazione anteriore a quella successivamente modificata dall'articolo 22 del Dl 78/2010 tende a determinare, attraverso l'utilizzo di presunzioni semplici, il reddito complessivo del contribuente mediante i cosiddetti elementi indicativi di capacità contributiva stabiliti dai decreti ministeriali con periodicità biennale».
Con tale sentenza la Corte attribuisce nuovamente al vecchio accertamento da redditometro valenza di presunzione semplice, ma soprattutto lo fa, senza alcun dubbio, per il nuovo (dicendo "già nella formulazione anteriore" a quella del Dl 78/2010).
Si tratta di una conclusione assolutamente coerente e sistematica, visto che, in particolare, per il nuovo redditometro (che di fatto assorbe anche l'accertamento sintetico "puro")
1) si è in presenza di una serie di elementi che devono essere assolutamente personalizzati. Accanto alle spese effettive rintracciate dall'amministrazione, rilevano infatti anche gli incrementi patrimoniali e i valori Istat, oltre quelli derivanti da analisi e studi socio economici. E' evidente la necessità di personalizzare i valori figurativi e gli incrementi patrimoniali.
2) Il testo normativo chiede obbligatoriamente che il contribuente partecipi all'accertamento, fornendo ulteriori dati e notizie, e successivamente venga invitato al contraddittorio prima dell'emissione dell'atto impositivo. Espressamente il comma 7 dell’art. 38 del Dpr 600/1973 prevede “ L’Ufficio che procede alla determinazione sintetica dal reddito complessivo ha l’obbligo di invitare il contribuente a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento e, successivamente, di avviare il procedimento di accertamento con adesione ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218”. Non è il contraddittorio che sposta i termini della questione, ma la precedente obbligatorietà della chiamata del contribuente a fornire ulteriori dati e notizie rispetto a quelli già in possesso dell'ufficio. In sostanza, è stata prevista una giustissima funzione di adattamento dei dati in possesso degli uffici alla personale situazione del contribuente, che è poi il denominatore comune degli accertamenti «standardizzati», dove il risultato dello «standard» viene adattato al caso concreto del singolo.
Da qui la conclusione che l'eventuale accertamento (se non si trova un accordo in sede di adesione) non può riportare acriticamente i valori derivanti dal redditometro e, quindi, non si è in presenza di un fatto noto stabilito dalla legge - prerogativa delle presunzioni legali - ma di una presunzione semplice. In altre parole questo procedimento porta a svalutare il fatto noto stabilito dalla legge su cui la presunzione legale si fonda. Se il fatto noto su cui si dovrebbe basare l'accertamento viene integrato da ulteriori elementi – richiesti obbligatoriamente al contribuente – non si è più in presenza di un fatto noto stabilito per legge. In definitiva, non si è più in presenza di una presunzione legale, ma semplice, con tutto ciò che questo comporta (D. Deotto “Il fisco ribalta la prova sul contribuente” Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2010, D. Deotto “Presunzione semplice anche per il sintetico, Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2010, D. Deotto, Redditometro, dati da provare, Il Sole 24 Ore, 9-1-2013).
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 gennaio 2013 - Da: G. Manzana E. Iori
Dato il contenuto della norma (art. 38 del Dpr 600/1973) e del Decreto del 24 dicembre 2012 la difesa del contribuente passerà i seguenti elementi:
1. Corretta determinazione del reddito presunto
2. Legittimità dell’accertamento: sussistenza delle condizioni
3. Giustificazione del finanziamento della spesa oggetto di determinazione presuntiva del reddito
1. Corretta determinazione del reddito presunto
1.1 Corretto inquadramento di cluster.
Occorre verificare che la posizione del contribuente sia quella realmente monitorata dallo strumento di accertamento indicando elementi che evidenziano una collocazione del soggetto in un campione di riferimento diverso (ad esempio appartenenza a un cluster diverso da quello monitorato per il fatto che la sua composizione familiare è differente)
1.2 Corretto determinazione della spesa sostenuta.
Occorre verificare l’ammontare delle spese sostenute con quello attribuito dall’ufficio.
A tal fine va considerato che il Decreto del 24 dicembre 2012 prevede che il reddito complessivo del contribuente verrà presuntivamente determinato sommando
– alle spese "vive" conosciute dall'Agenzia (che sarebbe il presupposto dell'accertamento sintetico cosiddetto "puro"),
– le spese figurative (in base a quelle Istat o agli studi socio economici),
– gli incrementi patrimoniali e la quota di risparmi individuata dall'amministrazione.
Relativamente alle spese, va considerato che
– l'Agenzia considera sia quelle che risultano comprese nella tabella A allegata al Decreto del 24 dicembre 2012 (56 voci di spesa) che quelle non incluse nella tabella. Queste ultime verranno valorizzate in base a quanto effettivamente speso dal contribuente. In pratica, se è stato speso 100, si presume che il reddito sia pari a 100. Tali valori potranno trovare applicazione se l'Agenzia ha elementi quantitativi che il contribuente sostiene quel tipo di spese.
– le spese consideratate nella tabella A vengono valorizzate in tre modi diversi:
- 30 voci di spesa (su 56) in base a quanto effettivamente speso dal contribuente attingendo dai dati disponibili o presenti in Anagrafe tributaria (in pratica la modalità che si appena detto sopra per le spese “fuori tabella”). Tali valori trovano applicazione se l'Agenzia ha elementi quantitativi che il contribuente sostiene quel tipo di spese.
- 26 voci di spesa (su 56) in base al valore più alto tra quello figurativo, dato dalla spesa media Istat o da studi socio economici (solo per aeromobili, imbarcazioni e cavalli), e la spesa effettivamente sostenuta dal contribuente conosciuta dall'Agenzia (art. 1 co. 5 del Decreto del 24 dicembre 2012). Tali spese trovano applicazione se sostenute dal contribuente (il decreto espressamente dice “in presenza di spese indicate nella tabella A, si considera l’ammontare più elevato ….”). La loro valorizzazione avviene, se non altro, per il valore Istat.
- 2 voci di spesa (su 56) in base al valore figurativo. Si tratta del fitto figurativo, quando il contribuente abita in una casa che non è di sua proprietà (o altro diritto reale) né risulta in locazione né data in uso gratuito da familiari, e dei "pasti e consumazioni fuori casa" (in questo caso si applica il valore della spesa media Istat). Tali valori figurativi trovano applicazione se l'Agenzia ha elementi (in questo caso non necessariamente quantitativi) che il contribuente sostiene quel tipo di spese.
Dal punto di vista pratico questo significa che
1) per le spese effettivamente sostenute: il contribuente dovrà dimostrare di non averle sostenute o che la spesa è di importo differente;
2) per spese determinate in modo forfettario: a) l’onere della prova incombe sull’amministrazione fiananziaria b) la produzione, da parte del contribuente, di documentazione giustificativa (scontrini, ricevute, eccetera), comprovante che l'importo di spesa effettivamente sostenuto è inferiore a quella del valore presunto Istat pone il problema della validità della prova: l'Agenzia potrebbe, infatti, sempre dire che non sono stati prodotti tutti i documenti giustificativi. La documentazione giustificativa quindi, assume rilievo per il singolo bene o servizio per le quali o vi è un collegamento diretto, per spese non ripetitive (quali elettrodomestici o arredi) per le quali è logico ritenere la completezza della documentazione a supporto, ovvero qualora sia oggettivamente provabile la completezza della documentazione (ad esempio utenze per servizi). Per altre spese (tipo abbigliamento, alimentari, prodotti per la casa ecc.) risulta quindi inutile la conservazione di scontrini e ricevute.
Relativamente agli investimenti il Decreto del 24 dicembre 2012 (Tabella A) prevede che vadano considerati a riduzione degli investimenti. Nello specifico viene detto che l’incremento patrimoniale assume rilevanza per l’“ammontare degli investimenti effettuati nell’anno, meno l’ammontare dei disinvestimenti effettuati nell’anno e dei disinvestimenti netti dei quatto anni precedenti all’acquisto dei beni, risultanti da dati disponibili o presenti nell’Anagrafe dei rapporti”.
2. Legittimità dell’accertamento: sussistenza delle condizioni
2.1 Entità del reddito dichiarato da contrapporre a quello determinato con il redditometro
Secondo l’Agenzia delle entrate la Circ. 49/E del 2009, per reddito dichiarato si considera il reddito al lordo delle imposte. In ogni caso occorre considerare il reddito reale finanziario disponibile.
Telefisco 2012
I 1) NUOVO ACCERTAMENTO “SINTETICO “PURO” – ARTICOLO 38, COMMA 4, DEL DPR 600/1973 Conferma l’Agenzia che se l’unica fonte reddituale di un soggetto è data dal reddito d’impresa - il quale reddito tiene conto di tutta una serie di variazioni in aumento e in diminuzione, nonché viene determinato per competenza - si debba adeguare tale reddito, nel corso del contraddittorio, alla reale capacità di spesa del soggetto (come nel caso di molti altri redditi “figurativi”)? Inoltre, ritiene l’Agenzia che tale “adeguamento” dovrà essere fatto anche nell’eventuale atto di accertamento successivo, nell’ipotesi in cui non si giunga a un accordo nel corso del contraddittorio?
Si conferma il riferimento al reddito reale finanziario disponibile che in molti casi può divergere dal reddito dichiarato ai fini fiscali (es. rateizzazione di una plusvalenza ai soli fini fiscali). Relativamente alla seconda parte della domanda l’Ufficio effettuerà le opportune valutazioni caso per caso sulla base delle fattispecie concrete esaminate.
2.2 Scostamento del 20% tra reddito dichiarato e complessivo
Il reddito complessivo netto determinabile in via sintetica deve discostarsi da quello dichiarato per almeno un quinto. Nello specifico la norma prevede che “la determinazione sintetica del reddito complessivo di cui ai precedenti commi è ammessa a condizione che il reddito complessivo accertabile ecceda di almeno un quinto quello dichiarato”.
La norma dispone che dal reddito complessivo determinato sinteticamente (compreso quello da redditometro) risultano deducibili gli oneri di cui all’art. 10, del Tuir e che competono, per gli oneri sostenuti dal contribuente, le detrazioni dall’imposta lorda previste per legge.
Telefisco 2011
I8) Quesito Lo scostamento di un quinto (in precedenza, un quarto) tra il reddito accertabile e quello dichiarato si calcola sul reddito determinabile sinteticamente, come affermò in passato il Secit, nella relazione del 31 ottobre 1993?
Risposta La disposizione normativa chiarisce espressamente, al comma VI del novellato art. 38 del DPR 600/73, che la determinazione sintetica del reddito è ammessa a condizione che il reddito complessivo accertabile ecceda di almeno un quinto il reddito dichiarato.
Telefisco 2012
I 3) NUOVO ARTICOLO 38, COMMA 6, DEL DPR 600/1973
Si ponga, ad esempio, che il maggiore reddito accertabile per effetto dell’accertamento sintetico risulti pari a 100 mila euro; il contribuente ha dichiarato un reddito complessivo pari a 82 mila euro. L’accertamento sintetico è effettuabile? In altri termini, l’”un quinto” si calcola su 100 mila o su 82 mila euro?
La disposizione normativa prevede che la determinazione sintetica del reddito è ammessa a condizione che il reddito complessivo accertabile ecceda di almeno un quinto il reddito dichiarato. Detta previsione non si discosta, per la determinazione della detta eccedenza, dalla precedente formulazione. Pertanto, in continuità con il regime precedente, si ritiene che la norma vada interpretata considerando la percentuale riferita al reddito dichiarato. Con riguardo all’esempio oggetto del quesito, il calcolo dell’eccedenza (un quinto) si baserà sul reddito dichiarato pari a 82 mila euro e, pertanto, l’accertamento pari a 100 mila euro sarà effettuabile. Occorre, comunque, specificare che l’Agenzia effettuerà analisi del rischio dirette a selezionare le posizioni dei contribuenti che presentano incongruenze significative tra le spese sostenute per consumi e investimenti ed il reddito dichiarato.
2.3 Rispetto procedura: questionario e invito
Il nuovo redditometro prevede che “L’Ufficio che procede alla determinazione sintetica dal reddito complessivo ha l’obbligo di invitare il contribuente a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento e, successivamente, di avviare il procedimento di accertamento con adesione ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218”.
Vengono quindi previsti due momenti (obbligatori):
1) il primo al fine di permettere al contribuente di fornire dati e notizie
2) un secondo, il contraddittorio dell'accertamento con adesione.
Nel precedente redditometro, il contraddittorio non era previsto per legge con la conseguenza che le circostanze di fatto in base ai quali il reddito veniva rideterminato non devono essere preventivamente contestate al contribuente; ciò anche se, è bene evidenziare, la circolare n. 49 del 2007 comunque invita gli uffici ad utilizzare il contraddittorio preventivo e, a partire dall’introduzione (o, meglio, dalla esplicita formalizzazione, con la Legge 212/2000 sullo Statuto dei diritti del contribuente) del principio di «collaborazione» fra Amministrazione finanziaria e contribuente (art. 10, L. 212/2000), il «contraddittorio preventivo» dovrebbe essere la «regola» nel procedimento di accertamento dei tributi, così come si può (indirettamente) evincere da taluni recenti pronunciamenti delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cfr. Cass., Sentenza 18 dicembre 2009, n. 26635, in cui – a proposito di applicazione di parametri e studi di settore – la Corte pare voler rinvenire nel «sistema» un principio generale di attivazione del «contraddittorio preventivo»). Se tutto questo, in prima battuta, è visto come garanzia per il contribuente, potrebbe tradursi in collaborazione forzosa; infatti, non va dimenticato come già alla prima chiamata il contribuente dovrà fornire all’Ufficio tutti i dati e le notizie che ritiene utili per la sua difesa pena, oltre alla sanzione di natura economica, la sterilizzazione degli elementi richiesti e non addotti (ai sensi del co. 7 dell’art. 32 del Dpr 600/1973). A ciò va poi aggiunto che il diritto del contribuente di volersi difendere davanti al giudice tributario (e non anche prima in sede amministrativa) potrebbe cosargli caro considerato che quest’ultimo potrebbe valutare non positivamente la sua mancata cooperazione, sulla falsariga del solco giurisprudenziale tracciato dalle sezioni unite della Cassazione in materia di contraddittorio preventivo da studi di settore (Cfr. Sent. Sez. Unite 26.635 del 2009) .
E’ anche vero però che le informazioni date dal contribuente durante il primo incontro, oltre a consentire alle Entrate di proseguire più agevolmente l'istruttoria, nel caso in cui l'Agenzia intendesse comunque procedere alla notifica dell'avviso perché non ha ritenuto valide le deduzioni del contribuente, si obbliga l'ufficio a una motivazione "rinforzata" dell'atto. Ossia l'Agenzia dovrà spiegare perchè sono state disattese le argomentazioni difensive del contribuente, pena la nullità dell'atto stesso per difetto di motivazione (peraltro anche in caso di utilizzo delle c.d. “clausole di stile” (Cfr. Cass., 7 ottobre 1987, n. 7495 sia la Corte costituzionale ordinanza n. 244 del 24 luglio 2009).
Quindi, quando l’Ufficio ritiene di avviare un accertamento da redditometro nei confronti di un contribuente deve prima invitarlo a fornire ulteriori dati e notizie e poi, se decide di continuare l’azione, invitarlo a un contraddittorio. Se omette uno dei due momenti il successivo atto di accertamento è nullo.
3. Giustificazione del finanziamento della spesa oggetto di determinazione presuntiva del reddito
Il nuovo redditometro, al pari di quello vecchio prevede che la dimostrazione che il maggior reddito determinato sinteticamente nella sostanza non è stato prodotto potrà essere data provando che il relativo finanziamento è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile.
Prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni la norma stabiliva la possibilità del contribuente « di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione».
Ora, la norma prevede che il contribuente ha la facoltà di portare “la prova che il relativo finanziamento è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo di imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile”.
Eventualmente ciò che cambia è la portata dei disinvestimenti. Per questi il Decreto del 24 dicembre 2012 (Tabella A) prevede che vadano considerati a riduzione degli investimenti. Nello specifico viene detto che l’incremento patrimoniale assume rilevanza per l’“ammontare degli investimenti effettuati nell’anno, meno l’ammontare dei disinvestimenti effettuati nell’anno e dei disinvestimenti netti dei quatto anni precedenti all’acquisto dei beni, risultanti da dati disponibili o presenti nell’Anagrafe dei rapporti”.
Quindi, la giustificazione del minor reddito dichiarato rispetto a quello presunto potrà essere data dimostrando l’esistenza di
– redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo di imposta,
– redditi esenti, redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile (quali ad esempio borse di studio, pensioni di guerra, interessi su conti conrrenti bancari, vincite, dividendi e altre forme di redditi di capitali, redditi tassati forfettariamente ecc.)
La giustificazione relativa alla prima voce (vale a dire ai redditi diversi da quelli del periodo d’imposta) potrebbe derivare dall’utilizzo dei risparmi. Si noti però che la presunzione sulla quale si basa il "sintetico" non si propone di individuare il modo in cui è stata effettuata la spesa, ma un reddito non dichiarato che ha permesso la spesa. Ai fini della prova si tratta allora di capire se la semplice minore disponibilità di un conto corrente possa giustificare la spesa effettuata. Occorre infatti ricordare che il principio del sintetico è che la spesa è stata "finanziata" dal reddito, con il contribuente che viene chiamato a dare dimostrazione che il reddito dichiarato negli anni, oppure altri accadimenti, come la donazione o la vendita di beni patrimoniali oppure smobilizzi finanziari, hanno consentito la spesa. Non si tratta di individuare, quindi, "come" la spesa è stata effettuata, ma quale è stato "a monte" il presupposto o l'accadimento che l'hanno consentita. La disponibilità sui conti correnti può rappresentare, al limite, la conseguenza di questi presupposti o accadimenti. Per cui non pare che la semplice dimostrazione della diminuzione delle proprie disponibilità liquide possa rappresentare un elemento di difesa valido.
Nel caso di utilizzo del risparmio per far fronte alle spese sostenute nell'anno, è necessario conservare gli estratti conto dei vari anni interessati, per far verificare, che i saldi disponibili sono diminuiti proprio perché si è attinto dal conto per far fronte alle spese.
La norma non si cura di richiamare forme di giustificazione differenti rispetto al reddito in quanto presuppone che la spesa presa a base dell’accertamento costituisca una spesa indicatore di reddito. Conseguentemente la presunzione sulla quale si basa il "sintetico" non si propone di individuare il modo in cui è stata effettuata la spesa, ma un reddito non dichiarato che ha permesso la spesa.
Ne consegue quindi che ancor prima di porsi il problema di giustificare lo scostamento tra reddito dichiarato rispetto a quello presunto si deve valutare l’esistenza, tra quelle considerate al fine della determinazione del reddito presunto, di voci di spesa che non sono indicatori di reddito in quanto finanziate mediante elementi non reddituali. In altre parole occorre valutare se tra le spese che l’amministrazione prende a base della determinazione del reddito presunto non ne siano state ricomprese alcune che non sono indicatore di reddito.
In tale ottica che :
1) i disinvestimenti patrimoniali vanno a sterilizzare gli investimenti (nello specifico il Decreto del 24 dicembre 2012 - Tabella A l’incremento patrimoniale assume rilevanza per l’“ammontare degli investimenti effettuati nell’anno, meno l’ammontare dei disinvestimenti effettuati nell’anno e dei disinvestimenti netti dei quatto anni precedenti all’acquisto dei beni, risultanti da dati disponibili o presenti nell’Anagrafe dei rapporti”).
2) Possono essere considerate giustificazioni quali (C.M. 9 agosto 2007, n. 49/E):
- l’utilizzo di finanziamenti (quali il mutuo o il leasing, ma in tal caso si hanno conseguenze negative in termini di redditi gestionali, in quanto giocoforza il pagamento delle rate di mutuo o di leasing denota una maggiore capacità reddituale sul piano gestionale),
- l’utilizzo di somme di denaro derivanti da eredità, donazioni, vincite, ecc., l’utilizzo di effettivi redditi conseguiti a fronte di importi fiscali convenzionali (ad esempio, i redditi agrari),
- l’utilizzo di somme riscosse, fuori dall’esercizio dell’impresa, a titolo di risarcimento patrimoniale.
Per provare il pagamento fatto da terzi, ad esempio il genitore che contribuisce al pagamento del mutuo del figlio, il pagamento delle bollette, della vacanza o di altro è quindi fondamentale lasciare traccia documentale e conservare la relativa documentazione da cui risulta che c'è stata un'erogazione da parte di un soggetto differente dal contribuente accertato. In questo contesto sarà opportuno quindi conservare copia di bonifici o assegni.
L’elenco fornito dalla circolare va considerato esclusivamente esemplificativo e non certo esaustivo: spazio, dunque, a tutte le possibili argomentazioni che, a vario titolo e «carte alla mano» dimostrano che voci di spesa considerate non sono indicatori di reddito.
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ARTICOLO - Pubblicato il: 4 gennaio 2013 - Da: G. Manzana E. Iori
L’articolo 19, commi da 13 a 17, del Dl n. 201/2012 ha istituito un’imposta sul valore degli immobili situati all’estero di proprietà di persone fisiche residenti nel territorio dello Stato o in relazione ai quali le stesse siano titolari di diritti reali.
Inoltre, i commi da 18 a 22 dello stesso decreto legge n. 201 del 2011 hanno istituito un’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero da persone fisiche residenti in Italia.
Tale disposizione è stata successivamente modificata
- dall’articolo 8, commi 16 e 17, del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16 e ulteriori modifiche sono state apportate in sede di conversione dalla legge 26 aprile 2012, n. 44
- dall’art. 1 co. 518 e ss. della Legge 24 dicembre 2012, n. 228.
Quest’ultima previsione, in particolare, sposta l’istituzione di tali imposte dal 2011 – come previsto dalla versione originaria della norma – al 2012, con ciò evitandosi censure di incostituzionalità a causa della previgente retroattività.
La prima delle imposte in questione, vale a dire l’imposta sul valore degli immobili situati all’estero (IVIE), presenta analogie con l’imposta municipale propria (IMU) che si applica agli immobili situati in Italia e, in tale contesto, alcune delle disposizioni ad essa applicabili sono state estese ai fini della tassazione degli immobili situati all’estero per ragioni di coerenza e di uniformità di trattamento.
L’introduzione di un’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero (IVAFE) deriva anch’essa da esigenze di coerenza del sistema, posto che per le attività detenute presso intermediari italiani è prevista l’applicazione di un’imposta di bollo come riformulata dallo stesso articolo 19 del Dl 201/2012 nell’ambito dell’articolo 13, commi 2-bis e 2-ter, della Tariffa, Allegato A, Parte Prima, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642.
Ai sensi del comma 23 dello stesso articolo 19 del Dl 201/2012 è stato emanato il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 5 giugno 2012, che reca, le modalità di determinazione e applicazione delle imposte.
Sulla versione originaria della norma l’Agenzia delle entrate è intervenuta con la cir. 28/E del 2012.
Imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero (IVAFE)
A decorrere dal periodo d’imposta 2012, è dovuta l’IVAFE sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero da persone fisiche residenti in Italia.
Come anticipato, il testo originario prevedeva l’applicazione già dal 2011. Lo spostamento al 2012 - avvenuto ad opera dell’art. 1 co. 518 e ss. della Legge 24 dicembre 2012, n. 228 – è stato previsto al fine di evitare censure di incostituzionalità a causa della previgente retroattività. La norma pertanto (Cfr. co. 519) sancisce che quanto è stato corrisposto dai contribuenti si intente in acconto dell’imposta per il 2012, il cui versamento deve avvenire, sia in acconto che a saldo, con le stesse disposizioni applicabili per l’Irpef.
Sono soggette all’imposta anche le attività finanziarie che sono state oggetto di operazioni di emersione mediante la procedura della regolarizzazione. Non si considerano, invece, detenute all’estero le attività finanziarie rimpatriate (sia fisicamente che giuridicamente).
Sono, inoltre, escluse dall’ambito di applicazione di tale disposizione le attività finanziarie detenute all’estero, ma che sono amministrate da intermediari finanziari italiani e le attività estere fisicamente detenute dal contribuente in Italia.
In buona sostanza l’imposta è dovuta, a prescindere dalla circostanza che il soggetto emittente o la controparte siano residenti o meno, nei casi in cui le attività si considerano detenute all’estero. Si considerano come attività detenute all’estero anche le attività finanziarie detenute, ad esempio, in cassette di sicurezza all’estero o tramite intermediari non residenti.
Il comma 19 dell’articolo 19 del Dl 201/2012 precisa che l’imposta è dovuta in proporzione alla quota di possesso e al periodo di detenzione.
L’articolo 19, commi da 13 a 23 del Dl n. 201/2012
(…)
18. A decorrere dal 2012 e' istituita un'imposta sul valore delle attivita' finanziarie detenute all'estero dalle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato.
19. L'imposta di cui al comma 18 e' dovuta proporzionalmente alla quota e al periodo di detenzione.
20. L'imposta di cui al comma 18 e' stabilita nella misura dell'1 per mille annuo, per il 2012, e dell'1,5 per mille, a decorrere dal 2013, del valore delle attivita' finanziarie. Per i conti correnti e i libretti di risparmio l'imposta e' stabilita in misura fissa pari a quella prevista dall'articolo 13, comma 2-bis, lettera a), della tariffa, parte I, allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 642. Il valore e' costituito dal valore di mercato, rilevato al termine di ciascun anno solare nel luogo in cui sono detenute le attivita' finanziarie, anche utilizzando la documentazione dell'intermediario estero di riferimento per le singole attivita' e, in mancanza, secondo il valore nominale o di rimborso.
21. Dall'imposta di cui al comma 18 si deduce, fino a concorrenza del suo ammontare, un credito d'imposta pari all'ammontare dell'eventuale imposta patrimoniale versata nello Stato in cui sono detenute le attivita' finanziarie.
22. Per il versamento, la liquidazione, l'accertamento, la riscossione, le sanzioni e i rimborsi nonche' per il contenzioso, relativamente all'imposta di cui al comma 18 si applicano le disposizioni previste per l'imposta sul reddito delle persone fisiche, ivi comprese quelle relative alle modalità di versamento dell'imposta in acconto e a saldo.
23. Con uno o piu' provvedimenti del Direttore dell'Agenzia delle entrate sono stabilite le disposizioni di attuazione dei commi da 6 a 22.
Provv. Ag. entrate 5 giugno 2012
(…)
5. Imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero
Il comma 18 dell’articolo 19 del decreto istituisce, a decorrere dal periodo d’imposta 2011, un’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero da persone fisiche residenti in Italia.
Sono soggette all’imposta anche le attività finanziarie che sono state oggetto di operazioni di emersione mediante la procedura della regolarizzazione. Non si considerano, invece, detenute all’estero le attività finanziarie rimpatriate (sia fisicamente che giuridicamente).
Le attività finanziarie oggetto di un contratto di amministrazione con una società fiduciaria residente o di gestione con un intermediario residente, sono soggette all’imposta di bollo di cui all’articolo 13, commi 2-bis e 2-ter, della Tariffa, Allegato A, Parte Prima, del D.P.R. n. 642 del 1972 e sulle stesse non è dovuta l’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero.
L’imposta è rapportata ai giorni di detenzione ed è ripartita in base alla percentuale di possesso in caso di attività finanziarie cointestate.
L’imposta si applica sulle seguenti attività finanziarie se detenute all’estero:
- partecipazioni al capitale o al patrimonio di soggetti residenti o non residenti, obbligazioni italiane o estere e titoli similari, titoli pubblici italiani e titoli equiparati emessi in Italia o all’estero, titoli non rappresentativi di merce e certificati di massa (comprese le quote di OICR), valute estere, depositi e conti correnti costituiti all’estero indipendentemente dalle modalità di alimentazione (ad esempio, accrediti di stipendi, di pensione o di compensi);
- contratti di natura finanziaria stipulati con controparti non residenti, tra cui, finanziamenti, riporti, pronti contro termine e prestito titoli, nonché polizze di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione stipulate con compagnie di assicurazione estere;
- contratti derivati e altri rapporti finanziari stipulati al di fuori del territorio dello Stato;
- metalli preziosi allo stato grezzo o monetato;
- diritti all’acquisto o alla sottoscrizione di azioni o strumenti finanziari assimilati;
- ogni altra attività da cui possono derivare redditi di capitale o redditi diversi di natura finanziaria di fonte estera.
L’imposta non è dovuta con riferimento alle polizze emesse da imprese di assicurazione estere operanti in Italia in regime di libertà di prestazione di servizi e stipulate da soggetti residenti in Italia, a condizione che dette imprese applichino l’imposta di bollo di cui all’articolo 13, comma 2-ter, della Tariffa, Allegato A, Parte Prima, del D.P.R. n. 642 del 1972, nel rispetto delle condizioni richieste dall’articolo 3, comma 7, secondo periodo, del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 24 maggio 2012.
I titoli o i diritti offerti ai lavoratori dipendenti ed assimilati che danno la possibilità di acquistare, ad un determinato prezzo, azioni della società estera con la quale il contribuente intrattiene il rapporto di lavoro o delle società controllate o controllanti (cd. stock option) sono soggetti all’imposta solo nel caso in cui siano cedibili.
Non sono soggette all’imposta le forme di previdenza complementare organizzate o gestite da società ed enti di diritto estero.
5.1 Base imponibile
Il valore delle attività finanziarie è costituito dal valore di mercato, rilevato al termine di ciascun anno solare nel luogo in cui esse sono detenute.
Qualora le attività non siano più possedute alla data del 31 dicembre dell’anno si deve fare riferimento al valore delle attività rilevata al termine del periodo di detenzione.
Per i titoli negoziati in mercati regolamentati italiani o esteri si deve fare riferimento al valore puntuale di quotazione rilevato alla data del 31 dicembre di ciascun anno o al termine del periodo di detenzione. A tal fine, può essere utilizzata la documentazione dell’intermediario estero di riferimento per le singole attività ovvero dell’impresa di assicurazione estera.
Qualora alla predetta data non ci sia stata negoziazione si deve assumere il valore di quotazione rilevato nel giorno antecedente più prossimo.
Per i titoli non negoziati in mercati regolamentati italiani o esteri e, comunque, nei casi in cui le attività finanziarie quotate siano state escluse dalla negoziazione si deve far riferimento al valore nominale o, in mancanza, al valore di rimborso, anche se rideterminato ufficialmente.
Si precisa che ai fini della quantificazione del valore rilevano anche i titoli che non presentino né un valore nominale né un valore di rimborso; in tal caso
occorre tenere conto del valore di acquisto dei titoli.
L’imposta è dovuta nella misura del:
- 1 per mille per il 2011 e il 2012;
- 1,5 per mille per gli anni successivi.
Per i conti correnti e i libretti di risparmio detenuti in Paesi appartenenti all’Unione europea o in Paesi aderenti allo Spazio economico europeo che garantiscono un adeguato scambio di informazioni, l’imposta è stabilita in misura fissa pari a quella prevista dall’articolo 13, comma 2-bis, lettera a), della Tariffa, Allegato A, Parte prima, del D.P.R. n. 642 del 1972. L’imposta è rapportata ai giorni di detenzione ed è ripartita in base alla percentuale di possesso in caso di conti correnti o libretti di risparmio cointestati. L’imposta non è dovuta quando il valore medio di giacenza annuo risultante dagli estratti e dai libretti è complessivamente non superiore a euro 5.000.
5.2 Modalità di calcolo e di versamento
Dall’imposta si deduce, fino a concorrenza del suo ammontare, un credito d’imposta pari all’ammontare dell’eventuale imposta patrimoniale versata in relazione al medesimo periodo d’imposta nello Stato estero in cui sono detenute le attività finanziarie.
Al fine di dichiarare il valore delle attività finanziarie detenute all’estero deve essere compilata la Sezione XVI del quadro RM del modello UNICO Persone fisiche. A tal fine deve essere indicato il controvalore in euro degli importi in valuta calcolato in base all’apposito provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate emanato ai sensi dell’articolo 4, comma 6, del decreto legge 28 giugno 1990, n. 167 convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1990, n. 227.
Il versamento dell’imposta è effettuato in un’unica soluzione entro il termine del versamento a saldo delle imposte sui redditi derivanti dalla dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta di riferimento a decorrere dal 2011 ai sensi dell’articolo 17, commi 1 e 2, del D.P.R. 7 dicembre 2001, n. 435. Non sono dovuti acconti.
A differenza di quanto espressamente previsto per l’imposta sul valore degli immobili situati all’estero, per l’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero non spetta la franchigia di euro 200.
E’ consentito rateizzare l’imposta dovuta ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo 9
luglio 1997, n. 241.
Per il versamento, la liquidazione, l’accertamento, la riscossione, le sanzioni e i rimborsi nonché per il contenzioso relativi all’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero si applicano le disposizioni previste per l’imposta sul reddito delle persone fisiche.
Ambito soggettivo
Le persone fisiche residenti sono assoggettate all’imposta in esame qualora detengano all’estero attività finanziarie a titolo di proprietà o di altro diritto reale, e indipendentemente dalle modalità della loro acquisizione e quindi anche se pervengono da eredità o donazioni.
Ai fini dell’individuazione dell’ambito soggettivo di applicazione dell’imposta in esame nel caso di interposizione o di intestazione formale a società ed altre entità giuridiche si rinvia a quanto specificato con riferimento all’imposta sugli immobili situati all’estero.
Secondo la cir. 28/E del 2012 l’imposta trova applicazione anche nel caso in cui le attività finanziarie siano detenute per il tramite una società fiduciaria nonché nei casi in cui detti beni siano formalmente intestati ad entità giuridiche (ad esempio società, fondazioni, o trust) che agiscono quali persone interposte mentre l’effettiva disponibilità degli immobili è da attribuire a persone fisiche residenti. Secondo il pensiero dell’amministrazione finanziaria (Cfr. circolare 4 dicembre 2001, n. 99/E) relativamente alla nozione di “interposta persona”, la questione non può essere risolta in modo generalizzato, essendo direttamente connessa alle caratteristiche e alle modalità organizzative del soggetto interposto. Per quanto concerne le attività detenute per il tramite un trust (sia esso residente che non residente) occorre considerare se lo stesso sia in realtà un semplice schermo formale e se la disponibilità dei beni che ne costituiscono il patrimonio sia da attribuire ad altri soggetti, disponenti o beneficiari del trust. In tali casi, lo stesso deve essere considerato come un soggetto meramente interposto ed il patrimonio, nonché i redditi da questo prodotti, devono essere ricondotti ai soggetti che ne hanno l’effettiva disponibilità. Al fine di individuare alcuni di tali fattispecie si rinvia a quanto indicato nelle circolari n. 43/E del 10 ottobre 2009, paragrafo 1, e n. 61/E del 27 dicembre 2010.
Rientrano nell’ambito soggettivo di applicazione dell’IVAFE anche i contribuenti che prestano la propria attività lavorativa all’estero in via continuativa per i quali la residenza fiscale in Italia è determinata ex lege, in forza di presunzione legale che prescinde dalla ricorrenza o meno dei requisiti richiesti dall’articolo 2 del TUIR, e per i quali è previsto, ai sensi dell’articolo 38 del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, l’esonero dalla compilazione del modulo RW della dichiarazione annuale dei redditi, non solo in relazione al conto corrente costituito all’estero per l’accredito degli stipendi o altri emolumenti derivanti dalle attività lavorative ivi svolte, ma anche relativamente a tutte le attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero. Rientrano pertanto tra i soggetti in questione le persone fisiche che prestano lavoro all’estero per lo Stato italiano, per una sua suddivisione politica o amministrativa o per un suo ente locale e le persone fisiche che lavorano all’estero presso organizzazioni internazionali cui aderisce l’Italia, nonché i lavoratori che prestano la propria attività lavorativa in zone di frontiera e in paesi limitrofi.
Ambito oggettivo
L’imposta si applica sulle seguenti attività finanziarie se detenute all’estero:
- partecipazioni al capitale o al patrimonio di soggetti residenti o non residenti, obbligazioni italiane o estere e i titoli similari, titoli pubblici italiani e i titoli equiparati emessi in Italia o all’estero, titoli non rappresentativi di merce e certificati di massa (comprese le quote di OICR), valute estere, depositi e conti correnti bancari costituiti all’estero indipendentemente dalle modalità di alimentazione (ad esempio, accrediti di stipendi, di pensione o di compensi);
- contratti di natura finanziaria stipulati con controparti non residenti, tra cui, finanziamenti, riporti, pronti contro termine e prestito titoli, nonché polizze di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione stipulate con compagnie di assicurazione estere;
- contratti derivati e altri rapporti finanziari stipulati al di fuori del territorio dello Stato;
- metalli preziosi allo stato grezzo o monetato;
- diritti all’acquisto o alla sottoscrizione di azioni estere o strumenti finanziari assimilati;
- ogni altra attività da cui possono derivare redditi di capitale o redditi diversi di natura finanziaria di fonte estera.
La cir. 28/E del 2012 specifica che:
- I titoli o i diritti offerti ai lavoratori dipendenti ed assimilati che danno la possibilità di acquistare, ad un determinato prezzo, azioni della società estera con la quale il contribuente intrattiene il rapporto di lavoro o delle società controllate o controllanti (cd. stock option) sono soggetti all’imposta solo nel caso in cui siano cedibili.
- Non sono soggette all’IVAFE le forme di previdenza complementare organizzate o gestite da società ed enti di diritto estero.
- Relativamente alle attività finanziarie oggetto di un contratto di amministrazione con una società fiduciaria residente o di custodia, amministrazione o gestione con soggetti intermediari residenti, l’IVAFE non è dovuta in quanto su tali attività viene applicata l’imposta di bollo (ai sensi dell’articolo 13, commi 2-bis e 2-ter, della Tariffa, Allegato A, Parte Prima, del D.P.R. n. 642 del 1972), dal momento che le stesse non sono considerate come detenute all’estero.
- Ai sensi dell’articolo 3, comma 7, del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 24 maggio 2012, sono soggette all’imposta di bollo prevista dall’articolo 13, comma 2-ter, della Tariffa, Allegato A, Parte Prima, del D.P.R. n. 642 del 1972, le polizze di assicurazione stipulate da soggetti residenti in Italia ed emesse da imprese di assicurazione estere operanti in Italia in regime di libertà di prestazione di servizi che abbiano esercitato la facoltà prevista dall’articolo 26-ter del D.P.R. n. 600 del 1973 e quella per l’applicazione dell’imposta di bollo in modo virtuale.Al riguardo la circolare 31 dicembre 2003, n. 62/E ha sottolineato come le disposizioni dell’articolo 26-ter, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973, introdotte dall’articolo 41-bis del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, hanno inteso equiparare il regime impositivo dei rendimenti finanziari di cui all’articolo 44, comma 1, lettere g-quater) e g-quinquies), del TUIR, dovuti dalle predette imprese - nel caso in cui le stesse optino per applicare direttamente l’imposta sostitutiva sui predetti redditi - con quello previsto per i proventi della medesima natura corrisposti da imprese italiane. Ciò premesso, anche alla luce delle disposizioni del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 24 maggio 2012 sopra richiamate, la Cir. 28/E del 2012 ritiene che , nel caso in cui le predette imprese di assicurazione estere abbiano esercitato entrambe le predette opzioni, le polizze assicurative in questione subiscono, ai fini che qui interessano, un trattamento tributario complessivamente equiparato alle analoghe polizze assicurative italiane. Pertanto, le stesse possono sostanzialmente considerarsi come detenute in Italia e, quindi, non sono assoggettate all’IVAFE. Nel caso in cui le imprese di assicurazione estere operanti in Italia in regime di libertà di prestazione di servizi non esercitino le predette opzioni, ma le polizze siano affidate in amministrazione a una fiduciaria residente o ad un altro intermediario residente, sulle stesse trova applicazione l’imposta di bollo di cui al citato articolo 13, comma 3-ter, del D.P.R n. 642 del 1972 e non è pertanto dovuta l’IVAFE. Le predette attività, infatti, non si considerano detenute all’estero nel presupposto che per effetto del predetto mandato ad amministrare, la società fiduciaria o l’intermediario si impegna ad applicare e versare le ritenute alla fonte o le imposte sostitutive previste dall’ordinamento tributario sui redditi derivanti dalle attività oggetto del rapporto e, nelle ipotesi in cui le ritenute siano applicate a titolo d’acconto ovvero non siano previste, ad effettuare le comunicazioni nominative all’Amministrazione finanziaria.
Nelle fattispecie in esame la cir. 28/E del 2012 ricorda che l’imposta di bollo è applicata alla scadenza del contratto o al riscatto della polizza. Tuttavia, qualora il contratto di amministrazione con la fiduciaria residente o con l’intermediario residente venga interrotto, i predetti soggetti devono versare l’imposta di bollo determinata per ciascun anno ed accantonata fino a tale data. Va da sé che, una volta interrotto il rapporto di intermediazione, la polizza si considera detenuta all’estero e deve essere corrisposta l’IVAFE. Pertanto, il contribuente dovrà compilare al riguardo il quadro RM del modello UNICO Persone fisiche ed è altresì tenuto a indicare tali attività nel modulo RW del predetto modello.
Nel caso in cui le compagnie estere operanti in Italia in regime di libertà di prestazione di servizi non abbiano esercitato le opzioni di cui sopra e le polizze non siano oggetto di contratti di amministrazione con una fiduciaria residente o con altri intermediari residenti, sulle stesse è dovuta l’IVAFE, in quanto tali polizze si considerano detenute all’estero.
Base imponibile dell’IVAFE
Il valore delle attività finanziarie è costituito dal valore di mercato, rilevato al termine di ciascun anno solare nel luogo in cui esse sono detenute, anche utilizzando la documentazione dell’intermediario estero di riferimento per le singole attività ovvero dell’impresa di assicurazione estera. Qualora le attività non siano più possedute alla data del 31 dicembre si deve fare riferimento al valore di mercato delle attività rilevata al termine del periodo di detenzione.
Nel caso in cui le attività finanziarie abbiano una quotazione nei mercati regolamentati deve essere utilizzato tale valore.
A tal fine, per le azioni, obbligazioni e altri titoli o strumenti finanziari negoziati in mercati regolamentati si deve fare riferimento al valore puntuale di quotazione alla data del 31 dicembre di ciascun anno o al termine del periodo di detenzione.
Qualora alla predetta data non ci sia stata negoziazione si deve assumere il valore di quotazione rilevato nel giorno antecedente più prossimo.
Per le azioni, obbligazioni e altri titoli o strumenti finanziari non negoziati in mercati regolamentati e, comunque, nei casi in cui le attività finanziarie quotate siano state escluse dalla negoziazione si deve far riferimento al valore nominale o, in mancanza, al valore di rimborso, anche se rideterminato ufficialmente.
Qualora il titolo abbia sia il valore nominale che quello di rimborso, la base imponibile è costituita dal valore nominale.
Infine, nell’ipotesi in cui manchi sia il valore nominale sia il valore di rimborso la base imponibile è costituita dal valore di acquisto dei titoli.
Modalità di calcolo dell’IVAFE
L’imposta è dovuta nella misura del:
- 1 per mille per il 2011 e il 2012;
- 1,5 per mille per gli anni successivi.
A differenza di quanto espressamente stabilito per l’IVIE, non è prevista alcuna soglia di esenzione per il versamento dell’imposta in esame.
L’imposta è dovuta in proporzione ai giorni di detenzione e alla quota di possesso in caso di attività finanziarie cointestate.
Per i conti correnti e i libretti di risparmio detenuti in Paesi della Unione europea o in Paesi aderenti al SEE che garantiscono un adeguato scambio di informazioni, l’imposta è stabilita in misura fissa pari a quella prevista dall’articolo 13, comma 2-bis, lettera a), della tariffa allegata al D.P.R. n. 642 del 1972, attualmente pari a euro 34,20.
Tale misura va applicata con riferimento a ciascun conto corrente o libretto di risparmio detenuti all’estero dal contribuente.
In caso di estinzione o di apertura di tali rapporti in corso d’anno, l’imposta è rapportata al periodo di detenzione espresso in giorni e per i conti cointestati, l’imposta fissa è ripartita in base alla percentuale di possesso.
L’imposta in misura fissa non è dovuta qualora il valore medio di giacenza annuo risultante dagli estratti conto e dai libretti sia non superiore a euro 5.000. A tal fine occorre tener conto di tutti i conti o libretti detenuti all’estero dal contribuente presso il medesimo intermediario e a nulla rilevando il periodo di detenzione del rapporto durante il periodo d’imposta.
Nel caso in cui il contribuente possieda rapporti cointestati, al fine della determinazione del predetto limite si tiene conto degli ammontari riferibili pro quota al medesimo contribuente.
Infine, se il conto corrente ha una giacenza media annuale di valore negativo, tale conto non concorre a formare il valore medio di giacenza per l’esenzione.
L’applicazione della misura fissa nonché della soglia di esenzione di euro 5.000 per l’applicazione dell’IVAFE si riferisce esclusivamente ai conti correnti e ai libretti di risparmio detenuti in Paesi della Unione europea o in Paesi aderenti al SEE e non ad altre tipologie di attività finanziarie.
Nel caso in cui operi l’esenzione collegata alla soglia di euro 5.000, i dati relativi ai conti correnti e ai libretti di risparmio detenuti nei predetti Paesi non devono essere indicati nella dichiarazione dei redditi, fermo l’eventuale obbligo di compilazione del modulo RW.
Dall’imposta si detrae, fino a concorrenza del suo ammontare, un credito d’imposta pari all’importo dell’eventuale imposta patrimoniale versata nell’anno di riferimento, nello Stato estero in cui sono detenute le attività finanziarie.
Il credito d’imposta non può in ogni caso superare l’imposta dovuta in Italia.
Qualora con il Paese nel quale è detenuta l’attività finanziaria sia in vigore una convenzione per evitare le doppie imposizioni riguardante anche le imposte di natura patrimoniale che preveda, per tale attività, l’imposizione esclusiva nel Paese di residenza del possessore, non spetta alcun credito d’imposta per le imposte patrimoniali eventualmente pagate all’estero. In tali casi, per queste ultime può essere chiesto il rimborso all’Amministrazione fiscale del Paese in cui le suddette imposte sono state applicate nonostante le disposizioni convenzionali.
Termini e modalità di dichiarazione e versamento dell’IVAFE
Il Dl 201/2012 prevede che per il versamento, la liquidazione, l’accertamento, la riscossione, le sanzioni e i rimborsi nonché per il contenzioso relativi all’IVAFE si applicano le disposizioni previste per l’imposta sul reddito delle persone fisiche.
Al fine di dichiarare il valore delle attività finanziarie detenute all’estero deve essere compilata la Sezione XVI del quadro RM del modello UNICO Persone fisiche. A tal fine deve essere indicato il controvalore in euro degli importi in valuta calcolato in base all’apposito provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate emanato ai sensi dell’articolo 4, comma 6, del decreto legge 28 giugno 1990, n. 167 convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1990, n. 227.
Nel provvedimento non è specificato se occorre fare riferimento al cambio ministeriale dell’anno di acquisto ovvero se annualmente occorre rideterminare il valore applicando il cambio ministeriale dell’anno. Ragioni di ordine logico sistemiche farebbero propendere per la prima soluzione: sarebbe infatti poco razionale applicare un cambio corrente a un costo storico. In tal caso andrebbe individuati i cambi relativi agli acquisti ante 1992 per i quali non è possibile far riferimento, non esistendo, al provvedimento richiamato.
L’imposta deve essere versata dal contribuente in base alle ordinarie disposizioni previste per l'imposta sul reddito delle persone fisiche ai sensi quindi del D.P.R. 7 dicembre 2001, n. 435. Il pagamento deve quindi avvenire mediante saldo a acconto ed è consentito rateizzare l’imposta dovuta ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241.
A tale proposito si fa presente che il pagamento anche degli acconti (e non solo del saldo) è stato introdotto nel disposto normativo ad opera dell’art. 1 co. 518 della Legge 24 dicembre 2012, n. 228. Prima della modifica, il testo originario prevedeva unicamente il versamento a saldo.
Si ricorda che ai sensi dell’articolo 1, comma 137, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 non si esegue il versamento per il debito della singola imposta o addizionale risultanti dalla dichiarazione dei redditi che non superano ciascuna l’importo di euro 12,00. Conseguentemente nel caso in cui il debito di imposta relativo all’IVAFE non sia superiore a 12 euro il versamento non deve essere effettuato.
Il versamento dell’IVAFE deve essere effettuato utilizzando il codice “4043” indicato nella risoluzione n. 54/E del 7 giugno 2012 e denominato “Imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all'estero dalle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato”.
ARTICOLO - Pubblicato il: 4 gennaio 2013 - Da: G. Manzana E. Iori
L’articolo 19, commi da 13 a 17, del Dl n. 201/2012 ha istituito un’imposta sul valore degli immobili situati all’estero di proprietà di persone fisiche residenti nel territorio dello Stato o in relazione ai quali le stesse siano titolari di diritti reali.
Inoltre, i commi da 18 a 22 dello stesso decreto legge n. 201 del 2011 hanno istituito un’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero da persone fisiche residenti in Italia.
Tale disposizione è stata successivamente modificata
- dall’articolo 8, commi 16 e 17, del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16 e ulteriori modifiche sono state apportate in sede di conversione dalla legge 26 aprile 2012, n. 44
- dall’art. 1 co. 518 e ss. della Legge 24 dicembre 2012, n. 228.
Quest’ultima previsione, in particolare, sposta l’istituzione di tali imposte dal 2011 – come previsto dalla versione originaria della norma – al 2012, con ciò evitandosi censure di incostituzionalità a causa della previgente retroattività.
La prima delle imposte in questione, vale a dire l’imposta sul valore degli immobili situati all’estero (IVIE), presenta analogie con l’imposta municipale propria (IMU) che si applica agli immobili situati in Italia e, in tale contesto, alcune delle disposizioni ad essa applicabili sono state estese ai fini della tassazione degli immobili situati all’estero per ragioni di coerenza e di uniformità di trattamento.
L’introduzione di un’imposta sul valore delle attività finanziarie detenute all’estero (IVAFE) deriva anch’essa da esigenze di coerenza del sistema, posto che per le attività detenute presso intermediari italiani è prevista l’applicazione di un’imposta di bollo come riformulata dallo stesso articolo 19 del Dl 201/2012 nell’ambito dell’articolo 13, commi 2-bis e 2-ter, della Tariffa, Allegato A, Parte Prima, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642.
Ai sensi del comma 23 dello stesso articolo 19 del Dl 201/2012 è stato emanato il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 5 giugno 2012, che reca, le modalità di determinazione e applicazione delle imposte.
Sulla versione originaria della norma l’Agenzia delle entrate è intervenuta con la cir. 28/E del 2012.
Imposta sul valore degli immobili situati all’estero (IVIE)
A decorrere dal periodo d’imposta 2012, l’IVIE è dovuta sul valore degli immobili situati all’estero detenuti a titolo di proprietà o di altro diritto reale dalle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso essi siano destinati.
Come anticipato, il testo originario prevedeva l’applicazione già dal 2011. Lo spostamento al 2012 - avvenuto ad opera dell’art. 1 co. 518 e ss. della Legge 24 dicembre 2012, n. 228 – è stato previsto al fine di evitare censure di incostituzionalità a causa della previgente retroattività. La norma pertanto (Cfr. co. 519) sancisce che quanto è stato corrisposto dai contribuenti si intente in acconto dell’imposta per il 2012, il cui versamento deve avvenire, sia in acconto che a saldo, con le stesse disposizioni applicabili per l’Irpef.
Sono inclusi nell’ambito di applicazione della norma anche gli immobili che sono stati oggetto di operazioni di emersione mediante il c.d. “scudo fiscale” ai sensi dell’articolo 13-bis del Dl n. 78/2009 “ sia mediante la procedura della regolarizzazione sia del rimpatrio giuridico.
L’imposta è dovuta nella misura dello 0,76 per cento in proporzione alla quota di titolarità del diritto di proprietà o altro diritto reale e ai mesi dell’anno nei quali si è protratto tale diritto.
Al fine di determinare la residenza delle persone fisiche, si deve fare riferimento alla nozione contenuta nell’articolo 2, comma 2, del Tuir, in base alla quale si considerano residenti “le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”.
Tali criteri sono, come noto, alternativi essendo sufficiente che sia verificato anche uno solo di essi affinché una persona fisica possa considerarsi fiscalmente residente in Italia.
Il requisito della residenza si acquisisce ex tunc con riferimento al periodo d’imposta nel quale la persona fisica instaura il collegamento territoriale rilevante ai fini fiscali. Pertanto, soltanto alla fine dell’anno solare è possibile effettuare la verifica del requisito temporale della permanenza in Italia (183 o 184 giorni in caso di anno bisestile) per determinare la residenza fiscale della persona.
Inoltre, come stabilito dal successivo comma 2-bis del medesimo articolo 2 del Tuir, si considerano altresì residenti, salvo prova contraria del contribuente, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze. Al riguardo si ricorda che, fino all’emanazione del citato decreto, si considerano residenti in Italia i cittadini emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato individuati dal D.M. 4 maggio 1999 (cosiddetta “black list”). Ne consegue che, ricorrendone le condizioni, anche questi ultimi soggetti rientrano nell’ambito soggettivo di applicazione dell’IVIE.
L’articolo 19, commi da 13 a 23 del Dl n. 201/2012
13. A decorrere dal 2012 e' istituita un'imposta sul valore degli immobili situati all'estero, a qualsiasi uso destinati dalle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato.
14. Soggetto passivo dell'imposta di cui al comma 13 e' il proprietario dell'immobile ovvero il titolare di altro diritto reale sullo stesso. L'imposta e' dovuta proporzionalmente alla quota di possesso e ai mesi dell'anno nei quali si e' protratto il possesso; a tal fine il mese durante il quale il possesso si e' protratto per almeno quindici giorni e' computato per intero.
15. L'imposta di cui al comma 13 e' stabilita nella misura dello 0,76 per cento del valore degli immobili. L'imposta non e' dovuta se l'importo, come determinato ai sensi del presente comma, non supera euro 200. Il valore e' costituito dal costo risultante dall'atto di acquisto o dai contratti e, in mancanza, secondo il valore di mercato rilevabile nel luogo in cui e' situato l'immobile. Per gli immobili situati in Paesi appartenenti all'Unione europea o in Paesi aderenti allo Spazio economico europeo che garantiscono un adeguato scambio di informazioni, il valore e' quello catastale come determinato e rivalutato nel Paese in cui l'immobile e' situato ai fini dell'assolvimento di imposte di natura patrimoniale o reddituale o, in mancanza, quello di cui al periodo precedente.
15-bis. L'imposta di cui al comma 13 e' stabilita nella misura ridotta dello 0,4 per cento per l'immobile adibito ad abitazione principale e per le relative pertinenze. Dall'imposta dovuta per l'unita' immobiliare adibita ad abitazione principale del soggetto passivo e per le relative pertinenze si detraggono, fino a concorrenza del suo ammontare, euro 200 rapportati al periodo dell'anno durante il quale si protrae tale destinazione; se l'unita' immobiliare e' adibita ad abitazione principale da piu' soggetti passivi la detrazione spetta a ciascuno di essi proporzionalmente alla quota per la quale la destinazione medesima si verifica. Per gli anni 2012 e 2013 la detrazione prevista dal periodo precedente e' maggiorata di 50 euro per ciascun figlio di eta' non superiore a ventisei anni, purche' dimorante abitualmente e residente anagraficamente nell'unita' immobiliare adibita ad abitazione principale. L'importo complessivo della maggiorazione, al netto della detrazione di base, non puo' superare l'importo massimo di 400 euro.
15-ter. Per gli immobili di cui al comma 15-bis e per gli immobili non locati assoggettati all'imposta di cui al comma 13 del presente articolo non si applica l'articolo 70, comma 2, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni.
16. Dall'imposta di cui al comma 13 si deduce, fino a concorrenza del suo ammontare, un credito d'imposta pari all'ammontare dell'eventuale imposta patrimoniale versata nello Stato in cui e' situato l'immobile. Per gli immobili situati in Paesi appartenenti alla Unione europea o in Paesi aderenti allo Spazio economico europeo che garantiscono un adeguato scambio di informazioni, dalla predetta imposta si deduce un credito d'imposta pari alle eventuali imposte di natura patrimoniale e reddituale gravanti sullo stesso immobile, non gia' detratte ai sensi dell'articolo 165 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917.
17. Per il versamento, la liquidazione, l'accertamento, la riscossione, le sanzioni e i rimborsi nonche' per il contenzioso, relativamente all'imposta di cui al comma 13 si applicano le disposizioni previste per l'imposta sul reddito delle persone fisiche , ivi comprese quelle relative alle modalità di versamento dell'imposta in acconto e a saldo. (…)
23. Con uno o piu' provvedimenti del Direttore dell'Agenzia delle entrate sono stabilite le disposizioni di attuazione dei commi da 6 a 22.
Provv. Ag. entrate 5 giugno 2012
(…)
4. Imposta sul valore degli immobili
situati all’estero
Il comma 13 dell’articolo 19 del decreto istituisce, a decorrere dal periodo d’imposta 2011, un’imposta sul valore degli immobili (terreni e fabbricati) detenuti all’estero, a qualsiasi uso destinati dalle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato.
Sono soggetti all’imposta anche gli immobili che sono stati oggetto di operazioni di emersione mediante la procedura della regolarizzazione nonché mediante quella del rimpatrio giuridico.
L’imposta è dovuta per gli immobili detenuti a titolo di proprietà o di altro diritto reale.
L’imposta è dovuta in proporzione alla quota di titolarità dei predetti diritti ed è rapportata ai mesi dell’anno nei quali essa si è protratta; a tal fine il mese durante il quale il diritto si è protratto per almeno quindici giorni è computato per intero.
L’imposta è dovuta nella misura dello 0,76 per cento del valore dell’immobile e non è dovuta qualora l’importo dell’imposta così calcolata (prima di applicare le specifiche detrazioni previste) non superi complessivamente euro 200.
4.1 Base imponibile
Il valore è costituito dal costo risultante dall’atto di acquisto o dai contratti e, in mancanza, secondo il valore di mercato rilevabile al termine di ciascun anno solare nel luogo in cui è situato l’immobile.
Qualora l’immobile non sia più posseduto alla data del 31 dicembre dell’anno si deve fare riferimento al valore dell’immobile rilevato al termine del periodo di detenzione.
Per gli immobili acquisiti per successione o donazione il valore è quello dichiarato nella dichiarazione di successione o nell’atto registrato o, in mancanza, il costo di acquisto sostenuto dal de cuius o dal donante risultante dalla relativa documentazione o, in assenza di documentazione, il valore di mercato rilevabile nel luogo in cui è situato l’immobile.
Per gli immobili situati in Paesi appartenenti alla Unione europea o in Paesi aderenti allo Spazio economico europeo che garantiscono un adeguato scambio di informazioni, il valore è quello catastale, come determinato e rivalutato nel Paese in cui l’immobile è situato, assunto a base per la determinazione di imposte reddituali o patrimoniali. Tale criterio si applica anche qualora gli
immobili sono pervenuti per successione o donazione.
In assenza del suddetto valore, si assume il costo risultante dall’atto di acquisto o dai contratti e, in mancanza, il valore di mercato rilevabile nel luogo in cui è situato l’immobile.
4.2 Immobili esteri adibiti ad abitazione principale dai soggetti che prestano lavoro all’estero la cui residenza fiscale in italia è determinata ex lege
Il comma 15-bis dell’articolo 19 del decreto prevede che per i soggetti che prestano lavoro all’estero per lo Stato italiano, per una sua suddivisione politica o amministrativa o per un suo ente locale, e per le persone fisiche che lavorano all’estero presso organizzazioni internazionali cui aderisce l’Italia, la cui residenza fiscale in Italia sia determinata, in deroga agli ordinari criteri previsti dall’articolo 2 del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), in base ad accordi internazionali ratificati, l’imposta sugli immobili detenuti all’estero si applica nella misura ridotta dello 0,4 per cento per l’immobile adibito ad abitazione principale e per le relative pertinenze.
L’aliquota ridotta permane fintanto che il lavoratore presta la propria attività all’estero e viene meno al suo rientro in Italia. L’aliquota dell’imposta si applica nella misura piena dello 0,76 per cento a decorrere dal periodo d’imposta in cui il lavoratore acquisisce la residenza in Italia secondo le disposizioni ordinarie e non sulla base di accordi internazionali.
Dall’imposta dovuta per l’unità immobiliare adibita ad abitazione principale del soggetto passivo e per le relative pertinenze si detrae, fino a concorrenza del suo ammontare, la somma di euro 200 rapportata al periodo dell’anno durante il quale si protrae tale destinazione.
Qualora l’unità immobiliare sia adibita ad abitazione principale da più soggetti passivi, la detrazione spetta, proporzionalmente alla quota per la quale la destinazione medesima si verifica, a ciascuno dei soggetti passivi la cui residenza fiscale in Italia sia determinata sulla base delle speciali disposizioni di cui sopra.
Per gli anni 2012 e 2013 la detrazione è maggiorata di 50 euro per ciascun figlio di età non superiore a ventisei anni, purché dimorante abitualmente e residente anagraficamente nell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale. L’importo complessivo della maggiorazione, al netto della detrazione di base, non può superare l’importo massimo di euro 400.
Per gli immobili in questione non si applica l’articolo 70, comma 2, del TUIR dal momento che rappresentano l’abitazione principale di tali lavoratori. Non spetta invece la franchigia di euro 200 di cui al comma 15 dell’articolo 19 del decreto.
4.3 Modalità di calcolo e di versamento
Dall’imposta si detrae, fino a concorrenza del suo ammontare, un credito d’imposta pari all’ammontare dell’eventuale imposta patrimoniale versata nell’anno di riferimento nello Stato estero in cui è situato l’immobile.
Per gli immobili situati in Paesi appartenenti all’Unione Europea o in Paesi aderenti allo Spazio economico europeo che garantiscono un adeguato scambio di informazioni, dall’imposta dovuta in Italia si detrae prioritariamente l’imposta patrimoniale versata nell’anno di riferimento nel Paese in cui sono situati gli immobili. Inoltre, qualora sussista un’eccedenza di imposta reddituale estera gravante sugli stessi immobili non utilizzata ai sensi dell’articolo 165 del TUIR, dall’imposta dovuta in Italia si detrae, fino a concorrenza del suo ammontare, anche un ulteriore credito d’imposta derivante da tale eccedenza.
Al fine di dichiarare il valore degli immobili situati all’estero deve essere compilata la Sezione XVI del quadro RM del modello UNICO Persone fisiche. A tal fine deve essere indicato il controvalore in euro degli importi in valuta calcolato in base all’apposito provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate emanato ai sensi dell’articolo 4, comma 6, del decreto legge 28 giugno 1990, n. 167 convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1990, n. 227.
L’imposta deve essere versata dal contribuente entro il termine previsto per il versamento a saldo delle imposte sui redditi derivanti dalla dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta di riferimento, a decorrere dal 2011, ai sensi dell’articolo 17, commi 1 e 2, del D.P.R. 7 dicembre 2001, n. 435. Non sono dovuti acconti.
E’ consentito rateizzare l’imposta dovuta ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241.
Nel caso di immobili – ivi compresi quelli oggetto di operazione di emersione – per i quali sia stato stipulato un contratto di amministrazione con una società fiduciaria, quest’ultima provvede ad applicare e a versare l’imposta dovuta dal contribuente, previa fornitura della provvista da parte dello stesso, entro il suddetto termine.
Qualora il contribuente non fornisca la provvista, la società fiduciaria deve comunicare i dati dello stesso all’Amministrazione finanziaria nel modello di dichiarazione dei sostituti d’imposta e degli intermediari, modello 770 ordinario, a decorrere da quello relativo al periodo d’imposta 2012 (mod. 770/2013).
Per il versamento, la liquidazione, l’accertamento, la riscossione, le sanzioni e i rimborsi nonché per il contenzioso relativi all’imposta sul valore degli immobili situati all’estero si applicano le disposizioni previste per l’imposta sul reddito delle persone fisiche.
Ambito soggettivo
Sono soggetti passivi dell’imposta:
1. il proprietario di fabbricati, aree fabbricabili e terreni a qualsiasi uso destinati, compresi quelli strumentali per natura o per destinazione destinati ad attività di impresa o di lavoro autonomo; il titolare del diritto reale di usufrutto, uso o abitazione, enfiteusi e superficie sugli stessi (e non il titolare della nuda proprietà);
2. il concessionario nel caso di concessione di aree demaniali;
3. il locatario per gli immobili, anche da costruire o in corso di costruzione, concessi in locazione finanziaria. Il locatario è soggetto passivo a decorrere dalla data della stipula e per tutta la durata del contratto.
Ai fini dell’individuazione dei diritti reali che attribuiscono ai loro titolari l’obbligo passivo dell’imposta, si deve fare riferimento agli analoghi istituti previsti negli ordinamenti esteri in cui l’immobile è ubicato.
Ad esempio, si rileva che per gli immobili situati in Paesi di common law può sussistere sia un diritto di proprietà fondiaria assoluta - “freehold” - che un diritto al possesso dei beni - “leasehold”. Quest’ultimo dà diritto al possesso di beni immobili, disgiuntamente alla proprietà, solitamente per un periodo di tempo molto elevato, dietro il pagamento di un corrispettivo. Considerato che tale istituto presenta maggiori analogie con i diritti reali come disciplinati dall’ordinamento italiano (in particolare, con l’usufrutto), piuttosto che con il diritto di locazione, si ritiene che in tal caso sono tenuti al pagamento dell’imposta in questione i titolari di tale diritto e non anche i titolari della proprietà fondiaria assoluta.
Se gli immobili sono detenuti in comunione l’imposta è dovuta da ciascun soggetto partecipante alla comunione con riferimento al valore relativo alla propria quota.
L’imposta trova applicazione nel caso in cui gli immobili siano detenuti direttamente dai soggetti sopra elencati o siano detenuti per il tramite una società fiduciaria nonché nei casi in cui detti beni siano formalmente intestati ad entità giuridiche (ad esempio società, fondazioni, o trust) che agiscono quali persone interposte mentre l’effettiva disponibilità degli immobili è da attribuire a persone fisiche residenti. Secondo il pensiero dell’amministrazione finanziaria (Cfr. circolare 4 dicembre 2001, n. 99/E) relativamente alla nozione di “interposta persona”, la questione non può essere risolta in modo generalizzato, essendo direttamente connessa alle caratteristiche e alle modalità organizzative del soggetto interposto.
Per quanto concerne gli immobili detenuti tramite un trust (sia esso residente che non residente) occorre considerare se lo stesso sia in realtà un semplice schermo formale e se la disponibilità dei beni che ne costituiscono il patrimonio sia da attribuire ad altri soggetti, disponenti o beneficiari del trust. In tali casi, lo stesso deve essere considerato come un soggetto meramente interposto ed il patrimonio, nonché i redditi da questo prodotti, devono essere ricondotti ai soggetti che ne hanno l’effettiva disponibilità. Al fine di individuare alcuni di tali fattispecie si rinvia a quanto indicato nelle circolari n. 43/E del 10 ottobre 2009, paragrafo 1, e n. 61/E del 27 dicembre 2010.
Base imponibile dell’IVIE
Il valore dell’immobile è costituito, nella generalità dei casi, dal costo risultante dall’atto di acquisto o dai contratti da cui risulta il costo complessivamente sostenuto per l’acquisto di diritti reali diversi dalla proprietà.
Qualora la valorizzazione dei diritti reali diversi dalla proprietà (ad esempio, l’usufrutto) non sia rilevabile da un contratto, essa si assume secondo i criteri dettati dalla legislazione del Paese in cui l’immobile è situato.
Nel caso in cui l’immobile sia stato costruito, si fa riferimento al costo di costruzione sostenuto dal proprietario e risultante dalla relativa documentazione.
In mancanza di tali valori o in mancanza della relativa documentazione si assume il valore di mercato rilevabile al termine di ciascun anno solare nel luogo in cui è situato l’immobile. Qualora l’immobile non sia più posseduto alla data del 31 dicembre dell’anno si deve fare riferimento al valore dell’immobile rilevato al termine del periodo di detenzione.
Tale valore può essere desunto in base alla media dei valori risultanti dai listini elaborati da organismi, enti o società operanti nel settore immobiliare locale.
Per quanto riguarda gli immobili acquisiti per successione o donazione, il valore è quello dichiarato nella dichiarazione di successione o nell’atto registrato o in altri atti previsti dagli ordinamenti esteri con finalità analoghe. In mancanza, si assume il costo di acquisto o di costruzione sostenuto dal de cuius o dal donante come risultante dalla relativa documentazione; in assenza di tale documentazione si assume il valore di mercato come sopra determinato.
Per gli immobili situati in Paesi appartenenti alla Unione europea o in Paesi aderenti allo Spazio economico europeo (SEE) che garantiscono un adeguato scambio di informazioni, il valore da utilizzare al fine della determinazione dell’imposta è prioritariamente quello catastale, come determinato e rivalutato nel Paese in cui l’immobile è situato ai fini dell’assolvimento di imposte di natura reddituale o patrimoniale ovvero di altre imposte determinate sulla base del valore degli immobili, anche se gli immobili sono pervenuti per successione o donazione. Nel caso in cui ad uno stesso immobile siano attribuibili diversi valori catastali ai fini delle imposte reddituali e delle imposte patrimoniali, deve essere preso in considerazione il valore catastale utilizzabile ai fini delle imposte patrimoniali, comprese quelle di competenza di enti locali e territoriali. Pertanto, per gli immobili nei predetti Stati si assume direttamente il valore catastale, intendendosi per tale il valore dell’immobile preso a base per la determinazione di imposte ivi dovute.
Secondo quanto previsto nella cir. 28/E del 2012 non è, invece, utilizzabile, a tal fine, un valore che esprima il reddito medio ordinario dell’immobile, a meno che la legislazione locale non preveda l’applicazione di meccanismi di moltiplicazione e rivalutazione analoghi a quelli previsti dalla legislazione italiana, idonei a consentire la determinazione del valore catastale dell’immobile.
In mancanza del valore catastale come sopra definito, si deve fare riferimento al costo risultante dall’atto di acquisto e, in assenza, al valore di mercato rilevabile nel luogo in cui è situato l’immobile.
Secondo quanto previsto nella cir. 28/E del 2012 per evitare disparità di trattamento tra contribuenti che hanno acquisito l’immobile in epoche diverse, qualora la legislazione estera preveda un valore espressivo del reddito medio ordinario e non vi siano meccanismi di moltiplicazione e rivalutazione analoghi a quelli previsti dalla legislazione italiana, può essere assunto come base imponibile dell’IVIE il valore dell’immobile che risulta dall’applicazione al predetto reddito medio ordinario dei coefficienti stabiliti ai fini. In questa ipotesi, il reddito medio ordinario è assunto tenendo conto di eventuali rettifiche previste dalla legislazione locale.
Coefficienti IMU
Coefficiente 160
Fabbricati aventi il carattere di abitazione, castelli, palazzi di eminenti pregi artistici e storici, alloggi tipici del Paese, magazzini e locali di deposito, nonché stalle, scuderie, rimesse e autorimesse senza fine di lucro, tettoie chiuse o aperte
Coefficiente 140
Collegi, convitti, case di cura e ospedali senza fine di lucro, scuole, biblioteche, pinacoteche, musei, gallerie, laboratori per arti e mestieri, locali per esercizi sportivi senza fine di lucro
Coefficiente 80
Uffici e studi privati
Coefficiente 60
Alberghi e pensioni
Coefficiente 55
Negozi e botteghe
Coefficiente 135-110
Terreni agricoli
E’ il caso, ad esempio, degli immobili siti in Francia, laddove il valore locativo catastale presunto è abbattuto del 50 per cento ai fini dell’applicazione della tax fonciere.
Come sopra illustrato, le particolari disposizioni in esame, relative all’utilizzo del valore catastale, si applicano nel caso di immobili situati in Paesi appartenenti alla Unione europea o in Paesi aderenti al SEE. Pertanto, data la formulazione letterale della norma, nell’ambito di applicazione sono compresi non solo i Paesi membri dell’Unione Europea, ma anche la Norvegia e l’Islanda. Infatti, con questi ultimi due Paesi, che appartengono al SEE, sono in vigore convenzioni contro le doppie imposizioni che assicurano lo scambio di informazioni non solo ai fini dell’applicazione delle stesse, ma anche delle imposte italiane.
In allegato alla Cir. 28/E del 2012 dell’Ag. delle entrate sono elencati i Paesi UE e SEE distinguendo quelli per i quali:
- risulta compilata la colonna 2 “Imposta presa a riferimento ai fini della determinazione del valore dell’immobile, in relazione ai quali si deve assumere quale base imponibile dell’IVIE il valore catastale dell’immobile utilizzato ai fini dell’assolvimento delle imposte indicate in tale colonna;
- non risulta compilata la colonna 2 (Belgio, Francia, Irlanda e Malta), in relazione ai quali per la determinazione della base imponibile dell’IVIE si deve fare riferimento al costo risultante dall’atto di acquisto e, in assenza, al valore di mercato rilevabile nel luogo in cui è situato l’immobile o, a scelta del contribuente, al valore che si ottiene moltiplicando il reddito medio ordinario, eventualmente previsto dalle legislazioni locali, per i coefficienti IMU.
La Cir. 28/E del 2012 specifica che la Tabella 1 Elenco Paesi UE e SEE è stata redatta sulla base di un’analisi delle legislazioni degli Stati interessati condotta autonomamente dall’Agenzia delle Entrate senza possibilità di verifica, ad oggi, con le corrispondenti Autorità fiscali estere. Qualora normative estere sopravvenute o non considerate conducano alla determinazione di un valore dell’immobile da assumere a base dell’IVIE differente da quello ricavabile in base alla predetta tabella ovvero all’individuazione di una imposta patrimoniale pagata all’estero non elencata, il contribuente può utilizzare tali valori dandone evidenza in sede di controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Modalità di calcolo dell’IVIE
L’imposta è dovuta nella misura dello 0,76 per cento del valore dell’immobile determinato sulla base dei criteri finora descritti.
Il versamento dell’imposta non è dovuto se l’importo della stessa non supera complessivamente euro 200. In sostanza sussiste una soglia di esenzione dal versamento dell’IVIE per gli immobili il cui valore complessivo non superi euro 26.381 circa. In tal caso il contribuente non è tenuto neanche ad indicare i dati relativi all’immobile nel quadro RM della dichiarazione dei redditi, fermo restando l’obbligo di compilazione del modulo RW2.
Ai fini dell’applicazione della soglia di esenzione di euro 200 si deve fare riferimento all’imposta determinata sul valore complessivo dell’immobile a prescindere da quote e periodo di possesso e senza tenere conto delle detrazioni previste per lo scomputo dei crediti di imposta di cui al paragrafo successivo.
L’imposta è dovuta proporzionalmente alla quota di titolarità del diritto di proprietà o altro diritto reale e ai mesi dell’anno nei quali si è protratto tale diritto. A tale proposito, il mese durante il quale il diritto si è protratto per almeno quindici giorni è computato per intero.
Dall’imposta si detrae, fino a concorrenza del suo ammontare, un credito d’imposta pari all’importo dell’eventuale imposta patrimoniale versata nell’anno di riferimento nello Stato estero in cui è situato l’immobile e ad esso relativa. In sostanza, dall’IVIE dovuta per il 2011 si scomputa l’imposta patrimoniale pagata all’estero nel medesimo anno. Qualora l’imposta patrimoniale sia corrisposta anche con riferimento ad altri beni, diversi dagli immobili, occorre effettuare un calcolo proporzionale al fine di individuare la quota parte dell’imposta riferibile agli immobili.
Con riferimento agli immobili detenuti in Europa, nella colonna 3 della Tabella 1, allegata alla cir. 28/E del 2012 e sopra riporatata, sono individuate, ove esistano, le imposte di natura patrimoniale che danno diritto allo scomputo dall’IVIE.
Anche per gli immobili detenuti in Paesi diversi da quelli elencati nella tabella 1 allegata alla cir. 28/E del 2012, dall’IVIE si detraggono le imposte patrimoniali ivi pagate nell’anno di riferimento.
Ad esempio, si detrae:
- per gli immobili situati negli Stati Uniti, la Real property tax;
- per gli immobili in Argentina, la Impuesto inmobiliario;
- per gli immobili in Svizzera, l’Imposta sulla sostanza delle persone fisiche e l’Imposta immobiliare;
- per gli immobili in Russia, la Tassa sulla proprietà delle persone fisiche, Nalog na imuschestvo fizicheskih litz.
Il credito d’imposta non può, in ogni caso, superare l’imposta dovuta in Italia.
La cir. 28/E del 2012 precisa che non è possibile detrarre, considerandole imposte patrimoniali, le imposte legate all’utilizzo di un determinato immobile in qualità di abitazione dal momento che tali tasse più che essere finalizzate a colpire la ricchezza costituita dal patrimonio sono dirette a richiedere un contributo, anche se rapportato al valore dell’immobile, al soggetto che abitando in un determinato luogo usufruisce dei servizi ivi forniti dalle amministrazioni pubbliche.
Per gli immobili situati in Paesi appartenenti all’Unione Europea o in Paesi aderenti al SEE che garantiscono un adeguato scambio di informazioni, dall’imposta dovuta in Italia, si detraggono prioritariamente le imposte patrimoniali effettivamente pagate nel Paese in cui sono situati gli immobili nell’anno di riferimento.
Inoltre, qualora sussista un’eccedenza di imposta reddituale gravante su immobili ivi situati non utilizzata ai sensi dell’articolo 165 del Testo Unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), dall’imposta dovuta in Italia per quegli immobili si detrae, fino a concorrenza del suo ammontare, anche un ulteriore credito d’imposta derivante da tale eccedenza.
Immobili esteri adibiti ad abitazione principale
L’IVIE è stabilita nella misura dello 0,4 per cento, al posto dello 0,76 per cento, per l’immobile adibito ad abitazione principale e per le relative pertinenze.
La versione originaria del testo normativo – vale a dire quella esistente prima delle modifiche apportate dall’art. 1 co. 518 e ss. della Legge 24 dicembre 2012, n. 228 e che in ogni caso non ha mai avuto valenza operativa a fronte del rinvio al 2012 dell’applicazione normativa – prevedeva la riduzione di aliquota per immobile adibito ad abitazione principale unicamente con riguardo ai soggetti che prestavano lavoro all’estero per lo Stato italiano, per una sua suddivisione politica o amministrativa o per un suo ente locale e per le persone fisiche che lavorano all’estero presso organizzazioni internazionali cui aderiva l’Italia.
Analogamente a quanto previsto dalla normativa italiana relativa all’IMU, si ritiene che per pertinenze dell’abitazione principale si debbano intendere le unità classificabili nelle tre categorie catastali di seguito riportate, nella misura massima di un’unità pertinenziale per ciascuna categoria:
- magazzini e locali di deposito;
- stalle, scuderie, rimesse e autorimesse senza fine di lucro;
- tettoie chiuse o aperte.
Dall’imposta dovuta per l’unità immobiliare situata all’estero adibita ad abitazione principale del soggetto passivo e per le relative pertinenze si detrae, fino a concorrenza del suo ammontare, la somma di euro 200 rapportata al periodo dell’anno durante il quale si protrae tale destinazione. In tale fattispecie non trova applicazione la soglia di esenzione di euro 200 di cui all’articolo 19, comma 15, del Dl 201/2012.
Qualora l’unità immobiliare sia adibita ad abitazione principale da più soggetti, la detrazione spetta, proporzionalmente alla quota per la quale la destinazione medesima si verifica, a ciascuno dei soggetti passivi la cui residenza fiscale in Italia sia determinata ex lege.
Per gli anni 2012 e 2013 la detrazione è maggiorata di euro 50 per ciascun figlio di età non superiore a ventisei anni, purché dimorante abitualmente e residente anagraficamente nell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale. L’importo complessivo della maggiorazione, al netto della detrazione di base, non può superare l’importo massimo di euro 400.
Non imponibilità ai fini dell’imposizione diretta per abitazione principale e immobili non locati
La norma infine prevede che limitatamente agli immobili adibiti ad abitazione principale e a quelli non locati, non trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 70, comma 2, del Tuir in tema di concorso dei redditi degli immobili situati all’estero alla formazione del reddito complessivo del contribuente. Ciò comporta, sostanzialmente, la non imponibilità di tali redditi in Italia.
Termini e modalità di dichiarazione e versamento dell’IVIE
Il Dl 201/2012 prevede che per il versamento, la liquidazione, l’accertamento, la riscossione, le sanzioni e i rimborsi nonché per il contenzioso relativi all’IVIE trovano applicazione le disposizioni previste per l’imposta sul reddito delle persone fisiche.
Al fine di dichiarare il valore degli immobili situati all’estero il contribuente deve compilare la Sezione XVI del quadro RM del modello UNICO Persone fisiche, indicando, stando quanto previsto al par. 4.3 del provvedimento del 5 giugno 2012, il controvalore in euro degli importi in valuta calcolato in base all’apposito provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate emanato ai sensi dell’articolo 4, comma 6, del decreto legge 28 giugno 1990, n. 167 convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1990, n. 227. Si tratta del provvedimento che fissa annualmente i cambi medi per compilare il modulo RW.
Nel provvedimento non è specificato se occorre fare riferimento al cambio ministeriale dell’anno di acquisto ovvero se annualmente occorre rideterminare il valore applicando il cambio ministeriale dell’anno. Ragioni di ordine logico sistemiche farebbero propendere per la prima soluzione: sarebbe infatti poco razionale applicare un cambio corrente a un costo storico. In tal caso andrebbe individuati i cambi relativi agli acquisti ante 1992 per i quali non è possibile far riferimento, non esistendo, al provvedimento richiamato.
L’imposta deve essere versata dal contribuente in base alle ordinarie disposizioni previste per l'imposta sul reddito delle persone fisiche ai sensi quindi del D.P.R. 7 dicembre 2001, n. 435. Il pagamento deve quindi avvenire mediante saldo a acconto ed è consentito rateizzare l’imposta dovuta ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241.
A tale proposito si fa presente che il pagamento anche degli acconti (e non solo del saldo) è stato introdotto nel disposto normativo ad opera dell’art. 1 co. 518 della Legge 24 dicembre 2012, n. 228. Prima della modifica, il testo originario prevedeva unicamente il versamento a saldo.
Si ricorda che ai sensi dell’articolo 1, comma 137, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 non si esegue il versamento per il debito della singola imposta o addizionale risultanti dalla dichiarazione dei redditi che non superano ciascuna l’importo di euro 12,00. Conseguentemente nel caso in cui il debito di imposta relativo all’IVIE non sia superiore a 12 euro il versamento non deve essere effettuato.
Nel caso di immobili – ivi compresi quelli oggetto di operazione di emersione mediante la procedura del rimpatrio giuridico – per i quali sia stato stipulato un contratto di amministrazione con una società fiduciaria, quest’ultima deve applicare e versare l’imposta dovuta dal contribuente, ricevendo apposita provvista da parte dello stesso.
In tali casi la fiduciaria indica i dati complessivi relativi ai versamenti dell’imposta nel modello di dichiarazione dei sostituti d’imposta e degli intermediari (modello 770 ordinario), a partire dal periodo di imposta 2012 (mod. 770/2013). Inoltre, devono essere forniti i dati di ciascun contribuente nonché le indicazioni circa l’ammontare dell’imposta riferibile agli stessi.
E’ evidente che in tale ipotesi il contribuente non deve compilare la predetta Sezione XVI del quadro RM e, peraltro, non è tenuto a indicare tali immobili nel modulo RW del predetto modello, ai sensi di quanto disposto dall’articolo 4 del decreto 28 luglio 1990, n. 167, come modificato dall’articolo 8, comma 16-bis, del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16.
Qualora, invece, il contribuente non fornisca la provvista, la società fiduciaria deve effettuare la segnalazione nominativa all’Amministrazione finanziaria attraverso il predetto modello di dichiarazione 770.
Nel caso in cui la fiduciaria pur disponendo della provvista non effettui in tutto o in parte il versamento ovvero lo effettui oltre il termine previsto, per le relative sanzioni si applicano le disposizioni relative alle omissioni in materia di imposte sui redditi di cui al decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471 e per il cosiddetto “ravvedimento operoso” si applica la disposizione di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472.
Il versamento dell’IVIE deve essere effettuato utilizzando i codici indicati nella risoluzione n. 54/E del 7 giugno 2012:
- “4041” denominato “Imposta sul valore degli immobili situati all'estero, a qualsiasi uso destinati dalle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato” per i versamenti effettuati dalle persone fisiche;
- “4042” denominato “Imposta sul valore degli immobili situati all'estero, a qualsiasi uso destinati dalle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato - Società fiduciarie” per i versamenti effettuati dalle società fiduciarie.
ARTICOLO - Pubblicato il: 2 dicembre 2012 - Da: G. Manzana E. Iori
La presunzione di distribuzione
Il comma 1, art. 47 del Tuir, prevede altresì che, indipendentemente dalla statuizione della delibera assembleare, si presumono ai fini fiscali prioritariamente distribuiti l’utile d’esercizio e le riserve diverse da quelle di capitale indicate nel comma 5 per la quota di esse non accantonata in sospensione di imposta.
La ratio della presunzione è affermare la prioritaria distribuzione di riserve di utili rispetto a quelle di capitale poiché solo le prime concorrono a formare il reddito imponibile del socio percipiente.
È una presunzione assoluta: non rileva, quindi, l’eventuale contenuto della delibera assembleare che afferma che la riserva in distribuzione è di capitale. La restituzione ai soci di riserve di capitale riduce il costo della partecipazione, mentre la distribuzione di riserve di utili concorre a formare l’imponibile del socio senza ridurre il costo della partecipazione.
Se è vero che la riserva di utili si presume distribuita prioritariamente significa che anche in presenza di una delibera che disponesse la distribuzione di una riserva di capitali, il costo della partecipazione, sotto il profilo fiscale, non subirebbe alcuna variazione. Pertanto sarà necessario monitorare il costo stesso in via extracontabile, poiché da un punto di vista civilistico la restituzione della riserva ne riduce il costo.
La presunzione opera per masse. Da punto di vista pratico occorre quindi individuare il valore complessivo delle tre differenti tipologie di riserve.
Le principali tipologie fiscali delle riserve sopra richiamate sono:
Riserve di capitali
- riserva da sovrapprezzo azioni o quote
- riserva da versamento soci a fondo perduto o in conto capitale
- riserva di rivalutazione monetaria esente da imposta
- riserva da interessi di conguaglio versati da nuovi soci
Dovrebbero rientrare anche la riserva da conferimento d’azienda per il conferitario (art. 176 del Tuir). In merito si veda L. Miele, Dietrofront sulle riserve, Il Sole 24 Ore; P. Meneghetti, Disciplina fiscale delle riserve di capitali e analisi delle riserve dia conferimento, Il Sole 24 Ore, Forum fiscale, n. 10, ottobre 2005, pg. 17.
Riserve in sospensione d’imposta
- riserva da rivalutazione monetaria (Legge n. 72 del 1983, Legge n. 408 del 1990, Legge n. 413 del 1991, Legge n. 342 del 2000 e successive proroghe avvenute con le leggi n. 448 del 2001 e 266 del 2005);
- riserva da sopravvenienza attive (art. 55, comma 3, lett. b), del Tuir, nella versione previgente all’esercizio in corso al 1° gennaio 1998);
- riserva da accantonamento di utili (3 per cento) a forme pensionistiche complementari;
- riserva per valutazione delle partecipazioni con il metodo del patrimonio netto;
- riserva da condono (art. 15 della Dl n. 429 del 1972 e art. 33 della Legge n. 413 del 1991)
La disciplina non interferisce con il regime previsto all’art. 109, comma 4 del Tuir relativo alla rettifiche, ammortamenti e accantonamenti solo fiscali, dato che tale norma non individua specifiche riserve in sospensione d’imposta ma richiede che venga indivudata una riserva monitorata virtuale.
Riserve di utili
- Utili esercizi precedenti
- Riserva da condono (Legge n. 289 del 2002)
- Riserva da conferimento d’azienda (art. 4 del Dlgs n. 358 del 1997 e per il conferente art. 176 del Tuir)
Secondo quanto previsto dall’Agenzia delle Entrate, nella Circ. n. 26/E del 16 giugno 2004, tale disposizione, in assenza di una specifica e diversa previsione, si rende applicabile:
- sempre che le riserve di utili presentino siano liberamente disponibili per la distribuzione ai soci;
- per le delibere di distribuzione effettuate a decorrere dal 1 gennaio 2004;
- indipendentemente dalla data di formazione delle riserve.
Tra le riserve indisponibili rientrano:
- la riserva legale nel limite però della quota obbligatoria (art. 2430, Codice civile),
- la riserva da acquisto azioni proprie ( art. 2357-ter, Codice civile);
- la riserva da valutazione delle partecipazioni con il metodo del patrimonio netto (art. 2426, punto 4, Codice civile);
- la riserva da utili netti su cambi (art. 2426, punto 8 bis, Codice civile),
- la riserva da deroghe in casi eccezionali (art. 2423, comma 4, Codice civile);
- la riserva delle società cooperative di cui all'art. 2545 ter, Codice civile;
- la riserva legale delle banche popolari (art. 32 del Dlgs n. 385 del 1 settembre 1993) e di quelle di credito cooperativo (art. 37 del Dlgs n. 385 del 1 settembre 1993);
- le riserve derivanti dall'applicazione dei Principi contabili internazionali (artt. 6 e 7 del Dlgs n. 38 del 28 febbraio 2005).
È invece ininfluente, ai fini che qui interessano, la disposizione dell'art. 2431, Codice civile sulla indisponibilità delle riserve da sovrapprezzo azioni finché la riserva legale non abbia raggiunto il limite del quinto del capitale sociale, giacché la riserva da sovrapprezzo azioni è riserva di capitale e non di utili, e soggiace quindi sempre e comunque alla presunzione ex art. 47, comma 1 (anche nel caso in cui l'assemblea dovesse deliberarne la distribuzione in violazione del divieto previsto dalla norma sopra citata).
E dubbio se possano essere comprese anche le riserve di utili la cui indisponibilità deriva da disposizioni statutarie e non da norme di legge.
La presunzione non opera:
- in caso di utilizzi della riserva per scopi differenti rispetto alla distribuzione, quale a esempio, la copertura di perdite; ciò si deduce indirettamente dalla lettura della norma (Cfr. Assonime, Circ. n. 32 del 14 luglio 2004, par. 5.2.);
- in caso di restituzione ai soci dei versamenti in conto futuro aumento di capitale al verificarsi della condizione risolutiva della mancata effettuazione dell'aumento (Cfr. ADC di Milano - massima n. 162 del 2005); ciò in quanto nell'ipotesi in cui, nel termine prefissato — o, in mancanza, in quello determinato dal giudice — l'aumento di capitale non abbia avuto luogo deve essere obbligatoriamente restituito dalla società al soggetto che lo ha effettuato. Da tale momento assume la natura di " debito" e quindi non soggiace alla presunzione in commento (Cassazione, sezione I, del 14 luglio 1995 e n. 2314 del 19 marzo 1996,);
- in caso di distribuzione di riserve di capitali dopo aver effettuato un aumento di capitale con riserve di utili; ciò in quanto la norma si limita a presumere la prioritaria distribuzione di " riserve" di utili e non anche di eventuali parti di capitale formate con riserve di utili (Cfr. L. Miele, La presunzione di distribuzione degli utili penalizza la restituzione degli apporti, Guida Normativa, n. 74 del 28 aprile 2005, G. Ferranti, Chiarimenti necessari sulle azioni gratuite, Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2004, F. Facchini, G. Pezzato, La presunzione nella distribuzione del patrimonio netto, Il Corriere Tributario, n. 14 del 2005).
- in caso di rimborso dei mutui (finanziamenti fruttiferi o infruttiferi) erogati dai soci alla società (Cfr. Adc di Milano - massima n. 162 del 2005); ciò in quanto non trattasi di riduzione di riserve;
- in caso di recesso, esclusione, riscatto e liquidazione quaòlora il socio non eserciti attività d’impresa; in caso invece di socio impresa l’applicazione è dubbia (Cfr. Assonime, Circ. n. 38 del 2005).
L’Adc di Milano (massima n. 162 del 2005) evidenzia come essendo l'art. 47, comma 1 del Tuir una disposizione a carattere antielusivo, se ne può chiedere la disapplicazione mediante presentazione alla Direzione Regionale, per il tramite del proprio Ufficio competente, di apposito interpello ai sensi dell'art. 37-bis, comma 8 del Dpr n. 600 del 1973.
La presunzione dell’art. 47, comma 1 del Tuir, si applica solo parzialmente alle società “trasparenti” (artt. 115 e 116 del Tuir). Il decreto attutivo del regime di trasparenza (Dm del 23 aprile del 2004), infatti prevede:
- (art. 8 comma 4) che salva diversa esplicita volontà assembleare, si considerano prioritariamente distribuiti gli utili e le riserve di utile realizzati nel periodo di efficacia dell’opzione; tale presunzione si applica anche se gli utili e le riserve sono distribuiti in periodi diversi da quelli in cui è efficace l’opzione;
- (art. 8 comma 5) che in caso di esplicita volontà assembleare di distribuzione di riserve di capitali (di cui all’art. 47, comma 5 del Tuir) la presunzione indicata nell’art. 47, comma 1, secondo periodo del Tuir, si applica solo con riguardo alle riserve costituite con utili di periodi d’imposta nei quali non ha operato la tassazione per trasparenza.
Secondo quanto previsto dal comma 1 dell’art. 8 del decreto la previsione secondo la quale gli utili e le riserve di utili formatesi nei periodi in cui è efficace l’opzione, ove distribuiti, non concorrono a formare il reddito dei soci, si applica anche nel caso in cui le predette distribuzioni avvengano successivamente ai periodi di efficacia dell’opzione o i soci siano diversi da quelli cui sono stati imputati i redditi, a condizione che rientrino tra i soggetti che rientrano nel regime di trasparenza (di cui ai commi 1 e 2, art. 1 del decreto attuativo).
L’art. 47, al comma 3 del Tuir prevede che nei casi di distribuzione di utili in natura il valore imponibile è determinato in relazione al valore normale degli stessi alla data individuata dalla lett. a), comma 2, dell’art. 109 del Tuir, cioè alla data di consegna o spedizione dei beni mobili o di stipula dell’atto per i beni immobili e per le aziende, ovvero, se diversa e successiva, alla data in cui si verifica l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale.
La definizione di detto valore normale compete alla società emittente che dovrà tener conto dei criteri previsti dall’art. 9, comma 4 del Tuir. Pertanto, se vengono attribuiti titoli (obbligazioni, azioni e altri titoli) quotati, il loro valore è dato dalla media aritmetica dei prezzi rilevati nell’ultimo mese. Al riguardo, si ricorda che occorre considerare il periodo che va dal giorno di riferimento (pagamento del dividendo) allo stesso giorno del mese solare precedente e che, ai fini del calcolo della media, si devono assumere soltanto i giorni di effettiva quotazione del titolo (in merito si veda quanto riportato nella Circ. n. 30/E del 25 febbraio 2000,).
Per delimitare la nozione di titolo quotato, la Circ. n. 165/E del 24 giugno 1998 ha chiarito che per titoli negoziati nei mercati regolamentati si intendono quelli negoziati, sia nei mercati individuati dal Dlgs 24 febbraio 1998, n. 58 (Tuf), sia quelli di Stati appartenenti all’Ocse, istituiti, organizzati e disciplinati da disposizioni adottate o approvate dalle competenti autorità in base alle leggi in vigore nello Stato in cui detti mercati hanno sede. Infine, va osservato che nel caso in cui siano attribuiti titoli denominati in valute estere (diverse dall’euro), la conversione nella valuta europea va effettuata dopo aver calcolato la media dei prezzi dei titoli.
Qualora vengano attribuiti titoli non quotati, il valore normale è da determinarsi:
- per i titoli partecipativi, in proporzione al valore del patrimonio netto della società o ente ovvero, per le società di nuova costituzione, all’ammontare complessivo dei conferimenti;
- per i titoli obbligazionari e similari, comparativamente al valore normale dei titoli aventi analoghe caratteristiche negoziati in mercati regolamentati italiani o esteri ed, in mancanza, in base ad altri elementi determinabili in modo obiettivo.
In caso di applicazione della ritenuta il comma 2, art. 27 del Dpr n. 600 del 1973, prevede che i soci sono tenuti a versare alla società emittente l’importo corrispondente all’ammontare della ritenuta, determinato in relazione al valore normale dei beni ad essi attribuiti, quale risulta dalla valutazione operata dalla società emittente.
Secondo quanto previsto dall’Agenzia delle Entrate nella Circ. n. 26/E del 2004, da tale norma emerge che il socio di una società od ente italiano deve fornire alla società emittente la provvista nella misura corrispondente all’ammontare della ritenuta dovuta. Conseguentemente, nel caso in cui il socio non fornisca la provvista, la società emittente non potrà che sospendere il pagamento del dividendo in natura, non potendo esercitare la rivalsa su somme liquide (in merito si confronti l’art. 64, comma 1 del Dpr n. 600 del 1973).
Il comma 5 dell’art. 47 del Tuir prevede che non costituiscono utili le somme e il valore dei beni ricevuti dai soci delle società soggette all’Ires a titolo di ripartizione di riserve di capitale o altri fondi costituiti con sopraprezzi di emissione delle azioni o quote, con versamenti fatti dai soci a fondo perduto o in conto capitale e con saldi di rivalutazione monetaria esenti da imposta.
Le somme o il valore dei beni ricevuti riducono il costo fiscalmente riconosciuto delle azioni o quote possedute. Si tratta di quanto già previsto nel previgente comma 1, art. 44 del Tuir.
L'eventuale somma (o valore dei beni) ricevuta dal socio eccedente il costo fiscale della partecipazione si qualifica come utile, trattandosi di un reddito derivante dall'impiego di capitale e non derivante da un evento realizzativo della partecipazione inquadrabile come tale tra le fattispecie che danno luogo a redditi diversi di natura finanziaria (Cfr. Circ. Ag. Entrate n. 26/E del 2004, n. 36/E del 2004, n. 4/E del 2006, n. 40/E del 13 maggio 2002, n. 112/E del 1999 e Ris. n. 79 del 31 maggio 2001).
In senso contrario si è invece espressa l’Adc di Milano, la quale, nella Norma n. 149 afferma che la distribuzione della riserva di sovraprezzo non determina mai un reddito tassabile per i soci persone fisiche o enti non commerciali per mancanza nel testo unico del presupposto d’imposta.
Con le modifiche introdotte nel comma 1-bis dell'art. 27 del DpR n. 600 del 1973 dal Dlgs n. 247 del 2006 è stato previsto che le particolari modalità di applicazione della ritenuta alla fonte previste con riferimento agli utili distribuiti in occasione di recesso, di esclusione, di riscatto e di riduzione del capitale esuberante o di liquidazione anche concorsuale della società o ente (ipotesi di cui all'art. 47, comma 7, del Tuir) si rendono applicabili anche ai fini della determinazione della base imponibile dell'eventuale somma (o valore dei beni) ricevuta dal socio in occasione della ripartizione di riserve di capitale e degli altri fondi di cui all'art. 47, comma 5, del Tuir.
Anche in queste ultime ipotesi è ora consentito applicare la ritenuta alla fonte soltanto sulla parte delle somme o del valore normale dei beni ricevuti dal socio eccedente il prezzo pagato per l'acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate.
Naturalmente la ritenuta va effettuata soltanto per le fattispecie in relazione alle quali l'art. 27 del Dpr n. 600 del 1973 trova applicazione e quindi, per gli utili di fonte italiana attribuiti alle persone fisiche residenti, se la partecipazione non è qualificata e non è relativa ad un'impresa commerciale. La nuova disposizione si applica ai proventi percepiti a decorrere dalla data di entrata in vigore del Decreto correttivo (ossia dal 2 dicembre 2005).
Nel comma 6, art. 47 del Tuir, viene riproposto lo stesso principio contemplato nel previgente art. 44 del Tuir, in base al quale non costituisce realizzo di utili l’assegnazione gratuita ai soci di nuove azioni e l’aumento gratuito del valore nominale delle azioni o quote già emesse, in caso di aumento del capitale sociale mediante passaggio di riserve o altri fondi a capitale.
Tuttavia, viene confermato che se e nella misura in cui l’aumento sia avvenuto mediante passaggio a capitale di riserve o fondi diversi da quelli costituiti con sopraprezzi di emissione delle azioni o quote, con interessi di conguaglio versati dai sottoscrittori di nuove azioni o quote, con versamenti fatti dai soci a fondo perduto o in conto capitale e con saldi di rivalutazione monetaria esenti da imposta (indicati nel comma 5 dello stesso art. 47 del Tuir), la successiva riduzione del capitale è considerata distribuzione di utili; qualora il capitale sociale comprende riserve di rivalutazione in sospensione d’imposta, la riduzione del capitale si imputa prioritariamente a esse (art. 13, comma 4 della Legge n. 342 del 2000).
In pratica, e' prevista una sorta di regola Fifo, in base alla quale i successivi rimborsi di capitale assumono la natura di riserve in sospensione e di utili fino a concorrenza dell'aumento complessivo derivante dai passaggi a capitale delle dette riserve o fondi aventi natura reddituale.
Occorre, inoltre, coordinare la presunzione di cui all'art. 47, comma 1, con la disposizione dell'art. 47, comma 6 del Tuir. Nel silenzio della norma e in mancanza di prassi amministrativa c’è chi sostiene che la riduzione del capitale sociale sia fattispecie analoga alla distribuzione di riserve di capitali, per cui in presenza di riserve di utili queste ultime dovrebbero essere primariamente attribuite ai soci (Cfr P. Meneghetti, Unico SC 2005, Prospetto delle riserve di capitali, Forum Fiscale n. 5 del 2005). C’è chi invece sembrerebbe sostiene il contrario in considerazione del fatto che la disciplina dettata dal predetto comma 6 sia "speciale" rispetto a quella contenuta nel comma 1 con la conseguente prevalenza della prima sulla seconda (Cfr G. Ferranti, Chiarimenti necessari sulle azioni gratuite, Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2004).
La percentuale di tassazione e la ritenuta applicata
Nel caso di utili percepiti da persone fisiche per partecipazioni detenute al di fuori dell’esercizio dell’impresa, si deve considerare che le modalità di tassazione differiscono, a seconda che si tratti di partecipazioni qualificate o di partecipazioni non qualificate.
L’art. 47 del Tuir e l’art. 27, commi da 1 a 5 del Dpr n. 600 del 1973 prevedono infatti che:
- i dividendi da partecipazioni non qualificate sono soggetti a ritenuta secca del 12,50 per cento (20% dal 2012);
- i dividendi da partecipazioni qualificate concorrono a formare il reddito imponibile, nella misura del 40 per cento (49,72 dal 2008) del loro ammontare.
Art. 47 – Utili da partecipazione - Tuir
1. Salvi i casi di cui all'art. 3, comma 3, lett. a), gli utili distribuiti in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione dalle società o dagli enti indicati nell'art. 73, anche in occasione della liquidazione, concorrono alla formazione del reddito imponibile complessivo limitatamente al 40 per cento del loro ammontare. Indipendentemente dalla delibera assembleare, si presumono prioritariamente distribuiti l'utile dell'esercizio e le riserve diverse da quelle del comma 5 per la quota di esse non accantonata in sospensione di imposta.
2. Le renumerazioni dei contratti di cui all'art. 109, comma 9, lett. b), concorrono alla formazione del reddito imponibile complessivo nella stessa percentuale di cui al comma 1, qualora il valore dell'apporto sia superiore al 5 per cento o al 25 per cento del valore del patrimonio netto contabile risultante dall'ultimo bilancio approvato prima della data di stipula del contratto nel caso in cui si tratti di società i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni; se l'associante determina il reddito in base alle disposizioni di cui all'art. 66, gli utili di cui al periodo precedente concorrono alla formazione del reddito imponibile complessivo dell'associato nella misura del 40 per cento, qualora l'apporto è superiore al 25 per cento della somma delle rimanenze finali di cui agli articoli 92 e 93 e del costo complessivo dei beni ammortizzabili determinato con i criteri di cui all'art. 110 al netto dei relativi ammortamenti. Per i contratti stipulati con associanti non residenti, la disposizione del periodo precedente si applica nel rispetto delle condizioni indicate nell'art. 44, comma 2, lett. a), ultimo periodo; ove tali condizioni non siano rispettate le remunerazioni concorrono alla formazione del reddito per il loro intero ammontare.
3. Nel caso di distribuzione di utili in natura, il valore imponibile è determinato in relazione al valore normale degli stessi alla data individuata dalla lett. a) del comma 2 dell'art. 109.
4. Nonostante quanto previsto dai commi precedenti, concorrono integralmente alla formazione del reddito imponibile gli utili provenienti da società residenti in Stati o territori diversi da quelli di cui al decreto del Ministro dell'economia e delle finanze emanato ai sensi dell'art. 168-bis, salvo i casi in cui gli stessi non siano già stati imputati al socio ai sensi del comma 1 dell'art. 167 e dell'art. 168 o se ivi residenti sia avvenuta dimostrazione, a seguito dell'esercizio dell'interpello secondo le modalità del comma 5, lett. b), dello stesso art. 167, del rispetto delle condizioni indicate nella lett. c) del comma 1 dell'art. 87. Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano anche alle remunerazioni di cui all'art. 109, comma 9, lett. b), relative a contratti stipulati con associanti residenti nei predetti Paesi o territori.
5. Non costituiscono utili le somme e i beni ricevuti dai soci delle società soggette all'imposta sul reddito delle società a titolo di ripartizione di riserve o altri fondi costituiti con sopraprezzi di emissione delle azioni o quote, con interessi di conguaglio versati dai sottoscrittori di nuove azioni o quote, con versamenti fatti dai soci a fondo perduto o in conto capitale e con saldi di rivalutazione monetaria esenti da imposta; tuttavia le somme o il valore normale dei beni ricevuti riducono il costo fiscalmente riconosciuto delle azioni o quote possedute.
6. In caso di aumento del capitale sociale mediante passaggio di riserve o altri fondi a capitale le azioni gratuite di nuova emissione e l'aumento gratuito del valore nominale delle azioni o quote già emesse non costituiscono utili per i soci. Tuttavia se e nella misura in cui l'aumento è avvenuto mediante passaggio a capitale di riserve o fondi diversi da quelli indicati nel comma 5, la riduzione del capitale esuberante successivamente deliberata è considerata distribuzione di utili; la riduzione si imputa con precedenza alla parte dell'aumento complessivo di capitale derivante dai passaggi a capitale di riserve o fondi diversi da quelli indicati nel comma 5, a partire dal meno recente, ferme restando le norme delle leggi in materia di rivalutazione monetaria che dispongono diversamente.
7. Le somme o il valore normale dei beni ricevuti dai soci in caso di recesso, di esclusione, di riscatto e di riduzione del capitale esuberante o di liquidazione anche concorsuale delle società ed enti costituiscono utile per la parte che eccede il prezzo pagato per l'acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate.
Articolo 27 - Ritenuta sui dividendi – Dpr 600/1973
1. Le società e gli enti indicati nelle lettere a) e b) del comma 1 dell'articolo 73 del testo unico delle imposte sui redditi approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, operano con obbligo di rivalsa, una ritenuta del 12,50 per cento a titolo d'imposta sugli utili in qualunque forma corrisposti, anche nei casi di cui all'articolo 47, comma 7, del predetto testo unico, a persone fisiche residenti in relazione a partecipazioni non qualificate ai sensi della lettera c bis) del comma 1 dell'articolo 67 del citato testo unico n. 917 del 1986, non relative all'impresa ai sensi dell'articolo 65 del medesimo testo unico. La ritenuta di cui al periodo precedente si applica alle condizioni ivi previste agli utili derivanti dagli strumenti finanziari di cui all'articolo 44, comma 2, lettera a) e dai contratti di associazione in partecipazione di cui all'articolo 109, comma 9, lettera b), del predetto testo unico qualora il valore dell'apporto non sia superiore al 5 per cento o al 25 per cento del valore del patrimonio netto contabile risultante dall'ultimo bilancio approvato prima della data di stipula del contratto nel caso in cui si tratti rispettivamente di società i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni. La ritenuta é applicata altresì dalle persone fisiche che esercitano imprese commerciali ai sensi dell'articolo 55 del testo unico delle imposte sui redditi e dalle società in nome collettivo e in accomandita semplice ed equiparate di cui all'articolo 5 del medesimo testo unico sugli utili derivanti dai contratti di associazione in partecipazione previsti nel precedente periodo, corrisposti a persone fisiche residenti; per i soggetti che determinano il reddito ai sensi dell'articolo 66 del predetto testo unico, in luogo del patrimonio netto si assume il valore individuato nel comma 2 dell'articolo 47 del medesimo testo unico.
1 bis. Nei casi di cui all'articolo 47, commi 5 e 7, del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 la ritenuta prevista dai commi 1 e 4 si applica sull'intero ammontare delle somme o dei valori corrisposti, qualora il percettore non comunichi il valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione.
2. In caso di distribuzione di utili in natura i singoli soci o partecipanti, per conseguirne il pagamento, sono tenuti a versare alle società ed altri enti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell'articolo 73 del predetto testo unico, l'importo corrispondente all'ammontare della ritenuta di cui al comma 1, determinato in relazione al valore normale dei beni ad essi attribuiti, quale risulta dalla valutazione operata dalla società emittente alla data individuata dalla lettera a) del comma 2 dell'articolo 109 del citato testo unico.
3. La ritenuta è operata a titolo d'imposta e con l'aliquota del 27 per cento sugli utili corrisposti a soggetti non residenti nel territorio dello Stato diversi dalle società ed enti indicati nel comma 3-ter, in relazione alle partecipazioni, agli strumenti finanziari di cui all'articolo 44, comma 2, lettera a), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e ai contratti di associazione in partecipazione di cui all'articolo 109, comma 9, lettera b), del medesimo testo unico, non relative a stabili organizzazioni nel territorio dello Stato. [L'aliquota della ritenuta è ridotta al 12,50 per cento per gli utili pagati ad azionisti di risparmio.] L'aliquota della ritenuta è ridotta all'11 per cento sugli utili corrisposti ai fondi pensione istituiti negli Stati membri dell'Unione europea e negli Stati aderenti all'Accordo sullo spazio economico europeo inclusi nella lista di cui al decreto del Ministro dell'economia e delle finanze emanato ai sensi dell'articolo 168-bis del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917. I soggetti non residenti, diversi dagli azionisti di risparmio, dai fondi pensione di cui al periodo precedente e dalle società ed enti indicati nel comma 3-ter, hanno diritto al rimborso, fino a concorrenza di un quarto della ritenuta, dell'imposta che dimostrino di aver pagato all'estero in via definitiva sugli stessi utili mediante certificazione del competente ufficio fiscale dello Stato estero.
3 bis. I soggetti cui si applica l'articolo 98 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 sono tenuti ad operare, con obbligo di rivalsa, la ritenuta di cui ai commi 3 e 3-ter sulla remunerazione di finanziamenti eccedenti prevista dal citato articolo 98 direttamente erogati dal socio o da una sua parte correlata, non residenti nel territorio dello Stato. A fini della determinazione della ritenuta di cui sopra, si computa in diminuzione la eventuale ritenuta operata ai sensi dell'articolo 26 riferibile alla medesima remunerazione. La presente disposizione non si applica alla remunerazione di finanziamenti eccedenti direttamente erogati dalle stabili organizzazioni nel territorio dello Stato di soggetti non residenti.
3-ter. La ritenuta è operata a titolo di imposta e con l'aliquota dell'1,375 per cento sugli utili corrisposti alle società e agli enti soggetti ad un'imposta sul reddito delle società negli Stati membri dell'Unione europea e negli Stati aderenti all'Accordo sullo spazio economico europeo che sono inclusi nella lista di cui al decreto del Ministro dell'economia e delle finanze emanato ai sensi dell'articolo 168-bis del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, ed ivi residenti, in relazione alle partecipazioni, agli strumenti finanziari di cui all'articolo 44, comma 2, lettera a), del predetto testo unico e ai contratti di associazione in partecipazione di cui all'articolo 109, comma 9, lettera b), del medesimo testo unico, non relativi a stabili organizzazioni nel territorio dello Stato.
4. Sulle remunerazioni corrisposte a persone fisiche residenti relative a partecipazioni al capitale o al patrimonio, titoli e strumenti finanziari di cui all'articolo 44, comma 2, lettera a), ultimo periodo, del testo unico delle imposte sui redditi e a contratti di cui all'articolo 109, comma 9, lettera b), del medesimo testo unico, in cui l'associante é soggetto non residente, non qualificati ai sensi della lettera c bis) del comma 1, dell'articolo 67 del testo unico e non relativi all'impresa ai sensi dell'articolo 65 dello stesso testo unico, é operata una ritenuta del 12,50 per cento a titolo d'imposta dai soggetti di cui al primo comma dell'articolo 23 che intervengono nella loro riscossione. La ritenuta é operata a titolo d'acconto:
a) sulla quota imponibile delle remunerazioni corrisposte da soggetti non residenti in relazione a partecipazioni al capitale o al patrimonio, titoli e strumenti finanziari e a contratti di cui alla lettera c) del comma 1 dell'articolo 67 del citato testo unico, non relativi all'impresa ai sensi dell'articolo 65;
b) sull'intero importo delle remunerazioni corrisposte, in relazione a partecipazioni, titoli, strumenti finanziari e contratti non relativi all'impresa ai sensi dell'articolo 65, da società ed enti residenti negli Stati o territori diversi da quelli di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell'articolo 168-bis del citato testo unico salvo che la persona fisica dimostri al soggetto che interviene nella riscossione che, a seguito dell'esercizio di interpello secondo le modalità del comma 5, lettera b), dello stesso articolo 167, sono rispettate le condizioni di cui alla lettera c) del comma 1, dell'articolo 87 del citato testo unico. La disposizione del periodo precedente non si applica alle partecipazioni, ai titoli e agli strumenti finanziari di cui all'articolo 44, comma 2, lettera a), ultimo periodo, emessi da società i cui titoli sono negoziati nei mercati regolamentati. La ritenuta é, altresì, operata sull'intero importo delle remunerazioni relative a contratti stipulati con associanti non residenti che non soddisfano le condizioni di cui all'articolo 44, comma 2, lettera a), ultimo periodo.
4 bis. Le ritenute del comma 4 sono operate al netto delle ritenute applicate dallo Stato estero. In caso di distribuzione di utili in natura si applicano le disposizioni di cui al comma 2.
5. Le ritenute di cui ai commi 1 e 4, primo periodo, non sono operate qualora le persone fisiche residenti e gli associati in partecipazione dichiarino all'atto della percezione che gli utili riscossi sono relativi all'attività di impresa o ad una partecipazione qualificata ai sensi della lettera c) del comma 1 dell'articolo 67 del citato testo unico. Le ritenute di cui ai commi 1 e 4, sono operate con l'aliquota del 27 per cento ed a titolo d'imposta nei confronti dei soggetti esenti dall'imposta sul reddito delle società.
6. Per gli utili corrisposti a soggetti residenti ed assoggettati alla ritenuta a titolo d'imposta o all'imposta sostitutiva sul risultato maturato di gestione non si applicano le disposizioni degli articoli 5, 7, 8, 9 e 11, terzo comma, della legge 29 dicembre 1962, n. 1745.
La misura del 40 per cento è elevata al 49,72 per cento per i dividendi formati con utili prodotti (dalla società distributrice) a partire dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007. Si tratta degli effetti conseguenti alla riduzione dell’aliquota Ires (in merito si veda quanto detto nello specifico paragrafo) è l’aumento della quota imponibile dei dividendi percepiti e delle plusvalenze realizzate da persone fisiche.
Come si legge nella Relazione illustrativa al Ddl Finanziaria per l’anno 2008, le nuove quote percentuali di tassazione dei dividendi e delle plusvalenze derivanti da partecipazioni c.d. “qualificate” detenute da soggetti “privati” (ovvero anche dei dividendi e dei capital gains riferibili a partecipazioni detenute in regime d’impresa irpef) dovrebbero determinare un prelievo complessivamente gravante sulla società – prima – e sui soci – poi – corrispondente a quello previgente, caratterizzato da una quota percentuale di imponibilità in capo ai soci del dividendo/capital gain del 40%, abbinata a un’aliquota Ires del 33%.
Tali nuove percentuali, secondo quanto disposto dall’art. 1, comma 38, della Legge Finanziaria per l’anno 2008, sono stabilite con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, il quale individua anche la data di decorrenza della nuova disciplina, in considerazione del fatto che i soli utili che avranno scontato la minor aliquota Ires del 27,5% saranno successivamente gravati da una quota di reddito imponibile “maggiorata” in sede di distribuzione del corrispondente dividendo, dovendosi invece mantenere la previgente quota imponibile - fatta pari al 40% - sino a concorrenza degli utili indivisi realizzati nei periodi d’imposta antecedenti quelli interessati dalla diminuzione di aliquota Ires.
Si legge nella relazione al Ddl Finanziaria per l’anno 2008 che il Decreto del Ministro dell’economia e delle finanze dovrà altresì disciplinare la decorrenza delle nuove soglie di imponibilità, in quanto le stesse dovranno riguardare esclusivamente gli utili che si formeranno a partire dal periodo d’imposta in corso al 1° gennaio 2008, “(…) nel presupposto che solo questi utili e quelli futuri beneficiano della più bassa [aliquota] Ires. Conseguentemente, occorrerà mantenere distinte le riserve alimentate da utili formatisi fino al 2007, tassabili anche in futuro al 40 per cento, da quelle alimentate da utili formatisi dal 2008. Si tratta, comunque, di un problema tipico di carattere transitorio, che sarà risolto dal decreto ministeriale”. Dovrà quindi essere individuato un criterio (facilmente “convenzionale”) per l’imputazione, in sede di distribuzione delle riserve, allo stock di utili indivisi realizzati nei periodi d’imposta antecedenti quelli interessati dalla diminuzione di aliquota, ovvero a quelli successivi, nonché eventualmente affermata l’inapplicabilità dell’incremento di base imponibile ai fini dei capital gains realizzati su partecipazioni detenute in talune società non interessate dalla predetta riduzione dell’aliquota Ires, quali per esempio le società di persone. Infine, dovrà essere confermata la spettanza del diritto a una quota di imponibilità “differenziata” sugli utili pregressi anche in capo ai soci cessionari di partecipazioni cedute a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007.
Il Decereto è stato approvato il 2 aprile 2008.
Decreto 2 aprile 2008 del viceministro dell'Economia e delle finanze che dispone le nuove percentuali di concorso al reddito per dividendi e plusvalenze.
ARTICOLO1 - Utili da partecipazione e proventi equiparati
1. Agli effetti dell'applicazione degli articoli 47 e 59 del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, gli utili derivanti dalla partecipazione in società ed enti soggetti all'Ires e i proventi equiparati derivanti da titoli e strumenti finanziari assimilati alle azioni, di cui all'articolo 44, comma 2, lettera a), del predetto Testo unico, formati con utili prodotti a partire dall'esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007 nonché le remunerazioni derivanti da contratti di cui all'articolo 109, comma 9, lettera b), del citato Testo unico, formate con utili prodotti a partire dal suddetto esercizio, concorrono alla formazione del reddito complessivo nella misura del 49,72 per cento.
2. A partire dalle delibere di distribuzione successive a quella avente a oggetto l'utile dell'esercizio in corso al 31 dicembre 2007, agli effetti della tassazione del soggetto partecipante, i dividendi distribuiti si considerano prioritariamente formati con utili prodotti dalla società o ente partecipato fino a tale esercizio.
3. L'ammontare complessivo delle riserve formate con utili prodotti dalla società o ente partecipato fino all'esercizio in corso al 31 dicembre 2007, che in caso di distribuzione concorrono a formare il reddito complessivo del percipiente, ai sensi dei citati articoli 47 e 59 del Tuir, in misura pari al 40 per cento del loro importo, e i decrementi di tale ammontare complessivo conseguenti alle delibere di distribuzione sono indicati nel «Prospetto del capitale e delle riserve» del quadro RF del modello di dichiarazione dei redditi delle società di capitali. Nella certificazione relativa agli utili e agli altri proventi equiparati di cui all'articolo 4, comma 6-quater, del decreto del presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, deve essere data separata indicazione degli utili che concorrono a formare il reddito complessivo nella misura del 40 per cento e degli utili e proventi equiparati che concorrono a formare il reddito complessivo nella misura del 49,72 per cento.
4. Le disposizioni dei commi 2 e 3 si applicano, in quanto compatibili, anche ai proventi derivanti da titoli e strumenti finanziari assimilati alle azioni di cui al citato articolo 44, comma 2, lettera a), del Tuir e alle remunerazioni dei contratti di cui al citato articolo 109, comma 9, lettera b), dello stesso Tuir.
5. In caso di utili e proventi equiparati nonché di remunerazioni erogate da società o enti non residenti,i dati e gli elementi indicati nel comma 3 sono forniti dal soggetto partecipante residente, previa attestazione da parte della società o dell'ente estero, all'intermediario che interviene nella distribuzione degli utili e dei proventi.
ARTICOLO 2 - Plusvalenze e minusvalenze
1. Agli effetti dell'applicazione dell'articolo 58, comma 2, del Tuir, le plusvalenze realizzate a decorrere dal 1 gennaio 2009 non concorrono alla formazione del reddito imponibile, in quanto esenti, limitatamente al 50,28 per cento del loro ammontare. La stessa percentuale si applica per la determinazione della quota delle corrispondenti minusvalenze non deducibile dal reddito imponibile.
2. Agli effetti dell'applicazione dell'articolo 68,comma 3,del Tuir, le plusvalenze e le minusvalenze realizzate a decorrere dal 1 gennaio 2009 concorrono alla formazione del reddito imponibile per il 49,72 per cento del loro ammontare. Resta ferma la misura del 40 per cento per le plusvalenze e le minusvalenze derivanti da atti di realizzo posti inessereanteriormente al 1 gennaio 2009, ma i cui corrispettivi siano in tutto o in parte percepiti a decorrere dalla stessa data.
Viene prevista nella misura del del 49,72% la nuova percentuale imponibile degli utili e redditi equiparati corrisposti da soggetti Ires, residenti e non residenti, e percepiti da persone fisiche residenti non imprenditori, su partecipazioni qualificate e da società semplici e associazioni artistiche e professionali equiparate residenti, su ogni tipo di partecipazione.
Corrispondentemente, per imprenditori individuali residenti, Snc e Sas residenti, la percentuale esente degli utili e proventi corrisposti da soggetti Ires, residenti o no è del 50,28 per cento.
Le nuove percentuali si applicano ai dividendi formati con utili prodotti (dalla società distributrice) a partire dall'esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007.
Plusvalenze e minusvalenze
La percentuale di imponibilità o deducibilità del 49,72% si applica anche a plus e minusvalenze derivanti dalla cessione delle partecipazioni effettuate da:
- persone fisiche residenti non imprenditori, società semplici e associazioni artistiche e professionali equiparate residenti, enti non commerciali residenti, su partecipazioni qualificate;
- soggetti non residenti (salve le esenzioni previste per extra-territorialità o per effetto dell'articolo 5, comma 5, del decreto legislativo 461/97 o per effetto di convenzioni contro le doppie imposizioni), su partecipazioni qualificate.
Infine, le plusvalenze e minusvalenze conseguite – in seguito alla cessione di partecipazioni in soggetti Ires residenti o non residenti – da parte di imprenditori individuali residenti, Snc e Sas residenti ed Enc residenti, nell'esercizio di attività commerciali, sono esenti o indeducibili al 50,28% quando sussistono i requisiti della participation exemption.
Resta ferma la tassazione al 100% degli utili provenienti da società residenti in paradisi fiscali (salvo interpello favorevole) e delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni in tali società.
La nuova percentuale si applica sia alle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni in soggetti Ires che a quelle derivanti dalla cessione di società di persone residenti (artt. 5 e 116, Tuir). L'estensione anche a quest’ultime eccede gli scopi del decreto che, in realtà, doveva solo «garantire l'invarianza del livello di tassazione dei dividendi e delle plusvalenze, in relazione alla riduzione dell'aliquota dell'imposta sul reddito delle società» e quindi non doveva incidere sulla posizione dei soci di società personali. Tuttavia, il legislatore ha preferito mantenere l'allineamento, esistente fin dalla riforma Ires del 2004, fra quota imponibile delle plusvalenze su partecipazioni in soggetti Ires e in società di persone. Tale estensione si pone «per certi versi, in linea di continuità con l’approccio precedentemente adottato dal Legislatore, sebbene (…) si tratti di un’estensione che non trova corrispondenza nella diminuzione dell’aliquota applicabile al reddito delle società personali e che, in definitiva, finisce per incrementare il carico impositivo complessivamente gravante sui soci di società personali rispetto al passato». (Cfr. Assonime, circolare 37 del 30 maggio 2008, (par. 2.3), pagina 10).
Le nuove percentuali si applicano alle plusvalenze e minusvalenze realizzate a decorrere dal 1° gennaio 2009 e cioè derivanti da cessioni perfezionate (con il trasferimento della proprietà) a partire da tale data. Il decreto precisa che per le plusvalenze e minusvalenze relative ad atti di realizzo posti in essere anteriormente al 1° gennaio 2009, ma i cui corrispettivi siano in tutto o in parte percepiti a decorrere dalla stessa data – assegnando rilievo prioritario al momento del realizzo – resta ferma la misura del 40 per cento.
A riguardo si ricorda che la plusvalenza è, come regola generale, imponibile solo se sono rispettate entrambe le seguenti condizioni:
- che sia realizzata (e che quindi sia trasferita la proprietà dei titoli);
- che sia percepita (e che quindi il corrispettivo sia stato incassato).
Sono pertanto ancora attuali le istruzioni ministeriali contenute nella circolare ministeriale 14 del 1991 secondo cui:
- qualora nei periodi d'imposta precedenti alla cessione il cedente abbia percepito somme a titolo di anticipazione, di tali somme si dovrà tener conto ai fini del corrispettivo percepito (pertanto esse non sono tassabili nell'anno in cui sono percepite, ma nel l'anno in cui la cessione viene perfezionata);
- nel caso in cui il cedente non abbia percepito, nel periodo d'imposta, tutto il corrispettivo pattuito, ai fini del calcolo della plusvalenza (o della minusvalenza), si dovrà tener conto del prezzo d'acquisto proporzionalmente corrispondente alle somme percepite nel periodo d'imposta.
Questo principio è formalizzato nella lettera f) del nuovo comma 6 dell'articolo 68 del Tuir, in cui si precisa che «nei casi di dilazione o rateazione del pagamento del corrispettivo la plusvalenza è determinata con riferimento alla parte del costo proporzionalmente corrispondente alle somme percepite nel periodo d'imposta».
Si considerano distribuiti per primi gli utili prodotti dalla società fino all'esercizio in corso al 31 dicembre 2007, tutelando il principio dell'affidamento. È possibile che i soggetti che cedono partecipazioni dal 2009 preferiscano percepire i dividendi formati con utili prodotti anteriormente al 2008, prima della cessione. Ciò non potrà essere considerato elusivo, perché evita un residuo effetto distorsivo della norma che (si ritiene per esigenze di semplificazione) non consente di distinguere la parte di plusvalenza corrispondente alle riserve formate con utili prodotti fino al 2007 (Cfr. Qualificate, il fisco arretra, M. Piazza, Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2008).
Secondo la Relazione illustrativa al Dm del 2 aprile 2008 “tale percentuale è idonea a garantire un prelievo aggiuntivo Irpef tale da portare il prelievo complessivo (società-socio) al 43 per cento. In particolare, ipotizzando un utile prima dell’Ires pari a 100 e, quindi, un dividendo distribuibile pari a 72,5, la misura del 49,72 per cento si ricava dalla formula (15,50/(72,50 x 0,43)) e consente di prelevare un importo a titolo di Irpef del 15,50 che sommato al prelievo Ires pari dal 2008 a 27,5 determina un prelievo complessivo pari a quello che si otterrebbe assoggettando l’utile lordo al 43 per cento”.
La copertura è resa (inevitabilmente) imperfetta solo dagli effetti dell'Irap (diversi a seconda della localizzazione dell'emittente) e delle addizionali Irpef.
Il punto di indifferenza nella tassazione degli utili relativi a partecipazioni qualificate e no si ottenga per un'aliquota marginale Irpef molto bassa (poco più del 25%), appena sopra il primo scaglione di reddito. È stato così evitato, nella pressoché totalità dei casi, che i non qualificati subiscano una pressione maggiore dei qualificati.
Secondo la relazione illustrativa al Dm 2 aprile 2008 (punto 7): “La diversa misura di concorrenza alla formazione del reddito applicabile agli utili prodotti sino all’esercizio in corso al 31 dicembre 2007 e agli utili prodotti successivamente al suddetto esercizio, ha reso necessario introdurre una presunzione che consenta di regolare il criterio di “uscita” degli utili prodotti”. Pertanto, il decreto prevede che “a partire dalle delibere di distribuzione successive a quella avente ad oggetto l’utile d’esercizio in corso al 31 dicembre 2007, agli effetti della tassazione del soggetto partecipante, i dividendi distribuiti si considerano prioritariamente formati con utili prodotti dalla società o ente partecipato fino a tale esercizio”.
Assonime ha sostenuto che, in coerenza con il principio per il quale “il socio non deve subire aggravi impositivi fintantoché i dividendi percepiti corrispondano nel quantum a utili tassati in capo alla società partecipata con un’aliquota d’imposta più elevata (nella specie, con l’aliquota Ires del 33 per cento)”, nel caso in cui le riserve di utili vengano utilizzate per finalità diverse dalla loro distribuzione, l’ordine dovrebbe essere «esattamente inverso rispetto a quello stabilito per le distribuzioni, in modo che, in sede di distribuzione, possa trovare piena applicazione in capo al socio il regime fiscale all’uopo espressamente previsto” (Cfr. Circolare 30 maggio 2008, n. 37).
Deve, infatti, applicarsi il “principio di copertura” (Cfr. Assonime, circolare n. 50 del 10 maggio 1984, pagina 33, riferita all'abrogata “maggiorazione di conguaglio” - circolare richiamata dalla Circolare 37/2008, pagina 13), secondo cui il socio non deve subire aggravi impositivi fintantoché i dividendi percepiti corrispondano nel quantum a utili tassati in capo alla società partecipata con un'aliquota d'imposta più elevata (nella specie, con l'aliquota Ires del 33 per cento).
Il principio trova, ad esempio, applicazione in caso di utilizzo delle riserve di utili:
- per la copertura di perdite;
- per l'annullamento di azioni proprie;
- per la ricostituzione delle riserve di capitale e di utili a seguito di operazioni di fusione o scissione;
- per la rettifica di attività o passività in conseguenza della prima applicazione dei principi contabili internazionali.
In paricolare per quanto concerne la ricostruzione delle riserve in caso di fusione o scissione si ritiene che si si deve procedere per fasi successive, come segue:
- Fase 1: prioritaria ricostituzione delle riserve in sospensione d'imposta secondo le regole di cui all'articolo 172, comma 5;
- Fase 2: in caso di avanzo eccedente, ricostituzione delle riserve di capitale e di utili, con il criterio proporzionale di cui all'articolo 172, comma 6;
- Fase 3: determinato l'ammontare complessivo di riserve di utili ricostituite, imputazione delle stesse con priorità a quelle formate, dalla società fusa o scissa con utili assoggettate a Ires al 33% cento, in conformità allo stesso articolo 1, comma 2, del decreto ministeriale. Non avrebbe senso adottare, nella fase 3, un criterio proporzionale, in quanto i soci delle società che avessero distribuito le riserve prima di essere incorporate (beneficiando della presunzione di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto ministeriale) sarebbero trattati più favorevolmente di quelli delle società che non avessero operato in tal modo.
In tal senso si è espressa la norma di comportamento n. 173 dell’Associazione Italiana dottori commercialisti.
Norma di comportamento n. 173, elaborata dalla Commissione Norme di comportamento e di comune interpretazione in materia tributaria dell'Associazione italiana dottori commercialisti, in materia di «regime transitorio degli utili distribuiti da soggetti Ires. Presunzione riguardo all'utilizzo di riserve di utili per scopi diversi dalla distribuzione».
MASSIMA
Gli utili e le riserve distribuiti – comprese le riserve in sospensione d'imposta in capo alla società – concorrono a formare il reddito dei soci beneficiari – diversi dai soggetti Ires e da quelli assoggettati a tassazione alla fonte a titolo d'imposta – nella misura del 40%, fino a concorrenza delle riserve formate con utili prodotti fino all'esercizio in corso al 31 dicembre 2007 e nella misura del 49,72% per l'eccedenza.
A partire dall'esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007, le riserve di utili utilizzate per finalità diverse dalla distribuzione ai soci devono essere decrementate dando priorità, e fino a loro concorrenza, a quelle formate con utili prodotti negli esercizi successivi a quello in corso al 31 dicembre 2007.
In caso di fusione o scissione, le riserve di utili della società scissa o incorporata che si considerano ricostituite nel patrimonio della beneficiaria o incorporante si presumono provenienti prioritariamente dalle riserve di utili prodotti, dalla società scissa o incorporata, fino all'esercizio in corso al 31 dicembre 2007.
***
Il decreto ministeriale 2 aprile 2008 («Decreto»), in seguito alla diminuzione dell'aliquota Ires al 27,5%, disposta dall'articolo 1, comma 33 della legge 244/07, ha elevato dal 40% al 49,72% la base imponibile prevista dagli articoli 47 e 59 del Testo unico, per gli utili da partecipazione di cui all'articolo 44, comma 1, lettera e) (1).
La nuova percentuale d'imponibilità si applica ai dividendi originati da utili prodotti a partire dall'esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007.
L'articolo 1, comma 2, del decreto 2 aprile 2008 introduce una presunzione secondo cui, a partire dalle distribuzioni successive a quelle aventi a oggetto l'utile dell'esercizio in corso al 31 dicembre 2007, agli effetti della tassazione del soggetto partecipante, i dividendi distribuiti si considerano prioritariamente formati con utili prodotti dalla società o ente partecipato fino a tale esercizio.
A tal fine, il comma 3 dell'articolo 1 del decreto prevede:
–l'obbligo di indicare, nel «Prospetto del capitale e delle riserve» contenuto nel quadro RF del modello di dichiarazione dei redditi delle società di capitali partecipate, l'ammontare complessivo delle riserve formate con utili prodotti dalla società o ente fino all'esercizio in corso al 31 dicembre 2007 (che in caso di distribuzione concorrono a formare il reddito complessivo del percipiente, ai sensi dei citati articoli 47 e 59 del Tuir, in misura pari al 40% del loro importo) e i decrementi (2) di tale ammontare complessivo conseguenti alle delibere di distribuzione;
–l'obbligo di dare separata indicazione, nella «Certificazione utili corrisposti e proventi equiparati» da rilasciare al percettore, degli utili che concorrono a formare il reddito complessivo nella misura del 40% e degli utili e proventi equiparati che concorrono a formare il reddito complessivo nella misura del 49,72 per cento.
La presunzione di favore contenuta nell'articolo 2, comma 1 del decreto si applica non soltanto in caso di distribuzione di «riserve», ma anche nei casi di distribuzione degli «utili» prodotti negli esercizi successivi a quello in corso al 31 dicembre 2007. Lo si desume sia dal tenore letterale della norma – che si riferisce genericamente ai «dividendi» senza specificare se originino da utili dell'esercizio o da riserve di utili – sia dalla sua finalità che è quella di tutelare il principio di affidamento, evitando di dare applicazione retroattiva all'elevazione della percentuale di imponibilità dei dividendi. Di conseguenza, anche gli utili prodotti a partire dall'esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007, se distribuiti, concorreranno a formare il reddito dei soci – diversi dai soggetti Ires e da quelli tassati alla fonte a titolo d'imposta – nella misura del 40% fino a concorrenza dell'ammontare complessivo delle riserve formate con utili prodotti fino all'esercizio in corso al 31 dicembre 2007 (3) e, solo per l'eventuale eccedenza, nella misura del 49,72 per cento.
Nel caso in cui le riserve di utili siano utilizzate, a partire dal l'esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007, per finalità diverse dalla distribuzione ai soci, devono considerarsi utilizzate in via prioritaria, e fino a loro concorrenza, quelle formate con utili prodotti negli esercizi successivi a quello in corso al 31 dicembre 2007 (che, se distribuiti, concorrerebbero alla formazione del reddito complessivo del beneficiario nella misura del 49,72% del relativo importo), indipendentemente dalla circostanza che siano soggette a vincoli di distribuibilità per obblighi di legge o limiti statutari.
Deve, infatti, applicarsi il «principio di copertura» (4), secondo cui il socio non deve subire aggravi impositivi fintantoché i dividendi percepiti corrispondano nel quantum a utili tassati in capo alla società partecipata con un'aliquota d'imposta più elevata (5).
Il principio trova, ad esempio, applicazione in caso di utilizzo delle riserve di utili (6):
–per la copertura di perdite;
–per l'annullamento di azioni proprie;
–per la ricostituzione delle riserve di capitale e di utili a seguito di operazioni di fusione o scissione;
–in contropartita di variazioni delle attività e passività, per effetto dei principi contabili internazionali.
L'articolo 1, comma 2 del decreto deve essere inoltre coordinato con l'articolo 47, comma 1 del Testo unico, il quale dispone che «indipendentemente dalla delibera assembleare, si presumono prioritariamente distribuiti l'utile dell'esercizio e le riserve diverse da quelle del comma 5 per la quota di esse non accantonata in sospensione di imposta».
Pertanto, in caso di distribuzione di «riserve di capitale» di cui all'articolo 47, comma 5 del Testo unico, si considerano prioritariamente distribuiti l'utile dell'esercizio e le riserve di utili. Tali utili o riserve concorrono a formare il reddito imponibile del socio nella misura del 40% fino a concorrenza delle riserve di utili prodotte fino all'esercizio in corso al 31 dicembre 2007 e, solo per l'eventuale eccedenza, nella misura del 49,72 per cento.
La presunzione di cui all'articolo 47, comma 1 non opera per le riserve in sospensione d'imposta, il che significa che la distribuzione di riserve di capitale, in presenza di riserve in sospensione d'imposta, non comporta che queste ultime si considerino distribuite al posto delle prime. Come ha osservato l'Assonime (7), si è, con ciò, inteso evitare che, per realizzare l'imposizione del dividendo presso il socio, venga a essere penalizzata anche la società, con la perdita del beneficio della sospensione d'imposta.
Ai fini del coordinamento con l'articolo 1, comma 2 del decreto, si deve intendere che solo quando l'assemblea deciderà di distribuire specifiche riserve in sospensione d'imposta, esse concorreranno a formare il reddito della società (soggetto all'Ires del 27,5%) e del socio. Per quest'ultimo – in applicazione dell'articolo 1, comma 2 del decreto – il provento concorrerà a formare il reddito imponibile nella misura del 40% fino a concorrenza delle riserve di utili formate con utili prodotti fino all'esercizio in corso al 31 dicembre 2007 e, solo per l'eventuale eccedenza, nella misura del 49,72 per cento.
È utile – ma non obbligatorio (8) – segnalare nel prospetto di cui all'articolo 2429, secondo comma, numero 7-bis), contenuto nella nota integrativa, l'ammontare residuo complessivo delle riserve che, se distribuite, concorrono a formare il reddito dei soci – diversi dai soggetti Ires e da quelli soggetti a tassazione alla fonte a titolo d'imposta – nella misura del 40 per cento.
Con specifico riferimento alla ricostituzione delle riserve di capitale e di utili a seguito di operazioni di fusione o scissione si dovrà procedere per fasi successive, come segue:
Fase 1: prioritaria ricostituzione delle riserve in sospensione d'imposta secondo le regole di cui all'articolo 172, comma 5.
Fase 2: in caso di avanzo eccedente, ricostituzione delle riserve di capitale e di utili, con il criterio proporzionale di cui all'articolo 172, comma 6.
Fase 3: determinato l'ammontare complessivo di riserve di utili ricostituite, imputazione delle stesse con priorità a quelle formate dalla società fusa o scissa con utili prodotti fino all'esercizio in corso al 31 dicembre 2007, in conformità al citato articolo 1, comma 2 del decreto (9).
Note
(1) L'elevazione della percentuale di imponibilità riguarda anche le remunerazioni derivanti da contratti di cui all'articolo 109, comma 9, lettera b) e i proventi degli strumenti finanziari assimilati alle azioni, di cui all'articolo 44, comma 2, lettera a) del Testo unico.
(2) Per motivi sistematici, i decrementi della massa di riserve tassabili in capo al socio nella misura del 40% devono essere effettuati, indipendentemente dalla circostanza che il beneficiario degli utili sia o meno un soggetto obbligato a includere nel reddito complessivo l'utile percepito in base agli articoli 47 e 59 del Testo unico (si veda, in relazione a una analoga circostanza, la circolare 26/E del 22 gennaio 1998, paragrafo 2.3).
(3) Si veda, indirettamente, anche la circolare Assonime n. 37 del 30 maggio 2008, pagina 12.
(4) Si veda Assonime, circolare n. 50 del 10 maggio 1984, pagina 33, riferita all'abrogata «maggiorazione di conguaglio», secondo cui «l'ordine di priorità fissato dalla norma per le distribuzioni risulta chiaramente preordinato in funzione di una diversa considerazione della ricchezza che la società devolve all'esterno rispetto a quella che consolida nel patrimonio sociale il che induce a ritenere che per gli utilizzi a copertura delle perdite, i quali comportano un consolidamento irreversibile delle risorse impiegate, debba assumersi un ordine di priorità (…) esattamente inverso a quello stabilito per le distribuzioni».
(5) Le previgenti disposizioni del Tuir prevedevano l'aliquota del 36% sino al 31 dicembre 2000, del 34% sino al 31 dicembre 2002 e del 33% sino al 31 dicembre 2007.
(6) Si veda Assonime, circolare 30 maggio 2008, n. 37, pagina 13.
(7) Si veda Assonime, circolare 14 luglio 2004, n. 32, pagina 56.
(8) Si veda Oic, Principio contabile n. 28, paragrafo IV.
(9) Non avrebbe senso adottare, nella Fase 3, un criterio proporzionale, in quanto i soci delle società le quali avessero distribuito le riserve prima di essere incorporate (beneficiando della presunzione di cui all'articolo 1, comma 2 del decreto ministeriale) sarebbero trattati più favorevolmente di quelli delle società che non avessero operato in tal modo.
L’art. 2, co. 6 del Dl 138/2011 ha previsto che a decorrere dal 2012 (dividendi percepiti dal 1 gennaio 2012), l’aliquota ordinaria della ritenuta ovvero dell’imposta sostitutiva applicata alle rendite finanziarie di persone fisiche, enti non commerciali e società semplici (ossia, agli interessi, premi e altri proventi di cui all’art. 44, TUIR e ai redditi diversi di cui all’art. 67, comma 1, lett. da c-bis) a c-quinquies), TUIR) è aumentata nella misura del 20%.
Articolo 2 Dpr 138/2011
(…)
6. Le ritenute, le imposte sostitutive sugli interessi, premi e ogni altro provento di cui all'articolo 44 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 e sui redditi diversi di cui all'articolo 67, comma 1, lettere da c- bis a c- quinquies del medesimo decreto, ovunque ricorrano, sono stabilite nella misura del 20 per cento. (…)
10. Per i dividendi e proventi ad essi assimilati la misura dell'aliquota di cui al comma 6 si applica a quelli percepiti dal 1° gennaio 2012.(…)
Le novità introdotte con il Dl 138/2011
È tuttavia prevista una serie di eccezioni tra le quali si evidenzia:
- l’imposta sostitutiva dell’11% sui risultati derivanti dai fondi pensione italiani;
- la ritenuta o imposta sostitutiva del 12,5% sui titoli di Stato italiani e titoli ad essi equiparati, sui titoli di Stato esteri non “black list”, sui titoli di risparmio per l’economia meridionale nonché su determinate forme di previdenza complementare e specifici piani di risparmio appositamente istituiti.
Tra le casistiche alle quali il Decreto in esame non apporta modifiche si evidenziano inoltre:
- gli utili e le plusvalenze relativi a partecipazioni qualificate;
- gli interessi e i canoni corrisposti a società residenti in uno Stato UE di cui al nuovo comma 8-bis, dell’art. 26, DPR n. 600/73, introdotto dall’art. 23, DL n. 98/2011 (Informativa SEAC 20.7.2011, n. 174);
- gli utili corrisposti a società ed enti soggetti alle imposte sui redditi delle società in Stati UE o dell’Accordo sullo spazio economico europeo “white list”, per i quali è confermata la ritenuta nella misura dell’1,375%.
È altresì prevista:
- la soppressione della maggiorazione del 20% sugli interessi dei titoli con scadenza non inferiore a 18 mesi rimborsati anticipatamente;
- la riduzione, da 4/9 a 1/4 della ritenuta, dell’importo massimo dell’imposta che i non residenti hanno pagato all’estero in via definitiva e possono richiedere a rimborso ai sensi dell’art. 27, comma 3, DPR n. 600/73;
- la modifica dell’art. 3, comma 115, Legge n. 549/95 a seguito della quale è disposto che per le società/enti diversi dalle banche con capitale rappresentato da azioni non negoziate in mercati regolamentati UE o dell’Accordo sullo spazio economico europeo che hanno emesso obbligazioni e titoli similari di cui all’art. 26, DPR n. 600/73, gli interessi passivi sono deducibili solo se, al momento dell’emissione, il tasso di rendimento effettivo risulta non superiore: 1) al doppio del tasso ufficiale di riferimento per le obbligazioni ed i titoli similari negoziati nei mercati regolamentati UE o dell’Accordo sullo spazio economico europeo ovvero collocati mediante offerta a pubblico; 2) al tasso ufficiale di riferimento aumentato di 2/3 delle obbligazioni e dei titoli similari diversi da quelli al punto precedente;
- l’integrazione degli artt. 5, 6 e 7, D.Lgs. n. 461/97 a seguito della quale i redditi diversi derivanti dalle obbligazioni e dagli altri titoli di cui all’art. 31, DPR n. 601/73 e dalle obbligazioni emesse da Stati non “black list” vanno computati nella misura del 62,5% dell’ammontare realizzato.
Con riferimento alla decorrenza del nuovo regime di tassazione (1.1.2012), è necessario differenziare in base alla tipologia di reddito. In particolare, i commi da 9 a 12 dell’art. 2 in esame prevedono espressamente che la nuova aliquota del 20% è applicabile:
- agli interessi, premi e altro provento di cui al citato art. 44, TUIR divenuti esigibili e ai redditi diversi realizzati a decorrere dall’1.1.2012;
- ai dividendi e proventi assimilati percepiti dall’1.1.2012;
- in caso di obbligazioni e titoli similari di cui all’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 239/96, agli interessi, premi e altro provento di cui al citato art. 44, TUIR maturati a decorrere dall’1.1.2012;
- in caso di gestione individuale di portafoglio ex art. 7, D.Lgs. n. 461/97, ai risultati maturati a decorrere dall’1.1.2012.
Il comma 27, con riferimento ai redditi compresi nei capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione di cui all’art. 44, comma 1, lett. g-quater), TUIR, dispone che l’aliquota del 12,5% trova ancora applicazione per i contatti sottoscritti fino al 31.12.2011 ma solo per la parte di redditi riferita al periodo intercorrente tra la sottoscrizione/acquisto della polizza ed il 31.12.2011.
Le minusvalenze, le perdite o i differenziali negativi di cui all’art. 67, comma 1, lett. da c-bis) a c-quater), TUIR realizzati entro il 31.12.2011 possono essere dedotti dalle plusvalenze e dai redditi diversi di cui alle lett. da c-bis) a c-quinquies) del citato comma 1, realizzati successivamente, ma solo per una quota pari al 62,5% del loro ammontare.
La distinzione tra partecipazioni qualificate e partecipazioni non qualificate è prevista dall’ 67, comma 1, lett. c) e c-bis), del Tuir.
Viene detto che costituiscono partecipazioni qualificate le partecipazioni consistenti in azioni (diverse dalle azioni di risparmio) o partecipazioni al capitale o al patrimonio di società di persone o di capitali (oppure titoli che danno diritto all’acquisto delle predette partecipazioni) qualora attribuiscano al detentore una percentuale di diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria superiore al 20 per cento (2 per cento in caso di partecipazioni in società quotate) o, alternativamente, una partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 25 per cento (5 per cento in caso partecipazioni in società quotate).
Dalla lettura dell’art. 27 del DpR n. 600 del 1973, si evince che la società erogante è di norma tenuta ad operare la ritenuta a titolo di imposta sostitutiva sugli utili erogati, con presunzione generale che tali utili siano relativi a partecipazioni non qualificate.
Sono invece i soci, qualora non in possesso dei requisiti richiesti dal comma 1, art. 27 del Dpr n. 600 del 1973, a dover comunicare la mancanza dei suddetti requisiti alla società erogante, all’atto della percezione degli utili.
È da notare come il comma 5 dell’art. 27 del DpR n. 600 del 1973 dica solamente che la comunicazione di possesso dei requisiti deve essere effettuata al momento della percezione degli utili, ma non chiarisce il momento temporale cui il socio deve fare riferimento per la verifica della sussitenza di tali requisiti.
A tal fine, si evidenzia come la norma, parlando di “utili corrisposti in relazione a partecipazioni non qualificate”, stabilisce uno stretto collegamento tra l’ammontare di utili distribuiti e l’entità della partecipazione che ne ha permesso la percezione.
Dato che hanno diritto alla percezione dei dividendi i soggetti che risultano soci al momento del pagamento dei medesimi (in merito si veda l’art. 4 della Legge n. 1745 del 1962), e che pertanto la partecipazione che ha generato la percezione degli utili è quella detenuta alla data della percezione medesima, sembra di poter affermare che la data cui il socio deve fare riferimento per stabilire se il dividendo sia relativo ad una partecipazione qualificata o meno (e, quindi, per decidere se effettuare o meno la comunicazione di cui al comma 5, art. 27 del DpR n. 600 del 1973) è quella in cui percepisce il dividendo, a nulla rilevando la consistenza precedente e le mutazioni successive.
Continuano a concorrere alla formazione del reddito, in quanto non assoggettabili alla ritenuta alla fonte di cui all’art. 27 del DpR n. 600 del 1973, gli utili percepiti da società semplici ed equiparate residenti nel territorio dello Stato, in relazione a partecipazioni qualificate e non qualificate in società italiane ed estere. Tali utili concorrono a formare il reddito imputato per trasparenza al socio per il 40 per cento del loro ammontare.
ARTICOLO - Pubblicato il: 2 dicembre 2012 - Da: G. Manzana E. Iori
Il comma 5 dell’art. 101 del Tuir prende in considerazione anche l’ipotesi delle perdite sui crediti.
A tale proposito viene stabilito che tali componenti reddituali assumono fiscalmente significato:
- nel caso in cui risultino da elementi certi e precisi, ovvero,
- in ogni caso, se il debitore risulta assoggettato a procedure concorsuali.
In conformità al principio della competenza economica di cui all’art. 109 del Tuir occorre che la perdita presenti i requisiti:
- della certezza, quanto alla sua esistenza, e
- quello della oggettiva determinabilità, quanto al suo ammontare.
Gli elementi di certezza devono essere documentati e devono esistere nell’esercizio in cui il credito viene portato a perdita e si configura quando il creditore è in grado di dimostrare di aver esperito, senza esito,tutti le azioni di recuper ritenute necessarie in funzione dell’importo del credito. Per crediti in importo significativo (si veda dopo quanto viene detto per quelli di minore entità) gli elementi di certezza possono configurarsi nelle seguenti situazioni:
- infruttuosità dell’esecuzione individuale a carico del debitore
- mancato reperimento da parte dell’Ufficiale giudiziario di beni pignorabili nel patrimonio del debitore
- infruttuosa notifica degli atti di precetto
- fuga e latitanza del debitore
- comunicazione da parte del legale incaricato del recupero del credito che sconsiglia sul piano delle convenienza economica l’iniziazione dell’azione legale in presenza di insufficiente patrimonio del debitore.
Tali elementi devono trovare oggettivo riscontro negli atti intervenuti tra le parti e nella procedura attivata per il recupero dei crediti stessi. Ciò non sta a significare che la perdita deve essere definitiva, quanto che si debba dare prova della sua effettività e del suo ammontare.
Con la risoluzione del 23 gennaio 2009, n. 16/E le Entrate ritengono che una situazione di (temporanea) illiquidità - ancorché seguita da un pignoramento infruttuoso - non possa essere ritenuta sufficiente a legittimare la deduzione del credito non incassato (in tutto o in parte), richiedendosi, a tal fine, una più complessa e articolata valutazione della situazione giuridica della specifica partita creditoria e del singolo debitore cui quest’ultima è riferita.
La risoluzione deve però essere inquadrata nell’ambito dello specifico contesto: il credito è nei confronti di una Asl, soggetto che in quanto pubblico non può essere insolvente. Indirettamente quindi la risoluzione porta a ritenere che, in generale, l'atto esecutivo infruttuoso permette la deduzione (anche alla luce dell'analoga disposizione prevista per la detrazione dell'Iva dall'articolo 26 del Dpr 633/72).
Nella stessa risoluzione l’Agenzia evidenzia che non assume rilevanza, ai fini della svalutazione:
- la circostanza secondo la quale i beni immobili del debitore siano confluiti in un fondo comune e risultino “non ipotecabili ed impignorabili”; ciò in quanto anche laddove fosse possibile procedervi, l’infruttuoso pignoramento non vale ex se a configurare la sussistenza degli “elementi certi e precisi” richiesti dall’articolo 101, comma 5, del Tuir;
- le osservazioni evidenziate dal contribuente nell’istanza in merito alla natura di enti pubblici economici delle ASL debitrici che, secondo la medesima Società, porrebbe queste ultime al riparo da eventuali richieste di fallimento. Peraltro, come detto sopra, per l’Agenzia tale elemento porta a soluzioni opposte: proprio siffatta natura può fondatamente costituire elemento di positiva valutazione circa la probabilità di recuperare il credito non esatto.
Per i crediti di modesto importo, nozione che varia in base alle dimensioni dell’azienda e secondo il tipo di attività esercitata (Ris. Min. 9/124 del 6.8.1976), si può procedere con minor rigidità, ad esempio evidenziando la costosità di una azione di recupero. Una raccomandata di sollecito non dovrebbe mai mancare (R.M. 9/124 del 6.8.76).
La questione è stata risolta, se non altro in parte, dal Dl 83/2012. Infatti, in sede di conversione, nell’ambito delle c.d. “Misure per facilitare la gestione delle crisi aziendali”, è stato modificato il comma 5 dell’art. 33 che sostituisce l’art. 101, comma 5, TUIR, in base al quale si evince che i citati “elementi certi e precisi” sussistono in ogni caso se il credito è di modesta entità e sono decorsi 6 mesi dalla scadenza del pagamento dello stesso.
In merito il Legislatore precisa che il credito è di modesta entità per le imprese “di più rilevante dimensione”, ex art. 27, comma 10, DL n. 185/2008, quando lo stesso non supera € 5.000 e per le quando non supera € 2.500.
In merito va evidenziato che sono considerate imprese “di più rilevante dimensione” quelle con un volume d’affari o di ricavi non inferiore a 100 milioni di euro. Il citato comma 10 dispone infatti che: “Si considerano imprese di più rilevante dimensione quelle che conseguono un volume d'affari o ricavi non inferiori a trecento milioni di euro. Tale importo è gradualmente diminuito fino a cento milioni di euro entro il 31 dicembre 2011 ...”.
Con le Ris. n. del 1976, n. 9/124, 9/557 e 9/1336 del 1976 e n. 9/517 del 1980 l’Amministrazione finanziaria ha escluso la necessità di ricorrere a rigorose prove formali in relazione a crediti di modesto importo, nella considerazione che la loro lieve entità sconsiglia alle aziende di intraprendere onerose azioni di recupero; la rinuncia (art. 1236 c.c.) deve quindi essere giustificata da una scelta di convenienza basata sul confronto tra i costi per la riscossione (costi della procedura esecutiva) e il beneficio derivante dall’entità del credito stesso. Con sent. 11329 del 2001 la Cass. richiede che la rinuncia sia deliberata dal C.d.A. (se esistente) e che la decisione sia presa in seguito ad una valutazione attenta delle condizioni economiche del cliente;
L'istituto della remissione del credito è disciplinato dall'art. 1236 del Codice civile. Si tratta, in sintesi, di un negozio con il quale, unilateralmente, il creditore comunica al debitore che è sua intenzione rinunciare al proprio diritto di credito. La remissione, peraltro, non produce effetto se il debitore dichiara in un congruo termine di non volerne profittare.
Fac simile - Dichiarazione di remissione del debito ex art. 1236 del Codice civile
Il sottoscritto <…> (seguono i dati identificativi) con la presente, ai sensi e per gli effetti dell'art. 1236 del Codice civile, dichiara di rinunciare al proprio credito, che alla data attuale ammonta a complessivi euro <…>, in favore del debitore <…> (seguono i dati identificativi).
<…> li <…>
N.B. la rinuncia al credito può essere inviata anche per raccomandata a.r. nel qual caso è opportuno indicare nella comunicazione il termine per l'opposizione del debitore.
Pare opportuno eviedenziare come nonostante sarebbe parso indiscutibile che la rinuncia ai crediti, di per sè, determini la certezza e la definitività della perdita conseguente, in tale pronunce l’Amministrazione finanziaria condiziona la deducibilità delle perdite a un concetto di inerenza individuato ”non soltanto nella obiettiva riferibilità dell'onere all'esercizio di impresa, anche nella ricorrenza di quel concetto di "inevitabilità" dello stesso“; e questo concetto va ricercato “in una scelta di convenienza per l'imprenditore, ovverosia quando il fine perseguito è quello di pervenire al maggior risultato economico”. Di qui, la conclusione che le perdite conseguenti alla rinuncia dei crediti possano essere riconosciute solo in relazione a posizioni creditorie di modesta entità, tali da non giustificare il sostenimento degli oneri propri di un'eventuale azione di recupero.
La questione è delicata e investe due annose questioni: se siano o meno "sindacabili" da parte del Fisco le scelte operate dall'imprenditore e, inoltre, se scelte valutate come "anomale" possano configurarsi come espressione di una liberalità che, in quanto tale, non possa essere opponibile all'Erario.
Sul problema, un'interessante sentenza è quella della Commissione regionale dell'Emilia Romagna (Cfr. sentenza n. 5/2 del 2004), che si segnala per l'importo del credito rinunciato da una Banca (oltre 142 milioni di vecchie lire) il cui onere era stato oggetto di ripresa da parte dell'Ufficio. Nel specifico, peraltro, era stata dimostrata, con elementi oggettivi, l'antieconomicità di un eventuale tentativo di recupero del credito da parte dell'istituto, visto che la procedura sarebbe comunque risultata infruttuosa. Di qui la decisione della Commissione che legittima la deduzione della perdita conseguente alla rinuncia del credito. La sentenza, quindi, evidenzia come non è l'entità del credito rinunciato che giustifica la deduzione fiscale dell'onere, ma la situazione oggettivamente riferita all'irrecuperabilità del credito, nell'ottica di una valutazione di convenienza economica che si basa anche - va aggiunto - sulla possibilità di dedurre il costo relativo. In tal senso anche la sentenza n. 16330 del 28 aprile 2005, dove la Cassazione riconosce la deducibilità di perdite su crediti, anche se di importo rilevante, sulla base di elementi "soggettivi" rappresentati (antecedenti all'apertura di procedure concorsuali), nel caso di specie da valutazioni del legale di parte e dalla infruttuosità delle azioni di recupero.
Sempre in tema di rinuncia al credito (e quindi in assenza dell’esperimento negativo delle procedure esecutive) la giurisprudenza ha considerato sufficienti, elementi quali l’irreperibilità del debitore, una situazione patrimoniale complessa, la situazione di nulla tenenza del debitore. In particolare nella sentenza n. 11329 del 2001 la Cassazione ha ritenuto legittimo l'operato della società rinunziante per il fatto che il debitore presentava una totale inconsistenza patrimoniale - dal che l'inutilità di una qualsiasi azione tesa al recupero del credito - oltre ad altre ragioni di inopportunità nell'esperimento dell'azione stessa, fermo restando poi che non emerge che la legittimità fiscale della rinuncia sia condizionata alla modesta entità del credito.
Inoltre, è interessante la conclusione che si può trarre in relazione all'inquadramento fiscale della rinuncia al credito. In altri termini, rinunciando al credito, e avuto riguardo all'art. 101 si avrebbe una minusvalenza ex comma 1, una perdita su crediti ex comma 5 ovvero una insussistenza di attivo ex comma 4? Dalla sentenza si intuisce che dalla rinuncia al credito derivi un'insussistenza di attivo, e questo potrebbe essere spiegato così:
1) non si tratta di una minusvalenza poiché questo componente implica necessariamente prima la cessione di un'attività a titolo oneroso e poi il realizzo di un valore inferiore al suo costo fiscalmente riconosciuto; in tale ipotesi non avviene alcuna cessione dell'attività-credito;
2) non si tratta di una perdita su crediti perché questa implica il mantenimento, in capo al creditore, del titolo giuridico che legittima l'azione di recupero del credito medesimo; una volta esperita tale azione, si deve arrivare al mancato realizzo dello stesso, da cui la perdita; diversamente la rinuncia al credito comporta una totale abdicazione anche in relazione al diritto di agire per il suo recupero, in pratica l'ideale sradicamento della posta dall'attivo di stato patrimoniale (in questo senso alcuni commenti alla sentenza in esame).
In pratica si può concludere che la rinuncia al credito genera un'insussistenza di attivo (ex comma 4 dell'art. 101) sia perché le altre strade interpretative non sono praticabili, sia per il fatto che la rinuncia comporta l'azzeramento di valore di un'attività.
A questo punto si apre un'ulteriore questione, non affrontata dalla Cassazione: a seguito della rinuncia al credito si dovrà o no utilizzare il fondo svalutazione crediti? Coerentemente con la linea interpretativa desumibile dalla sentenza la risposta dovrebbe essere negativa.
ELEMENTI CERTI E PRECISI
• è necessario far risultare la perdita da elementi certi e precisi (R.M. n. 9/124 del 1976) e che la stessa sia definitiva (C.M. n. 39 del 2002), dimostrando di aver fatto tutto il possibile per il recupero del credito in sofferenza (ad esempio, infruttuosa attuazione di azioni legali per il recupero del credito, esito negativo del pignoramento etc). Se il credito è di importo significativo, è sempre opportuno l'intervento di un legale;
• per i crediti di modesto importo, nozione che varia in base alle dimensioni dell’azienda e secondo il tipo di attività esercitata (Ris. Min. 9/124 del 6.8.1976), si può procedere con minor rigidità, ad esempio evidenziando la costosità di una azione di recupero. Una raccomandata di sollecito non dovrebbe mai mancare (R.M. 9/124 del 6.8.76).
• La rinuncia (art. 1236 c.c.) è deducibile a condizione che realizzi una scelta di convenienza per l'imprenditore (R.M. 9/557 del 9.4.80 e R.M. 9/517 del 6.9.80). Con sent. 11329 del 2001 la Cass. richiede che la rinuncia sia deliberata dal C.d.A. (se esistente) e che la decisione sia presa in seguito ad una valutazione attenta delle condizioni economiche del cliente;
• riduzioni parziali di credito quali la transazione (atto registrato), la conciliazione giudiziaria o una sentenza che accerti un minor credito, costituiscono perdite fiscalmente deducibili;
• per i crediti assistiti da polizza assicurativa a copertura di eventuali perdite, la deduzione dell'eventuale perdita non è consentita (Ris. Min. 19/4/1979 n. 9/217);
• per i crediti verso debitori esteri la dichiarazione di fallimento, o procedura analoga prevista dalla legge dello stato del debitore (ma non le procedure di riorganizzazione), rende deducibile la perdita (C.M. n. 39 del 10.5.02; Ris. n. 355 del 14.11.02).
Per quanto attiene le perdite su crediti relative a debiti stranieri (Cfr. Circ. n.131.11.1730 del 1970 e Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 39/E del 2002) occorre fare la seguente distinzione:
- se il debitore è un privato, è necessaria e sufficiente una dichiarazione, da parte delle competenti autorità giudiziarie, di insolvenza del debitore;
- se il debitore è un ente pubblico, è necessaria o la dichiarazione di sinistro emessa dalla Sace (Sezione speciale per l’Assicurazione del credito all’Esportazione) a seguito dell’accertamento di insolvenza e a patto che contenga l’indicazione dell’indennizzo liquidato a titolo di risarcimento per la mancata riscossione, oppure, nell’ipotesi di crediti non garantiti, di analoga documentazione (anche di parte).
La perdita è deducibile nella misura risultante dalla differenza tra il valore fiscale del credito e l’ammontare di quanto recuperato; nel caso si tratti di crediti per i quali esistono accantonamenti dedotti ai sensi dell’art. 106 del Tuir, la perdita andrà imputata a riduzione del valore del fondo stesso sino alla capienza del medesimo e solo per la parte eccedente potrà essere considerata di competenza dell’esercizio; in altre parole le perdite su crediti sono deducibili limitatamente alla parte eccedente il fondo svalutazione crediti creato nei precedenti esercizi.
In caso di cessione del credito, si prospetteranno due differenti situazioni.
Nella cessione pro-soluto (ovvero con semplice garanzia di esistenza del credito e non anche della solvibilità del debitore) il cedente garantisce al cessionario la sola esistenza del credito senza assumere la garanzia della solvenza del debitore. In tal modo si realizza il trasferimento della titolarità del credito a titolo definitivo e il cessionario assume il rischio connesso con l'insolvenza del debitore ceduto; se la cessione viene effettuata ad un valore inferiore a quello del credito, questa differenza è deducibile, sempre che il relativo atto sia valido ed efficace; per la formazione di eventuali perdite assume rilievo il prezzo di cessione dei crediti che deve essere raffrontato con il valore fiscalmente riconosciuto (Cfr. Ris. n.137/E del 1996).
La Cassazione ha sostenuto che la deducibilità delle perdite su crediti anche nell'ipotesi di cessione pro-soluto è da ritenersi legittima a condizione che la “certezza e precisione” della perdita siano riferiti non agli effetti della cessione ma alla condizione che i crediti ceduti possedevano prima della cessione stessa e che vi sia la convenienza a cedere il credito (Cfr. sentenze n. 13181, 13916 e 15563 del 2000, n. 14568 del 2001, n. 7555 del 2002 e 5337 del 2006). In buona sostanza, viene riconosciuta solo in astratto l'idoneità di una cessione pro-soluto per la deducibilità fiscale delle perdite.
A sostegno di ciò i giudici precisano, tra l'altro, che - al di fuori dell'assoggettamento a procedure concorsuali del debitore - non sono stati previsti dal legislatore altri "automatismi" per il riconoscimento fiscale delle perdite su crediti.
Questa sentenza ha generato perplessità nella misura in cui ha individuato quale norma legittimante la deduzione l'art. 101, comma 5 del Tuir che, in realtà, attiene alla svalutazione del credito e non alla perdita da negoziazione.
Come è stato sottolineato in dottrina (Stevanato) il componente negativo di reddito che si origina con la cessione non è perdita da inesigibilità (art. 101, comma 5 del Tuir) bensì la perdita da negoziazione (art. 101, comma 1 del Tuir). In questo ambito è inutile interrogarsi sulle future vicende del credito ceduto, poiché la perdita deriva dal fatto che l'impresa ha ceduto, poniamo, a 10 ciò che era contabilizzato per 100, e pertanto manifesta un componente negativo di 90.
In questo senso è del tutto irrilevante che la cessione avvenga pro-soluto o pro-solvendo, poiché l'eventuale addebito al cedente dell'insolvenza del debitore ceduto, non rende meno certa la perdita generata dalla negoziazione, ma, semmai, la amplifica.
Questa radicale distinzione tra perdite da negoziazione del credito e perdite da inesigibilità del medesimo è l'argomento più convincente per prendere le distanze dalla tesi sostenuta dalla Cassazione. A tal fine va segnalato la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Sassari, n. 67 dell'11 giugno 2004. Questa sentenza, pur segnalando la circostanza che il contribuente cedente il credito si era attivato per tentare di riscuoterlo prima di decidere per la cessione (il che crea qualche incertezza sulla conclusione delle stessa sentenza poiché la circostanza della inesigibilità del credito ai fini della cessione dello stesso è irrilevante), afferma che la cessione del credito comporta che il cedente “non potrà mai rientrare dalle perdite subite nella cessione”. Pertanto ne emerge la cessione quale atto che genere perdite da negoziazione e non da svalutazione.
Con questa sentenza si individua una diversa definizione del componente negativo di reddito che si manifesta nella cessione del credito, anche se va sempre ricordato che l'operazione in oggetto rientra tra quelle che possono far scattare la norma antielusiva (37-bis del Dpr n. 600 del 1973) per cui una valida ragione economica sottostante alla cessione deve sempre sussistere.
Nella Risol n. 70/E del 2008 l’Agenzia delle entrate affronta il caso di cessioni pro soluto dei crediti verso controllate che nascondono delle rinunce ai crediti stessi da parte del socio. Viene detto che occorre considerare l’aspetto sostanziale dell’operazione. Per cui è irrilevante la verifica degli elementi certi e precisi delle perdite per ottenere l'immediata deduzione del credito (art. 101, comma 5 del Tuir) in quanto l'ammontare rinunciato va ad aumentare del costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione nella controllata. Secondo l’Agenzia infatti solo formalmente si è di fronte ad una cessione di credito pro soluto. Si trattaterebbe nella sostanza di una rinuncia al credito da parte del socio ed è applicabile, quindi, l'art. 94, comma 6, Tuir, che prevede che “l'ammontare (...) della rinuncia ai crediti nei confronti della società», da parte dei soci della medesima, si aggiunga al costo delle partecipazioni.
Il disconoscimento del contratto di cessione del credito pro soluto deriva dal fatto che la determinazione dei corrispettivi dei due contratti (alienazionedelle partecipazioni e cessione del credito) è avventa con un unico procedimento, durante il quale la dismissione del credito per il valore simbolico di un euro è stato giustificato dalla «necessità di alleggerire per quanto più possibile la situazione finanziaria della società ceduta”.
IL CASO
La società Alfa nel 2003 ha svalutato civilisticamente la partecipazione detenuta nella società Gamma. Nel 2007 ha ceduto l'intero pacchetto azionario alla società Delta, generando una plusvalenza solo contabile. Contestualmente, Alfa ha ceduto pro soluto a Delta anche un credito di finanziamento che vantava nei confronti della partecipata Gamma, civilisticamente svalutato.
La perdita dalla cessione pro soluto del credito può essere fiscalmente deducibile, a prescindere dalla sussistenza degli «elementi certi e precisi » o dal fatto che il debitore sia «assoggettato a procedure concorsuali»?
Secondo l’Agenzia (Cfr. Ris. n. 70/E del 2008) delle entrate della riduzione dei debiti di Gamma si è certamente «tenuto conto nel valutare la convenienza economica ad acquisire il controllo» di Gamma.Se la cessione del credito è vista come una rinuncia, è irrilevante verificare gli elementi certi e precisi delle perdite su crediti,in quanto l'importo relativo alla rinuncia al credito non è immediatamente deducibile dal reddito d'impresa. Questo va ad aumentare del costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione in Gamma ai fini del calcolo della plusvalenza da cessione delle azioni. Conseguenza che non genera alcun vantaggio ad Alfa, dato che la plusvalenza dalla cessione delle partecipazioni è civilistica.
Nella cessione pro-solvendo il cedente garantisce oltre all'esistenza del credito anche la solvibilità del debitore. In questo caso, essendo il cedente legato al comportamento del debitore, in capo allo stesso mancherà il requisito della certezza della perdita. Quindi, anche qualora la cessione sia intervenuta ad un valore inferiore a quella del credito, la perdita non potrà comunque essere dedotta (Cfr. Ris. n. 9/634 del 1982). In merito si vedano anche quanto detto trattado appena sopra delle cessioni pro-soluto.
Se il credito è assistito da polizza assicurativa a copertura di eventuali perdite, la deduzione dell’eventuale perdita non è più consentita (Cfr. Ris. n. 9/217 del 1979).
Nella sentenza della Cassazine n. 16330 del 3 agosto 2005, i giudici di legittimità hanno interpretato l'art. 66, comma 3 del Tuir (ora art. 101, comma 5) ritenendo che il periodo d'imposta per operare la deduzione delle perdite (su crediti) debba coincidere con quello in cui si acquisisce la certezza che il credito non può più essere soddisfatto, perché è in quel momento che si materializzano gli elementi certi e precisi della sua irrecuperabilità; nel caso di specie i giudici avevano considerato non possibile, per errore di competenza, la deduzione di una perdita i cui elementi certi e precisi relativi all’inesigibilità del credito (nota del legale e procedure esecutive infruttuose) si erano formati nell’esercizio precedente.
Questa interpretazione normativa sarebbe volta a evitare che il contribuente possa scegliere arbitrariamente il periodo di imposta in cui dedurre la perdita, snaturando in tal modo la regola espressa nel principio di competenza (allora statuito dall'art. 75 del Tuir, attualmente dal l'art. 109).
A distanza di anni la Giurisprudenza assume dunque una posizione analoga a quella espressa dal Secit nella relazione relativa all'anno 1990 laddove si affermava che, nel rigoroso rispetto del principio di competenza, la perdita dovesse essere imputata al reddito nel periodo di imposta in cui acquistano consistenza gli elementi certi e precisi, non prima ma neanche dopo, onde contrastare manovre dirette a collocarla nel momento fiscalmente più conveniente.
In caso di assoggettamento del creditore a procedura concorsuale la perdita è senz’altro deducibile. Il testo unico post riforma fiscale – Dlgs n. 344 del 2003, diversamente da quello precedente prevede che il debitore si considera assoggettato a procedure concorsuali dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
Il legislatore ha quindi recepito il contenuto dell’art. 11, comma 9 del Dpr n. 42 del 1988 in forza del quale un debitore si intende assoggettato a procedure concorsuali dalla data:
- della sentenza dichiarativa del fallimento;
- del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa;
- del decreto di ammissione al concordato preventivo;
- del decreto che dispone l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
In merito si veda anche la Circ. 10 maggio 2002 n. 39/E.
La risposta all’interrogazione parlamentare n. 5-00570 del 5 novembre 2008 ha prevsito che “… l’automatismo previsto nel caso delle procedure concorsuali, ove l'inesigibilità è, secondo l'id quod plerumque accidit, conclamata (conseguentemente la norma pone una presunzione in questo senso) e ove la quantità della perdita è stata sottoposta a controllo dagli organi concorsuali». In altri termini (n.d.R. solo) nelle ipotesi diverse da quelle rientranti nelle procedure concorsuali, «è il contribuente a dovere dimostrare come e perché una perdita su crediti fiscalmente rilevante si è verificata in quanto il credito, azionato nelle forme di legge, è diventato inesigibile» (cfr. Corte di Cassazione, sentenza del 20 novembre 2001, n. 14568).
Si è posto il problema se nelle procedure concorsuali richiamate dall’art. 101, comma 5 del Tuir vi è il concordato stragiudiziale, e le nuove forme, recentemente introdotte nel nostro ordinamento. Si tratta dei «piani attestati»(di cui all'articolo 67, comma 3, lettera d) della legge fallimentare) e degli «accordi di ristrutturazione» del debito (articolo 182 bis della stessa legge).
La fattispecie dell'articolo 67 si estrinseca in un piano di risanamento dell'impresa la cui ragionevolezza è attestata da un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili. Non è richiesto alcun consenso da parte dei creditori, produce l'effetto di impedire l'esercizio dell'azione revocatoria laddove il piano non raggiungesse il suo obiettivo e quindi si traducesse in procedura concorsuale. L'accordo di ristrutturazione del debito, invece, comporta l'assenso di almeno il 60% dei creditori e raggiunge anch'esso il risultato di impedire l'esercizio dell'azione revocatoria. In entrambi i casi interviene un professionista che redige una relazione, il quale deve avere un duplice requisito soggettivo: essere iscritto sia all'albo degli avvocati o dei dottori commercialisti ed esperti contabili sia nel registro dei revisori.
Queste nuove forme di risanamento "giudiziale" dell'impresa in crisi presentano delle evidenti ricadute tributarie che possono essere riassunte in due filoni: da una parte l'effetto dello stralcio totale o parziale del debito verso i creditori, dall'altra l'emersione di plusvalenze generate dalla dismissione di beni o rami di azienda.
Riguardo al primo va notato che il Tuir non conosce queste nuove procedure inserite recentemente nella legge fallimentare: non essendo aggiornato, non tutela esplicitamente i debitori dall'insorgenza di imponibile come invece accade per le procedure classiche del fallimento, del concordato fallimentare o di quello preventivo. Il pericolo, perciò, è che l'effetto positivo ottenuto dal piano di risanamento in termini di maggiore liquidità venga in parte vanificato dal prelievo tributario.
A fronte dello stralcio parziale del debito, il debitore vede sorgere una sopravvenienza attiva di pari importo che genera materia imponibile (articolo 88 comma 1 del Tuir). Il comma 4 del medesimo articolo non nomina il concordato stragiudiziale, ma nemmeno cita le due forme di risanamento inserite nella legge fallimentare. La questione è stata posta all'attenzione dell'agenzia delle Entrate che si è pronunciata con la circolare n. 8/09, punto 4.2 analizzando la posizione del creditore, ma l'esito della pronuncia non può che interessare anche il debitore.
L'agenzia, ancorandosi a un'interpretazione letterale del Tuir, nota che ai fini della deducibilità della perdita sul credito ex articolo 101, comma 5 del Tuir, non si manifestano le condizioni per la deducibilità immediata derivante da procedura concorsuale, poiche l'accordo di ristrutturazione del debito (e a maggior ragione il piano attestato) non è previsto dal Tuir. Mentre dal punto di vista del creditore si potrebbe aggirare l'ostacolo sostenendo la deducibilità della perdita per sussistenza di elementi certi e precisi (possibilità resa difficile dopo la risoluzione n. 16/09), più problematica appare la situazione del debitore, poiché la stessa tesi letterale porta a concludere che non essendo citate le procedure in esame nell'articolo 88 comma 4 del Tuir, ne deriva che la sopravvivenza attiva risulta imponibile. Questa conclusione, tuttavia appare irragionevole e derivante più da un mancato coordinamento normativo che da un esame razionale del problema. Questi stessi dubbi, peraltro, sono stati "ufficializzati" dal direttore dell'agenzia delle Entrate (Il Sole 24 Ore del 20 novembre 2009) che auspica una revisione normativa o almeno interpretativa dell'intera questione.
Vale la pena sottolineare, come elemento positivo, che almeno sotto il profilo Irap non dovrebbero sussistere dubbi in merito alla non rilevanza della sopravvenienza attiva da stralcio del debito. Essa, non derivando da aggiornamento di stime, va certamente iscritta nell'area straordinaria del conto economico che è esclusa dall'imposizione regionale. Nemmeno si può attrarre a tassazione la sopravvenienza evocando il principio di correlazione poiché lo stralcio riguarda l'aspetto finanziario e non economico della prestazione o della cessione.
Tali problematiche sono state superate, almeno per quanto concerne gli accordi di ristrutturazione dalla modifica normativa apporata agli artt. 88 e 101 dalla legge di conversione del Dl 83/2012 (legge n. 134/2012). Dopo la modifica infatti, il comma 5 prevede che 5. “Le perdite di beni di cui al comma 1, commisurate al costo non ammortizzato di essi, e le perdite su crediti sono deducibili se risultanoda elementi certi e precisi e in ogni caso, per le perdite su crediti, se ildebitore è assoggettato a procedure concorsuali o ha concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell'articolo 182-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267”.
Il comma 4 dell’art. 88 risulta così riformulato.
4. Non si considerano sopravvenienze attive i versamenti in denaro o in natura fatti a fondo perduto o in conto capitale alle società e agli enti di cui all'articolo 73, comma 1, lettere a) e b), dai propri soci e la rinuncia dei soci ai crediti, nè gli apporti effettuati dai possessori di strumenti similari alle azioni, nè la riduzione dei debiti dell'impresa in sede di concordato fallimentare o preventivo o per effetto della partecipazione delle perdite da parte dell'associato in partecipazione. In caso di accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell'articolo 182-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, ovvero di un piano attestato ai sens
dell'articolo 67, terzo comma, lettera d), del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, pubblicato nel registro delle imprese, la riduzione dei debiti dell'impresa non costituisce sopravvenienza attiva per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all'articolo 84.
PROCEDURE CONCORSUALI
• L'Amministrazione controllata non rientra fra le procedure in questione perché non contemplata dal DPR 42/88. Infatti, i presupposti di tale procedura prevedono fra l’altro la "possibilità di risanare l'impresa" (art. 187 Legge Fallimentare);
• Con riferimento al concordato preventivo, bisogna richiamare le condizioni richieste dalla legge. In questa procedura concorsuale il debitore deve garantire il pagamento di almeno il 40% dei debiti chirografari (art. 160 L.F). Pertanto, la norma sulla deducibilità della perdita trova applicazione solo per la parte che si prevede di non incassare (il restante 60%).
• nella circolare n. 8 del 2009 l’agenzia delle entrate ha escluso l’applicazione dell’art. 101, comma 5 del Tuir in riferimento alla procedura semplificata degli accordi di ristrutturazione di cui all’articolo 182-bis del R.D. 267 del 1942, come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo n. 169 del 2007. Trattasi di una procedura di natura stragiudiziale, finalizzata a valorizzare il ruolo dell'autonomia privata nella gestione della crisi dell'impresa mediante un accordo, stipulato dal debitore con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, la cui efficacia è garantita dal provvedimento di omologazione del Tribunale. L’amministrazione finanziaria, attenendosi ad una interpretazione letterale, ha negato la possibilità di deduzione delle perdite in quanto detta procedura non è stata recepita all’interno del citato comma 5 dell’art. 101 del Tuir La modifica normativa apportata dalla legge di conversione del Dl 83/2112 l’ha invece ricompresa.
• Nella relazione sull’attività del 1990, il SECIT ha affermato che la sussistenza degli elementi certi e precisi può ritenersi presente per tutta la durata della procedura. Di conseguenza, anche la competenza per la imputazione della perdita in deduzione dal reddito, ovviamente nei limiti di quanto imputato al conto economico, deve ritenersi estesa allo stesso periodo. Afferma il SECIT, infatti, che "il credito di 100 verso un fallito può essere imputato a perdita in conto economico in misura di 70 nell'esercizio di apertura del fallimento e costituire componente di reddito nel corrispondente periodo di imposta nella stessa misura, salvo ulteriore analoga operazione in un esercizio successivo in pendenza della procedura concorsuale, per il residuo di 30”;
• La Corte di Cassazione, invece, con la sentenza n. 12831 del 2002, ha evidenziato che "i vari tipi di procedure concorsuali consentono, in tutto o in parte, il recupero del credito in dipendenza di molteplici variabili; e che non v'è ragione di escludere aprioristicamente la possibilità che l'apprezzamento di tali elementi consenta di individuare i requisiti di certezza e di determinabilità della perdita, con riguardo ad un esercizio diverso da quello nel quale la procedura concorsuale si è aperta". Ciò nonostante, conclude la sentenza n. 12831 del 2002, "non è possibile scegliere il periodo di esercizio, tra quelli posteriori all'apertura della procedura concorsuale, in cui dedurre la perdita” (tesi confermata anche da sentenze nn. 16198 del 2001 e 16330 del 2005).
Ritornando alle procedure rilevanti va evidenziato come l’impresa ha la facoltà di rilevare la perdita totalmente o parzialmente nella misura in cui ritiene che il credito sia divenuto irrealizzabile, in uno qualsiasi degli esercizi a partire da quello in cui viene emessa sentenza dichiarativa o provvedimento da parte degli organi preposti. Il che non deve tradursi in un libero arbitrio nell’individuazione dell’esercizio di deduzione: in caso di procedura concorsuale l’esercizio di deduzione va individuato in relazione al momento in cui si è assunta certezza della totale o parziale inesigibilità, magari dovuta alla conoscenza della reale (e insufficiente) massa dell’attivo fallimentare. Le perdite non dedotte nel corso della procedura possono essere imputate all’esercizio nel quale avviene la chiusura dell’operazione (Cfr. Relazione Secit anno 1990).
Tale concetto è stato bene spiegato dai giudici di legittimità nella sentenza n. 12831 del 2002 dove viene sostenuto, da un lato, che le perdite su crediti non devono essere portate in deduzione necessariamente e per intero nel periodo di imposta in cui la procedura concorsuale si è aperta, pur precisando, dall'altro, che il contribuente non sarebbe tuttavia autorizzato a scegliere il periodo in cui dedurre la perdita tra quelli posteriori all'apertura della procedura concorsuale, dovendo trovare in ogni caso applicazione il principio generale di competenza, certezza ed obiettiva determinabilità di cui all'art. 75, primo comma del Tuir (attuale art. 109 del Tuir). La sentenza è quindi in linea con quella, sempre della Cassazione, del 3 agosto 2005 n. 16330 (in merito si veda quanto detto appena sopra e subito dopo).
Tale concetto è stato ripreso e ben commentato nella norma di comportamento n. 172 in materia di «Perdite su crediti: deducibilità in caso di fallimento o procedure concorsuali», redatta dalla Commissione Norme di comportamento e di comune interpretazione in materia tributaria dell'Associazione italiana dottori commercialisti. La massima dell’Associazione è la seguente “L'esercizio in cui dedurre le perdite su crediti nei confronti di clienti falliti o sottoposti ad altre procedure concorsuali è quello in cui le perdite si manifestano e sono iscritte in bilancio secondo il prudente apprezzamento degli amministratori, il che può avvenire o nell'esercizio stesso di inizio della procedura concorsuale o anche, in tutto o in parte, in quelli successivi”.
Viene evidenziato che la disposizone dell'articolo 101, comma 5, Tuir, secondo la quale le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e in ogni caso quando si è in presenza di procedure concorsuali, non ha il significato di presumere la perdita dell'«intero» credito alla data d'inizio della procedura stessa, bensì di introdurre una presunzione semplice riguardo alla certezza della perdita, la cui entità deve essere valutata attentamente in ogni singolo caso considerando il presumibile valore di realizzo del credito (Cfr Cassazione, sentenza n. 12831 del 4 settembre 2002).
In altri termini, l'articolo 101, comma 5 del Testo unico – nel momento in cui riconosce la perdita del credito all'apertura della procedura concorsuale – non va considerato come un'imposizione al contribuente dell'obbligo di dedurre in quell'esercizio l'intero ammontare del credito stesso (pena il disconoscimento da parte dell'Amministrazione finanziaria in caso di deduzione della perdita in un esercizio successivo), ma riconosce, anche sul piano fiscale, la validità della stima del valore di presumibile realizzo effettuata dall'imprenditore caso per caso (Cassazione, sentenza n. 12831 del 4 settembre 2002 e Assonime, circolare n. 69 del 23 dicembre 2005 (pagina 38).
La presunzione di sussistenza di elementi certi e precisi vale per tutta la durata della procedura concorsuale; pertanto la deducibilità della perdita deve ritenersi ammissibile – per tutta la durata della procedura – nei limiti dell'imputazione a bilancio (Per le imprese minori, le perdite devono essere separatamente anno-tate nei registri tenuti ai fini Iva (articolo 18, comma 3, del Dpr 600/73).
Ad esempio, il credito di 100 verso un fallito può originare in bilancio una perdita correttamente stimata di 70 nell'esercizio di apertura del fallimento – costituendo componente negativo di reddito per l'importo di 70 nello stesso periodo di imposta – con la possibilità di dedurre il residuo di 30 negli esercizi successivi se e quando –civilisticamente – si manifesterà la residua perdita (Secit,relazione sull'attività svolta nell'anno 1990, punto 4.1.11).
La valutazione dell'imprenditore, qualora correttamente effettuata e iscritta in bilancio, diviene vincolante anche ai fini fiscali, non legittimando eventuali contestazioni da parte della pubblica amministrazione (Vedasi anche Abi, circolare TR/003527 del 12 aprile 1990).
Tuttavia la valutazione dell'imprenditore non può essere totalmente discrezionale: non può scegliere, a suo piacimento, l'esercizio a cui imputare la perdita, ma, nella valutazione dei crediti e nella rilevazione delle perdite, dovrà attenersi ai principi di verità e correttezza previsti dall'articolo 2423, secondo comma e di prudenza di cui all'articolo 2423-bis, comma 1, numero 4, del Codice civile tenendo conto dell'effettivo grado di recuperabilità del credito, anche in funzione di eventuali garanzie, come ad esempio i privilegi, le ipoteche e le garanzie personali di terzi (Cassazione, sentenza n. 12831 del 2002 e Assonime, circolare n. 69 del 2005, citate). Per effetto dell'articolo 101, comma 5 del Testo unico, ove l'imprenditore abbia sufficientemente documentato i criteri in base ai quali ha operato la stima del presumibile valore di realizzo dei crediti nei confronti di soggetti
in procedura concorsuale (ad esempio –in presenza dicrediti di importo significativo – mediante pareri di legali interni o esterni riguardanti l'effettiva recuperabilità del credito), sarà l'Amministrazione finanziaria a dover dimostrare, se ve ne saranno i motivi, che i criteri seguiti dall'imprenditore sono erronei, tanto da inficiare la verità e correttezza del bilancio. Può quindi verificarsi che le imprese bancarie o finanziarie (i cui crediti sono normalmente assistiti da garanzie reali o personali) iscrivano più spesso, nell'esercizio di apertura della procedura concorsuale, una perdita su crediti di ammontare inferiore al valore nominale del credito (cioè per la sola parte eccedente la garanzia); mentre le imprese industriali o commerciali (i cui crediti sono raramente assistiti da garanzia) stralcino, più frequentemente – nell'esercizio stesso –l'intero ammontare del credito.
I principi sopra esposti non sono contraddetti dalla giurisprudenza della Cassazione (Cassazione, sentenza n. 16330 del 3 agosto 2005) in cui si afferma che «l'anno di competenza per operare la deduzione deve coincidere con quello in cui si acquista certezza che il credito non può più essere soddisfatto perché in quel momento stesso si materializzano gli elementi "certi e precisi" della sua irrecuperabilità ». Tale giurisprudenza,
infatti:
- riguarda una controversia relativa a perdite su crediti verso soggetti non interessati da procedure concorsuali;
- conferma che le perdite su crediti devono essere dedotte obbli-gatoriamente nell'esercizio in cui divengono certe, senza che il contribuente abbia la facoltà di scegliere a sua discrezione l'esercizio in cui dedurle, ma non entra nel merito dei criteri da utilizzare per l'effettiva quantificazione dell'entità della perdita che, in ciascun esercizio, abbia acquisito il connotato della certezza.
Questa giurisprudenza, in altri termini, non afferma che l'intero ammontare del credito debba essere stralciato in un solo esercizio, a pena di indeducibilità del residuo ammontare negli esercizi successivi, né potrebbe essere diversamente, dato che, altrimenti, la norma fiscale condizionerebbe la deducibilità della perdita a un comportamento che, in molti casi, costituirebbe violazione delle norme di redazione del bilancio.
L'apertura della procedura concorsuale rimane quindi un momento in cui si presume la sussistenza di una perdita, ma la sua quantificazione e rilevanza va determinata – nel rispetto dei principi generali di cui all'articolo 2423, secondo comma e 2426, primo comma, numero 8) del Codice civile e del principio di prudenza di cui all'articolo 2423-bis, comma 1,numero 4 del Codice civile – da parte dell'imprenditore.
La norma non contiene alcun riferimento alla procedura di amministrazione controllata potendo, questa, essere definita non come un vero e proprio stato di insolvenza ma come un periodo di temporanea difficoltà dell'impresa a far fronte alla proprie obbligazioni che si traduce, per il creditore, in un impedimento temporale che differisce la riscossione del credito ma non l'automatica diminuzione del credito stesso. In questo caso, quindi, occorrerà rifarsi ai criteri generali dell'art. 101 per cui la perdita sarà deducibile se desunta da elementi "certi e precisi" (Circ. n. 39 del 2002).
L’amministrazione aveva già avuto modo di dire la plusvalenza concorre integralmente alla formazione del reddito imponibile nell'esercizio in cui è realizzata ovvero,qualora ricorrano i presupposti previsti dalla legge, in quote costanti nell'esercizio stesso e nei successivi ma non oltre il quarto (ris. 237/E/2009); ciò a differnza di quanto succede sul piano civilistico dove l’OIC 1 prevede che tali plusvalenze sono ripartite in funzione della durata del contratto di locazione (in merito si veda quanto detto nelle specifico paragrafo all’art. 88 del Tuir). Coerentemente, nell'ipotesi di minusvalenza, nei limiti di quanto imputato a conto economico nell'esercizio di competenza, l’Amministrazione nella diretta MAP del 4/6/10 ritiene che la stessa sia deducibile nell'esercizio medesimo ai sensi del combinato disposto degli articoli 101 e 109, comma 2, lettera a) del Tuir.
ARTICOLO - Pubblicato il: 19 aprile 2012 - Da: G. Manzana E. Iori
Le ultime manovre, a cominciare da quella contenuta nel Dl 98/2011 fino ad arrivare a quelle del Dl 16/2012, si interessano di studi di settore ridisegnando il “ruolo” soprattutto accertativo, di tale istituto; ruolo che negli ultimi peridi aveva perso di “peso” essendo stato chiarito che la presunzione i nascenti da tale strumento è una presunzione semplice (Cfr. da ultimo Cass. senzioni Unite 26435 del 2009).
Di seguito si ripercorrono le principali modifiche anche considerando il commento, peraltro parziale, dell’Agenzia delle entrate contenuto nella Cir. 8/E del 2012.
Si tratta dei seguenti aspetti:
1) Incremento delle sanzioni per omessa presentazione degli studi di settore
2) Nuova fattispecie di accertamento induttivo puro
3) Soppressione dell’obbligo di motivazione dell’accertamento che disconosce la validità di uno studio congruo e coerente
4) L’inibizione degli accertamenti analitici induttivi per i contribuenti virtuosi
5) Nuove modalità di accertamento per i soggetti non congrui.
1) Incremento delle sanzioni per omessa presentazione degli studi di settore
L’art. 23, co. 28 del Dl 98 del 2011 modifica il D.Lgs. n. 471/97 prevedendo che:
1) in caso di omessa presentazione del modello per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore, quando l’adempimento è dovuto ed il modello non è stato presentato anche dopo specifico invito da parte dell’Ufficio, è applicabile la sanzione in misura massima (€ 2.065);
2) la sanzione per infedele dichiarazione è elevata del 50% (diventa 150%) nel caso di omessa presentazione del modello per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore se l’adempimento è dovuto ed il modello non è stato presentato anche a seguito dell’invito da parte dell’Ufficio. Analoga maggiorazione è prevista ai fini IVA mediante la modifica dell’art. 5, D.Lgs. n. 471/97 e ai fini IRAP mediante la modifica dell’art. 32, D.Lgs. n. 446/97.
L’agenzia delle entrate nella cir. 8/E/2012 ha avuto modo di evidenziare che
- l’Ufficio non è obbligato a richiedere a invitare il contribuente che ha omesso il modello a comunicarlo; se non dovesse farlo, non è preclusa la possibilità di applicare la maggior sanzione;
- eventuale richiesta avanzata dall’Ufficio di presentazione del modello non inibisce la possibilità di beneficiare del ravvedimento operoso e evita l’applicazione dell’aliquota editale maggiorata di cui sopra.
2) Nuova fattispecie di accertamento induttivo puro
L’ art. 23, comma 28 DEL Dl 98/2011 aggiunte al comma 2 dell’art. 39, DPR n. 600/73 la lett. d-ter) in base alla quale è stata estesa la possibilità di effettuare l’accertamento induttivo puro anche nelle ipotesi di:
- omessa o infedele indicazione dei dati previsti dal modello per la comunicazione dei dati ai fini degli studi di settore;
- indicazione di cause di esclusione / inapplicabilità degli studi di settore non sussistenti.
Per individuare la condizione di errata compilazione del modello studi il citato comma 2 richiedeva che fossero irrogabili le sanzioni di cui all’art. 1, comma 2-bis, D.Lgs. n. 471/97, ossia che si verificasse lo scostamento almeno del 10% tra il reddito accertato a seguito della corretta compilazione del modello studi e il reddito dichiarato.
Il Decreto Dl 16/2012 (art. 8, commi 4 e 5) modifica (a vantaggio del contribuente) le modalità per la verifica dell’errata compilazione del modello studi stabilendo che l’infedele compilazione del modello studi si verifica qualora tra i ricavi/compensi risultanti dal calcolo degli studi con dati corretti e quelli con i dati dichiarati vi sia uno scostamento superiore al 15% o comunque a € 50.000.
La modifica non riguarda pertanto soltanto l’ammontare del limite percentuale e l’introduzione di un limite assoluto di scostamento, ma interviene sui termini da porre a confronto per verificare detto scostamento. Nella nuova formulazione normativa, infatti, i termini di confronto (più correttamente) riguardano sempre l’ammontare dei ricavi / compensi e non vi è più alcun riferimento al reddito.
La modifica apportata con il Dl 16/2012 è applicabile con riferimento agli accertamenti notificati dal 2.3.2012; agli avvisi notificati in precedenza resta applicabile la previgente versione della citata lett. d-ter) e quindi i minori limiti per applicare l’accertamento.
Si noti come con il metodo di ricostruzione di tipo induttivo "puro", altrimenti definito "extracontabile", la determinazione della posizione fiscale del contribuente avviene attraverso procedure di quantificazione e qualificazione della complessiva base imponibile, che prescindono del tutto dalle scritture, dal bilancio e dalla dichiarazione del contribuente stesso e che possono essere fondate, oltre che sull'acquisizione di prove dirette, anche su elementi indiziari o ragionamenti presuntivi o logico-deduttivi o su presunzioni semplici, quali sono appunto la presunzione di minor ricavo scaturente dagli studi di settore.Questo significa, una volta verificata la fattispecie di innesco, l’Agenzia delle entrate si trova legittimata a emettere un’avviso di accertamento dove la pretesa può essere rappresentata dal mero scostamento risultante tra il dichiarato e congruo degli studi di settore.
Si noti ancora come detto metodo accertativo è sempre stato inteso come un sistema eccezionale che si pone evidentemente all'estremo opposto di quello analitico-contabile, applicabile solo in presenza degli specifici presupposti indicati (le altre fattispecie di innescosono rappresentate dall’omessa presentazione della dichiarazione e nell’omessa indicazione del reddito d’impresa o di lavoro autonomo, dalla contabilità inattendibile e dalla mancata risposta a questionari) la cui leggittimità di applicazione anche agli errori nella compilazione degli studi pone qualche dubbio.
L’agenzia delle entrate nella cir. 41/E del 2011 (e poi nella Cir. 8/E del 2012) ha avuto modo di evidenziare che:
- l’ampliamento del potere accertativo in ogni caso riguarda unicamente i contribuenti che siano effettivamente soggetti all’applicazione degli studi di settore, non risultando applicabile la disposizione agli operatori economici esclusi dagli stessi (anche se eventualmente obbligati alla sola presentazione del modello) (Cfr. cir. 41/E/2011);
- La disposizione esplica effetti “diretti” solo in materia di imposizione diretta, atteso anche che il modello degli studi di settore è un allegato alla dichiarazione dei redditi. Ciò nonostante la circolare preve che “si ritiene che gli uffici, comunque, possano verificare gli effetti ai fini IVA di una ricostruzione induttiva dei ricavi o dei compensi, alla luce della specifica attività esercitata dal contribuente assoggettato a controllo e della possibile tipologia di evasione dallo stesso effettuata, tenuto conto dei beni ceduti e di servizi resi in evasione di imposta”.
3) Soppressione dell’obbligo di motivazione dell’accertamento che disconosce la validità di uno studio congruo
Art. 23, comma 28 del Dl 98/2011 sopprime il comma 4-bis dell’art. 10, Legge n. 146/98, secondo il quale l’Ufficio deve evidenziare nella motivazione dell’atto le ragioni che inducono lo stesso a disattendere le risultanze degli studi di settore (in quanto inadeguate a stimare correttamente il volume di ricavi / compensi potenzialmente ascrivibili al contribuente) in caso di rettifica sulla base di presunzioni “semplici” del reddito imponibile di un contribuente “congruo”.
4) L’inibizione degli accertamenti analitici induttivi per i contribuenti virtuosi
L’art. 2, co. 35 del Dl 138/2011 prevede che al fine di poter beneficare del c.d. “premio di congruità” di cui all’art. 10, comma 4-bis, Legge n. 146/98 - in base al quale sono preclusi dall’accertamento basato su presunzioni semplici i soggetti congrui (anche per effetto di adeguamento) che abbiano indicato correttamente i dati nel modello studi, qualora i predetti accertamenti non determinino una rettifica dei ricavi/compensi superiore al 40% di quelli dichiarati, o comunque superiore a € 50.000- è necessario soddisfare un’ulteriore nuova condizione consistente nella congruità anche per l’anno precedente a quello interessato.
Il livello di congruità, per entrambi gli anni, è quello derivante dall’analisi di congruità e normalità economica, eventualmente al netto dei correttivi anticrisi riconosciuti.
Non è invece richiesto, nell’anno precedente, il rispetto della coerenza agli indicatori economici.
Dopo la modifica risulta quindi che non possono essere effettuate accertamenti analitici induttivi (o meglio, rettifiche sulla base di presunzioni semplici di cui alla lett. d), comma 1, art. 39 del D.P.R. 600/1973 ai fini delle dirette e all’ultimo periodo, comma 2, art. 54 del D.P.R. 633/1972 ai fini Iva) nei confronti dei contribuenti
- congrui e coerenti nel periodo di accertamento e
- congrui nel periodo prima
qualora l'ammontare dei ricavi non dichiarati, con un massimo di cinquanta mila euro, sia pari o inferiore al 40 per cento dei ricavi o dei compensi dichiarati.
Si tratta di una sorta di franchigia da accertamento induttivo per contribuenti virtuosi.
Nella sostanza si ha che:
- se il contribuente è il linea con gli studi di settore, il fisco non può esperire rettifiche di tipo analitico-induttivo, basate su presunzioni semplici, qualora la rettifica fosse di importo pari o inferiore al 40 per cento dei ricavi o dei compensi dichiarati dal contribuente stesso, con il limite massimo di 50 mila euro;
- in caso contrario (quindi quando i ricavi non dichiarati sono superiori alla franchigia), l’Ufficio può procedere alle rettifiche (sull’intero valore).
La circ. 8/E/2011 ritiene che tale previsione, avendo natura procedimentale, assume rilevanza anche per le annualità pregresse (In precedenza risposta n. I 4) Telefisco 2012).
L’art. 10, co. da 9 a 13 del Dl 201/2011 interviene modificando nuovamente la disposizione in commento prevedendo, con riferimento alle dichiarazioni relative al 2011 e annualità successive, una copertura piena e più ampia.
Vene detto che nei contribuenti dei soggetti agli studi di settore che:
1) assolvono regolarmente gli obblighi di comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi di settore, indicando fedelmente tutti i dati previsti;
2) risultano congrui, anche a seguito di adeguamento;
3) risultano coerenti agli specifici indicatori previsti dallo studio di settore
è riconosciuto la preclusione piena dagli accertamenti analitici induttivi ex art. 39, co. 1, lett. d), secondo periodo, DPR n. 600/73 e art. 54, co. 2, ultimo periodo, DPR n. 633/72 senza quindi porre alcun limite in termine di importo dello “scudo”.
A ciò viene aggiunta;
a) La riduzione di 1 anno dei termini di decadenza per l’attività di accertamento ex art. 43, co. 1, DPR n. 600/73 e art. 57, co. 1, DPR n. 633/72, che passano quindi da 5 a 4;
b) (in caso di imprenditori o professionisti persone fisiche) la riduzione della possibilità di effettuare il redditometro o lo spesometro in quanto la possibilità di pocedere alla determinazione sintetica del reddito ex art. 38, DPR n. 600/73 avviene solo se il reddito complessivo accertabile eccede di almeno 1/3 (e non di 1/5 come previsto dalla norma a regime) quello dichiarato.
5) Nuove modalità di accertamento per i soggetti non congrui.
L’art. 10, co. da 9 a 13 del Dl 201/2011 interviene prevedendo che i contribuenti soggetti agli studi di settore che:
- non soddisfano le 3 condizioni appena sopra riportate (che consentono di fruire dei nuovi benefici accertativi ) saranno oggetto di specifici piani di controllo da parte dell’Agenzia delle Entrate e della GdF;
- risultano non congrui e sono privi di un c/c dedicato all’attività professionale/d’impresa saranno, oggetto di controlli svolti prioritariamente con l’utilizzo dei poteri istruttori di cui all’art. 32, comma 1, nn. 6-bis e 7, DPR n. 600/73, e all’art. 51, comma 2, nn. 6-bis e 7, DPR n. 633/72.
Per le attività di accertamento relative alle annualità antecedenti al 2011 continuano a trovare applicazione gli artt. 10, comma 4-bis e 10-ter, Legge n. 146/98 (premio di congruità) che sono abrogati dal Decreto in esame.
ARTICOLO - Pubblicato il: 19 marzo 2012 - Da: G. Manzana E. Iori
Le problematiche circa alla norma che regola in merito ai beni concessi in godimento ai soci sono molteplici; e ciò non solo perche ci si trova di fronte a una norma che è nata come norma antiabuso ma che porta una regolamentazione anche impositiva (al limite della doppia imposizione), ma anche per la profonda divergenza esistente tra la norma istitutiva (art. 2 commi da 36-terdecies a 36-duodevieces del dl 138/2011) e provvedimento delle Entrate che ha attuato tale previsione (prot. n. 166485 del 16 novembre 2011).
Nel frattempo l’agenzia delle entrate, che fino ad ora si è espressa sul punto solo con alcune risposte fornite in sede di incontri con la stampa specializzata, ha proroga al 15 ottobre 2012 il termine, inizialmente previsto per il 31 marzo 2012 (2 aprile 2012), per la prima comunicazione (provv. n. 2012/37049 del 13 marzo 2012).
AMBITO APPLICATIVO DELLA NORMA
La norma di cui trattiamo riguarda “ i beni dell’impresa concessi in godimento ai soci o ai familiari dell’imprenditore”.
La norma ha il chiaro lo scopo di agevolare l’utilizzo del redditometro contrastando le c.d. intestazioni di comodo. Ne dovrebbe quindi derivare che non si applica là dove non si è di fronte a una intestazione di comodo in quanto non si è di fronte a “beni concessi in godimento”. E’ il caso dell’utilizzo promiscuo dell’amministratore o del dipendente dell’autovettura, per la quale, questo paga o tassa il corrispondente benefit.
Tale conclusione sembrerebbe confermata anche dall’Agenzia delle entrate là dove precisa che la disposizione di cui alla citata nuova lett. h-ter), secondo la quale è tassato l’utilizzo in capo alla persona fisica come reddito diverso, è applicabile “solo nel caso in cui il TUIR non preveda specifiche norme che limitano la deducibilità dei costi relativi ai beni concessi in godimento in capo al concedente, e che tassano il relativo reddito in capo al soggetto utilizzatore”.
OBBLIGO DI COMUNICAZIONE 2012
L’art. 36-duodevicies del Dl 138/2011 prevede che “le disposizioni di cui ai commi da 36-terdecies a 36-septiesdecies si applicano a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”.
Ciò nonostante il provvedimento n. 166485 del 16 novembre 2011 prevede che “per i beni concessi in godimento nei periodi d’imposta precedenti a quello di prima applicazione delle disposizioni del presente provvedimento, la comunicazione deve essere effettuata entro il 31 marzo 2012”.
Il provvedimento n. 2012/37049 del 13 marzo 2012 ha previsto che “il termine del 31 marzo 2012, previsto al punto 3.5 del provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 16 novembre 2011, è prorogato al 15 ottobre 2012”.
OBBLIGO DI COMUNICAZIONE A REGIME
La norma prevede che “Al fine di garantire l'attività di controllo, nelle ipotesi di cui al comma 36-quaterdecies l'impresa concedente ovvero il socio o il familiare dell'imprenditore comunicano all'Agenzia delle entrate i dati relativi ai beni concessi in godimento. Con provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto sono individuati modalità e termini per l'effettuazione della predetta comunicazione”(36-sexiesdecies del Dl 138/2011).
Il provvedimento n. 166485 del 16 novembre 2011 prevede che “3.4 La comunicazione deve essere effettuata entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello di chiusura del periodo d’imposta in cui i beni sono concessi in godimento”.
La comunicazione:
- va trasmessa, in via telematica, entro il 31.3 dell’anno successivo a quello di riferimento sia direttamente che tramite un intermediario abilitato.
- va effettuata, entro il medesimo termine, anche per i beni per i quali nel periodo di riferimento è cessato il diritto di godimento.
OBBLIGO DI COMUNICAZIONE DEI FINANZIAMENTI e CONFERIMENTI
La norma prevede che “(…)[ndr nei casi di applicazione, nei confronti delle persone fisiche, del reddito da godimento dei beni ex art. 67, co. 1 lett. h-ter del Tuir, l’Agenzia delle entrate] ai fini della ricostruzione sintetica del reddito tiene conto, in particolare, di qualsiasi forma di finanziamento o capitalizzazione effettuata nei confronti della società” (Art. 2 co. 36-septiesdecies del Dl 138/2011).
Si noti come:
- ll richiamo che viene fatto ai finanziamenti e ai conferimenti riguarda unicamente l’aspetto ispettivo/accertativo;
- La norma non prevede un obbligo di comunicazione per i finanziamenti e i conferimenti; la norma che tratta dell’oggetto della comunicazione è l’art. 2, comma 36-sexiesdecies, del Dl n. 138/2011 che espressamente limita la comunicazione “ai beni concessi in godimento”;
- Il finanziamento a cui fa riferimento la norma, essendo preordinato alla “ricostruzione sintetica del reddito” del socio (o del familare) che ha utilizzato in godimento i beni della società (o dell’imprenditore), assume rilevanza unicamente in caso di utilizzo di “comodo” dei beni aziendali.
Ciò nonostante:
- il provvedimento n. 166485 del 16 novembre 2011 ha esteso la comunicazione anche ai finanziamenti e capitalizzazioni effettuati nei confronti della società che concedono in godimento beni d’impresa ai soci;
- l’Agenzia delle entrate intervenendo a Telefisco 2012 ha previsto che: “I finanziamenti e i versamenti vanno segnalati per l'intero ammontare” (e non solo per per la quota parte riferibile all'acquisto di beni concessi in godimento ai soci), che vanno comunicati quelli “concretizzati nel periodo d’imposta 2011” e, “in sede di prima applicazione, (…) [ndr anche quelli] pur realizzati in precedenti periodi d’imposta, risultano ancora in essere nel periodo d’imposta in corso al 17 settembre 2011” e che “I finanziamenti ed i versamenti effettuati o ricevuti dai soci vanno comunicati, per l'intero ammontare, indipendentemente dal fatto che tali operazioni siano strumentali all’acquisizione dei beni poi concessi in godimento ai soci”.
A fronte quindi di una disposizione (l'articolo 2, comma 36-sexiesdecies, del decreto legge n. 138/2011) che richiede la comunicazione in ipotesi ben definite, il provvedimento del 16 novembre estende l'adempimento sino a farlo diventare una comunicazione "di massa" di beni e finanziamenti, perdendo decisamente di vista l'atto normativo da cui promana.
OBBLIGO DI COMUNICAZIONE IN GENERALE
Stando il dato normativo, la comunicazione:
- riguarda “i beni concessi in godimento” (Art. 2, comma 36-sexiesdecies, del Dl n. 138/2011;
- e deve essere innoltrata “nelle ipotesi di cui al comma 36-quaterdecies» del medesimo articolo 2, ossia, letteralmente, «i costi relativi ai beni dell'impresa concessi in godimento a soci o familiari dell'imprenditore per un corrispettivo annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento non sono in ogni caso ammessi in deduzione dal reddito imponibile». (Art. 2 co. 36-sexiesdecies del Dl 138/2011).
Dalla norma risulta chiaro che si vuole colpire quelle ipotesi in cui il bene, causa il diritto personale di utilizzo da parte del socio o del familiare, non risulta "collegato" all'attività d'impresa, con la conseguenza che, in questo modo, lo stesso bene non risulta inerente all'attività, provocando (correttamente) l'indeducibilità dei componenti negativi a esso riferiti. L'inerenza viene "recuperata" ex lege, sebbene il bene venga utilizzato esclusivamente dai soci e dai familiari, solamente quando questi ultimi corrispondono un corrispettivo almeno pari al valore normale del diritto di godimento del bene stesso. Quindi, la norma stabilisce l'obbligo di comunicazione per quei beni che non risultano inerenti, tra i quali non possono rientrare, ad esempio, le autovetture utilizzate in parte per l'attività d'impresa per le quali si applica la predeterminazione legale dell'inerenza, in base all'articolo 164 del Tuir (40, 80 per cento, eccetera).
Ciò nonostante leggendo le istruzioni fornite con il provvedimento n. 166485 del 16 novembre 2011 sembra estendere la comunicazione anche ai casi in cui la concessione in godimento che già avviene ad un corrispettivo di mercato.
Se questo è vero nè deriverebbe che le auto assegnate in uso promiscuo a dipendenti o amministratori, con il fringe benefit che "ex lege" costituisce il valore normale dovrebbero essere comunicate. Stessa cosa per i beni per cui il socio paga una tariffa di noleggio congrua o, trattando di immobili, un regolare canone di locazione "di mercato". In quest'ultimo caso, poi, per effetto della registrazione del contratto, così come avviene per gli aumenti di capitale, la richiesta del dato duplica informazioni già in possesso dell'Agenzia, in violazione (da ultimo) dell'articolo 7, comma 1, lettera f, del Dl n. 70/2011.
SANZIONE IN CASO DI OMESSA COMUNICAZIONE
Per l'omissione della comunicazione, ovvero per la trasmissione della stessa con dati incompleti o non veritieri, è dovuta, in solido, una sanzione amministrativa pari al 30 per cento della differenza di cui al comma 36-quinquiesdecies. Qualora, nell'ipotesi di cui al precedente periodo, i contribuenti si siano conformati alle disposizioni di cui ai commi 36-quaterdecies e 36-quinquiesdecies, è dovuta, in solido, la sanzione di cui all'articolo 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471” (Art. 2 co. 36-sexiesdecies. Del Dl 138/201).
I commi 36-quaterdecies e 36-quinquiesdecies rispettivamente prevedono:
- “I costi relativi ai beni dell'impresa concessi in godimento a soci o familiari dell'imprenditore per un corrispettivo annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento non sono in ogni caso ammessi in deduzione dal reddito imponibile” (36-quaterdecies).
- “La differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo concorre alla formazione del reddito imponibile del socio o familiare utilizzatore ai sensi dell'articolo 67, comma 1, lettera h-ter), del testo unico delle imposte sui redditi, introdotta dal comma 36-terdecies del presente articolo” (36-quinquiesdecies)
Ne deriva che la norma preve del'applicazione della sanzione
- del 30%, in caso di omessa o irregolare comunicazione dei dati, sull'importo che costituisce reddito diverso per il socio o per il familiare
- da 258 a 2.065 euro se i componenti negativi relativi ai beni non inerenti non sono stati dedotti e se il socio ha dichiarato un reddito diverso pari al valore normale del diritto di godimento
- nessuna sanzione in tutti gli altri casi.
In quest’ultima ipotesi dovrebbero rientrare l’omessa comunicazione dei conferimenti e dei finanziamenti. Conseguentemente, in caso di omissione dei dati, non si applica alcuna sanzione, come peraltro afferma la circolare 27/2012 dell'istituto di ricerca dei commercialisti.
Ma lo stesso principio vale anche per le autovetture deducibili parzialmente (articolo 164 del Tuir), per le quali non trova applicazione la previsione sull'indeducibilità totale e per le quali, soprattutto, in caso di utilizzo da parte dei soci e dei familiari, non si genera alcun reddito diverso per gli stessi, come pure in caso in cui la concessione dei beni già avviene ad un corrispettivo di mercato senza applicazione del disposto normativo in oggetto.
GLI EFFETTI DEL DISPOSTO NORMATIVO
Come si ha già avuto modo di dire, i commi 36-quaterdecies e 36-quinquiesdecies dell’art. 2 del Dl 138/2011 espressamente prevedono che:
- “I costi relativi ai beni dell'impresa concessi in godimento a soci o familiari dell'imprenditore per un corrispettivo annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento non sono in ogni caso ammessi in deduzione dal reddito imponibile” (36-quaterdecies).
- “La differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo concorre alla formazione del reddito imponibile del socio o familiare utilizzatore ai sensi dell'articolo 67, comma 1, lettera h-ter), del testo unico delle imposte sui redditi, introdotta dal comma 36-terdecies del presente articolo” (36-quinquiesdecies).
Sul punto l’Agenzia delle entrate a Telefisco 2012 ha avuto modo di dire che per “valore di mercato” del diritto di godimento deve intendersi il valore normale determinato ai sensi del comma 3 dell’articolo 9 del TUIR, corrispondente al “ (…) prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. ”
In pratica per i beni concessi in godimento ai soci o ai famigliari dell’imprenditore, è disposto che:
- costituisce “reddito diverso” in capo al socio/familiare utilizzatore ex art. 67, comma 1, nuova lett. h-ter), TUIR “la differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo per la concessione in godimento di beni dell’impresa …”;
- se il corrispettivo annuo è inferiore al valore di mercato del diritto di godimento, i costi relativi a detti beni sono in ogni caso indeducibili dal reddito d’impresa.
La norma va al di là del ripristino della corretta tassazione che ne sarebbe derivata in caso di una corretta allocazione giuridica dei beni (in caso ai soci invece che della società). Se lo scopo fosse stato questo, sarebbe infatti stato sufficiente prevedere (cosa che peraltro non occorreva stando il principio generale dell’inerenza ex art. 109, co. 5 del Tuir) l’indeducibilità del costo in capo alla società con l’aggiunta, eventualmente, della tassazione conseguente alla presunzione di distribuzione di dividendi (qualora l’acquisito del bene di “comodo” non fosse stato finanziato con mezzi dello stesso socio fatti confluire sottoforma di finanziamenti o conferimenti). La norma, quindi, va al di là identificando verrebbe da dire, ex lege, una forma di doppia imposizione economica mediante la tassazione dello reddito in capo a soggetti diversi; ciò è tanto più evidente se si considera il caso di società fiscalmente trasparenti, dove in capo allo stesso soggetto si viene a concentrare la tassazione conseguente all’utilizzo che quella dell’indeducibilità.
L'annuncio da parte dell'agenzia delle Entrate di un rinvio del termine di presentazione della comunicazione dei dati relativi ai beni d'impresa concessi in godimento ai soci (attualmente in scadenza il 2 aprile), è da salutare sicuramente con favore, in considerazione dei molteplici punti interrogativi che attengono a questo (ennesimo) adempimento imposto alle imprese ed ai loro consulenti.
Il vero problema da risolvere prima della scadenza, in realtà, è la profonda divergenza esistente tra la norma istitutiva dell'obbligo (avente efficacia cogente anche dal lato sanzionatorio) ed il provvedimento delle Entrate che ha attuato tale previsione.
A fronte di una disposizione (l'articolo 2, comma 36-sexiesdecies, del decreto legge n. 138/2011) che richiede la comunicazione in ipotesi ben definite, il provvedimento del 16 novembre estende l'adempimento sino a farlo diventare una comunicazione "di massa" di beni e finanziamenti, perdendo decisamente di vista l'atto normativo da cui promana. Di qui le tante perplessità degli operatori, sintetizzate nella tabella a fianco.
Ripercorrendo la norma introdotta dalla manovra di Ferragosto, la comunicazione dovrebbe intervenire «nelle ipotesi di cui al comma 36-quaterdecies» del medesimo articolo 2, ossia, letteralmente, quando i beni dell'impresa sono concessi in godimento ai soci o familiari dell'imprenditore «per un corrispettivo annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento». La concessione in godimento che già avviene ad un corrispettivo di mercato – come ad esempio accade per le auto assegnate in uso promiscuo a dipendenti o amministratori, con il fringe benefit che "ex lege" costituisce il valore normale – è una ipotesi al di fuori della norma originaria, ma che, leggendo le istruzioni fornite con il provvedimento, finirebbe per rientrare nell'adempimento. Stessa cosa per i beni per cui il socio paga una tariffa di noleggio congrua o, trattando di immobili, un regolare canone di locazione "di mercato". In quest'ultimo caso, poi, per effetto della registrazione del contratto, così come avviene per gli aumenti di capitale, la richiesta del dato duplica informazioni già in possesso dell'Agenzia, in violazione (da ultimo) dell'articolo 7, comma 1, lettera f, del Dl n. 70/2011. Poiché la sanzione è "pensata" con riferimento all'unica ipotesi prevista dalla norma (ossia quando il socio non paga nulla o, comunque, paga meno del dovuto per il godimento del bene), in tutte queste fattispecie risulterebbe di impossibile applicazione, aumentando le perplessità di chi deve fornire il dato.
Altro tema dolente è quello dei finanziamenti. L'articolo 2, comma 36-septiesdecies, del Dl n. 138/2011 (comma differente da quello che disciplina l'obbligo di comunicazione) ne tratta unicamente con riferimento ai poteri di controllo dell'Agenzia; anche in questo caso, quindi, il provvedimento "va fuori tema", e la sanzione risulta inapplicabile.
Dal lato soggettivo, poi, se la norma si rivolge – in veste di utilizzatori dei beni – «ai soci o familiari dell'imprenditore», il provvedimento estende la richiesta ai familiari dei soci, ai soci o familiari di altra società del gruppo e ai soci indiretti. Accanto a questo ampliamento, tutto sommato condivisibile visto lo spirito della norma, c'è quello riguardante i soci non persone fisiche, che stupisce in relazione sia al tipo di reddito che il godimento del bene determinerebbe (redditi diversi ex articolo 67 Tuir) sia della finalità della comunicazione (redditometro), al punto che resta il dubbio che ci si intendesse riferire alle società semplici e agli enti non commerciali che sono al contempo soci ed utilizzatori dei beni dell'impresa.
Insomma, stante il dettato della norma di questa estate, si è dell'avviso che l'unica cosa da fare, per evitare adempimenti molto disomogenei e lasciati alla sensibilità dei destinatari, appare quella di ricondurre il testo del provvedimento alla situazione disciplinata (e sanzionata) dal legislatore, che non può essere significativamente alterata in una sede meramente attuativa, qualunque sia il fine (anche comprensibile) di questa alterazione.
La nuova comunicazione dei beni utilizzati dai soci di società sta diventando una sorta di "spesometro 2" in quanto la normativa di riferimento e i provvedimenti attuativi (nonché le istruzioni) divergono completamente.
Per la comunicazione dei beni dei soci vi è comunque un sollievo: che si decida di seguire la norma di riferimento, oppure il provvedimento attuativo delle Entrate del 16 novembre 2011, in pochi casi, se si omette il modello o si sbaglia, trovano applicazione le sanzioni.
La norma prevede (comma 36-sexiesdecies dell'articolo 2 del decreto legge di Ferragosto 138/2011) che la comunicazione deve essere inoltrata «nelle ipotesi di cui al comma 36-quaterdecies» dello stesso articolo 2. Si tratta di quando «i costi relativi ai beni dell'impresa concessi in godimento a soci o familiari dell'imprenditore per un corrispettivo annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento non sono in ogni caso ammessi in deduzione dal reddito imponibile».
Già questa previsione risolverebbe molti dubbi perché si può comprendere che la norma vuole colpire quelle ipotesi in cui il bene, causa il diritto personale di utilizzo da parte del socio o del familiare, non risulta "collegato" all'attività d'impresa, con la conseguenza che, in questo modo, lo stesso bene non risulta inerente all'attività, provocando (correttamente) l'indeducibilità dei componenti negativi a esso riferiti. L'inerenza viene "recuperata" ex lege, sebbene il bene venga utilizzato esclusivamente dai soci e dai familiari, solamente quando questi ultimi corrispondono un corrispettivo almeno pari al valore normale del diritto di godimento del bene stesso.
Quindi, la norma stabilisce l'obbligo di comunicazione per quei beni che non risultano inerenti, tra i quali non possono rientrare, ad esempio, le autovetture utilizzate in parte per l'attività d'impresa per le quali si applica la predeterminazione legale dell'inerenza, in base all'articolo 164 del Tuir (40, 80 per cento, eccetera).
Il successivo comma 36-quinquiesdecies stabilisce che si realizza reddito diverso per il socio, qualora lo stesso utilizzi il bene "non inerente" a un corrispettivo inferiore al valore normale del diritto di godimento. A questo punto, il comma 36-sexiesdecies stabilisce l'applicazione della sanzione del 30%, in caso di omessa o irregolare comunicazione dei dati, sull'importo che costituisce reddito diverso per il socio o per il familiare. La sanzione risulta, invece, da 258 a 2.065 euro se i componenti negativi relativi ai beni non inerenti non sono stati dedotti (ovvio) e se il socio ha dichiarato un reddito diverso pari al valore normale del diritto di godimento. Quest'ultima previsione risolve ogni cosa: l'ipotetica esigenza di comunicare i finanziamenti soci e le forme di capitalizzazione (richiesta dal provvedimento delle Entrate, ma non dalla norma) non può originare alcun reddito diverso per i soci né alcuna indeducibilità relativa ai beni. Conseguentemente, in caso di omissione dei dati, non si applica alcuna sanzione, come peraltro afferma la circolare 27/2012 dell'istituto di ricerca dei commercialisti. Ma lo stesso principio vale anche per le autovetture deducibili parzialmente (articolo 164 del Tuir), per le quali non trova applicazione la previsione sull'indeducibilità totale e per le quali, soprattutto, in caso di utilizzo da parte dei soci e dei familiari, non si genera alcun reddito diverso per gli stessi.
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Il quadro
01 | SOTTO LA LENTE
I beni che devono essere indicati sono quelli «non inerenti».
In questo senso si esprime la norma, la quale prevede che i componenti negativi relativi ai beni dati in godimento ai soci a un corrispettivo inferiore al valore normale del diritto di godimento non sono ammessi in deduzione.
La norma non può trovare applicazione per quelle situazioni in cui l'inerenza viene forfetizzata ex lege (per esempio le autovetture) o già vengono stabilite misure di indeducibilità (per esempio per gli immobili patrimonio)
02 | SOCI E FAMILIARI
Viene stabilito che se i soci o i familiari utilizzano i beni a un corrispettivo inferiore a quello che deriva dal valore normale del diritto di godimento, per i soci e i familiari si realizza – dal periodo d'imposta 2012 – un reddito diverso tassato.
Questa norma non può colpire quelle ipotesi in cui per il bene vi è un'indeducibilità parziale o nel caso si generi in capo al socio o al familiare la tassazione di un fringe benefit
03 | LA CONSEGUENZA
La sanzione, in caso di omissione del modello o di invio dello stesso con dati irregolari o incompleti, risulta pari al 30 per cento dell'ammontare di quello che risulta il "reddito diverso" per il socio. Nel caso in cui per i beni non si abbia deducibilità dei componenti negativi e si realizzi un reddito diverso per il socio, la sanzione viene fissata da 258 a 2.065 euro. Le penalità sono indirizzate, quindi, a colpire queste ipotesi specifiche
INFORMATIVA N. 029 Trento, 01.02.2012
BENI IN GODIMENTO A SOCI / FAMILIARI: I PRIMI CHIARIMENTI (UFFICIOSI) DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE
Riferimenti:
• • Art. 2, commi da 36-terdecies a 36-duodevicies, DL n. 138/2011
• • Provvedimento Agenzia Entrate 16.11.2011
• • Informative SEAC 30.9.2011, n. 218 e 21.11.2011, n. 261
In sintesi:
Recentemente, nell’ambito degli incontri con la stampa specializzata, l’Agenzia delle Entrate ha fornito alcune precisazioni in merito ai beni in godimento a soci / familiari. In particolare è stato chiarito che:
• • per determinare il valore di mercato del bene concesso in godimento va fatto riferimento alla definizione di “valore normale” contenuta nel TUIR;
• • l’autovettura concessa in godimento ad uso promiscuo all’amministratore / socio, dipendente della società, configurando un fringe benefit non rientra nel campo applicativo della nuova disposizione;
• • i finanziamenti / versamenti eseguiti o ricevuti dai soci devono essere comunicati per l’intero ammontare, a nulla rilevando che tali operazioni siano finalizzate all’acquisizione dei beni successivamente concessi in godimento ai soci.
Vanno comunicati sia i finanziamenti / versamenti effettuati nel 2011, sia quelli eseguiti in anni precedenti, ma ancora in essere al 17.11.2011.
Come noto, entro il 31.3.2012, le società / ditte individuali che concedono in godimento l’utilizzo di beni d’impresa (mobili o immobili) ad un socio / familiare devono inviare all’Agenzia delle Entrate una specifica comunicazione contenente i dati relativi a tali beni, con le modalità ed i termini individuati dall’Agenzia delle Entrate nel Provvedimento 16.11.2011 (Informativa SEAC 21.11.2011, n. 261).
TRATTAMENTO FISCALE IN CAPO ALL’UTILIZZATORE ED AL CONCEDENTE
Nel caso di concessione in godimento di un bene d’impresa in capo:
- all’utilizzatore persona fisica (socio / familiare) si configura un reddito diverso ai sensi della nuova lett. h-ter) del comma 1 dell’art. 67, TUIR, pari alla differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo pattuito per la concessione in godimento del bene;
- al concedente (società / ditta individuale) è prevista l’indeducibilità dei relativi costi nel caso in cui il corrispettivo annuo risulti inferiore al valore di mercato del diritto di godimento di detti beni.
SOGGETTI OBBLIGATI ALLA COMUNICAZIONE
L’Agenzia delle Entrate nel citato Provvedimento precisa che sono obbligati alla comunicazione in esame le:
• • ditte individuali, in merito ai familiari dell’imprenditore che hanno ricevuto in godimento beni dell’impresa.
Non vanno comunicati i beni della ditta individuale utilizzati dal titolare;
• • società, in merito ai soci “comprese le persone fisiche che direttamente o indirettamente detengono partecipazioni nell’impresa concedente” che hanno ricevuto in godimento beni dell’impresa.
Si rammenta che ai sensi dell’art. 5, comma 5, TUIR, sono considerati “familiari”:
• • il coniuge;
• • i parenti entro il terzo grado;
• • gli affini entro il secondo grado.
CONTENUTO DELLA COMUNICAZIONE
Il comma 36-septiesdecies dell’art. 2, DL n. 138/2011, prevede che nella determinazione sintetica del reddito dei soggetti (persone fisiche) utilizzatori dei beni d’impresa concessi in godimento l’Agenzia terrà conto degli eventuali finanziamenti / capitalizzazioni effettuati dagli stessi nei confronti della società.
Con il citato Provvedimento l’Agenzia delle Entrate ha esteso la comunicazione in esame anche ai finanziamenti / capitalizzazioni effettuati nei confronti della società che concedono in godimento beni d’impresa ai soci.
Tenendo presente quanto sopra, i soggetti interessati, oltre ai dati anagrafici dell’utilizzatore, devono comunicare:
• • i beni concessi in godimento (ad esclusione di quelli di valore non superiore a € 3.000, al netto dell’IVA);
• • i finanziamenti / capitalizzazioni effettuati.
Sul punto il citato Provvedimento 16.11.2011 dispone che la comunicazione va effettuata anche:
- per i beni / finanziamenti o capitalizzazioni, rispettivamente, in godimento / in essere nel periodo d’imposta in corso al 17.9.2011;
- per i beni concessi in godimento dalla società ai soci “o familiari di questi ultimi, o ai soci o familiari di altra società appartenente al medesimo gruppo”.
TERMINI E MODALITÀ DI PRESENTAZIONE DELLA COMUNICAZIONE
La comunicazione va trasmessa, in via telematica, entro il 31.3 dell’anno successivo a quello di riferimento sia direttamente che tramite un intermediario abilitato.
Ancorché l’applicazione delle nuove disposizioni decorra dal 2012 il citato Provvedimento richiede l’invio della comunicazione anche per il 2011.
La comunicazione va effettuata, entro il medesimo termine, anche per i beni per i quali nel periodo di riferimento è cessato il diritto di godimento.
Per il 2011 la comunicazione, come sopra accennato, va presentata entro il 2.4.2012 (il 31.3.2012 cade di sabato) e riguarda anche i beni il cui godimento è cessato entro il 31.12.2011.
REGIME SANZIONATORIO
Come disposto dal comma 36-sexiesdecies del citato art. 2, in caso di omessa presentazione della comunicazione o presentazione della stessa con dati incompleti o non veritieri è applicabile la sanzione, in solido tra le parti, del 30% della “differenza tra il valore di mercato ed il corrispettivo annuo per la concessione in godimento”.
La sanzione è prevista nella misura da € 258 a € 2.065 ex art. 11, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 471/97 se i soggetti interessati si sono “conformati alle disposizioni” in esame.
I CHIARIMENTI (UFFICIOSI) DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE
In relazione alle disposizioni in esame vanno considerati i chiarimenti (ufficiosi) forniti dall’Agenzia delle Entrate nell’ambito dei consueti incontri con la stampa specializzata, di seguito sintetizzati.
Fattispecie
Determinazione del valore dei beni concessi in godimento
Chiarimento
L’Agenzia delle Entrate conferma innanzitutto che per “valore di mercato” del bene concesso in godimento ai soci / familiari, va inteso il valore normale ex art. 9, comma 3, TUIR, ossia il “prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi”.
Autovettura concessa in uso all’amministratore / socio e dipendente della società L’Agenzia delle Entrate precisa che la disposizione di cui alla citata nuova lett. h-ter) è applicabile “solo nel caso in cui il TUIR non preveda specifiche norme che limitano la deducibilità dei costi relativi ai beni concessi in godimento in capo al concedente, e che tassano il relativo reddito in capo al soggetto utilizzatore”. Di conseguenza, la concessione in uso dell’autovettura all’amministratore / socio, anche dipendente della società, non identifica una fattispecie di reddito diverso di cui alla lett. h-ter), in quanto configura un fringe benefit disciplinato dall’art. 51, TUIR.
Va evidenziato che non viene fatto alcun riferimento all’obbligo o meno di comunicare i dati relativi ai predetti beni.
Società fiduciaria socia e bene concesso in godimento a persona fisica riferibile alla quota fiduciaria Ribadendo quanto affermato nel citato Provvedimento 16.11.2011 (punto 1.1) in merito ai soggetti ed all’oggetto della comunicazione, l’Agenzia delle Entrate specifica che per la fattispecie in esame va comunicato quale soggetto beneficiario il fiduciante. Tale situazione configura “nella sostanza … detenzione indiretta di quote”. Analogamente anche per il trust e godimento del bene al disponente.
Finanziamenti / versamenti soci L’Agenzia precisa che i finanziamenti / versamenti effettuati o ricevuti vanno comunicati:
• • per l’intero ammontare e non per la quota parte riferibile all’acquisizione dei beni concessi in godimento ai soci;
• • a prescindere dal fatto che gli stessi siano finalizzati all’acquisizione dei beni concessi in godimento ai soci.
Beni in godimento ai soci e finanziamenti / versamenti L’Agenzia chiarisce che vanno comunicati i beni concessi in godimento nonché i finanziamenti / versamenti (effettuati / ricevuti) “concretizzati nel periodo d’imposta 2011”.
Inoltre, “in sede di prima applicazione”, vanno comunicati altresì i finanziamenti / versamenti realizzati in precedenti periodi d’imposta, ancora in essere al 17.11.2011.
Una questione non ancora affrontata da parte dell’Agenzia delle Entrate riguarda il caso, molto frequente, delle autovetture utilizzate dai soci non dipendenti della società.
Per tali beni, nella generalità dei casi, trova applicazione la limitazione alla deducibilità dei relativi costi disposta dall’art. 164, TUIR.
Tale fattispecie rientra nella previsione della nuova lett. h-ter)? Deve essere inviata la comunicazione in esame all’Agenzia delle Entrate?
Come sopra evidenziato secondo l’Agenzia la nuova disposizione contenuta nella citata lett. h-ter) “trova applicazione solo nel caso in cui il TUIR non preveda specifiche norme che limitano la deducibilità dei costi relativi ai beni concessi in godimento in capo al concedente, e che tassano il relativo reddito in capo al soggetto utilizzatore”.
Nel caso di specie al socio utilizzatore non viene imputata alcuna manifestazione reddituale. Tuttavia, la limitata deducibilità dei costi si riflette indirettamente su un aumento del reddito prodotto dalla società e imputato al socio (ciò chiaramente nell’ambito delle società personali).
Inoltre, il comma 36-sexiesdecies del citato art. 2 dispone che la comunicazione deve essere inviata “nelle ipotesi di cui al comma 36-quaterdecies”; ai sensi del quale “i costi relativi ai beni dell’impresa concessi in godimento a soci o familiari dell’imprenditore per un corrispettivo annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento non sono in ogni caso ammessi in deduzione dal reddito imponibile”.
Il Provvedimento 16.11.2011, con il quale, in base al citato comma 36-sexiesdecies, l’Agenzia delle Entrate deve individuare “modalità e termini per l’effettuazione” della comunicazione in esame, non dà alcuna rilevanza al fatto che la società deduca o meno, anche parzialmente, i costi relativi ai beni.
Da quanto sopra si può desumere che secondo l’Agenzia la comunicazione in esame non è collegata all’applicazione di quanto disposto dal suddetto comma 36-quaterdecies (corrispettivo annuo inferiore al relativo canone con conseguente indeducibilità dei costi per la società). Si ritiene pertanto opportuno che l’Agenzia intervenga a breve per fornire il proprio orientamento in merito alla delicata questione sopra descritta.
ARTICOLO - Pubblicato il: 19 marzo 2012 - Da: G. Manzana E. Iori
Le problematiche circa alla norma che regola in merito ai beni concessi in godimento ai soci sono molteplici; e ciò non solo perche ci si trova di fronte a una norma che è nata come norma antiabuso ma che porta una regolamentazione anche impositiva (al limite della doppia imposizione), ma anche per la profonda divergenza esistente tra la norma istitutiva (art. 2 commi da 36-terdecies a 36-duodevieces del dl 138/2011) e provvedimento delle Entrate che ha attuato tale previsione (prot. n. 166485 del 16 novembre 2011).
Nel frattempo l’agenzia delle entrate, che fino ad ora si è espressa sul punto solo con alcune risposte fornite in sede di incontri con la stampa specializzata, ha proroga al 15 ottobre 2012 il termine, inizialmente previsto per il 31 marzo 2012 (2 aprile 2012), per la prima comunicazione (provv. n. 2012/37049 del 13 marzo 2012).
AMBITO APPLICATIVO DELLA NORMA
La norma di cui trattiamo riguarda “ i beni dell’impresa concessi in godimento ai soci o ai familiari dell’imprenditore”.
La norma ha il chiaro lo scopo di agevolare l’utilizzo del redditometro contrastando le c.d. intestazioni di comodo. Ne dovrebbe quindi derivare che non si applica là dove non si è di fronte a una intestazione di comodo in quanto non si è di fronte a “beni concessi in godimento”. E’ il caso dell’utilizzo promiscuo dell’amministratore o del dipendente dell’autovettura, per la quale, questo paga o tassa il corrispondente benefit.
Tale conclusione sembrerebbe confermata anche dall’Agenzia delle entrate là dove precisa che la disposizione di cui alla citata nuova lett. h-ter), secondo la quale è tassato l’utilizzo in capo alla persona fisica come reddito diverso, è applicabile “solo nel caso in cui il TUIR non preveda specifiche norme che limitano la deducibilità dei costi relativi ai beni concessi in godimento in capo al concedente, e che tassano il relativo reddito in capo al soggetto utilizzatore”.
OBBLIGO DI COMUNICAZIONE 2012
L’art. 36-duodevicies del Dl 138/2011 prevede che “le disposizioni di cui ai commi da 36-terdecies a 36-septiesdecies si applicano a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”.
Ciò nonostante il provvedimento n. 166485 del 16 novembre 2011 prevede che “per i beni concessi in godimento nei periodi d’imposta precedenti a quello di prima applicazione delle disposizioni del presente provvedimento, la comunicazione deve essere effettuata entro il 31 marzo 2012”.
Il provvedimento n. 2012/37049 del 13 marzo 2012 ha previsto che “il termine del 31 marzo 2012, previsto al punto 3.5 del provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 16 novembre 2011, è prorogato al 15 ottobre 2012”.
OBBLIGO DI COMUNICAZIONE A REGIME
La norma prevede che “Al fine di garantire l'attività di controllo, nelle ipotesi di cui al comma 36-quaterdecies l'impresa concedente ovvero il socio o il familiare dell'imprenditore comunicano all'Agenzia delle entrate i dati relativi ai beni concessi in godimento. Con provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto sono individuati modalità e termini per l'effettuazione della predetta comunicazione”(36-sexiesdecies del Dl 138/2011).
Il provvedimento n. 166485 del 16 novembre 2011 prevede che “3.4 La comunicazione deve essere effettuata entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello di chiusura del periodo d’imposta in cui i beni sono concessi in godimento”.
La comunicazione:
- va trasmessa, in via telematica, entro il 31.3 dell’anno successivo a quello di riferimento sia direttamente che tramite un intermediario abilitato.
- va effettuata, entro il medesimo termine, anche per i beni per i quali nel periodo di riferimento è cessato il diritto di godimento.
OBBLIGO DI COMUNICAZIONE DEI FINANZIAMENTI e CONFERIMENTI
La norma prevede che “(…)[ndr nei casi di applicazione, nei confronti delle persone fisiche, del reddito da godimento dei beni ex art. 67, co. 1 lett. h-ter del Tuir, l’Agenzia delle entrate] ai fini della ricostruzione sintetica del reddito tiene conto, in particolare, di qualsiasi forma di finanziamento o capitalizzazione effettuata nei confronti della società” (Art. 2 co. 36-septiesdecies del Dl 138/2011).
Si noti come:
- ll richiamo che viene fatto ai finanziamenti e ai conferimenti riguarda unicamente l’aspetto ispettivo/accertativo;
- La norma non prevede un obbligo di comunicazione per i finanziamenti e i conferimenti; la norma che tratta dell’oggetto della comunicazione è l’art. 2, comma 36-sexiesdecies, del Dl n. 138/2011 che espressamente limita la comunicazione “ai beni concessi in godimento”;
- Il finanziamento a cui fa riferimento la norma, essendo preordinato alla “ricostruzione sintetica del reddito” del socio (o del familare) che ha utilizzato in godimento i beni della società (o dell’imprenditore), assume rilevanza unicamente in caso di utilizzo di “comodo” dei beni aziendali.
Ciò nonostante:
- il provvedimento n. 166485 del 16 novembre 2011 ha esteso la comunicazione anche ai finanziamenti e capitalizzazioni effettuati nei confronti della società che concedono in godimento beni d’impresa ai soci;
- l’Agenzia delle entrate intervenendo a Telefisco 2012 ha previsto che: “I finanziamenti e i versamenti vanno segnalati per l'intero ammontare” (e non solo per per la quota parte riferibile all'acquisto di beni concessi in godimento ai soci), che vanno comunicati quelli “concretizzati nel periodo d’imposta 2011” e, “in sede di prima applicazione, (…) [ndr anche quelli] pur realizzati in precedenti periodi d’imposta, risultano ancora in essere nel periodo d’imposta in corso al 17 settembre 2011” e che “I finanziamenti ed i versamenti effettuati o ricevuti dai soci vanno comunicati, per l'intero ammontare, indipendentemente dal fatto che tali operazioni siano strumentali all’acquisizione dei beni poi concessi in godimento ai soci”.
A fronte quindi di una disposizione (l'articolo 2, comma 36-sexiesdecies, del decreto legge n. 138/2011) che richiede la comunicazione in ipotesi ben definite, il provvedimento del 16 novembre estende l'adempimento sino a farlo diventare una comunicazione "di massa" di beni e finanziamenti, perdendo decisamente di vista l'atto normativo da cui promana.
OBBLIGO DI COMUNICAZIONE IN GENERALE
Stando il dato normativo, la comunicazione:
- riguarda “i beni concessi in godimento” (Art. 2, comma 36-sexiesdecies, del Dl n. 138/2011;
- e deve essere innoltrata “nelle ipotesi di cui al comma 36-quaterdecies» del medesimo articolo 2, ossia, letteralmente, «i costi relativi ai beni dell'impresa concessi in godimento a soci o familiari dell'imprenditore per un corrispettivo annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento non sono in ogni caso ammessi in deduzione dal reddito imponibile». (Art. 2 co. 36-sexiesdecies del Dl 138/2011).
Dalla norma risulta chiaro che si vuole colpire quelle ipotesi in cui il bene, causa il diritto personale di utilizzo da parte del socio o del familiare, non risulta "collegato" all'attività d'impresa, con la conseguenza che, in questo modo, lo stesso bene non risulta inerente all'attività, provocando (correttamente) l'indeducibilità dei componenti negativi a esso riferiti. L'inerenza viene "recuperata" ex lege, sebbene il bene venga utilizzato esclusivamente dai soci e dai familiari, solamente quando questi ultimi corrispondono un corrispettivo almeno pari al valore normale del diritto di godimento del bene stesso.
Ciò nonostante leggendo le istruzioni fornite con il provvedimento n. 166485 del 16 novembre 2011 sembra estendere la comunicazione anche ai casi in cui la concessione in godimento che già avviene ad un corrispettivo di mercato.
Se questo è vero nè deriverebbe che le auto assegnate in uso promiscuo a dipendenti o amministratori, con il fringe benefit che "ex lege" costituisce il valore normale dovrebbero essere comunicate. Stessa cosa per i beni per cui il socio paga una tariffa di noleggio congrua o, trattando di immobili, un regolare canone di locazione "di mercato". In quest'ultimo caso, poi, per effetto della registrazione del contratto, così come avviene per gli aumenti di capitale, la richiesta del dato duplica informazioni già in possesso dell'Agenzia, in violazione (da ultimo) dell'articolo 7, comma 1, lettera f, del Dl n. 70/2011.
SANZIONE IN CASO DI OMESSA COMUNICAZIONE
Per l'omissione della comunicazione, ovvero per la trasmissione della stessa con dati incompleti o non veritieri, è dovuta, in solido, una sanzione amministrativa pari al 30 per cento della differenza di cui al comma 36-quinquiesdecies. Qualora, nell'ipotesi di cui al precedente periodo, i contribuenti si siano conformati alle disposizioni di cui ai commi 36-quaterdecies e 36-quinquiesdecies, è dovuta, in solido, la sanzione di cui all'articolo 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471” (Art. 2 co. 36-sexiesdecies. Del Dl 138/201).
I commi 36-quaterdecies e 36-quinquiesdecies rispettivamente prevedono:
- “I costi relativi ai beni dell'impresa concessi in godimento a soci o familiari dell'imprenditore per un corrispettivo annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento non sono in ogni caso ammessi in deduzione dal reddito imponibile” (36-quaterdecies).
- “La differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo concorre alla formazione del reddito imponibile del socio o familiare utilizzatore ai sensi dell'articolo 67, comma 1, lettera h-ter), del testo unico delle imposte sui redditi, introdotta dal comma 36-terdecies del presente articolo” (36-quinquiesdecies)
Ne deriva che la norma preve del'applicazione della sanzione
- del 30%, in caso di omessa o irregolare comunicazione dei dati, sull'importo che costituisce reddito diverso per il socio o per il familiare
- da 258 a 2.065 euro se i componenti negativi relativi ai beni non inerenti non sono stati dedotti e se il socio ha dichiarato un reddito diverso pari al valore normale del diritto di godimento
- nessuna sanzione in tutti gli altri casi.
In quest’ultima ipotesi dovrebbero rientrare l’omessa comunicazione dei conferimenti e dei finanziamenti. Conseguentemente, in caso di omissione dei dati, non si applica alcuna sanzione, come peraltro afferma la circolare 27/2012 dell'istituto di ricerca dei commercialisti.
Ma lo stesso principio vale anche per le autovetture deducibili parzialmente (articolo 164 del Tuir), per le quali non trova applicazione la previsione sull'indeducibilità totale e per le quali, soprattutto, in caso di utilizzo da parte dei soci e dei familiari, non si genera alcun reddito diverso per gli stessi, come pure in caso in cui la concessione dei beni già avviene ad un corrispettivo di mercato senza applicazione del disposto normativo in oggetto.
GLI EFFETTI DEL DISPOSTO NORMATIVO
Come si ha già avuto modo di dire, i commi 36-quaterdecies e 36-quinquiesdecies dell’art. 2 del Dl 138/2011 espressamente prevedono che:
- “I costi relativi ai beni dell'impresa concessi in godimento a soci o familiari dell'imprenditore per un corrispettivo annuo inferiore al valore di mercato del diritto di godimento non sono in ogni caso ammessi in deduzione dal reddito imponibile” (36-quaterdecies).
- “La differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo concorre alla formazione del reddito imponibile del socio o familiare utilizzatore ai sensi dell'articolo 67, comma 1, lettera h-ter), del testo unico delle imposte sui redditi, introdotta dal comma 36-terdecies del presente articolo” (36-quinquiesdecies).
Sul punto l’Agenzia delle entrate a Telefisco 2012 ha avuto modo di dire che per “valore di mercato” del diritto di godimento deve intendersi il valore normale determinato ai sensi del comma 3 dell’articolo 9 del TUIR, corrispondente al “ (…) prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. ”
In pratica per i beni concessi in godimento ai soci o ai famigliari dell’imprenditore, è disposto che:
- costituisce “reddito diverso” in capo al socio/familiare utilizzatore ex art. 67, comma 1, nuova lett. h-ter), TUIR “la differenza tra il valore di mercato e il corrispettivo annuo per la concessione in godimento di beni dell’impresa …”;
- se il corrispettivo annuo è inferiore al valore di mercato del diritto di godimento, i costi relativi a detti beni sono in ogni caso indeducibili dal reddito d’impresa.
La norma va al di là del ripristino della corretta tassazione che ne sarebbe derivata in caso di una corretta allocazione giuridica dei beni (in caso ai soci invece che della società). Se lo scopo fosse stato questo, sarebbe infatti stato sufficiente prevedere (cosa che peraltro non occorreva stando il principio generale dell’inerenza ex art. 109, co. 5 del Tuir) l’indeducibilità del costo in capo alla società con l’aggiunta, eventualmente, della tassazione conseguente alla presunzione di distribuzione di dividendi (qualora l’acquisito del bene di “comodo” non fosse stato finanziato con mezzi dello stesso socio fatti confluire sottoforma di finanziamenti o conferimenti). La norma, quindi, va al di là identificando verrebbe da dire, ex lege, una forma di doppia imposizione economica mediante la tassazione dello reddito in capo a soggetti diversi; ciò è tanto più evidente se si considera il caso di società fiscalmente trasparenti, dove in capo allo stesso soggetto si viene a concentrare la tassazione conseguente all’utilizzo che quella dell’indeducibilità.
ARTICOLO - Pubblicato il: 17 febbraio 2012 - Da: G. Manzana E. Iori
L’articolo 23, commi da 12 a 15, del Dl 98/2011, ha aggiunto i commi 10-bis e 10-ter all’articolo 15 del Dl 185/2008. A fronte di tale aggiunta veniva introdotta la possibilità, previo pagamento di un’imposta sostitutiva, di affrancare, in tutto o in parte, i valori relativi ad avviamenti, marchi d’impresa ed altre attività immateriali iscritti nel bilancio consolidato, anziché nel bilancio d’esercizio, sempre che fossero riferibili ai maggiori valori contabili delle partecipazioni di controllo acquisite ed iscritte nel bilancio individuale per effetto di operazioni straordinarie (fusioni o scissioni) o traslative (di acquisto di azioni o di aziende) (sulle partecipazioni di controllo a seguito di operazioni di fusione, scissione, conferimento e acquisto di azienda, acquisto di partecipazioni di controllo). Ciò, in deroga ai principi generali che governano il sistema tributario italiano, che si basa, invece, sulla derivazione dell’imponibile fiscale dalle risultanze contabili del bilancio d’esercizio.
Per espressa previsione del co. 12 dello stesso decreto la norma aveva carattere temporaneo nel senso che trovava applicazione alle operazioni effettuate nel periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2010 e in quelli precedenti. Lo steso decreto prevedeva la scadenza del 30 novembre 2011 per il pagamento dell'imposta. Gli effetti, in termini di deduzione dei nuovi ammortamenti, decorrevano dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2012 (per i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare, il 2013).
Il successivo articolo 20 del Dl 201/2011 aveva esteso la possibilità di riallineamento alle attività immateriali implicite in partecipazioni, derivanti da atti e operazioni effettuate nel corso dell'esercizio 2011, con effetti fiscali che decorrevano dal periodo successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014. La stessa disposizione aveva stabilito la riapertura dei termini per affrancare valori scaturiti dalle operazioni del 2010 e di anni precedenti, fissando date di pagamento dell'imposta fortemente dilazionate: la prima, entro il termine di scadenza dei versamenti del saldo delle imposte sui redditi dovute per il periodo d'imposta 2012; la seconda e la terza entro il termine di scadenza dei versamenti, rispettivamente, della prima e della seconda o unica rata di acconto delle imposte sui redditi dovute per il periodo di imposta 2014 (per i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare: un terzo al 16 giugno 2013, un terzo al 16 giugno 2014 e un terzo al 30 novembre 2014).
Art. 20 del Dl 201/2011
1. La disposizione del comma 12 dell'articolo 23 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, si applica anche alle operazioni effettuate nel periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2011. Il versamento dell'imposta sostitutiva è dovuto in tre rate di pari importo da versare:
a) la prima, entro il termine di scadenza dei versamenti del saldo delle imposte sui redditi dovute per il periodo d'imposta 2012;
b) la seconda e la terza entro il termine di scadenza dei versamenti, rispettivamente, della prima e della seconda o unica rata di acconto delle imposte sui redditi dovute per il periodo di imposta 2014.
1-bis. I termini di versamento di cui al comma 1 si applicano anche alle operazioni effettuate nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2010 e in quelli precedenti. In tal caso, a decorrere dal 1º dicembre 2011, su ciascuna rata sono dovuti interessi nella misura pari al saggio legale.
2. Gli effetti del riallineamento di cui al comma 1 decorrono dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014.
3. Si applicano, ove compatibili, le modalità di attuazione dei commi da 12 a 14 dell'articolo 23 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, disposte con provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle entrate del 22 novembre 2011.
Ora con i commi da 502 a 505 della legge 228/2012 prevedono il rinvio quinquennale per i benefici derivanti dall'affrancamento degli avviamenti e della altre attività immateriali iscritte nel valore delle partecipazioni attuati con il Dl 98/2011 e con il Dl 201/2011 e, nel caso di affrancamento avvenuto con quest’ultima norma stabiliscono anche che l'imposta sostitutiva dovrà essere versata, anziché ratealmente, in unica soluzione entro il 16 giugno 2013.
Art. 1 co. 502 a 505 L 228/2012
502. Al comma 14 dell'articolo 23 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, le parole: «al 31 dicembre 2012» sono sostituite dalle seguenti: «al 31 dicembre 2017».
503. All'articolo 20, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, le parole: «al 31 dicembre 2014» sono sostituite dalle seguenti: «al 31 dicembre 2019».
504. All'articolo 20, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, le parole: «in tre rate di pari importo da versare:
a) la prima, entro il termine di scadenza dei versamenti del saldo delle imposte sui redditi dovute per il periodo d'imposta 2012;
b) la seconda e la terza entro il termine di scadenza dei versamenti, rispettivamente, della prima e della seconda o unica rata di acconto delle imposte sui redditi dovute per il periodo di imposta 2014» sono sostituite dalle seguenti: «in un'unica rata da versare entro il termine di scadenza dei versamenti del saldo delle imposte sui redditi dovute per il periodo d'imposta 2012».
505. All'articolo 20, comma 1-bis, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, al primo periodo, le parole: «I termini di versamento di cui al comma 1 si applicano» sono sostituite dalle seguenti: «Il termine di versamento di cui al comma 1 si applica»; e, al secondo periodo, le parole: «su ciascuna rata» sono soppresse.
Il Governo, come si evince dalla relazione al disegno di legge di stabilità, ha riscontrato che la norma è risultata eccessivamente vantaggiosa per alcune grandi società, soprattutto del settore bancario, che l'hanno utilizzata in modo consistente. L'emersione in bilancio, a seguito dell'affrancamento, di imposte anticipate, consentirà infatti, in presenza di situazioni di perdita, la generazione di crediti di imposta (articolo 2, comma 55 del Dl 225/2010 e circolare 37/E/2012), che potranno essere utilizzati anche per non versare l'imposta sostitutiva in questione (per questo credito non vi sono limiti alla compensazione nel modello F24). A fronte di questo notevole impatto sul gettito causato dalle regole originarie, la legge di stabilità pone una stretta (in qualche modo retroattiva, in quanto cambia le regole per affrancamenti già effettuati dai contribuenti) su un duplice piano:
1) vengono fatti slittare di cinque anni gli effetti dell'affrancamento, consentendo la deduzione degli ammortamenti dal 2018 (in luogo del 2013) per gli affrancamenti del 2010 e precedenti e dal 2020 (in luogo del 2015) per quelli di operazioni effettuate nel 2011.
2) elimina il versamento rateale, stabilendo che l'intero ammontare dell'imposta sostitutiva del 16% dovrà essere corrisposto all'Erario entro il termine per il versamento a saldo del'Ires riferita all'esercizio 2012 (per i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare entro il 16 giugno del prossimo anno).
Art. 23 co. 12-15 del Dl 98/2011
12. Al fine di riallineare i valori fiscali e civilistici relativi all'avviamento ed alle altre attività immateriali,all'articolo 15 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, dopo il comma 10 sono inseriti i seguenti:
"10-bis. Le previsioni del comma 10 sono applicabili anche ai maggiori valori delle partecipazioni di controllo, iscritti in bilancio a seguito dell'operazione a titolo di avviamento, marchi d'impresa e altre attività immateriali. Per partecipazioni di controllo si intendono quelle incluse nel consolidamento ai sensi [dell'articolo 24, e seguenti] del capo III del decreto legislativo 9 aprile 1991, n. 127. Per le imprese tenute ad applicare i principi contabili internazionali di cui al regolamento n 1606/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 luglio 2002, per partecipazioni di controllo si intendono quelle incluse nel consolidamento ai sensi delle relative previsioni. L'importo assoggettato ad imposta sostitutiva non rileva ai fini del valore fiscale della partecipazione stessa.
10-ter. Le previsioni del comma 10 sono applicabili anche ai maggiori valori - attribuiti ad avviamenti, marchi di impresa e altre attività immateriali nel bilancio consolidato - delle partecipazioni di controllo acquisite nell'ambito di operazioni di cessione di azienda ovvero di partecipazioni.".
13. La disposizione di cui al comma 12 si applica alle operazioni effettuate sia nel periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2010 sia in quelli precedenti. Nel caso di operazioni effettuate in periodi d'imposta anteriori a quello in corso al 1° gennaio 2011, il versamento dell'imposta sostitutiva è dovuto in un'unica soluzione entro il 30 novembre 2011.
14. Gli effetti del riallineamento di cui al comma 12 decorrono dal periodo d'imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2012.
15. Con provvedimento del Direttore dell'Agenzia dell'entrate sono stabilite le modalità di attuazione dei commi da12 a 14.
Con riguardo all’ambito soggettivo di applicazione dell’opzione prevista dai commi 10-bis e 10-ter, la stessa poteva essere esercitata sia dalle imprese che adottavano i principi contabili internazionali sia dalle imprese che non applicavano tali principi.
Con riguardo all’ambito oggettivo, il primo periodo del comma 10-bis, stabiliva che sono affrancabili, in base alle previsioni di cui al comma 10 dell’art. 15 del decreto legge n. 185 del 2008, anche i maggiori valori civilistici iscritti sulle partecipazioni di controllo nel bilancio di esercizio dell’avente causa di operazioni straordinarie (fusioni, scissioni, conferimenti di azienda) emersi in conseguenza delle medesime, a condizione, tuttavia, che tali maggiori valori fossero risultati iscritti, in modo autonomo, nel bilancio consolidato come “avviamento”, “marchi d’impresa” ed “altre attività immateriali”.
Come chiarito nella relazione governativa, la nuova ipotesi di affrancamento, che si fondava sulle risultanze contabili del bilancio consolidato, intendeva consentire l’accesso al regime sostitutivo, di cui al comma 10 dell’art. 15 del decreto legge n. 185 del 2008, “alle operazioni straordinarie che hanno ad oggetto società il cui attivo di bilancio sia rappresentato, in tutto o in parte, da partecipazioni”, tenuto conto che, in tale ipotesi, “nel bilancio individuale della società risultante dalla fusione i valori relativi all’avviamento ed alle altre attività immateriali sono inclusi nel valore di carico delle partecipazioni, senza possibilità di autonoma iscrizione”.
Il secondo periodo del comma 10-bis forniva due definizioni di partecipazione di controllo, a seconda che l’impresa fosse tenuta o meno all’applicazione dei principi contabili internazionali.
In particolare, per le imprese che non adottavano i principi contabili internazionali, si intendono per partecipazioni di controllo quelle incluse nel consolidamento ai sensi dell’articolo 24 e, seguenti, del capo III del decreto legislativo 9 aprile 1991, n. 127. Per le imprese Ias-adopter, invece, si intendevano quelle incluse nel consolidamento in base alle previsioni contenute nei medesimi principi contabili internazionali.
L’ultimo periodo del comma 10-bis escludeva che l’esercizio dell’opzione comportasse, quale ulteriore conseguenza, il riconoscimento fiscale dei maggiori valori iscritti sulla partecipazione di controllo, ancorché una parte di essi – avendo trovato autonoma iscrizione nel bilancio consolidato come avviamento, marchi d’impresa ed altre attività immateriali – fosse stata affrancata. Pertanto, la partecipazione di controllo mantiene inalterato il valore fiscalmente riconosciuto che possedeva prima dell’operazione straordinaria.
Con la disposizione di cui al comma 10-ter veniva esteso ulteriormente l’ambito oggettivo di applicazione delle previsioni di cui al comma 10 dell’art. 15 del decreto-legge 185 del 2008, consentendo l’affrancamento anche dei maggiori valori iscritti sulle partecipazioni di controllo emersi a seguito di operazioni, anche fiscalmente realizzative, quali l’acquisto dell’azienda – tra i cui elementi patrimoniali vi fosse anche la partecipazione di controllo – o l’acquisto della stessa partecipazione di controllo. Anche in tali ipotesi, tuttavia, potevano essere affrancati soltanto i maggiori della partecipazione di controllo che fosse risultati autonomamente iscritti nel bilancio consolidato come avviamento, marchi d’impresa ed altre attività immateriali.
Le modalità di attuazione sono contenute nel provvedimento dell’Agenzia delle entrate del 22 novembre 2011 al quale si rinvia.
Aspetti contabili
I principi contabili – sia nazionali (cfr. OIC n. 25) che internazionali (IAS 12) prevedono che in sede di effettuazione di operazioni di aggregazione aziendale fiscalmente neutrali (conferimento di azienda, fusione e scissione) a fronte dei maggiori valori iscritti ai fini civilistici, si rilevino le corrispondenti imposte differite passive. In tal senso si è espressa anche l’Assonime nella cir. 51/2008.
La differenza temporanea è pari alla differenza tra il valore attribuito ad una attività o ad una passività secondo criteri civilistici ed il valore attribuito a quell'attività o a quella passività ai fini fiscali.
La contabilizzazione avviene attraverso l’ incremento corrispondente del l'importo attivo, purché il valore finale del bene non superi quello effettivo. In pratica si calcola il maggior valore al lordo delle imposte differite, iscrivendolo all'attivo, con un corrispondente fondo imposte nel passivo.
Per quanto riguarda l’avviamento, lo IAS 12 e l’IFRS 3 dispongono che la sua determinazione avvenga considerando, tra le attività e le passività rilevabili a seguito dell’operazione di aggregazione aziendale, anche i valori patrimoniali connessi alla fiscalità differita. Tuttavia, in deroga a questa regola generale, lo IAS 12, par. 21, non consente di iscrivere le imposte differite passive corrispondenti all’avviamento rilevato a seguito di una aggregazione aziendale a motivo del fatto che tale posta è di carattere residuale ed, in particolare, corrisponde all’eccedenza (positiva) tra il fair value delle partecipazioni emesse per realizzare l’acquisizione ed il fair value delle attività e delle passività che compongono l’azienda acquisita. Il principio contabile IAS 12 non permette di contabilizzare le imposte differite passive connesse al goodwill perché in contropartita a tale stanziamento sarebbe richiesta la rilevazione di un incremento dello stesso goodwill che non corrisponderebbe più, in valore assoluto, all’eccedenza tra il fair value del costo dell’acquisizione e il fair value dei beni acquisiti.
Il documento interpretativo n. 3 del 2009 dell’ Oic dopo aver ricordato che la presenza di un disallineamento tra valori “civilistici” e valori “fiscali” rappresenta una differenza temporanea, che di norma determina la rilevazione di imposte differite passive in sede di contabilizzazione dell’operazione straordinaria, evidenzia come l’affrancamento dei maggiori valori mediante il pagamento dell’imposta sostitutiva determina l’eliminazione della residua differenza temporanea tassabile comportando lo storno in contropartita del conto economico delle relative imposte differite.
La rilevazione degli effetti dell’eliminazione del fondo imposte differite nel conto economico dell’esercizio, è basata sul presupposto che in ogni caso quel fondo imposte differite avrebbe prodotto i propri effetti a conto economico, attraverso l’utilizzo dello stesso in corrispondenza degli ammortamenti del maggior valore attribuito all’immobilizzazione immateriale. Quindi il venir meno della differenza temporanea imponibile che aveva generato il fondo in un’unica soluzione, deve seguire lo stesso trattamento contabile che lo stesso avrebbe subito se la differenza temporanea si riducesse nel corso di più esercizi, fino all’azzeramento. Gli effetti contabili derivanti dall’eliminazione della differenza temporanea sono rilevati a conto economico alla voce E22 – “Imposte sul reddito dell’esercizio, correnti, differite e anticipate”, con separata indicazione , ove rilevante, delle relative componenti.
La decisione dell’impresa di aderire all’affrancamento, comporta l’iscrizione di un costo nell’esercizio in cui questa decisione è presa. Infatti, coerentemente con quanto già previsto per l’utilizzo del Fondo imposte differite, si può ritenere che a fronte del beneficio espresso nel conto economico per il venir meno della differenza temporanea sulle immobilizzazioni immateriali, l’impresa sostiene un costo – pari al debito tributario per la sostitutiva – che mitiga tale beneficio. Per effetto di questo trattamento contabile l’impresa rileva a conto economico nella voce E22 il costo relativo all’affrancamento.
Quanto appena detto non vale per l’avviamento. Per tale posta, in caso di fusioni, l’OIC 4, stabilisce che l’avviamento, laddove esso esista, è rilevato come posta residuale successivamente all’imputazione del disavanzo di fusione agli elementi dell’attivo o del passivo. E’ questa l’impostazione espressamente disciplinata dallo IAS 12 che prevede e motiva l’eccezione in merito all’iscrizione di differite passive “in quanto l’avviamento è valutato come valore residuo e la rilevazione della passività fiscale differita ne incrementerebbe il valore contabile”. Tale trattamento contabile risulta coerentemente applicabile anche alla disciplina italiana, in operazioni di conferimento o scissione oltre che per le fusioni.
In assenza di un fondo imposte differite sull’avviamento, non è possibile rilevare immediatamente in bilancio il beneficio fiscale conseguente all’adesione al regime fiscale dell’affrancamento dell’avviamento. Pertanto, a fronte dell’iscrizione del debito tributario per il pagamento della sostitutiva, il documento interpretativo 3/2009 dell’Oic non ritiene necessario imputare immediatamente a conto economico l’intero ammontare della sostitutiva, in quanto, a differenza di quanto previsto per le altre poste, viene meno il contemporaneo rilascio a conto economico del fondo imposte differite, e la relativa correlazione con il futuro beneficio fiscale. Da qui la conseguente possibilità di differimento dell’onere connesso con il debito dell’imposta sostitutiva.
Nella fattispecie dell’affrancamento dell’avviamento, - che secondo la disciplina nazionale va ammortizzato nel bilancio d’esercizio - l’imposta sostitutiva assume il connotato di anticipazione di future imposte correnti recuperabili in più esercizi.
Si tratta di un costo sostenuto nell’esercizio, i cui benefici saranno rilevati contabilmente dall’impresa solo negli esercizi futuri attraverso la deducibilità fiscale totale o parziale degli ammortamenti dell’avviamento. L’iscrizione di tale anticipazione di imposte correnti future è rilevata nella voce II – Crediti, 4 ter) imposte anticipate dello stato patrimoniale, con separata indicazione degli effetti legati a tale disposizione. Tenuto conto che i benefici economici attesi dall’attività iscritta in bilancio si manifesteranno attraverso la deducibilità per intero o in parte dell’ammortamento dell’avviamento alla data d’iscrizione dell’anticipazione di future imposte correnti e ad ogni successiva chiusura contabile, sarà necessario verificare la recuperabilità dell’attività iscritta conformemente a quanto già previsto dall’OIC 25 in tema di attività per imposte anticipate: “L'ammontare delle imposte anticipate iscritto in bilancio è rivisto ogni anno in quanto occorre verificare se continua a sussistere la ragionevole certezza di conseguire in futuro redditi imponibili fiscali e quindi la possibilità di recuperare l'intero importo delle imposte anticipate”.
ARTICOLO - Pubblicato il: 19 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
L’art. 57, co. 3, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 in materia di Iva e l’art. 43, co. 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 in materia di II.DD., inseriti per effetto dell’art. 37, D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (cd. decreto Bersani-Visco), conv. con modif. con L. 4 agosto 2006, n. 248, prevedono in caso di violazio¬ne che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del Codice di procedura penale, per uno dei reati fiscali previsti dal D.Lgs. 74/2000, il raddoppio dei termini di decadenza dell’azione di accertamento relativamente al periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione.
Per effetto delle citate disposizioni il Fisco può notificare gli avvisi di accertamento entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazio¬ne e, nel caso di omessa presentazione o di presentazione di dichiarazione nulla, fino al 31 dicembre del decimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.
In condizioni normali, ossia in assenza di vio¬lazioni penali tributarie, i termini di decadenza oltre i quali gli Uffici finanziari non possono più accertare la posizione fiscale del contri¬buente sono invece fissati, sia per le imposte sui redditi che per l’Iva, al 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione, ovvero del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione omessa avrebbe dovuto essere presentata. Oltre questi termini la posizione del contribuente si «consolida» definitivamente.
Quando scatta la notizia di reato
Alla base della possibilità di estendere i termini per l’accertamento vi è, quindi, una violazione penale tributaria in materia di imposte sui redditi o Iva commessa dal contribuente, la cui notizia (cd. notizia criminis) viene normalmente acquisita nel corso delle attività di verifica fiscale.
L’obbligo di denuncia sorge anche ove sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali, il cui accertamento è riservato all’autorità giudiziaria penale e non alla polizia giudiziaria o a pubblici ufficiali.
Infatti, qualora nel corso delle attività ispettive emergano risultanze tali da ritenere configurata, quanto meno nei principali elementi costitutivi di carattere materiale, una fattispecie criminosa, i verificatori devono provvedere senza ritardo ad informare il Pubblico Ministero competente.
Questo sia nel caso di militari appartenenti alla Guardia di finanza, alla luce delle qualifiche di polizia giudiziaria dagli stessi rivestite, sia nell’ipotesi di funzionari civili dell’Amministrazione finanziaria che, in qualità di pubblici ufficiali, hanno l’obbligo di riferire ogni notizia di un reato perseguibile d’ufficio appresa nell’esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio.
È appena il caso di ricordare, poi, che l’omesso o il ritardato inoltro all’Autorità giudiziaria della comunicazione di notizia, sono penalmente sanzionati ai sensi dell’art. 361, co. 2, Codice penale. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità è sempre stata particolarmente severa nel valutare l’omissione o il ritardo nell’adempimento di tale obbligo, soprattutto quando fa capo alla polizia giudiziaria (nel caso in esame la Guardia di finanza).
Quest’ultima, secondo la Suprema Corte, non ha alcun margine di discrezionalità nel valutare la notizia criminis per cui, una volta presa conoscenza di una situazione di possibile rilevanza penale, essa è senz’altro obbligata ad informare tempestivamente l’Autorità giudiziaria, senza alcuna possibilità di valutare o prendere in considerazione profili soggettivi ovvero altre circostanze, diverse dalla materialità del fatto, idonee a poter incidere sulla responsabilità penale (quali, ad esempio, presenza o meno del dolo specifico - particolarmente rilevante in ambito penal-tributario, dove le ipotesi delittuose previste dal D.Lgs. 74/2000 si fondano sul dolo specifico di evadere le imposte -, ricorrenza di esimenti, di cause di estinzione del reato o di non punibilità, ecc.) rimesse alla esclusiva valutazione della magistratura.
Qualora poi siano stati compiuti atti per i quali è prevista la presenza del difensore della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini (ad esempio, sono state sequestrate fatture ritenute relative ad operazioni inesistenti), la comunicazione della notizia di reato deve essere trasmessa al più tardi entro 48 ore dal compimento dell’atto.
L’obbligo di trasmettere alla Procura della Repubblica la comunicazione della notizia di reato può, di conseguenza, ricorrere in qualsiasi fase del controllo fiscale, senza dover necessariamente attendere la conclusione di tutte le operazioni. In tale eventualità, la verifica potrà comunque essere proseguita in via amministrativa per aspetti e irregolarità diverse da quelle oggetto dell’informativa all’Autorità giudiziaria.
Un discorso a parte meritano i reati in materia di imposte sui redditi ed Iva previsti agli artt. 3, 4 e 5, D.Lgs. 74/2000, punibili solo nel caso di superamento di alcune soglie di punibilità, riferite agli elementi sottratti dalla base imponibile e/o all’imposta evasa (pari alla differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata in dichiarazione, ovvero all’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine).
Ci si chiede, infatti, se
alla determinazione della soglia riferita all’imposta evasa debbano o meno procedere gli stessi verificatori, oppure se quest’ultima sia riservata all’Ufficio finanziario competente per l’accertamento.
In merito, tenuto conto della natura delle soglie di punibilità – costruite come elementi costitutivi obiettivi del reato e non come condizioni di procedibilità – ma, soprattutto, della completa autonomia fra procedimento penale e procedimento di accertamento, l’interpretazione finora seguita dagli organi dell’Amministrazione finanziaria ritiene spetti ai verificatori l’autonoma valutazione della configurabilità degli illeciti penali ai fini delle imposte sui redditi e dell’Iva, anche previa quantificazione dell’imposta evasa.
Allo stesso modo il Pubblico Ministero, per decidere se esercitare o meno l’azione penale, nonché il giudice dell’udienza preliminare e quello del dibattimento, ai fini delle decisioni concernenti il rinvio a giudizio o la condanna, dovranno a loro volta, in via del tutto autonoma, determinare l’imposta evasa, anche se a questo scopo debbano ricorrere a nozioni e regole proprie del diritto tributario.
All’atto pratico i verificatori provvedono a una preliminare quantificazione dell’imposta evasa e comunicano all’Ufficio finanziario competente il numero assegnato dalla Cancelleria del Pubblico Ministero al procedimento penale instaurato a seguito della comunicazione di notizia di reato. Quest’ultima potrà eventualmente essere integrata dall’Ufficio titolare dell’azione di accertamento, invece, mediante la comunicazione di elementi di carattere tecnico che possano risultare di rilevo per la configurazione in concreto della responsabilità penale.
Secondo la Corte costituzionale la normativa del 2006, in sostanza, fissa (ex lege) nuovi termini, raddoppiati rispetto a quelli ordinari, operanti automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva (vedi Corte Cassazione sentenza 20 luglio 2011, n. 247 depositata in data 25 luglio 2011). Partendo da questo concetto, la sentenza arriverà a dire che il raddop¬pio dei termini opera anche se la denuncia è stata presentata quando ormai i termini di accertamento ordinari erano già decorsi. In merito si veda quanto detto dopo.
Ai sensi dell’art. 37, comma 26, del citato decreto-legge n. 223 del 2006, “le disposizioni di cui ai commi 24 e 25 si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto (4 luglio 2006) sono ancora pendenti i termini di cui al primo e secondo comma dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e dell’articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633.”
In sostanza, esse operano non solo per il periodo di imposta 2006, ma anche per quelli precedenti, per i quali, per espressa previsione normativa, all’atto della comunicazione della notitia criminis, gli uffici siano ancora legittimati a procedere all’accertamento secondo i termini non raddoppiati.
In merito a tale aspetto dell’applicazione del raddoppio dei termini anche alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore del D.L. 223/2006 (4 luglio 2006) si è pronunciata la Corte costituzionale nella sent. 20 luglio 2011, n. 247affermando che questo effetto non deriva dalla natura retroattiva della normativa, ma dall’applicabilità ex nunc della protrazione dei termini in corso.
In merito si veda anche quanto detto subito dopo a commento della sentenza.
La ratio legis dell’innovazione del 2006 risiede nella volontà del Legislatore di dotare l’Amministrazione finanziaria di un maggior lasso di tempo per acquisire e valutare dati utili a contrastare illeciti tributari che, proprio per avere rilevanza penale, sono ritenuti particolarmente gravi e, di norma, di complesso accertamento.
In particolare, la gravità e la difficoltà di rilevamento di detti illeciti derivano sia dalla non arbitraria ipotizzabilità (in base a chiari ed obiettivi elementi indiziari) dei reati perseguibili d’ufficio previsti dal D.Lgs. 74/2000, sia dal fatto che tali reati normalmente richiedono controlli, verifiche ed indagini fiscali particolarmente difficili al fine di determinare l’effettiva capacità contributiva dei soggetti passivi d’imposta.
Ulteriore obiettivo perseguito dal Legislatore, indicato nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del D.L. 223/2006, è quello di consentire la circolazione delle prove dal giudizio penale al processo tributario, tenuto conto della normale maggior durata del processo penale rispetto agli ordinari termini di accertamento.
Ovviamente però, il raddoppio dei termini di decadenza opera esclusivamente in relazione all’annualità cui si riferisce il reato, e non a tutto il periodo sottoposto a controllo.
Ad esempio, in caso di verifica fiscale relativa agli anni 2008 e 2009, qualora venga denunciata la commissione di un reato tributario relativo all’annualità 2008, la proroga dei termini per l’accertamento opererà solo per tale periodo d’imposta, e non anche per il 2009.
Un altro aspetto riguarda l’ampiezza della proroga, ossia se essa riguardi l’intera posizione fiscale del contribuente relativamente a quel periodo d’imposta in cui si è verificato il fatto costituente reato ai sensi del D.Lgs. 74/2000, ovvero solo i riflessi fiscali direttamente correlati alla vicenda penale. Secondo l’interpretazione finora seguita dagli organi dell’Amministrazione finanziaria l’ampiezza della proroga fa riferimento anche ad aspetti diversi dalla violazione stessa e, quindi, anche a irregolarità fiscali non emerse o non considerate nell’ambito del procedimento penale.
In forza della specialità del terzo comma dell’art. 57 e dell’art. 43, non rientrano nel computo dei termini da raddoppiare i prolungamenti previsti da altre disposizioni di legge (ad esempio, proroga biennale di cui all’art. 10, L. 27 dicembre 2002, n. 289, proroga per gli interventi antievasione e antielusione internazionale ex art. 12, co. 2-bis, D.L. 1° luglio 2009, n. 78, conv. con modif. con L. 3 agosto 2009, n. 102).Ciò significa che nel caso in cui i prolungamenti dei termini previsti da diverse disposizioni siano astrattamente applicabili in relazione alla medesima fattispecie, l’Amministrazione finanziaria non potrà mai utilizzarli in modo cumulativo al fine di su-perare il massimo dell’ampliamento previsto dalla singola normativa più favorevole per l’amministrazione stessa.
Altro aspetto di rilievo, è se l’aumento dei termini ordinari per l’accertamento risenta delle vicende del procedimento penale instaurato per effetto della denuncia di reato. In merito a tale aspetto la C.M. 54/E/2009 sostiene che il raddoppio dei termini operi a prescindere dalle successive vicende del giudizio penale che consegua alla denuncia ex art. 331 del c.p.p.. Tale interpretazione, secondo il citato documento di prassi, sarebbe conforme ai criteri ermeneutici fissati dall’art. 12, co. 1 delle disposizioni sulla legge in generale il quale, nello stabilire il primato dell’interpretazione letterale sugli altri criteri ermeneutici (in claris non fit interpretatio), prevede che «nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del Legislatore». Alla stessa soluzione l’Agenzia giunge anche utilizzando il diverso – e sussidiario – criterio interpretativo della mens legis, ossia della finalità della disposizione, dovendosi ragionevolmente escludere che il Legislatore abbia voluto subordinare l’efficacia del procedimento tributario di accertamento – e delle risultanze istruttorie ivi raccolte – al verificarsi di una fattispecie successiva ed eventuale, quale la pronuncia di condanna penale del contribuente e in base al principio di separazione tra procedimento amministrativo di accertamento e procedimento penale fissato dall’art. 20, D.Lgs. 74/2000, in forza del quale il primo non può essere sospeso «(...) per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione».
Tale interpretazione è stata confermata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 247/2011 secondo la quale i nuovi termini di decadenza operano per il sol fatto che sia stato comunque intrapreso un procedimento indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorge ed indipendentemente dal suo adempimento.
Sulla base della stessa impostazione logica - tesa a garantire all’Amministrazione finanziaria la possibilità di utilizzare gli elementi istruttori emersi nel corso delle indagini penali per un periodo di tempo più ampio rispetto a quello ordinario – la Circ. 54/E /2009 giunge a ritenere che la proroga operi anche in relazione alle fattispecie in cui, per l’accertamento tributario nei confronti del soggetto verso cui opera l’ampliamento dei termini, sia necessario procedere all’accertamento anche nei confronti di altro soggetto d’imposta legato al primo, ad esempio, da un rapporto di responsabilità solidale.
Ciò, ovviamente, solo per quegli aspetti tributari che assumono rilevanza per la determinazione della posizione fiscale del primo e limitatamente al periodo d’imposta cui si riferisce la violazione che assume rilevanza penale.
È il caso, ad esempio, del rapporto tra consolidante e consolidata che si determina nell’ambito del consolidato nazionale previsto dall’art. 127, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, che consente ai gruppi societari di determinare il proprio reddito imponibile, ai fini Ires, in forma unitaria e globale in capo ad un unico soggetto controllante controllante (cosiddetto consolidante), in presenza di rapporti partecipativi che abbiano i requisiti previsti dagli artt. 117 e 120, D.P.R. 917/1986.
In tale ipotesi, atteso che il procedimento di accertamento sul gruppo si compone di due livelli legati da un nesso di consequenzialità, per cui alla rettifica operata in capo alla società consolidata consegue sempre la rettifica del reddito complessivo globale ai fini della determinazione della maggiore imposta dovuta, il raddoppio dei termini in capo alla consolidata comporta l’estensione dello stesso anche nei confronti della consolidante.
Analoga estensione opera anche in relazione alle ipotesi di società legate da rapporti di controllo che abbiano aderito alla procedura di liquidazione Iva di gruppo, ai sensi dell’art. 73, co. 3, D.P.R. 633/1972, nonché di società che abbiano optato per il sistema di tassazione per trasparenza ai sensi dell’art. 115, D.P.R. 917/1986. In relazione a tale ultimo caso, però, la proroga si applica agli aspetti tributari che assumono rilevanza per la determinazione della posizione fiscale della società partecipata, limitatamente ai redditi di partecipazione imputati a ciascun socio.
Si pone poi il problema di capire se il raddoppio dei termini per la decadenza dell’azione di accertamento in presenza di un reato tributario opera unicamente nel caso in cui la violazione penale è stata effettuata quando i termini ordinari di accertamento (ordinari) non erano ancora decaduti, ovvero - com’è l’interpretazione seguita dagli organi dell’Amministrazione finanziaria - anche quando la constatazione della violazione penale è stata effettuata quando già i termini ordinari di accertamento erano decaduti. In merito a tale aspetto di recente si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza 20 luglio 2011, n. 247 (depositata in data 25 luglio 2011) chiarendo che il raddoppio dei termini opera anche se la denuncia è stata presentata quando ormai i termini di accertamento ordinari erano già decorsi (ma pur sempre in relazione ad annualità per le quali, alla data di entrata in vigore del D.L. 223/2006 (4 luglio 2006), erano ancora pendenti i termini di accertamento).
Molto critica su questo punto la dottrina. Secondo De Mita “la funzione dei termini è la certezza dei rapporti: non credo sia consentito introdurne di nuovi perché gli elementi da accertare siano altri rispetto a quelli già accertabili. La disciplina non è una scaletta che varia in funzione dei tipi di presupposti che vengano in essere.
I termini "brevi", dice la Corte, operano in presenza di violazioni per le quali non sorge l'obbligo della sanzione penale mentre i termini raddoppiati operano in presenza di violazioni per le quali v'è l'obbligo della sanzione. Ma qui viene disattesa in modo clamoroso l'autonomia dei due procedimenti. L'amministrazione non opera in funzione del processo penale né viceversa. Il potere di accertamento è uno solo e non si fraziona in ragione del tipo di presupposto” (Uno schiaffo ai contribuenti, E. De Mita, Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2011, pg. 1 e 25). Secondo Tesauro “Lo Statuto dei diritti del contribuente non ha valore costituzionale; vincola però tutti (anche la Corte costituzionale) nell'interpretazione delle leggi. La norma che prevede il raddoppio deve essere interpretata in modo restrittivo, perché deroga al principio dello Statuto, secondo cui «i termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati». La Corte costituzionale non ha seguito i criteri interpretativi imposti dallo Statuto.” (La Consulta ha trascurato lo Statuto, F. Teasuro, Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2011, pg. 25).
Spetterà invece al giudice tributario, ma solo se richiesto dal contribuente, accertare se il Fisco abbia agito con imparzialità o se, invece, abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale della normativa per fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento.
Tale aspetto costituisce la principale possibilità difensiva che l'ordinamento e la stessa sentenza della Corte offrono al contribuente. La questione riguarda i casi in cui l'amministrazione constaterà una violazione penale tributaria, ritenuta del tutto infondata dal contribuente e magari riferita a un periodo di imposta per il quale la decadenza dei termini ordinari di accertamento si è già realizzata.
In queste ipotesi, infatti, il contribuente, verosimilmente, riterrà la notizia di reato strumentale alla "riapertura" dei citati termini fiscali e quindi finalizzata soltanto all'esecuzione di un accertamento tributario.
Il primo e più importante tentativo difensivo da esperire è con il ricorso introduttivo in commissione tributaria.
La Corte costituzionale, infatti, ha chiarito che il sistema processuale tributario consente al giudice tributario di controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell'obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora circa la loro ricorrenza e accertando, quindi, se l'amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità o, invece, abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni al fine di fruire ingiustificatamente di un piú ampio termine di accertamento.
In concreto, quindi, nel ricorso occorrerà eccepire la decadenza dei termini ordinari per l'esecuzione dell'accertamento da parte dell'ufficio in quanto il raddoppio non si è realizzato, perché – come chiarito in un passaggio dalla sentenza 247/2011 – la comunicazione della notizia di reato è stata fatta solo pretestuosamente e in via strumentale per usufruire dei termini più ampi.
Tale censura deve essere motivata e provata opportunamente, evidenziando le circostanze di fatto o la sequenza degli eventi, dai quali appunto emergerebbe la strumentalità della denuncia all'autorità giudiziaria.
La valutazione dei giudici tributari – come precisa la Corte – non può riguardare l'accertamento del reato ma il riscontro dei presupposti dell'obbligo di denuncia.
Un'altra strada difensiva si apre poi se l'eccepita strumentalità della notizia di reato si basa sul ritardo con cui è stata inoltrata alla Procura della Repubblica, rispetto a quando è iniziato il controllo. Per rafforzare le sue ragioni, potrebbe essere proprio il contribuente a segnalare alla Procura la condotta dei verificatori o dell'ufficio per aver trasmesso con ritardo la comunicazione all'autorità giudiziaria.
In questa ipotesi – come ricordato anche dalla Corte costituzionale – si realizza la violazione prevista e sanzionata dall'articolo 361 del Codice penale in base al quale il pubblico ufficiale, che omette o ritarda di denunciare all'autorità giudiziaria un reato di cui ha avuto notizia nell'esercizio o a causa delle sue funzioni, è punito con la multa da 30,99 a 516,46 euro. La pena è della reclusione fino a un anno, se il colpevole é un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria, che ha avuto comunque notizia di un reato del quale doveva fare rapporto.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
L’inottemperanza agli inviti e delle richieste dell’amministrazione finanziaria determina a sfavore del contribuente sottoposto all’esercizio legittimo del potere attribuito all’Ufficio situazioni di varia natura.
In primo luogo gli ultimi due commi dell’art. 32, D.P.R. 600/1973 ai fini delle dirette e il comma 5 del Dpr 633/1972 ai fini Iva, si riferiscono alla categoria della inutilizzabilità. L’inutilizzabilità della prova si risolve nel dovere di non considerare a favore del contribuente ed ai fini dell’accertamento, sia in sede amministrativa sia in sede contenziosa, notizie e dati non addotti e atti, documenti, libri e registri non esibiti o non trasmessi (ai fini iva il riferimento è ai libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l'esibizione).
Art. 32 del dpr 600/1972
(…)
Le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell'ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell'accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l'ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta.
Le cause di inutilizzabilità previste dal terzo comma non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all'atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri, dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile.
Art. art. 52, comma 5, del Dpr 633/1972
(…)
5 - I libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l'esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell'accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto di esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione.
In secondo luogo, il comma 2 l’art. 39, D.P.R. 600/1973 prevede il dovere di adottare il tipo di accertamento induttivo in conseguenza dell’inottemperanza a taluni degli inviti disposti dagli Uffici.
Art. 39, comma 2 del dpr 600/1972
In deroga alle disposizioni del comma precedente l'ufficio delle imposte determina il reddito d'impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui alla lettera d) del precedente comma: (…)
c) quando dal verbale di ispezione redatto ai sensi dell'art. 33 risulta che il contribuente non ha tenuto o ha comunque sottratto all'ispezione una o più scritture contabili prescritte dall'art. 14, ovvero quando le scritture medesime non sono disponibili per causa di forza maggiore; (…)
d-bis) quando il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli uffici ai sensi dell'articolo 32, primo comma, numeri 3) e 4), del presente decreto o dell'articolo 51, secondo comma, numeri 3) e 4), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633.
Le disposizioni dei commi precedenti valgono, in quanto applicabili, anche per i redditi delle imprese minori e per quelli derivanti dall'esercizio di arti e professioni, con riferimento alle scritture contabili rispettivamente indicate negli artt. 18 e 19. Il reddito d'impresa dei soggetti indicati nel quarto comma dell'art. 18, che non hanno provveduto agli adempimenti contabili di cui ai precedenti commi dello stesso articolo, è determinato in ogni caso ai sensi del secondo comma del presente articolo.
In terzo luogo, l’art. 11, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 sanziona espressamente le inottemperanze alle legittime richieste fatte dagli Uffici nell’esercizio dei poteri a loro conferiti.
Il complesso delle discipline richiamate può incidere dunque sull’esercizio del diritto di difesa e può condurre a sanzionare scelte e valutazioni ispirate ad esigenze difensive o comunque a queste correlate.
Da ultimo, e non per ordine di importanza, l’art. 10, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 prevede un’ipotesi di responsabilità penale in caso di occultamento o distruzione di documenti o scritture contabili di cui sia obbligatoria la conservazione, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire a terzi l’evasione, in modo da impedire la ricostruzione del reddito o del volume d’affari.
I limiti nell’utilizzo della documentazione
L’art. 32 del Dpr 600/1972, ai fini dell’imposizione diretta, afferma che «(…) Le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell'ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell'accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l'ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta.
Le cause di inutilizzabilità previste dal terzo comma non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all'atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri, dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile».
Tali commi sono stati aggiunti al testo dell’art. 32 dall’art. 25, comma 1 della L. 18 febbraio 1999, n. 28, con effetto dal 9 marzo 1999.
La preclusione dell'utilizzo dei documenti a favore del contribuente è condizionata a quattro elementi:
1) che l'ufficio informi il contribuente, contestualmente alla richiesta di dati, notizie, eccetera, delle preclusioni che scatterebbero a suo sfavore in caso di mancata esibizione documentale;
2) che l'ufficio individui i documenti ritenuti rilevanti ai fini dell'accertamento e li richieda espressamente al contribuente;
3) che il contribuente non produca, insieme al ricorso in primo grado, quanto richiesto dall'ufficio;
4) che sia data prova, da parte del contribuente-ricorrente in primo grado, della impossibilità di adempiere alle richieste dell'ufficio per causa a lui non imputabile.
Secondo la Corte di Cassazione, la preclusione è rilevabile d’ufficio, a prescindere da una formale eccezione di parte, l’inutilizzabilità anche in sede giudiziaria della documentazione non esibita dal contribuente all’Amministrazione finanziaria che ne abbia fatta richiesta (Fra le varie, Cass., Sez. trib., Sent. 26 maggio 2008, n. 13511).
Come si avrà modo di evidenziare anche nel prosieguo, rispetto alla norma similare previsto nel testo Iva (art. 52, comma 5, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633) la disposizione in parola sembra più pesante per il contribuente. Raffrontando infatti l'art. 52 del D.P.R. n. 633/1972 con l’ art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 si nota che la prima norma ha come presupposto applicativo il rifiuto di esibizione, mentre la seconda prevede la mera mancata esibizione.
Il primo elemento evidenziato, vale a dire l’informazione a carico dell’ufficio, è figlio del nuovo rapporto “collaborativo” che deve sussistere tra amministrazione finanziaria e contribuente individuato nell’ambito dello statuto del contribuente.
L’informativa posta a carico dell’Agenzia delle entrate
L’art. 32, D.P.R. 600/1973 impone all’Ufficio di indicare il motivo dell’invito. Ciò significa che l’atto istruttorio deve essere specificamente motivato quanto alla rilevanza della richiesta istruttoria.
La richiesta, con riferimento all’oggetto specificato (dato, notizia, documento, ecc.), deve subire un giudizio di rilevanza, vale a dire un giudizio (preventivo) sull’utilità della prova in ordine all’accertamento dei fatti che fondano la pretesa dell’Amministrazione (Sul giudizio di rilevanza è da richiamare lo sviluppo della dottrina processualistica: Taruffo, Studi sulla rilevanza della prova, Padova 1970, pag. 249 (per il quale «è rilevante ogni prova vertente su di una proposizione fattuale che, assunta per ipotesi come vera, può costituire elemento di conferma logica della proposizione descrittiva del factum probandum»).
Il dovere di informare il contribuente previsto dall’art. 32, co. 4, seconda parte, D.P.R. 600/1973, non si esaurisce nella mera riproduzione della disposizione di legge. L’Ufficio ha il dovere di correlare l’informazione contestuale al contenuto degli inviti.
L’informazione contestuale deve, in ogni caso, comprendere anche il contenuto del comma 5 dello stesso articolo, posto che il contribuente deve essere informato della situazione di inutilizzabilità nella sua completezza (e perciò anche delle possibili cause di inoperatività).
L’art. 6, co. 2, L. 27 luglio 2000, n. 212 [CFF  7120f], dispone il dovere dell’Amministrazione di informare il contribuente di ogni fatto o circostanza a sua conoscenza da cui possa derivare l’irrogazione di una sanzione: un tale principio non può che orientare verso l’accoglimento di un’interpretazione della norma in esame rispettosa dell’esigenza di fornire in concreto la più ampia tutela al destinatario (Per un richiamo agli artt. 5, 6 e 7, L. 212/2000 [CFF  7120e – 7120g] v. Cass. Civ., Sez. V, 4 aprile 2008, n. 8781).
La richiesta deve poi essere determinata e specifica (Cfr. Lupi, Manuale, cit., pag. 448; si tratta di un obbligo a carattere generale: v. A. Scognamiglio, Il diritto di difesa nel procedimento amministrativo, Milano 2004, pagg. 219 e segg.; sulla indicazione della norma di legge al quale vien fatto riferimento cfr. Cass. Civ., Sez. V, 4 aprile 2008, n. 8781). Non potrebbe invero considerarsi legittima una richiesta non specificamente rivolta ad ottenere determinate notizie, dati, documenti, libri e così via.
L’art. 6, co. 2, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 [CFF  9469] dichiara una causa di non punibilità in ragione della indeterminatezza delle richieste di informazioni, ed il principio pare invocabile alla situazione di specie. L’art. 32, D.P.R. 600/1973 tipizza la «non imputabilità» della causa quale elemento, unitamente ad altri, idoneo a rendere non operativa la condizione di inutilizzabilità. È da ricordare che è richiesto, tra l’altro, «il dolo, costituito dalla volontà del contribuente di impedire che, nel corso dell’accesso, possa essere effettuata l’ispezione del documento» (Cass. Civ., SS. UU., 25 febbraio 2000, n. 45. Cfr. anche Tosi, «Riflessi amministrativi e penali del “rifiuto di esibizione” di cui all’art. 52 del D.P.R. n. 633 del 1972», in Riv. Dir. Trib., 1991, II, pagg. 475 e segg.).
Il secondo elemento evidenziato, vale a dire l’individuazione dei documenti, riveste particolare importanza in quanto circoscrive gli effetti preclusivi a carico del contribuente ai documenti espressamente individuati e richiesti dall'organo accertatore e non esibiti dal contribuente. Sul punto va rilevato che la norma, se da una parte è chiara nel limitare la riduzione degli elementi probatori a favore del contribuente ai documenti richiesti e non esibiti (infatti anche l'ultimo comma dell'art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 riconduce la dichiarazione di impossibilità oggettiva alla produzione documentale alle richieste degli uffici), dall'altra è meno chiara se si riferisca solo agli atti, documenti, libri e registri o anche alle notizie e ai dati. Il primo dei due commi aggiunti dall'art. 25 della L. n. 28/1999 infatti è formulato sotto questo profilo in modo ambiguo. Si potrebbe ritenere che la norma vada, anche per ragioni sistematiche, interpretata nel senso che anche i dati e le notizie non forniti all'Amministrazione saranno preclusi alla difesa del contribuente solo se previamente individuati e richiesti dall'organo accertatore. Una diversa interpretazione finirebbe per rendere il contenzioso una guerra del tutto incerta sulla ammissibilità degli elementi di prova.
Quanto precede evidenziano in maniera chiara che la condotta sanzionata dall'ordinamento è soltanto quella sleale del contribuente, quella cioè consistente nel deliberato occultamento di ciò che era stato richiesto dall'Amministrazione, che il contribuente stesso possedeva e che ha volutamente taciuto o non fornito.
In ogni caso la richiesta deve essere chiara. Un punto indiscusso nella giurisprudenza della Corte di Cassazione è rappresentato dalla necessaria soggezione della preclusione a richieste di produzione documentali «specifiche», formulate in modo da evitare qualsiasi incertezza e confusione in capo al contribuente circa i documenti da esibire. In altri termini, un’esternazione equivoca o imprecisa non si traduce in un’inottemperanza del contribuente, che può dunque utilizzare a proprio favore in giudizio documenti che non abbia esibito ai verificatori (Ex pluribus, Cass., Sez. trib., Sent. 25 gennaio 2010, n. 1344; id. 28 ottobre 2009, n. 22765; id. 19 aprile 2006, n. 9127).
Si ricorda, anche, che a mente dell’art. 6 dello Statuto dei diritti del contribuente (L. 27 luglio 2000, n. 212, allo stesso:
- «non possono, in ogni caso, essere richiesti documenti ed informazioni già in possesso dell’Amministrazione finanziaria o di altre Amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente»;
- «tali documenti ed informazioni sono acquisiti ai sensi dell’art. 18, co. 2 e 3, L. 7 agosto 1990, n. 241, relativi ai casi di accertamento d’ufficio di fatti, stati e qualità del soggetto interessato dalla azione amministrativa».
L’operatività della preclusione riguarda anche i documenti extracontabili?
L’art. 52, co. 5, D.P.R. 633/1972, non consente di discriminare l’operatività della preclusione a seconda della tipologia di documentazione, «contabile» o «extracontabile», richiesta in sede d’accesso. Infatti, anche quella extracontabile è sottoposta, a norma dell’art. 22, D.P.R. 600/1973, ad obblighi di conservazione analogamente alle scritture contabili obbligatorie.
Inoltre, lo stesso art. 52, co. 4, prevede la possibilità di estendere l’ispezione documentale a tutti i libri, registri, documenti e scritture che si trovano nei locali in cui si esercita l’attività, «compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sono obbligatorie» (Sul punto, si vedano le puntuali indicazioni della circolare n. 1/2008 della Guardia di finanza, «Istruzioni sull’attività di verifica», parte II, cap. 3, par. 2, in www.gdf.it).
La tipologia di documentazione oggetto di rifiuto, quindi, non è idonea ad influenzare, in linea di principio, l’applicazione della preclusione (Cfr., fra le varie, Cass., Sez. trib., Sent. 29 dicembre 2009, n. 27556, secondo cui la preclusione è applicabile anche ai casi in cui la «tenuta e conservazione» della documentazione «non sia obbligatoria») anche se, sotto il profilo squisitamente operativo, occorre svolgere alcune precisazioni.
Infatti, mentre con riferimento alla documentazione obbligatoria, l’Amministrazione finanziaria è in grado di formulare, già in sede d’accesso, una «specifica richiesta» al contribuente, poiché la stessa è preventivamente individuabile in base alla natura, all’attività ed al volume d’affari del soggetto ispezionato, non altrettanto può dirsi per quella extracontabile, che verrà riscontrata, ad probationem o ad substantiam, solo se effettivamente esistente.
Tale considerazione è colta, incidentalmente, anche in un passaggio della sentenza 19 aprile
2006, n. 9127, in cui la Suprema Corte ha affermato che «è ovvio come simile procedura di “richiesta” o “ricerca” da parte dell’Amministrazione e di rifiuto (o occultamento) da parte del contribuente sia in concreto concepibile quasi esclusivamente in riferimento ai documenti di cui è obbligatoria la tenuta».
Infatti, la predisposizione di documentazione extracontabile può essere accertata, solitamente,
a seguito di una preliminare ispezione sugli accadimenti aziendali che trovano riflesso nelle scritture contabili, attività che viene compiuta nelle fasi successive all’accesso, durante le quali non si potrà opporre la preclusione del comma 5 dell’art. 52.
Sotto una diversa angolatura, però, la causa preclusiva potrebbe tornare applicabile qualora, in sede d’accesso, l’Amministrazione disponga, ex ante, di elementi conoscitivi circa l’esistenza di tale documentazione, (Per esempio, in base a risultanze ispettive comunicate all’Ufficio operante da parte di un altro Ufficio) tali da consentirle di formulare un’esplicita ed adeguata richiesta. Le istruzioni della circolare n. 1/2008 della Guardia di finanza, in merito, sono improntate a criteri di chiarezza e trasparenza, dato che mirano ad evitare l’insorgere di richieste e risposte equivoche.
Infatti, in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale, all’atto dell’accesso i verificatori devono avanzare al contribuente esplicita richiesta, debitamente formalizzata nel processo verbale compilato e connotata da un sufficiente grado di analiticità, di esibizione dei documenti contabili obbligatoriamente detenuti ed eventualmente, in relazione a specifiche esigenze ispettive maturate sulla base degli elementi già in possesso, di particolari documenti «extracontabili», rappresentando formalmente tutte le conseguenze in caso di rifiuto.
Inoltre, gli stessi devono dare precisa e dettagliata contezza, nel verbale, del rifiuto, della dichiarazione di non possedere, dell’occultamento o della sottrazione, ponendo «particolare attenzione e scrupolo a che detti comportamenti siano chiaramente riferibili a singoli documenti o scritture e provengano da un soggetto legittimato, da identificarsi endenzialmente
nel contribuente sottoposto a controllo o nel suo rappresentante».
Le conseguenze sanzionatorie sono valide anche nel caso in cui il contribuente adotti le disposizioni in materia di fattura elettronica e conservazione delle scritture contabili e della restante documentazione rilevante ai fini dell’accertamento su supporti informatici.
(Si rinvia, per ragioni di spazio, alle indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate nelle CC.MM. 19 ottobre 2005, n. 45/E e 6 dicembre 2006, n. 36/E, nonché al commento della circolare n. 1/2008 della Guardia di finanza, cit., parte III, cap. 4, par. 2)
Particolari considerazioni sono riconducibili all’accesso effettuato nei confronti dei professionisti, i quali, a mente del comma 3 dell’art. 52, D.P.R. 633/1972 possono opporre, al ricorrere di determinati presupposti, (Diffusamente commentati nella circolare n. 1/2008 della Guardia di finanza, cit., parte II, cap. 3, par. 2.) il segreto professionale, superabile in virtù dell’autorizzazione concessa dall’Autorità giudiziaria. Di fronte ad un’eccezione mossa in tal senso dal professionista, i verificatori, ove non ostino diverse esigenze, potrebbero però rinunciare ad attivarsi per il suo superamento e non prendere, quindi, visione dei documenti.
Se, in sede contenziosa, il contribuente ritenesse di volere produrre tale documentazione a proprio supporto, si potrà vagliare se, effettivamente, sussistessero le ragioni a fondamento del segreto. Qualora si manifesti l’assenza completa delle stesse e, quindi, il professionista l’avesse eccepito in chiave del tutto pretestuosa, abusando di un suo diritto, si ritiene valida la copertura della preclusione del comma 5 dell’art. 52, non dovendosi prendere in considerazione da parte dei giudici tributari i documenti successivamente esibiti dal contribuente in giudizio.
Quanto alla terza circostanza, vale a dire la mancata produzione della documentazione in giudizio, si osserva che giustamente il legislatore ha considerato sanata la mancata esibizione nella misura in cui il giudizio in Commissione tributaria, con la produzione di quanto aveva richiesto l'ufficio, inizi in modo equo ed equilibrato: la sede contenziosa - come è noto - è del resto stata concepita dal legislatore del D.Lgs. n. 546/1992 come il luogo dell'appuramento della verità sostanziale.
Tuttavia - passando alla quarta circostanza, vale a dire che sia data prova da parte del contribuente dell’impossibilità di adempiere alle richieste dell'ufficio per causa a lui non imputabile, il legislatore, consapevole delle conseguenze che la mancata esibizione può avere prodotto sull'operato degli organi di accertamento, ha subordinato la sanatoria delle preclusioni alla allegazione da parte del ricorrente di non aver potuto adempiere alle richieste dell'ufficio per causa a lui non imputabile. Anche in questo caso, per non giungere a conseguenze aberranti, occorre in sede interpretativa non fermarsi alla lettera della legge. In altri termini non si può ritenere sufficiente una mera dichiarazione di parte, fatta peraltro in una sede processuale dove ogni assunto di parte deve essere provato. Si deve cioè ritenere che le preclusioni in discorso siano sanate solo se il contribuente produca quanto richiesto dall'ufficio nella fase introduttiva del giudizio, provando contestualmente di non aver potuto esibire tali atti o documenti in sede amministrativa per causa a lui non imputabile.
In virtù di tale disposizione, la normativa in parola si avvicina a quella dell'art. 52 del testo Iva. Infatti, alla luce dell’ultimo comma dell'art. 32 del D.P.R. n. 600/1973, la sanatoria delle preclusioni si ha quando viene provato che la condotta omissiva del contribuente non è volontaria, dipendendo da una causa a lui non imputabile. Al di là di questa ipotesi, la mancata esibizione colpevole coincide con il rifiuto previsto dall'art. 52 del testo Iva. Pertanto, se si rifiuta l'esibizione, il mancato utilizzo dei dati occultati in senso favorevole al contribuente non è suscettibile di sanatoria. Se invece non si esibisce per causa indipendente dalla volontà del contribuente, la preclusione consistente nell'utilizzabilità dei dati non comunicati all'Amministrazione si sana con la produzione in sede contenziosa, accompagnata dalla prova della causa ostativa all'esibizione.
Ai fini Iva, l’art. 52, co. 5, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, afferma che «i libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto si intendono anche la dichiarazione di non possedere libri, registri documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione».
Da quanto sopra specificato si evince, pertanto, che il rifiuto di esibire la documentazione comporta conseguenze sul piano probatorio, in quanto ciò che il contribuente non ha prodotto in sede di indagine amministrativa, non potrà poi essere utilizzato né nel prosieguo dell’indagine stessa e nemmeno nella fase contenziosa.
Sull’applicabilità di tale norma, va detto che la stessa sembrerebbe attuabile nelle ipotesi in cui effettivamente sia configurabile un rifiuto, ovvero un atteggiamento da parte del contribuente intenzionalmente volto ad occultare o sottrarre all’attività di controllo da parte degli ufficiali la documentazione richiesta.
In sostanza, sembrerebbero essenziali per il concretizzarsi della fattispecie in esame:
- l’elemento oggettivo costituito dalla mancata esibizione dei documenti;
- l’elemento soggettivo rinvenibile nella volontà del contribuente di impedire il controllo delle scritture contabili.
L’elemento controverso sull’interpretazione della norma in questione ruota, tuttavia, attorno al secondo elemento qui citato. In pratica, ciò che va chiarito è se l’elemento soggettivo rilevi solo nel momento in cui ci sia, da parte del contribuente il cosiddetto «dolo», ossia la specifica volontà di impedire l’ispezione di quella determinata documentazione, o basti la semplice colpa (magari anche non grave) per integrare la fattispecie richiesta dalla norma.
In realtà, l’ambito e le modalità pratiche di applicazione dell’articolo in questione sono allo stato attuale, tutt’altro che chiare, complice anche una giurisprudenza di Cassazione non univoca e foriera di numerosi dubbi applicativi.
Art. 52, co. 5, D.P.R. 633/1972
Elemento oggettivo
Mancata esibizione di libri, registri, scritture e documenti obbligatori all’atto della richiesta da parte degli organi verificatori
Elemento soggettivo
«Rifiuto» riconducibile alla volontarietà della condotta, con conseguente impossibilità da parte degli organi verificatori di porre in essere l’attività di controllo
Dolo (elemento soggettivo «forte»): comportamento cosciente e volontario del contribuente che volutamente sottrae od occulta la documentazione al fine di impedire l’attività di verifica
Colpa (elemento soggettivo «debole»): qualsiasi errore non scusabile di diritto o di fatto riconducibile a dimenticanza, disattenzione, carenze amministrative, ecc.
In merito ai due disposti normativi sopra richiamati va detto che:
- la disciplina dei poteri in materia di Iva, all’art. 51, co. 5, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 rinvia all’art. 32, D.P.R. 600/1973,
- la disciplina dei poteri ai fini dell’imposizione diretta, all’art. 33, co. 1, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 rinvia all’art. 52, D.P.R. 633/1972.
Sul punto è, tuttavia, opportuno segnalare che sussistono orientamenti difformi da parte della giurisprudenza della Corte di Cassazione. In particolare per quanto concerne l’estensione della norma Iva ai fini delle dirette. A tale proposito si segnala la sentenza dell’8 agosto 2003, n. 11981 con cui i Supremi giudici hanno precisato che il disposto di cui all’art. 52, co. 5, D.P.R. 633/1972 non può essere esteso in via analogica all’imposizione diretta, in quanto norma specificatamente istituita per l’Iva e che, a confutazione di ciò, non può essere considerato un richiamo recettizio quello effettuato dall’art. 33, co. 1, D.P.R. 600/1973.
D’altro canto, la sentenza della Corte di Cassazione, 14 aprile 2006, n. 9127 disattende il contenuto di quella sopra indicata, invocando l’applicazione della suddetta norma genericamente nell’ambito del reddito d’impresa, proprio in virtù del richiamo specifico di cui all’art. 33, co. 1, D.P.R. 600/1973.
In merito a tali argomenti un riferimento di prassi di particolare rilievo è rinvenibile è contenuto nella C.M. 5 dicembre 2000, n. 224/MF al paragrafo 5.1., che seppur con specifico riferimento ad altra fattispecie, ha avuto modo di riprendere la questione sull’applicazione dell’art. 52, D.P.R. 633/1972 ex comma 4, ora comma 5.
La circolare in questione dapprima chiarisce che «perché possa configurarsi il rifiuto di esibizione non basta che l’eventuale risposta negativa alla richiesta provenga da commessi, segretari o impiegati senza poteri di rappresentanza, occorre, invece, che tale rifiuto sia manifestato o dal titolare o dal rappresentante legale del soggetto verificato o, quantomeno, dal direttore del locale».
Successivamente, va sottolineato come rimanga francamente poco chiara l’ulteriore affermazione contenuta nella circolare, che qui si riporta integralmente: «Inoltre, non va attribuita rilevanza alla tardiva esibizione della documentazione, dovuta alla temporanea indisponibilità della stessa per causa di forza maggiore o anche per colpa del contribuente o del depositario cui si è prontamente posto rimedio. Al riguardo va, infatti, evidenziato che la Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza 25 febbraio 2000, n. 45 resa a Sezioni Unite, ha statuito che, ai fini della configurazione del rifiuto, è necessario un comportamento doloso da parte del contribuente, costituito dalla volontà di impedire che, nel corso della verifica, sia esaminato il documento».
In sostanza, va evidenziato come la C.M. 224/MF/2000 in questione:
- da un lato, ritenga che sia applicabile il divieto di successivo utilizzo della documentazione non prontamente esibita, pure in caso di forza maggiore o di colpa del contribuente anche qualora si sia prontamente posto rimedio;
- dall’altro, richiama la sentenza della Corte di Cassazione n. 45/2000, la quale invece individua – quale elemento di fondamentale importanza nell’applicazione della disposizione in esame – il dolo, ossia la specifica volontà del contribuente di impedire l’ispezione di quella determinata documentazione.
Di tale avviso anche la circolare n. 1/2008 della Guardia di finanza, secondo al quale il «prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità» tende a disapplicare le sfavorevoli conseguenze «per i documenti la cui tardiva esibizione non derivi da un espresso rifiuto, bensì da una situazione di temporanea indisponibilità degli stessi per forza maggiore od altra causa non imputabile al contribuente oppure imputabile a sua mera colpa».
Ai fini giurisprudenziali, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, stante l’evidente contrasto giurisprudenziale esistente sul punto, già con la sent. n. 45 del 25 febbraio 2000, hanno definitivamente chiarito che il non possesso della documentazione all’atto dell’accesso dovuto a colpa non scusabile non comporta l’applicazione della preclusione in argomento in quanto è necessaria la sussistenza dell’elemento psicologico del dolo e, quindi, dell’univoca intenzionalità del contribuente di sottrarre all’ispezione una specifica documentazione, arrecando, in tal modo, un vulnus al bene giuridico protetto dalla disposizione normativa di cui al comma 5 dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972. Pertanto, la richiamata pronuncia risolve il punctum dolens relativamente alla questione se l’applicazione della regola in esame richieda, oltre la coscienza e la volontà dell’omessa esibizione, anche il dolo, ovvero sia sufficiente la mera omessa esibizione determinata da colpa scusabile.
In conclusione, in ragione di quanto affermato dalle Sezioni Unite, l’ipotesi del “rifiuto dell’esibizione” è, per definizione, “dolosa”, così come lo è quella di sottrazione della documentazione, di modo che, ai fini della sua perfezione e dell’applicabilità della sanzione esige, oltre che la coscienza e la volontà del rifiuto, l’intenzione del contribuente di impedire che l’accertatore proceda, in sede e nel corso dell’accesso, all’ispezione del documento.
In particolar modo, è stato sentenziato che per il verificarsi del divieto occorre:
1) l’elemento oggettivo dell’illecito; nella norma, quale componente oggettiva della fattispecie astratta contemplata, emergono «non già tre comportamenti materiali del contribuente intrinsecamente ed ontologicamente distinti tra loro», ma uno solo, rappresentato dal rifiuto di esibizione, del quale la dichiarazione di non possedere e la sottrazione dei documenti sono soltanto «forme sintomatiche per legge» del rifiuto medesimo. Di conseguenza, a prescindere dalle forme e dalle modalità con cui tale comportamento è realizzato, l’elemento oggettivo della fattispecie è rappresentato comunque dal «rifiuto»;
2) la coscienza e la volontà della dichiarazione stessa; ai fini dell’operatività della disposizione devono ricorrere anche la coscienza e la volontà del comportamento integrante l’elemento oggettivo (in quanto quest’ultimo, pur necessario, non è da solo sufficiente);
3) il dolo, costituito dalla volontà del contribuente di impedire che nel corso dell’accesso possa essere effettuata l’ispezione del documento. In altre parole occorre che vi sia il concorso dell’elemento soggettivo dell’illecito, rappresentato dal «dolo». Ciò è desumibile dal contenuto letterale della norma stessa, la quale richiede l’intenzionalità e la volontà dell’evento. Pertanto, la preclusione non opera non solo quando la dichiarazione di indisponibilità del documento sia riconducibile a forza maggiore o caso fortuito, ma anche quando sia imputabile a colpa (negligenza, imprudenza o imperizia) nella custodia e conservazione.
Pertanto, non integrano i presupposti applicativi della preclusione, le dichiarazioni (il cui contenuto corrisponda al vero) dell’indisponibilità del documento, non solo se:
- l’indisponibilità sia ascrivibile a forza maggiore o a caso fortuito (ad esempio, documentazione rubata, smarrita o temporaneamente dispersa per calamità naturali e poi rinvenuta, sequestrata e poi rimessa nella disponibilità del contribuente), ma anche se
- imputabile a colpa, quale, ad esempio, la negligenza e l’imperizia nella custodia e conservazione.
Tale pronuncia sembrava avere circoscritto entro parametri rigidi, maggiormente garantisti, la portata della norma e risolto, conseguentemente, il contrasto all’epoca esistente.
Con la sentenza della Corte di Cassazione, 28 ottobre 2009, n. 22765, invece, si assiste ad un deciso cambio di tendenza rispetto a quanto delineato nella precedente pronuncia a Sezioni Unite, n. 45/2000.
Tale cambiamento non è tuttavia una novità in quanto, già precedentemente, la Corte di Cassazione nella sentenza 26 marzo 2009, n. 7269 aveva avuto modo di preannunciare un nuovo orientamento sulla questione.
In sostanza, viene chiarito che «il divieto di utilizzare documenti scatti non solo nell’ipotesi di rifiuto (per definizione doloso) dell’esibizione, ma anche nel caso in cui il contribuente dichiari, contrariamente al vero di non possedere, o sottragga all’ispezione i documenti in suo possesso ancorché non al deliberato scopo di impedirne la verifica, ma per errore non scusabile di diritto o di fatto (dimenticanza, disattenzione, carenze amministrative, ecc.) e, quindi, per colpa (Corte di Cassazione 26 marzo 2009, n. 7269)».
Il cambiamento è decisamente evidente, essendo, in sostanza, sufficiente la «sola colpa» per far scattare quella sorta di sanzione indiretta stabilita dal richiamato art. 52, co. 5, D.P.R. 633/1972.
Secondo tale impostazione l’elemento soggettivo richiesto dalla norma avrebbe, pertanto, una valenza per così dire «debole», nel senso che è sufficiente un semplice errore per far scattare il divieto di successivo utilizzo richiesto dall’articolo in questione.
La pronuncia della Corte di Cassazione n. 27556 del 29 dicembre 2009, ponendosi sulla medesima linea interpretativa espressa dalle Sezioni Unite con la già analizzata sent. n. 45/2000, giunge alla conclusione che non integrano i presupposti applicativi della preclusione di cui al comma 5 dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972 le dichiarazioni, corrispondenti al vero, circa l’indisponibilità del documento, sia se questo sia ascrivibile a caso fortuito o forza maggiore, sia se imputabile a colpa. In altre parole, la Corte di Cassazione afferma che la dichiarazione, resa dal contribuente nel corso di un accesso, di non possedere libri, registri, scritture e documenti (compresi quelli la cui tenuta e conservazione non sia obbligatoria) richiestigli in esibizione determina la preclusione a che gli stessi possano essere presi in considerazione a suo favore ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa, solo nel momento in cui ricorrono le seguenti circostanze di fatto e di diritto:
- la sua non veridicità o, più in generale, il suo concretarsi, in quanto diretta ad impedire l’ispezione del documento, in un sostanziale rifiuto di esibizione, accertabile con qualunque mezzo di prova e, anche attraverso presunzioni;
- la coscienza e la volontà della dichiarazione stessa;
- il dolo, costituito dalla volontà del contribuente di impedire che, nel corso dell’accesso, possa essere effettuata l’ispezione del documento.
Di conseguenza, nella sentenza in analisi si afferma che “al contribuente che durante un accesso abbia a dichiarare di non possedere i libri, i registri, le scritture ed ogni altro documento fiscalmente rilevante o del quale sia obbligatoria la tenuta e conservazione è precluso di offrire tali documenti successivamente sia in sede amministrativa che giurisdizionale laddove tale dichiarazione sia manifestazione di dolosa sottrazione dei medesimi all’esame dei verificatori. Tale circostanza non sussiste allorquando l’indisponibilità sia determinata da colpa, caso fortuito o forza maggiore”.
Tesi a confronto
Cass., 25 febbraio 2000, n. 45 e 14 aprile 2006, n. 9127, n. 27556 del 2009
I libri, registri e documenti di cui si è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente nella fase successiva e in contenzioso, qualora congiuntamente sussistano:
l’elemento oggettivo dell’illecito;
la coscienza e la volontà della dichiarazione stessa;
il dolo, costituito dalla volontà del contribuente di impedire che nel corso dell’accesso possa essere effettuata l’ispezione del documento
Cass., 26 marzo 2009, n. 7269 e 28 ottobre 2009, n. 22765
I libri, registri e documenti di cui si è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente nella fase successiva e in contenzioso anche solo qualora ciò avvenga per errore non scusabile di diritto o di fatto (dimenticanza, disattenzione, carenze amministrative, ecc.) e, quindi, per colpa.
L’accertamento induttivo
In ragione di tutto quanto sopra evidenziato, si evince che, qualora il contribuente non abbia esibito in sede di accesso la documentazione contabile e ciò derivi da un mancato possesso per comportamento colposo e/o a causa di forza maggiore, la presentazione di suddetta documentazione resta impregiudicata nella successiva fase del procedimento amministrativo di accertamento tributario ed eventualmente nella fase contenziosa, fermo restando che l’Amministrazione finanziaria è legittimata a porre in essere un accertamento induttivo o extracontabile e, quindi, a rideterminare il reddito sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, prescindendo in tutto o in parte dalle risultanze contabili ove esistenti, con la possibilità di avvalersi di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 del codice civile.
Infatti, ai sensi della lettera c) del comma 2 dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973, tale metodologia di accertamento è utilizzabile anche quando dal verbale di ispezione redatto ai sensi dell’art. 33 dello stesso decreto risulta che il contribuente non ha tenuto o ha comunque sottratto all’ispezione una o più delle scritture contabili prescritte dall’art. 14 ovvero quando le scritture medesime non sono disponibili per cause di forza maggiore.
A tal proposito, la Corte di Cassazione, confermando quanto già chiarito in precedenti e numerose pronunce, con la sent. n. 9919 del 16 aprile 2008 ha recentemente stabilito che l’Amministrazione finanziaria è legittimata al ricorso all’accertamento induttivo anche nel momento in cui le scritture contabili obbligatorie siano state oggetto di illecita sottrazione da parte di soggetti terzi (12) poiché permane in capo al contribuente l’onere probatorio relativo agli elementi di fatto e di diritto a sostegno della sussistenza di componenti negative, dedotte dal reddito d’impresa. A detta della Corte di Cassazione, pertanto, lo smarrimento o furto della documentazione contabile non può costituire elemento idoneo a giustificare la deduzione di costi qualora lo stesso contribuente non sia in grado di provare i fatti che legittimano il riconoscimento dei costi stessi.
Quanto sopra, d’altra parte, non preclude al contribuente la possibilità di ricostruire aliunde la propria contabilità e di fornire la prova che le deduzioni competono nella misura indicata. Infatti, così come affermato dalla stessa Corte di Cassazione con sent. del 16 settembre 2003, n. 13605, anche nel caso di illecita sottrazione della contabilità da parte di terzi o di altro evento di forza maggiore, l’onere della prova deve essere posto integralmente a carico del contribuente, il quale è tenuto a giustificare quanto indicato, fornendo gli elementi di fatto inerenti, ad esempio, l’acquisizione di beni o servizi collegati alle fatture oggetto di smarrimento o furto, il corretto assolvimento dell’Iva passiva ad esse connesse e la conseguente detraibilità.
Da quanto sopra ed operando un coordinamento tra l’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973 e l’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, si evince che se il contribuente non ha esibito la documentazione contabile a causa, ad esempio, di smarrimento, dovuto a negligenza o a cause di forza maggiore, nella successiva fase amministrativa e/o contenziosa, è comunque legittimato a presentare gli elementi di fatto dai quali poter dedurre la correttezza di quanto indicato in dichiarazione ovvero esibire la documentazione eventualmente ritrovata, non operando, in tal caso, la descritta preclusione di cui al comma 5 dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972. Le richiamate facoltà, pertanto, potranno essere esercitate dal contribuente sia nelle fasi del procedimento amministrativo tributario di accertamento successive all’accesso, come, ad esempio, in occasione della presentazione delle osservazioni e richieste nel termine di 60 giorni dal rilascio del processo verbale di constatazione, sia innanzi alle competenti Commissioni tributarie provinciali in sede di impugnazione dell’atto impositivo e dell’eventuale e contestuale atto di contestazione.
Il principio dell’inidoneità, ai fini della legittima applicazione della preclusione probatoria in analisi, dell’elemento soggettivo della colpa, al quale è connessa la mancata esibizione di documentazione in sede di accesso, trova ulteriore conferma nella posizione assunta dalla Corte di Cassazione nella già analizzata sent. n. 28049 del 30 dicembre 2009 poiché, in tale ambito, viene ribadita, anche se in via indiretta, la necessarietà di una condotta materiale del contribuente che, in ragione di una inequivocabile direzione della volontà dello stesso, è preordinata allo scopo di evitare l’analisi di determinata documentazione attraverso l’occultamento e/o la sottrazione, anche mediante intenzionali dichiarazioni non veritiere di non possedere.
La Suprema Corte, infatti, nella richiamata sentenza ha affermato che la disposizione di cui al comma 5 dell’art. 52 del D.P.R. n. 633/1972 è “giustamente ritenuta applicabile, quanto alle conseguenze del rifiuto, soltanto in presenza di una specifica richiesta o ricerca da parte dell’amministrazione, nel corso delle suddette operazioni, e di un rifiuto o di un occultamento intenzionali da parte del contribuente, non essendo sufficiente il fatto puro e semplice della mancata esibizione”.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
L'articolo 8 del Dlgs 218/1997 prevede che il versamento delle somme dovute per effetto dell'accertamento con adesione deve essere eseguito entro venti giorni dalla redazione dell'atto di accertamento con adesione, mediante delega a una banca autorizzata o tramite il concessionario del servizio di riscossione competente in base all'ultimo domicilio fiscale del contribuente.
È prevista, inoltre, la possibilità di corrispondere le somme dovute anche ratealmente in un massimo di otto rate trimestrali di pari importo ovvero di dodici rate trimestrali se le somme dovute siano superiori a 51.645 euro.
Dopo la modifica apportata al Dlgs 218/1997 dal Dl 98/2011 (art. 23, co. 17-20) , in caso di pagamento rateizzato, non è più richiesta la garanzia fideiussoria. In particolare viene, soppresso l’obbligo, contenuto all’art. 8 co. 2 del Dlgs 218/1997 di prestare la garanzia con le modalità di cui all'articolo 38 bis del Dpr n. 633 del 1972, (in titoli di Stato o in titoli garantiti dallo Stato, ovvero con fidejussione bancaria o polizza assicurativa fidejussoria) nei casi di versamento rateale delle somme dovute a seguito di accertamento con adesione e conciliazione giudiziale per importi delle rate successive alla prima superiori a 50.000 euro (il limite di 50.000 era stato introdotto dall’art. 3, del Dl 40/2010; in precedenza, in caso di pagamento rateale, la garanzia era sempre richiesta).
Acquiescenza
Stante il rinvio al comma 2 dell’articolo 8 operato dall’articolo 15, comma 2, del Dlgs 218/1997, la detta modifica in materia di soppressione dell’obbligo della garanzia trova applicazione anche in relazione all’istituto dell’acquiescenza di cui all’articolo 15.
Conciliazione giudiziale
Per effetto delle modifiche apportate dal Dl 98/2011, all’articolo 48, comma 3, secondo periodo, del D.Lgs. n. 546 del 1992 la garanzia non è più richiesta nemmeno per la conciliazione giudiziale (in precedenza il dl 40/2010 aveva limitato la garanzia agli importi superiori a 50.000 euro).
Ai sensi dell’articolo 41 del Dl 98/2011, la modifica entra in vigore il giorno della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale, vale a dire il 6 luglio 2011 (quella invece apportata dal Dl 40/2010 era entrata in vigore il 26 marzo 2010).
Il comma 20 dell’articolo 23 del Dl 98/2011 regola, nello specifico, il regime transitorio, prevedendo che, tra le altre, le disposizioni dettate dai commi da 17 a 19 non si applicano agli atti di adesione, alle acquiescenze ed alle conciliazioni giudiziali già perfezionati alla data di entrata in vigore del decreto legge, anche con la prestazione della garanzia, la quale, pertanto, continuerà, in tali ipotesi, a produrre gli effetti connessi alla sua resentazione.
In merito, si ricorda che, come precisato nel paragrafo 4.3. della circolare n. 65 del 28 giugno 2001, sulla base alla previgente normativa, il perfezionamento delle definizioni in questione (ossia in caso di pagamenti rateali), si realizzava, oltre che con il versamento della prima rata, con la prestazione della garanzia, da far pervenire successivamente in ufficio.
Pertanto, l’eliminazione dell’obbligo di prestare la garanzia trova applicazione per le rinunzie ad impugnare, per le conciliazioni giudiziali e per gli atti di accertamento con adesione non ancora perfezionati alla data del 6 luglio 2011.
Secondo la cir. 41/E/2011 “tenuto conto della richiamata finalità che il legislatore si prefigge di perseguire con la norma in esame, ossia quella di agevolare il pagamento da parte dei contribuenti che hanno optato per il versamento rateale, nonché del principio di conservazione degli atti richiamato anche dalla citata circolare n. 65 del 28 giugno 2001, si ritiene che gli uffici possano esimersi dal richiedere ulteriormente la garanzia ai contribuenti che non abbiano ancora provveduto a presentarla alla data di entrata in vigore della disposizione a condizione che:
- i contribuenti abbiano tempestivamente pagato la prima rata e
- gli uffici non abbiano già provveduto a formalizzare il mancato perfezionamento della definizione, seppure alla stessa data risultino superati i termini per il perfezionamento”.
All’eliminazione della garanzia fideiussoria fa però da contraltare il raddoppio della sanzione in caso di mancato pagamento delle rate. Il comma 17 dell’art. 23 del Dl 98/2011, infatti, sostituisce il comma 3-bis dell’articolo 8 del Dlgs 218/1997 il quale dopo la modifica prevede che “in caso di mancato pagamento anche di una sola delle rate diverse dalla prima entro il termine di pagamento della rata successiva, il competente ufficio dell'Agenzia delle entrate provvede all'iscrizione a ruolo delle residue somme dovute e della sanzione di cui all'articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, applicata in misura doppia, sul residuo importo dovuto a titolo di tributo”.
Pertanto, in caso di mancato pagamento anche di una sola delle rate diverse dalla prima che si protragga oltre il termine di versamento della rata successiva a quella non pagata,
1) il competente ufficio provvede all’iscrizione a ruolo non solo degli importi riferiti alla rata non pagata, ma anche del totale delle residue somme dovute a seguito dell’adesione o dell’acquiescenza, compresi i relativi interessi e, contestualmente,
2) sull’importo dovuto a titolo di tributo della rata non pagata e delle successive previste dal piano di rateazione, è prevista l’iscrizione a ruolo della sanzione di cui all’articolo 13 del Dlgs n. 471/1997, applicata in misura doppia, pari al 60% delle residue somme dovute a titolo di tributo.
Il legislatore quindi, come evidenziato nella relazione illustrativa, ha tenuto conto di ritardi tali da non compromettere, nel suo complesso, il piano di rateazione e, al tempo stesso, dell’interesse alla tempestiva riscossione delle somme dovute, riconoscendo la possibilità di sanare il mancato versamento di una rata con il pagamento della stessa entro la scadenza di quella successiva.
Definizione del Pvc e dell’invito al contraddittorio
Per effetto del richiamo alle disposizioni dell’articolo 8 del dlgs n 218/1997, contenuto sia nel comma 1-ter dell’articolo 5 del medesimo decreto (concernente le modalità di pagamento delle somme dovute nel caso di adesione ai contenuti dell’invito al contradditorio) sia nel comma 3 dell’articolo 5-bis (le modalità di pagamento delle somme dovute nel caso adesione ai verbali di constatazione), le disposizioni che disciplinano il mancato pagamento, anche di una sola delle rate diverse dalla prima, entro il termine di pagamento della rata successiva, si applicano anche agli istituti definitori sopra richiamati, compatibilmente con le peculiarità di questi ultimi.
Ai sensi dell’articolo 41 del Dl 98/2011, la modifica circa il tardivo pagamento delle rate diverse dalla prima, entra in vigore il giorno della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale, vale a dire il 6 luglio 2011.
In proposito la Cir. 41/E/2011 ha avuto modo di chiarire che per il principio di legalità sancito dall’articolo 3, comma 1, del Dlgs 472/1997, per i pagamenti tardivi eseguiti prima dell’entrata in vigore delle disposizioni in commento, non trova applicazione la disposizione che prevede l’iscrizione a ruolo della sanzione pari al 60% della misura delle residue somme dovute a titolo di tributo, bensì quella ordinariamente prevista dall’articolo 13 del Dlgs 471/1997;
Secondo la cir. 41/E del 2011, stando quanto precede (e considerato che l’istituto si è perfezionato con il pagamento della prima rata) ne consegue che l’Ufficio, potrà riconoscere il mantenimento del beneficio della dilazione originariamente concessa al contribuente se lo stesso, dopo aver saltato il pagamento di un rata, abbia manifestato la volontà di adempiere al proprio impegno pagando, a titolo di ravvedimento, ai sensi dell'art. 13 del Dlgs 472/1997 gli importi dovuti delle rate diverse dalla prima entro il termine di versamento della rata successiva a quella non pagata, gli interessi legali maturati dalla originaria scadenza a quella di versamento, nonché la relativa sanzione (in tal senso in precedenza la Cir. 65/E del 2001 (paragrafo 4.4). Tale previsione, a detta della stessa Cir. 41/E/2011, vale anche per le adesioni già perfezionate prima del 6 luglio 2011.
A detta sempre della Cir. 41/E/2011 Anche in relazione a tale versamento il contribuente deve far pervenire in ufficio l’apposita attestazione di pagamento, entro dieci giorni dal versamento stesso, ai sensi dell’articolo 8, comma 3 del Dlgs 218/1997.
Il giorno di pagamento della prima rata, costituisce la data di riferimento per il computo trimestrale del termine relativo al pagamento delle rate successive e per l'individuazione del tasso vigente degli interessi legali.
Sugli importi delle rate successive alla prima sono dovuti gli interessi al saggio legale, calcolati dal giorno successivo a quello di perfezionamento dell'atto di adesione e fino alla data di scadenza di ciascuna rata. Gli interessi legali, computati su base giornaliera, vanno versati cumulativamente all'importo dell'imposta dovuta.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
L’art. 27, comma 18 del Dl 185 del 2008 ha previsto che “L'utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute è punito con la sanzione dal 100 al 200 per cento della misura dei crediti stessi”.
La previsione, nella sostanza, modifica l’entità della sanzione che, prima della modifica,era del 30 per cento.
Il principio di irretroattività delle norme sanzionatorio, di cui all’art. 3, comma 1 del Dlgs 218/1997 esclude che si possa operare retroattivamente sia la norma che introduce nuove sanzioni sia quella che rende più onerosa l’entità di una sanzione già esistente. Pertanto, la disposizione trova applicazione a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, vale a dire dal 29 novembre 2008.
Si ha quindi, che:
- Utilizzi in compensazione di crediti inesistenti avvenuti fino a quella data, scontano una sanzione del 30%
- Utilizzi avvenuti successivamente, una sanzione del 100%.
Il DL 5/2009 (art.7 co. 2) ha ulteriormente elevata la sanzione 200%, quando l’utilizzo indebito in compensazione risulta superiore a 50mila euro.
Nell’ottica sempre di inasprimento delle sanzioni per la compensazione di crediti inesistenti, l’art. 10, co. 8, del D.L. n. 78/2009, ha stabilito che tale sanzione non potrà essere definita in via agevolata (con riduzione della sanzione ad un terzo – un quarto fino al 31/1/2011), ai sensi degli artt. 16 e 17 del D.Lgs. 472/97. Quest’ultima disposizione si applica dall’01.07.2009 (violazioni compiute da tale data).
Non va poi dimenticato che il Dl 223/2006 ha previsto (art. 10-quater del Dlgs 74/2000) un’ipotesi di delitto nel caso di utilizzo in compensazione di crediti non spettanti o inesistenti per importi superiori a 50 mila euro.
La norma fa un generico riferimento ai crediti inesistenti. Si applica quindi a tutti i crediti per imposte e contributi che, ai sensi ai sensi dell’art. 17 del Dlgs 241/1997 possono essere utilizzati in compensazione per eseguire versamenti delle imposte , dei contributi e delle altre somme a favore dello stato (Cfr. Videoconferenza dell’Ag. entrate del 17 gennaio 2009).
Il termine “credito inesistente” non è nuovo. L’art. 10-quater del Dlgs 74/2000 punisce infatti come reato le indebite compensazioni, per importi superiori a 50mila euro, di crediti “non spettanti o inesistenti”.
Quindi, l'accezione di credito inesistente non integra anche quella di credito non spettante: si tratta di due distinte violazioni.
Dal punto di vista amministrativo-sanzionatorio,
- il credito inesistente è quello che risulta tale fin dall'origine.
Ad esempio:
- quando il contribuente utilizza in compensazione un credito che non risulta in dichiarazione
- quando il contribuente utilizza in compensazione inconsapevolmente un credito 2 volte
Per crediti inesistenti si devono intendere sia gli importi artificiosamente rappresentati in sede contabile o dichiarativa (ossia quelli di natura dolosa), sia quelli ritenuti erroneamente esistenti per fatto imputabile a titolo di colpa al soggetto passivo della violazione. Ciò in quanto la norma in oggetto ha nautra sanzioria; conseguentemente occorre fare riferimento al Dlgs 471/1997 e nello specifico all’art. 5, comma 1, che stabilisce che “ciascuno risponde della propria azione o omissione, cosciente e volontaria, sia dolosa che colposa (Cfr. Videoconferenza dell’Ag. entrate del 17 gennaio 2009). Sul piano sanzionatario, non esiste quindi alcuna differenza tra il contribuente che utilizza il compensazione un credito ben sapendo che lo stesso non esiste nemmeno in parte, e un soggetto che espone il credito ritenendolo effettivamente spettante (e consentendo quindi all’amministrazione finanziaria di effettuare tutti i controlli del caso) e poi subisce una contestazione in merito all’importo dello stesso.
- il credito non spettante è invece quello che esiste effettivamente ma che, ad esempio, non può essere fruito in compensazione.
Ad esempio:
- quando il contribuente utilizza in compensazione crediti eccedenti il limite annuo di 516.456,90 euro (crediti di cui all’art. 34, comma 1 della Legge 388/2000;
- quando il contribuente utilizza in compensazione crediti con un “blocco” alla compensazione.
Stando così le cose è da ritenere che la violazione dell'utilizzo in compensazione di crediti inesistenti, ora punita con la sanzione dal 100 al 200% del credito, non riguardi i crediti non spettanti, cioè di quei crediti che effettivamente esistono, che però vengono utilizzati in compensazione oltre i limiti consentiti. Per l'utilizzo in compensazione dei crediti non spettanti è da ritenere, pertanto, che rimanga ferma la precedente sanzione del 30 per cento.
Ciò è stato confermato dall’Amministrazione finanziaria, la quale, trattando dei crediti di cui all’art. 34, comma 1 della Legge 388/2000, ha avuto modo di dire che, come chiarito nella risol. del 27 novembre 2008, n. 452/E, si applica la sanzione prevista per l’omesso versamento di imposte di cui all’art. 13 del Dlgs 471/1997, pari al 30 per cento dell’importo indebitamente compensato (Cfr. Videoconferenza dell’Ag. entrate del 17 gennaio 2009).
Per le violazioni commesse dal 29 novembre 2008, si ha una sorta di doppio binario dal punto di vista sanzionatorio-amministrativo. La violazione dell'utilizzo in compensazione di crediti inesistenti viene punita con la nuova sanzione dal 100 al 200 per cento, mentre per l'utilizzo in compensazione di crediti non spettanti la sanzione rimane quella del 30 per cento.
Il contribuente che ha utilizzato in compensazione crediti inesistenti o non spettanti e intende sanare la propria situazione deve provvedere alla “ricostruzione” del credito utilizzato in misura eccessiva (Circol. Agenzia Entrate n.101/E del 2000 (punto 11.1), Ris. n.166/E del 2002 e Ris. 27 novembre 2008, n. 452/E).
Per far questo deve:
- versare l'importo del credito inesistente o non spettante, maggiorato degli interessi, con il modello di pagamento F24, avendo cura di indicare nella colonna “codice tributo” il codice relativo al credito d'imposta utilizzato in eccesso, nella colonna “importi a debito versati” l'importo del credito da restituire e nella colonna “anno di riferimento” l'anno d'imposta cui si riferisce il versamento;
- versare interessi e la sanzione dovuta per il ravvedimento.
In pratica, secondo l’Amministrazione finanziaria, per fruire del ravvedimento è necessario versare, anziché l'importo a debito, l'ammontare del credito usato in eccesso o inesistente.
Nell’effettuare il ravvedimento, deve essere considerata la distinzione sopra esposta tra credito inesistente e non spettante, distinguendo, per il primo, a seconda che la violazione sia stata commessa anteriormente al 29 novembre 2008 o a partire da tale data. Infatti, nel primo caso, sia l'utilizzo in compensazione di crediti inesistenti che non spettanti risulta punito, per effetto del principio di legalità, con la sanzione del 30%, sicché per le regolarizzazioni da ravvedimento effettuate dal 29 di novembre occorre rapportare le nuove riduzioni (un dodicesimo, quando la regolarizzazione viene effettuata nei 30 giorni, un decimo successivamente) a questa misura edittale.
Nel caso, invece, di ravvedimento eseguito dal 29 novembre 2008 per le violazioni commesse da tale data in poi, bisogna distinguere se la violazione integra quella di utilizzo in compensazione di un credito inesistente oppure di un credito non spettante. Nel primo caso, le nuove riduzioni da ravvedimento operoso vanno rapportate alla violazione minima del 100 per cento. Qualora, invece, la violazione commessa sia quella dell'utilizzo di un credito non spettante, le sanzioni ridotte devono essere applicate a quella del 30 per cento.
Detto questo, occorre considerare che l’Agenzia delle entrate nella Cir. 18/E del 2011 ha avuto modo di evidenziare che “l’unica sanzione applicabile alle violazioni rilevate in sede di controllo automatizzato delle dichiarazioni effettuato ai sensi degli articoli 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54-bis del d.P.R. n. 633 del 1972 – ancorché riferibili all’utilizzo in compensazione di crediti per un ammontare superiore a quanto dichiarato – è quella prevista dall’articolo 13 del decreto legislativo n. 471 del 1997 per i ritardati od omessi versamenti diretti” pari al 30%”.
La circolare arriva a tale conclusione da una lettura sistematica delle seguenti disposizioni normative:
- il comma 16 del citato articolo 27 del Dl 185/2008 stabilisce che la riscossione dei crediti inesistenti utilizzati in compensazione è effettuata mediante l’apposito atto di recupero di cui all’articolo 1, comma 421, della legge n. 311 del 2004;
- Tra le attribuzioni ed i poteri sopra richiamati rientrano anche quelli disciplinati dagli articoli 36-bis del Dpr 600/1973 e 54-bis del Dpr 600/1973, per effetto dei quali l’amministrazione finanziaria, avvalendosi di procedure automatizzate, procede annualmente alla liquidazione dei tributi dovuti in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti;
- Nell’ambito di questa specifica attività di controllo (36-bis), l’Agenzia delle Entrate verifica anche che l’ammontare delle compensazioni effettuate per ciascuna imposta non sia superiore a quanto dichiarato dal contribuente, sia in termini di disponibilità del credito che in termini di effettivo utilizzo dello stesso;
- Dal punto di vista sanzionatorio, l’articolo 2, comma 1, del Dlgs 462/1997prevede che alle somme dovute a titolo di imposta o di minor credito, emerse a seguito dei controlli effettuati ai sensi degli articoli 36-bis del Dpr 600/1973e 54-bis del Dpr 633/1972, si applica la sanzione per ritardato od omesso versamento stabilita dall’articolo 13 Dlgs 471/1997. Tale disposizione prevede l’applicazione di una sanzione amministrativa nella misura del 30% di ogni importo non versato o versato in ritardo, “anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile”. La stessa norma precisa ulteriormente che la sanzione in argomento “si applica nei casi di liquidazione della maggior imposta ai sensi degli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e ai sensi dell'articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”
Sempre secondo la Cir. 18/E/2011 “tale sanzione rappresenta quindi la base su cui calcolare, eventualmente, le riduzioni previste dall’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo n. 462 del 1997, in caso di pagamento delle somme dovute entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione degli esiti del controllo automatizzato, e dall’articolo 13 del decreto legislativo n. 472 del 1997, in caso di ravvedimento operoso del contribuente”.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
Il comma 31 dell’articolo 23 del Dl 98/2011, nel modificare l’ articolo 13, comma 1, secondo periodo, del Dlgs 471/1997 , ha esteso la riduzione delle sanzioni in presenza di lievi ritardi negli adempimenti alla generalità dei versamenti dei tributi.
NORMATIVA ANTE MODIFICA
“Per i versamenti riguardanti crediti assistiti integralmente da forme di garanzia reale o personale previste dalla Legge o riconosciute dall’Amministrazione finanziaria, effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni, la sanzione di cui al primo periodo [30%] … è ulteriormente ridotta ad un importo pari ad un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo”.
NORMATIVA POST MODIFICA
“Per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni, la sanzione di cui al primo periodo [30%] … è ulteriormente ridotta ad un importo pari ad un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo”.
Nel testo previgente, infatti, il citato articolo 13 - che prevede la sanzione del 30 per cento per il ritardato od omesso versamento dei tributi - riconosceva ai versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni una diminuzione della sanzione amministrativa pari ad un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo solo se gli stessi erano relativi ai crediti assistiti integralmente da forme di garanzia reale o personale previste dalla legge o riconosciute dall’amministrazione finanziaria.
In virtù, quindi, dell’eliminazione dell’inciso che limitava il suddetto beneficio ad una specifica fattispecie, si prevede, allo stato, una nuova misura della sanzione applicabile alla generalità dei versamenti che vengono eseguiti entro quindici giorni dalla ordinaria scadenza.
Come chiarito dalla relazione governativa al decreto “la modifica assolve […] alla finalità di rendere il sistema sanzionatorio più graduale rafforzando l’aderenza della sanzione stessa alla gravità dell’inadempimento”.
Alla luce dell’intervenuta modifica, se, ad esempio, un versamento di euro 1.000 viene eseguito con due giorni di ritardo, sconta la sanzione del 4 per cento (30 x 2/15) pari ad euro 40. La riduzione della sanzione diminuisce all’aumentare dei giorni di ritardo, fino, ovviamente, ad annullarsi al quindicesimo giorno, tornando pari al 30 per cento (30 x 15/15).
Di fatto, per ogni giorno di ritardo, fino al 15°, si applica una sanzione pari al 2%, con la conseguenza che la misura della stessa è differenziata a seconda del giorno in cui è effettuato il versamento. Come evidenziato nella CM 5.7.2000, n. 138/E (par. 1.5): “l'entità della riduzione diminuisce con l'aumentare dei giorni di ritardo, fino ad azzerarsi se il ritardo è pari a quindici giorni (30 x 15/15 = 30)”.
Infatti, per il primo giorno di ritardo la sanzione è pari al 2%, per il secondo al 4% e così via, fino al quindicesimo giorno in cui la sanzione corrisponde al 30%.
La nuova previsione, in virtù del principio sancito dall’articolo 3, comma 3, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, trova applicazione anche alle violazioni commesse precedentemente all’entrata in vigore del Dl 98/2011 (vale a dire il 6 luglio 2011), salvo che il provvedimento di irrogazione della sanzione sia divenuto definitivo.
La riduzione in parola si aggiunge, per espressa previsione normativa, a quella disposta dall’articolo 13 comma 1, lettera a) del d.lgs. n. 472 del 1997 in caso di ravvedimento operoso. Ciò significa che, se il versamento è effettuato con un ritardo inferiore a quindici giorni e allo stesso si accompagna quello, spontaneo, dei relativi interessi legali e della sanzione entro il termine di 30 giorni dalla scadenza, la riduzione di cui all’articolo 13, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997 si aggiunge a quella di un decimo del minimo prevista dal citato articolo 13, comma 1, lettera a) del d.lgs. n. 472 del 1997 (percentuale così ridotta dall’articolo 1, comma 20, lett. a), della legge 13 dicembre 2010, n. 220, applicabile alle violazioni commesse a decorrere dal 1º febbraio 2011).
Così, ad esempio, se un versamento di euro 1.000 viene eseguito con due giorni di ritardo ed il ravvedimento della sanzione è effettuato entro trenta giorni dalla scadenza, la sanzione sarà pari allo 0,4 per cento (30 x 2/15 x 1/10) pari ad euro 4.
In tal senso sia la cir. 41/E/2011 che la 138/E del 2000 secondo la quale “le riduzioni suddette spettano indipendentemente dal verificarsi delle condizioni richieste per il ravvedimento. Se, poi, al versamento tardivo … (inferiore a quindici giorni) si accompagna quello spontaneo dei relativi interessi legali e delle stesse sanzioni entro il termine di 30 giorni dalla scadenza, la riduzione di cui trattasi si aggiunge a quella … prevista dall'art. 13, lettera a), del d.lgs. n. 472/1997”.
Da tale chiarimento si evince pertanto che se il versamento è effettuato entro 15 giorni dalla scadenza, la riduzione di 1/10 prevista in caso di ravvedimento operoso è applicabile anche alla sanzione riferita a ciascun giorno di ritardo.
Si è già detto che, come chiarito dalla circolare n. 138/E del 5 luglio 2000, la diminuzione in esame spetta “indipendentemente dal verificarsi delle condizioni richieste per il ravvedimento”. Ciò significa che anche nei casi in cui non opera il ravvedimento operoso l’ufficio applicherà la sanzione di cui all’articolo 13 del d.lgs. n. 471 del 1997 tenendo conto, al verificarsi dei presupposti, della riduzione ad un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
L’art. 29 del Dl 78/2010 al comma 1 lett. a) del comma 1, prevede che “l'avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate ai fini delle imposte sui redditi, dell’Irap e dell’Iva ed il connesso provvedimento di irrogazione delle sanzioni, devono contenere anche l'intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso, all'obbligo di pagamento degli importi negli stessi indicati, ovvero, in caso di tempestiva proposizione del ricorso ed a titolo provvisorio, degli importi stabiliti dall'articolo 15 del DPR 602/1973 (…)”.
Tale previsione si applica agli avvisi di accertamento:
- emessi dal 1 di ottobre 2011
- aventi a riferimento il periodo d'imposta 2007 e successivi.
- aventi a oggetto imposte sui redditi (e relative addizionali), per l'Iva e l'Irap ed il connesso provvedimento di irrogazione delle sanzioni, (questo almeno temporalmente in quanto in futuro è previsto l'ampliamento della norma ad altri tributi e ad altri atti come ad esempio i tributi doganali, l’imposta di registro, le liquidazioni ed i controlli formali delle dichiarazioni (art. 36-bis e 36-ter, D.P.R. 600/1973) con la conseguenza che in tutte le suddette ipotesi rimane l’obbligo di iscrizione a ruolo e della successivanotifica della cartella esattoriale.
L’atto di accertamento:
- accorpa così ben tre funzioni, 1) quella di atto impositivo, 2) di titolo esecutivo e 3)di atto di precetto,
- andando quindi a cumulare le funzioni precedentemente svolte separatamente dall'avviso di accertamento, dal ruolo e dalla successiva notifica della cartella di pagamento, la quale non deve essere più redatta e notificata dall’agente per la riscossione.
Viene poi previsto che:
1) Tali atti “divengono esecutivi decorsi sessanta giorni dalla notifica e devono espressamente recare l'avvertimento che, decorsi trenta giorni dal termine ultimo per il pagamento, la riscossione delle somme richieste, in deroga alle disposizioni in materia di iscrizione a ruolo, è affidata in carico agli agenti della riscossione anche ai fini dell'esecuzione forzata (…)” (art. 29 co.1 lett. b) del Dl 78/2010);
2) “L’esecuzione forzata è sospesa per un periodo di centottanta giorni dall’affidamento in carico agli agenti della riscossione degli atti di cui alla lettera a) [ndr. avvisi di accertamento esecutivi]; tale sospensione non si applica con riferimento alle azioni cautelari e conservative, nonché ad ogni altra azione prevista dalle norme ordinarie a tutela del creditore (…)” (art. 29 co.1 lett. b) del Dl 78/2010);
3) in presenza di fondato pericolo per il positivo esito della riscossione, decorsi sessanta giorni dalla notifica degli atti di cui alla lettera a) [ndr. avvisi di accertamento esecutivi], la riscossione delle somme in essi indicate, nel loro ammontare integrale comprensivo di interessi e sanzioni, può essere affidata in carico agli agenti della riscossione anche prima dei termini previsti alle lettere a) e b) [ndr. 60 + 30 giorni]” (art. 29 co.1 lett. c) del Dl 78/2010).
Ne deriva che:
1) gli atti dell'espropriazione relativi a un accertamento esecutivo siano sospesi per 180 giorni dalla data in cui il relativo carico è stato affidato all'agente della riscossione. La sospensione è automatica e prescinde dal fatto che il contribuente abbia presentato istanza di sospensione giudiziale.
2) La moratoria tuttavia non opera per le azioni cautelari e conservative. Si tratta ad esempio del fermo amministrativo e probabilmente dell'iscrizione di ipoteca. Ugualmente, non vi è sospensione per l'eventuale istanza di sequestro conservativo dell'azienda ovvero di iscrizione di ipoteca, richiesta dall'agenzia delle Entrate alla Commissione tributaria, in caso di fondato pericolo per la riscossione, ai sensi dell'articolo 22 del Dlgs 472/97.
3) Non vi è blocco degli atti esecutivi anche nel caso in cui successivamente alla presa in carico del credito erariale l'agente della riscossione venga a conoscenza di elementi che inducono il timore sul buon esito del recupero coattivo.
Ai sensi del provvedimento direttoriale del 30 giugno 2011, la trasmissione dei flussi telematici relativi agli accertamenti esecutivi deve avvenire dopo 60 giorni dalla notifica dell'atto, decorsi ulteriori 30 giorni dalla scadenza del termine di pagamento. Questo significa, in pratica, che l'agente della riscossione riceverà il carico da gestire dopo la scadenza del termine per ricorrere (che potrebbe non coincidere con i 60 giorni dalla notifica) e dell'ulteriore termine dilatorio di 30 giorni, previsto dall'articolo 29 del Dl 78/2010. Lo stesso provvedimento direttoriale precisa altresì che in ipotesi di trasmissione precedente a questo termine la presa in carico da parte dell'agente della riscossione si considererà avvenuta sempre al 31esimo giorno successivo alla scadenza per il pagamento. Ne deriva che la durata del periodo di sospensione non cambierà in presenza di un'eventuale anticipazione dei tempi da parte delle Entrate.
Dal punto di vista pratico ne consegue che l’Agenzia delle Entrate notifica l’avviso di accertamento contenente:
- sia la pretesa impositiva, che diviene - decorsi i termini per la proposizione del ricorso e in mancanza di pagamento - titolo esecutivo;
- sia l’avvertimento che, decorsi ulteriori 30 giorni dal termine ultimo per il pagamento, la riscossione delle somme richieste è affidata in carico agli agenti per la riscossione.
Si può legittimamente ritenere che l’esecutività dell’avviso di accertamento, anche se prevista dalla norma «decorsi sessanta giorni dalla notifica», sia comunque oggetto di sospensione di ulteriori 90 giorni, se il contribuente, nei termini per la presentazione del ricorso propone istanza di accertamento con adesione ex art. 6, D.Lgs. 218/1997 e di altri 46 giorni se il termine di presentazione del ricorso dovesse cadere nel corso della sospensione feriale dei termini processuali (1° agosto – 15 settembre).
Infatti, la disciplina prevista dall’art. 29, D.L. 78/2010 soffre una criticità in quanto quando la lett. b) dispone che l’atto diviene esecutivo trascorsi 60 giorni dalla notifica risulta non coordinata con la lett. a) dell’articolo in questione per la quale l’atto deve contenere l’intimazione ad adempiere «entro il termine di presentazione del ricorso» che, come detto, è soggetto sia alla sospensione di 90 giorni in presenza di adesione che, eventualmente, di altri 46 giorni in caso di sospensione feriale.
Il contribuente, sia che presenti il ricorso sia che non lo presenti, per non incorrere in ulteriori sanzioni e atti esecutivi, deve pagare entro i termini di proposizione del ricorso. Più nello specifico:
- se non presenta ricorso deve versare gli importi accertati con la riduzione della sanzione a un terzo (art. dall’art. 15, D.Lgs. 218/1997) entro i termini per la proposizione del ricorso (vale a dire entro 60 giorni dalla notifica dell’atto salvo il caso della sospensione a seguito di presentazione dell’istanza di adesione - 90 giorni - o della sospensione feriale dei termini - 45 giorni);
- se presenta ricorso, deve versare un terzo del valore delle imposte entro i termini di proposizione del ricorso (le sanzioni andranno riscosse dopo la sentenza di primo grado sfavorevole al contribuente e nella misura dei due terzi). Qualora, oltre al ricorso,venga presentata richiesta di sospensiva dell'esecutività dell'atto al giudice tributario e il contribuente, come è logico attendersi, non adempia all’obbligo del versamento entro il termine di presentazione del ricorso confidando in una sospensiva e/o in un giudizio favorevole verranno richiesti oltre al pagamento effettivo: 1) 30% delle maggiori imposte accertate e contestate, 2) gli aggi di riscossione nella misura intera pari al 9%, 3) gli interessi di mora calcolati dal giorno successivo alla notifica dell’avviso di accertamento sino a quello in cui avviene.
Se il contribuente non adempie all’obbligo del versamento nei termini della proposizione del ricorso:
1) la riscossione delle somme - decorsi 30 giorni dal termine ultimo per il pagamento - viene data in carico all’agente della riscossione che, senza più preventiva notifica della cartella di pagamento, procede:
- immediatamente ad attuare azioni cautelari e conservative (fermo amministrativo e iscrizione di ipoteca) e,
- decorsi 180 giorni dalla data in cui il relativo carico gli è stato affidato, ad attuare atti di espropriazione;
2) le somme richieste sono maggiorate degli interessi di mora calcolati a partire dal giorno successivo alla notifica degli atti stessi; all'agente della riscossione spettano l'aggio (9%), interamente a carico del debitore, e il rimborso delle spese relative alle procedure esecutive di cui all'art. 17 del Dlgs 112/1999. La norma espressamente prevede che “a partire dal primo giorno successivo al termine ultimo per la presentazione del ricorso, le somme richieste con gli atti di cui alla lettera a) sono maggiorate degli interessi di mora (…) calcolati a partire dal giorno successivo alla notifica degli atti stessi; all'agente della riscossione spettano l'aggio, interamente a carico del debitore, e il rimborso delle spese relative alle procedure (…)”(art. 29, co.1 lett. f del Dl 78/2010). L'aggio si calcola anche sugli ulteriori interessi giornalieri e su quelli di mora. Ne consegue, in concreto, che più tardi il contribuente pagherà quanto richiesto, e maggiore sarà l'aggio che l'agente della riscossione incasserà. Da evidenziare, ancora, che l'aggio compete all'agente della riscossione per il solo fatto che l'Agenzia gli ha affidato le somme da incassare, anche se non porrà in essere alcuna attività, come nel caso, ad esempio, di pagamento spontaneo - ma in ritardo - da parte del contribuente.
Quando si paga l’aggio ?
La norma prevede che “a partire dal primo giorno successivo al termine ultimo per la presentazione del ricorso(…) all'agente della riscossione spettano l'aggio” (art. 29, co.1 lett. f del Dl 78/2010).
L'affidamento del carico all’agente della riscossione avviene, invece, decorsi “trenta giorni dal termine ultimo per il pagamento” (art. 29, co.1 lett. b del Dl 78/2010) e comunque la presa in carico si considererà avvenuta sempre al 31esimo giorno successivo alla scadenza per il pagamento (provvedimento direttoriale del 30 giugno 2011).
Considerato che il contribuente potrebbe provvedere al pagamento entro tale ultimo termine, ci si chiede se, nonostante il dato normativo, si può affermare che l'aggio sia dovuto solamente a partire dal momento in cui vi è l'affidamento della riscossione all'agente della riscossione.
A tale proposito nel testo dell’atto di accertamento esecutivo, è scritto a chiare lettere che, in caso di pagamento oltre i 90 giorni dalla ricezione, sugli ulteriori interessi il contribuente dovrà calcolare l'aggio al concessionario (9%) anche per quel periodo.
Sanzioni da omesso versamento delle somme dovute nell’atto
Per effetto della modifica apportata dal Dl 70/2011, l’ultimo periodo della lett. a) dell’art. 29 del Dl 78/2010 prevede che “la sanzione amministrativa prevista dall’art. 13 del Dlgs 471/1997, non si applica nei casi di omesso, carente o tardivo versamento delle somme dovute, nei termini di cui ai periodi precedenti,sulla base degli atti ivi indicati.
Tale chiarimento è stato particolarmente rilevante alla luce del fatto che l’Agenzia delle Entrate era giunta alla conclusione opposta rilevando che «ai sensi della disposizione di cui all’art. 13, comma 2, del DLgs. 471/97 in ogni ipotesi di mancato pagamento di un tributo nei termini previsti, eccetto il caso di tributi iscritti a ruolo, si applica la sanzione del 30% dell’importo non versato. Pertanto, anche in caso di mancato pagamento delle somme dovute in presenza di avviso di accertamento impugnato, si applicherà la sanzione prevista» (Agenzia delle Entrate chiarimenti del 14 gennaio 2011).
L’indicazione dell’Agenzia delle Entrate era comunque poco convincente in quanto la norma richiamata dispone espressamente che «fuori dei casi di tributi iscritti a ruolo, la sanzione prevista al comma 1 (30% di ogni importo non versata) si applica altresì in ogni ipotesi di mancato pagamento di un tributo o di una sua frazione nel termine previsto» e lo stesso art. 29, co. 1, lett. g), D.L. 78/2010 precisa che, ai fini della riscossione, ogni riferimento al ruolo ed alla cartella si intendono, ora, effettuate alle somme affidate ai Concessionari.
Quindi se l’art. 13, co. 2, D.Lgs. 471/1997 esclude la sanzione al contribuente per l’omesso versamento delle somme dovute in base alla cartella di pagamento notificata a seguito di un avviso di accertamento, allo stesso modo non deve applicarsi alcuna sanzione nell’ipotesi in esame, dove l’avviso di accertamento assolve anche alle funzioni di riscossione proprie della cartella.
L'agente della riscossione non provvede, pertanto, più a notificare alcun atto al contribuente, con l'eccezione dell'intimazione ad adempiere entro cinque giorni (articolo 50 del Dpr 602/1973), nel caso effettui l'esecuzione forzata entro un anno dalla notifica dall'atto di accertamento.
L'agenzia delle Entrate che dovrà comunicare a Equitalia tutti gli elementi utili ai fini del potenziamento dell'efficacia della riscossione, cioè le informazioni relative alla situazione patrimoniale del contribuente acquisite anche nella fase dell'accertamento.
Rimane ferma la possibilità, per il contribuente, di chiedere la sospensione dell’effetto esecutivo dell’accertamento sia in sede amministrativa all’Agenzia delle Entrate (art. 39, D.P.R. 602/1973) che in sede giudiziale alla Commissione Tributaria (art. 47, D.Lgs. 546/1992). In quest’ultimo caso (ricorso e contestuale richiesta di sospensiva dell'esecutività dell'atto al giudice tributario) nel termine di 180 giorni (gli stessi nei quali, a seguito della sospensione automatica, l'agente per la riscossione sarà impossibilitato a procedere all'esecuzione) il giudice deve decidere sulla sospensiva proposta. Se il giudice:
- si pronuncia a favore del contribuente, la riscossione è sospesa;
- non si pronuncia entro 180 giorni dalla relativa notifica (quindi dalla notifica del ricorso se la sospensiva è ivi inserita) oppure respinge l'istanza, l'agente per la riscossione, decorsi i 180 giorni di sospensione automatica, procede all'esecuzione forzata salvo che il contribuente non provveda al versamento del 30% della maggiore imposta accertata, degli interessi di mora calcolati dal giorno successivo alla notifica dell'avviso e dell'intero aggio del 9% spettante all'agente per la riscossione.
Si ha quindi che se il contribuente non paga entro i termini ma:
- paga nei 30 giorni successivi, evita l'esecuzione l’aggio e gli interessi di mora;
- paga nei 180 giorni successivi a quanto l’atto viene preso in carico dall’agente della riscossione rischia le procedure cautelari e conservative ma evita l’espropriazione
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
In presenza di situazioni oggettive che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi "minimi", nonché del reddito "minimo", così pure, dal 2012 in caso di perdite consecutive, la società può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi dell'articolo 37-bis, comma 8, del Dpr 600/73.
Prima delle modifiche normative intervenute col il Dl n. 223 del 2006, ai sensi del previgente comma 4 del citato art. 30, il contribuente era ammesso a fornire, in sede di accertamento, "la prova contraria sostenuta da riferimenti a oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi, di incrementi di rimanenze e di proventi (…)".
L'ufficio accertatore che intendesse, infatti, contestare ad una determinata società non operativa il reddito minimo determinato presuntivamente, era tenuto, a pena di nullità, ad inviare preventivamente, anche mediante lettera raccomandata, una richiesta di chiarimenti intesa a conoscere eventuali situazioni oggettive di carattere straordinario che avevano reso impossibile il conseguimento di ricavi, di incrementi di rimanenze e di proventi nella misura richiesta dal comma 1 dell'art. 30 della Legge n. 724 del 1994.
A decorrere, invece, dal periodo d'imposta in corso al 4 luglio 2006, per effetto del comma 4-bis introdotto dal Dl n. 223 del 2006, all'art. 30 della Legge n. 724 del 1994, la procedura da attivare ai fini della disapplicazione delle norme sulle società non operative è stata innovata.
Ai sensi del citato comma 4-bis, infatti, "In presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell'imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4, la società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi dell'articolo 37-bis, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600".
Venuta meno la possibilità di far valere in sede di accertamento la "prova contraria" (l'inciso "salvo prova contraria" è stato soppresso dall'art. 1, comma 109, lett. a), della Legge n. 296 del 2006), secondo l’Amministrazione finanziaria (Circ. Ag. Entrate n. 5/E del 2007 e 14/E del 2007 - e poi richiamate nella Circ. n. 25/E del 2007) sta a significare che la produzione dell'interpello è la sola possibilità che una società detiene per instaurare, in futuro, un contenzioso giudiziale. Questo nel senso che laddove l'Ufficio rigetti l'istanza, il successivo avviso d'accertamento (e non l'atto di diniego) sarà impugnabile. Ma se al contrario non è stata inoltrata l'istanza non sarà possibile in futuro produrre ricorso avverso l'avviso di accertamento: quel ricorso sarebbe inammissibile.
Si tratta, però, di un'evidente forzatura, visto che la norma dispone chiaramente che il contribuente «può richiedere» (anziché «deve richidere») la disapplicazione delle disposizioni antielusive, come definite dalla norma.
Quindi, è una facoltà e non un obbligo. Inoltre, va tenuto conto che l'inammissibilità del ricorso può essere disposta soltanto dal giudice tributario nelle ipotesi previste dagli articoli 18 e seguenti del Dlgs 546/92. E tra queste non ce n'è alcuna che dispone l'inammissibilità del ricorso per mancata presentazione dell'interpello delle società di comodo. In ogni caso non rientra tra i poteri dell'Agenzia dichiarare inammissibile un ricorso. Così, si ritiene che il contribuente potrà senz'altro far ricorso contro l'accertamento anche se non ha precedentemente presentato interpello disapplicativo. La questione è stata sollevata anche con un'interrogazione in Commissione finanze della Camera alla quale, il 21 febbraio 2007, il Governo ha risposto confermando la tesi dell'Agenzia: l'istanza di interpello costituisce un obbligo della società. Ma ciò contrasta con la norma che invece, al riguardo, utilizza la locuzione “la società interessata può (e non "deve" n.d.a.) richieder e (...)”.
Ammesso e non concesso che la tesi dell’Amministrazione finanziaria risulti corretta ci si potrebbe interrogare in merito alla necessità, ai fini del contenzioso, di presentare istanza di interpello tutti gli anni qual’ora non siano cambiate le situazioni che avevano in un periodo d’imposta precedente portato a un interpello negativo da parte dell’Amministrazione finanziaria. Il dubbio circa la necessità di ripresentare l’interpello trova fondamento nel provvedimento del direttore delle Entrate protocollo 2008/23681 che nell’individuare delle situazioni oggettive in presenza delle quali è consentito disapplicare le disposizioni sulle società di comodo senza dover assolvere all'onere di presentare istanza di interpello vi è anche (lett. f) “le società che hanno ottenuto l'accoglimento dell'istanza di disapplicazione in relazione a un precedente periodo di imposta sulla base di circostanze oggettive puntualmente indicate nell'istanza che non hanno subito modificazioni nei tre periodi di imposta successivi”. Letta in negativo se ne potrebbe dedurre che qualora si è ottenuto una risposta negativa all’interpello questa ha valore, in caso di invariaza di situazioni, anche per i tre periodi d’imposta successivi.
«(…) assolto l’onere di presentazione dell’istanza, deve tuttavia ammettersi la possibilità di riproporre la questione concernente l’operatività della società o dell’ente all’esame dei giudici tributari, mediante impugnazione dell’eventuale avviso di accertamento (…)».(C.M. 5/E/2007)
Favorevole: Ctp Lecce, sent. 15 aprile 2008, n. 93: «(...) il provvedimento di rigetto impugnato è senz’altro un atto impugnabile perché può farsi rientrare tra gli atti di diniego o di revoca di agevolazioni ai sensi e per gli effetti dell’art. 19, comma 1, lett. h) del D.Lgs. n. 546 cit., in quanto la disapplicazione della disciplina sulle società non operative è da qualificare, almeno indirettamente, come una sorta di agevolazione fiscale(…)».
Sfavorevole: Ctp Torino, sent. 21 dicembre 2007, n. 224 e Ctp Torino, sent. 16 aprile 2008, n. 45: «(...) l’atto di diniego è sostanzialmente un parere, non soltanto sotto l’aspetto formale o nominalistico, ma anche sotto il profilo sostanziale, per cui non è da ritenersi impugnabile (…) peraltro si tratta di provvedimento non contenente alcuna pretesa tributaria definita, in ragione della sua prodromicità a successivi provvedimenti impositivi (…)».
Circa l’impugnabilità della risposta a interpello va notato che L'amministrazione finanziaria è sempre stata contraria. Con circolare 32/E/2010, richiamando la decisione 414/2009 del Consiglio di Stato, l'Agenzia ha valorizzato la natura di parere di questi dinieghi; potendo il contribuente non adeguarsi a tali risposte, esse non sono immediatamente lesive della sua situazione soggettiva, con la conseguenza che la tutela giurisdizionale viene rinviata al momento dell'eventuale notifica di un accertamento. In altre parole, poiché il contribuente può scegliere di non adeguarsi a tali risposte, non sono immediatamente lesive della sua situazione soggettiva, con la conseguenza che la tutela giurisdizionale viene rinviata al momento del l'eventuale notifica di un avviso di accertamento.
Va tuttavia rilevato che, la Cassazione, con sentenza 8663/2011, ha affermato che il diniego di disapplicazione delle disposizioni antielusive integra un caso di negazione di agevolazione fiscale, per cui il relativo provvedimento risulta direttamente impugnabile ai sensi dell'articolo 19 del Dl 546/1992. Anche se la fattispecie esaminata dalla Suprema corte non riguardava direttamente una società non operativa, il diniego impugnato era stato rilasciato in applicazione dell'articolo 37-bis, comma 8, del Dpr n. 600/73, per cui non sembrerebbe prospettabile una conclusione diversa: tale norma, infatti, è espressamente richiamata dalla disciplina dell'interpello disapplicativo delle società di comodo (articolo 30, comma 4-bis, della legge n. 724/1994).
Secondo tale sentenza la Corte ha anche riconosciuto che il contribuente che ha presentato un'istanza in tal senso sia titolare di un vero e proprio diritto soggettivo, a che l'amministrazione finanziaria esamini compiutamente l'istanza e gli eventuali allegati al fine di verificare se possa sottrarsi alla disciplina limitativa di cui chiede la disapplicazione. I giudici hanno correttamente valorizzato il fatto che la procedura autorizzativa non è in alcun modo surrogabile o eludibile, nel senso che la mancanza di determinazione favorevole da parte della Dr impone indefettibilmente il rispetto (rectius l'applicazione) della norma antielusiva e la sottoposizione agli effetti sfavorevoli che questa implica.
Le conseguenze pratiche della pronuncia saranno certamente consistenti, sebbene non sfuggano le problematiche connesse alla devoluzione ai giudici tributari della cognizione di fattispecie che, spesso, necessitano di risposte celeri (a volte addirittura propedeutiche alla loro concreta realizzazione), caratteristica che mal si concilia con i tempi della giustizia tributaria.
A sostenerlo di tale tesi si segnala la Ctp Palermo con la sentenza 127/4/11. I giudici siciliani non si sono limitati ad avallare la tesi dell'impugnabilità in giudizio del diniego, ma hanno accolto, nel merito, le censure che la società ricorrente ha espresso con riferimento alla fondatezza di tale diniego.
Nella fattispecie, la particolare natura della ricorrente (società veicolo costituita da investitori istituzionali per la realizzazione di un programma industriale attraverso lo sfruttamento di un marchio) ha convinto la Ctp che non sussistevano i presupposti per individuare una società «di comodo», intesa nel senso di una struttura il cui effettivo scopo principale è quello di detenere beni per metterli a disposizione dei soci, svolgendo attività commerciale in modo del tutto marginale. Poiché la disciplina delle società non operative è finalizzata a evitare questo tipo di comportamenti, va disapplicata in tutte le situazioni in cui essi, di fatto, non si verificano.
Si segnalano poi altre sentenze dal medesimo contenuto: hanno infatti deciso in modo analogo la Ctp di Lecce (sezione V, n. 93 del 15 aprile 2008; sezione II, n. 479 del 12 novembre 2008) e la Ctr Puglia (sezione II, n. 71 dell'11 maggio 2010). Di segno opposto, invece, le Ctp di Milano (sezione VIII, n. 108 del 2 maggio 2008), di Torino (sezione IV, n. 45 del 16 aprile 2008) e di Ancona (sezione I, n. 188 e 189 del 10 settembre 2010) Ctp Emilia di Reggio Emilia sentenza 154/4/11, depositata il 21 settembre 2011.
Si noti come la sentenza 154/4/11, depositata il 21 settembre 2011 della Ctp di Reggio Emilia di Reggio Emilia va però oltre quanto previsto dalla Cassazione in quanto afferma che se il diniego non viene impugnato dal contribuente, «si rende definitiva la carenza del potere di disapplicazione della norma antielusiva in capo all'istante». In buona sostanza, la mancata impugnazione del diniego renderebbe impossibile sindacare, in sede di ricorso contro il successivo accertamento, la presenza delle condizioni di applicabilità della disciplina delle società non operative.
Tuttavia, per il principio di affidamento disposto dallo Statuto del contribuente (legge 212/2000), poiché in calce al provvedimento di rigetto viene esplicitamente affermata la non impugnabilità del medesimo, il contribuente deve essere rimesso in termini, per cui è ammissibile in via eccezionale il ricorso proposto contro l'atto di accertamento successivamente emesso dall'Agenzia.
Atteso che non è detto che tutti i giudici tributari abbiano la stessa sensibilità di quelli reggiani nel salvaguardare la tutela dei diritti del ricorrente, sembra prudente, in attesa che la questione venga definitivamente risolta, impugnare sempre, a titolo cautelativo, il diniego di disapplicazione, sulla base dell'orientamento della Corte di cassazione prima citato. In questa ipotesi, al fine di evitare eccezioni di inammissibilità per difetto di legittimazione passiva del resistente, appare opportuno notificare il ricorso sia alla propria Direzione provinciale che alla Dre che ha emanato il provvedimento di diniego.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
Stando quanto previsto dalla norma, nella difesa dalla disciplina delle società di comodo il contribuente può dare dimostrazione:
1. della non esistenza di finalità elusive
2. della presenza di un soggetto effettivamente operativo (la norma scatta a fronte, per l’appunto di presunzione di non operatività)
3. dell’impossibilità di operare (la norma parla di «oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi (...)»)
4. Dell’eventuale non correttezza dell’iter amministrativo seguito dall’Ufficio.
In merito al primo punto (norma antielusiva) va evidenziato che dal momento che la tipologia di interpello è quella di cui all’art. 37-bis, D.P.r. 600/1973, laddove la non operatività del contribuente derivi da scelte gestorie discutibili, ma assolutamente lecite, quali la concessione in locazione di immobili, in affitto d’azienda, il mancato incasso di dividendi a fronte dell’avvenuto rimborso parziale di finanziamenti soci, ecc., occorre contestare l’assenza, nel provvedimento di diniego, della specificazione dell’operazione alternativa che il contribuente avrebbe dovuto porre in essere. L’eccezione, non ha mero scopo tuzioristico, ma trova radicamento nel fatto che, spesso, è accaduto di riscontrare nei provvedimenti di diniego il riferimento a non precisati comportamenti alternativi e/o la descrizione delle scelte gestorie adottate dal contribuente come, in qualche modo, elusive.
A titolo di esempio, ciò è accaduto allorquando una società di persone ha concesso in locazione la sua unica azienda ad una società a responsabilità limitata non interamente composta dai medesimi soci. in quella sede, l’Amministrazione finanziaria ha stigmatizzato come elusiva tale operazione, senza tuttavia specificare quale sarebbe stata l’operazione alternativa, soprattutto a fronte dell’impossibilità, per la società di persone, di esercitare in proprio l’attività (presenza di soci minori e carenza di requisito tecnico).
Secondo l'agenzia delle Entrate, la disciplina delle società non operative avrebbe finalità antielusive. Secondo la circolare 5/E del 2007 queste finalità «emergono con chiarezza dalla disposizione ... che ha introdotto la possibilità ... di chiedere preventivamente la disapplicazione della relativa disciplina mediante la presentazione di un'apposita istanza di interpello ai sensi del l'articolo 37-bis, comma 8, del Dpr 29 settembre 1973, n. 600 (interpello disapplicativo)».
Con il Dl 223/2006 è stato infatti previsto che la società ha la possibilità (quindi, secondo il dato normativo non l'obbligo), in presenza di situazioni oggettive che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, del reddito e degli imponibili Iva previsti, di richiedere la disapplicazione delle «relative disposizioni antielusive», attraverso interpello di cui all'articolo 37-bis, comma 8, del Dpr 600/1973.
Quindi non solo le circolari delle Entrate, ma anche la norma parrebbe identificare la disciplina delle società di comodo tra quelle antielusive. Altrimenti, non vi sarebbe stato bisogno di "scomodare" l'interpello disapplicativo, proprio delle disposizioni antielusive, ma sarebbe bastato prevedere la possibilità di interpello ordinario, ai sensi dell'articolo 11 dello Statuto del contribuente.
Se le cose stanno in questi termini, cioè se si tratta di una norma antielusiva (più che altro - a avviso di parte della dottrina - per un'errata impostazione normativa e anche di prassi – Cfr. D. Deotto, Società di comodo strette nelle morse degli accertamenti, Il Sole 24 Ore del 2/11/2009) è proprio sull'aspetto "elusione" che occorre fondare la propria strategia di difesa. In primo luogo, perché tra le disposizioni antielusive espressamente disciplinate non ce n'è alcuna riferita alle società di comodo (a meno che – ma non pare il caso – non si voglia scomodare l'abuso del diritto) e poi perché, sotto il profilo sostanziale, non si comprende cosa vi sia di elusivo nell'intestare a delle società, alla luce del sole, determinati beni.
In merito al secondo punto (operatività del soggetto) si è già detto che la norma contiene tre presunzioni di evasione: la prima in base alla quale si considera non operativo il soggetto che non raggiunge determinati ricavi figurativi minimi o è in perdita sistematica; la seconda in base alla quale per gli enti non operativi «si presume che il reddito del periodo d'imposta non sia inferiore a ...»; infine, la terza, la quale prevede che per i soggetti non operativi «si presume che il valore della produzione netta non sia inferiore a ...».
A fronte della (prima) presunzione di non operatività, il contribuente potrebbe però dimostrare di essere un soggetto effettivamente operativo, nel senso che svolge, comunque, un'attività secondo le logiche economiche. Il che potrebbe essere dimostrato dagli atti posti in essere. Che poi la situazione sia "fruttifera" o "infruttifera" è un altro discorso: qui la norma chiede la dimostrazione della propria operatività. Oppure la prova contraria potrebbe essere data dalla dimostrazione del fatto che, per situazioni oggettive, e nonostante l'eventuale rigetto dell'interpello disapplicativo, il contribuente non ha potuto svolgere effettivamente l'attività (e molti casi segnalati sono proprio questi).
Se si accetta l'impostazione in base alla quale le regole sulle società di comodo contemplano più presunzioni, la seconda e la terza entrerebbero in gioco solamente se non è stata data dimostrazione della operatività secondo la logica descritta oppure dell'impossibilità a svolgere l'attività.
Il fatto, comunque, di non avere raggiunto quel determinato reddito potrà essere giustificato dimostrando l'inidoneità del proprio patrimonio a generare quei risultati e, quindi, che lo stesso risulta oggettivamente infruttifero, perlomeno rispetto ai parametri richiesti dalla legge.
Sarà quindi conveniente rendere un’esposizione sintetica e schematica dei motivi di merito fondanti l’opposizione, con dimostrazione, anche numerica, dell’irragionevolezza economica degli indici patrimoniali recati dalla norma.
Andrebbe considerato, infine, che se si è in presenza di una pluralità di presunzioni legali, anziché di una previsione antielusiva, le presunzioni previste per legge devono rispettare alcuni fondamentali canoni costituzionali.
Le presunzioni fiscali devono essere ragionevoli, non devono ledere il diritto di difesa del contribuente, devono essere conformi al principio di capacità contributiva e devono rispettare i canoni del giusto processo, tra cui quello della "parità delle armi". Così, il fatto che una presunzione sia rimessa alla discrezionalità del legislatore, non può, però, far sì che tale discrezionalità sconfini nell'arbitrio da parte dello stesso, ponendo a carico del contribuente un onere di prova cosiddetto "diabolico", cioè impossibile o estremamente difficile da assolvere.
In merito al terzo punto (impossibilità di operare) occorre riprendere, passo per passo, le argomentazioni fondanti il diniego e rappresentarne l’infondatezza. Anche situazioni oggettivamente e chiaramente esimenti l’applicazione della normativa, possono non essere state considerate come tali. In sede giudiziale è necessario riproporre tutte le considerazioni già addotte, controbattendo punto per punto le argomentazioni avverse, cercando di stigmatizzarle.
Sarebbe opportuno, inoltre, addurre elementi nuovi, anche di natura presuntiva. Nel campo immobiliare, per esempio, è possibile fare riferimento alle numerose pubblicazioni ed inserzioni immobiliari, da cui evincere l’insensatezza delle percentuali di redditività imposte dalla norma. Altro esempio, può essere il caso di una società proprietaria di un campo di golf, per la quale, si è dimostrato attraverso uno studio economico di primaria società di consulenza, come la stessa presentasse indici di redditività ed impiego di personale ben superiori rispetto ai competitors.
In merito al quarto (correttezza dell’iter amministrativo seguito dall’Ufficio) occorre considera che la prassi considera l’inammissibilità del ricorso in caso di mancata presentazione dell’interpello; in merito si è già avuto modo di dire che l'inammissibilità del ricorso può essere disposta soltanto dal giudice tributario nelle ipotesi previste dagli articoli 18 e seguenti del Dlgs 546/92. E tra queste non ce n'è alcuna che dispone l'inammissibilità del ricorso per mancata presentazione dell'interpello delle società di comodo. In ogni caso non rientra tra i poteri dell'Agenzia dichiarare inammissibile un ricorso. In merito si veda quanto detto trattando di interpello.
Sempre in merito a questo punto occorre considerare che nella prassi è stato verificato come l’Amministrazione finanziaria abbia bollato come «improcedibili» talune istanze di interpello, giacché ritenute come incomplete. A titolo puramente informativo, si rileva che tale nuova categoria di vizio, l’improcedibilità, appunto, non trova radicamento alcuno nel panorama legislativo italico, specialmente nel D.m. 19 giugno 1998, n. 259 applicabile giusta richiamo dell’art. 30, L. 724/1994 all’interpello di cui all’art. 37-bis, D.P.r. 600/1973.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
Gli studi di settore nell’accertamento induttivo puro
La lettera c) del comma 28 dell’art. 23 del Dl 98/2011 ha aggiunto la lett. d-ter) al comma 2 dell’art. 39, DPR n. 600/73 in base alla quale è stata estesa la possibilità di effettuare l’accertamento induttivo puro anche nelle ipotesi di:
- omessa o infedele indicazione dei dati previsti dal modello per la comunicazione dei dati ai fini degli studi di settore;
- indicazione di cause di esclusione / inapplicabilità degli studi di settore non sussistenti.
La disposizione in commento opera a condizione che siano irrogabili le sanzioni di cui all’art. 1, comma 2-bis, D.Lgs. n. 471/97, applicabili nel caso in cui il maggior reddito d'impresa / lavoro autonomo, accertato a seguito della corretta applicazione degli studi di settore, sia superiore al 10% del reddito d'impresa o di lavoro autonomo dichiarato. A tale proposito, come chiarito con la circolare n. 31/E del 2007, non è necessario che sia intervenuta l’effettiva irrogazione della sanzione, ma, piuttosto, che risultino verificati i presupposti oggettivi posti a base della norma sanzionatoria.
L’agenzia delle entrate nella cir. 41/E del 2011 ha avuto modo di evidenziare che:
- l’ampliamento del potere accertativo in ogni caso riguarda unicamente i contribuenti che siano effettivamente soggetti all’applicazione degli studi di settore, non risultando applicabile la disposizione agli operatori economici esclusi dagli stessi (anche se eventualmente obbligati alla sola presentazione del modello) (Cfr. cir. 41/E/2011);
- La disposizione esplica effetti “diretti” solo in materia di imposizione diretta, atteso anche che il modello degli studi di settore è un allegato alla dichiarazione dei redditi. Ciò nonostante la circolare preve che “si ritiene che gli uffici, comunque, possano verificare gli effetti ai fini IVA di una ricostruzione induttiva dei ricavi o dei compensi, alla luce della specifica attività esercitata dal contribuente assoggettato a controllo e della possibile tipologia di evasione dallo stesso effettuata, tenuto conto dei beni ceduti e di servizi resi in evasione di imposta”.
Art. 39, co. 2 del Dpr 600/1973
“In deroga alle disposizioni del comma precedente l'ufficio delle imposte determina il reddito d'impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui alla lettera d) del precedente comma:(…)
d-ter) quando viene rilevata l'omessa o infedele indicazione dei dati previsti nei modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi di settore, nonché l'indicazione di cause di esclusione o di inapplicabilità degli studi di settore non sussistenti. La presente disposizione si applica a condizione che siano irrogabili le sanzioni di cui al comma 2-bis dell'articolo 1 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471”.
In pratica ciò significa che le inesattezze nella compilazione dello studio di settore, dolose o colpose che siano, legittimano l’utilizzo dell’accertamento induttivo puro al pari di quanto succede in caso di omessa tenuta della contabilità o di non presentazione della dichiarazione dei redditi.
Considerato che l’accertamento induttivo puro legittima la determinazione del reddito in base a “dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza” (rectius presunzioni semplicissime), e che la presunzione nascente da studi di settore costituisce presunzione semplicissima, ne consegue che una volta verificati i presupposti dell’accertamento induttivo, l’Agenzia delle entrate è legittimata - senza dover dimostrare null’altro - a utilizzare lo scostamento da studio di settore anche ai fini dell’accertamento, di modo che lo scostamento da studio di settore viene a costituire sia il presupposto che l’entità dell’accertamento.
Le sanzioni
Mediante l’introduzione dei commi 2-bis e 4-bis rispettivamente degli articoli 1 e 5 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, e del comma 2-bis dell'art. 32 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, la legge 296 del 2001 ha aumentato del 10 per cento la sanzione pecuniaria applicabile in sede di accertamento, ai fini delle imposte sui redditi, dell’Iva e dell’Irap, per le violazioni:
- di omessa o infedele indicazione dei dati previsti nei modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore;
- di indicazione di cause di esclusione o inapplicabilità degli studi di settore non sussistenti.
Redditi - art. 1, D.Lgs. n. 471/97 comma 2-bis
“la misura della sanzione minima e massima ... è elevata del 10 per cento nelle ipotesi di omessa infedele indicazione dei dai dati ... nonché nei casi di indicazione di cause di esclusione o di inapplicabilità degli studi di settore non sussistenti. La presente disposizione non si applica se il maggior reddito d’impresa ovvero di arte o professione, accertato a seguito della corretta applicazione degli studi di settore non è superiore al 10 per cento del reddito d’impresa o di lavoro autonomo dichiarato”.
Iva - art. 5, D.Lgs. n. 471/97 comma 4-bis:
“la misura della sanzione minima e massima ... è elevata del 10 per cento nelle ipotesi di omessa infedele indicazione dei dai dati ... nonché nei casi di indicazione di cause di esclusione o di inapplicabilità degli studi di settore non sussistenti.
La presente disposizione non si applica se la maggiore imposta accertata o la minore imposta detraibile o rimborsabile, a seguito della corretta applicazione degli studi di settore, non è superiore al 10 per cento del reddito d’impresa o di lavoro autonomo dichiarato”.
Irap - art. 32, D.Lgs. n. 446/97comma 2-bis:
“la misura della sanzione minima e massima ... è elevata del 10 per cento nelle ipotesi di omessa infedele indicazione dei dai dati ... nonché nei casi di indicazione di cause di esclusione o di inapplicabilità degli studi di settore non sussistenti.
La presente disposizione non si applica se il maggior imponibile, accertato a seguito della corretta applicazione degli studi di settore non è superiore al 10 per cento di quello dichiarato”.
La predetta maggiorazione del 10 per cento si applica alla sanzione-base, fissata nella misura dal 100% al 200%, a condizione che:
- il maggior reddito d’impresa, arte o professione (per le imposte sui redditi),
- la maggiore imposta o la minore imposta detraibile o rimborsabile (per l’imposta sul valore aggiunto);
- la maggiore base imponibile (per l’imposta sulle attività produttive)
accertati a seguito della corretta applicazione degli studi di settore, eccedano, rispettivamente, il 10% di quanto dichiarato dai contribuenti.
Da quanto sopra consegue che nei casi in esame (omessa o erronea indicazione dei dati e di una causa di esclusione/inapplicabilità) la sanzione prevista risulta essere:
- dal 100% al 200% dei maggiori valori accertati se gli stessi non superano il 10% dei valori dichiarati;
- dal 110% al 220% dei maggiori valori accertati se gli stessi superano il 10% dei valori dichiarati.
Se la correzione riguarda dati o informazioni dai quali non scaturisce un maggior reddito, l’Ufficio può comunque applicare la sanzione residuale prevista per i casi di “dichiarazione irregolare” da € 258 a € 2.065.
La Circolare n. 31/E, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che:
- la maggiorazione del 10% della sanzione può essere applicata:
- “oltre alle ipotesi di non corretta indicazione di quelle informazioni che rilevano ai fini della determinazione della funzione di regressione” anche nei casi di “infedele ovvero omessa indicazione di quelle variabili che, pur non rilevanti ai fini della funzione di regressione, incidono comunque sulla determinazione del reddito d’impresa o di lavoro autonomo (es. quote di ammortamento che potrebbero essere rilevanti ai fini dell’indicatore di normalità economica relativo alle spese per il godimento dei beni strumentali mobili)”;
- anche nei casi in cui dall’attività di accertamento, anziché un maggior reddito, risulti una minor perdita per un importo superiore al 10% della perdita dichiarata;
- la sanzione e la maggiorazione del 10% non sono applicate nei casi di “infedele od omessa indicazione nell’allegato studi di settore delle variabili c.d. descrittive, cioè quelle concernenti dati specifici dell’attività che non influenzano né il risultato dello studio di settore, né tantomeno incidono sulla determinazione del reddito d’impresa o di lavoro autonomo”.
Con riferimento ai casi di erronea indicazione di cause di esclusione o inapplicabilità degli studi di settore, la Circ. 31/E del 2007 specifica che, al fine di determinare se la maggiorazione del 10% in esame debba essere o meno applicata, l’Ufficio dovrà richiedere tutte le informazioni necessarie per la corretta elaborazione dello studio di settore per poter procedere al confronto, come sopra illustrato, dei valori accertati con quanto dichiarato.
In merito al maggior reddito d’impresa, va evidenziato che occorre fare riferimento a quello che tiene in considerazione della normalità economica. Ciò significa che, al fine di determinare il superamento o meno della soglia di scostamento (10%) tra valori dichiarati e valori presunti da Gerico, i ricavi/compensi dichiarati dovranno essere confrontati con il maggiore tra il ricavo/compenso minimo risultante dalla congruità e normalità economica (con applicazione degli indicatori di normalità economica) e il ricavo/compenso puntuale risultante dalla congruità senza applicazione degli indicatori di normalità economica.
L’Agenzia delle entrate nella Circol. 31/E del 2007 specifica che le norme riguardanti l’incremento della sanzione si applicano con riguardo alle violazioni commesse a decorrere dal 1° gennaio 2007 (entrata in vigore della legge finanziaria per il 2007), in ragione del principio del c.d. “favor rei” sancito dall’art. 3, comma 3, del d.lgs. n. 472 del 1997. Pertanto, la sanzione incrementativa potrà essere applicata con riferimento alle dichiarazioni presentate successivamente a tale data.
Ai sensi del comma 4-bis, dell’articolo 10 della legge n. 146 del 1998, il solo verificarsi delle condizioni previste per poter applicare la sanzione integrativa del 10 per cento:
- preclude al contribuente anche la possibilità di beneficiare della c.d. “inibizione degli accertamenti presuntivi”, prevista dal comma 4-bis dell’articolo 10, della legge n. 146 del 1998, nei confronti dei soggetti congrui ai fini dell’applicazione degli studi di settore;
- riconosce all’amministrazione finanziaria la possibilità di effettuare l’accertamento induttivo puro (ex art. 39, co. 2 del Dpr 600/1972) nelle ipotesi di omessa o infedele indicazione dei dati previsti dal modello per la comunicazione dei dati ai fini degli studi di settore o di indicazione di cause di esclusione / inapplicabilità degli studi di settore non sussistenti.
La lettera c) del comma 28 dell’art. 23 del Dl 98/2011 ha aggiunto la lett. d-ter) al comma 2 dell’art. 39, DPR n. 600/73 in base alla quale è stata estesa la possibilità di effettuare l’accertamento induttivo puro anche nelle ipotesi di:
- omessa o infedele indicazione dei dati previsti dal modello per la comunicazione dei dati ai fini degli studi di settore;
- indicazione di cause di esclusione / inapplicabilità degli studi di settore non sussistenti.
La disposizione in commento opera a condizione che siano irrogabili le sanzioni di cui all’art. 1, comma 2-bis, D.Lgs. n. 471/97, applicabili nel caso in cui il maggior reddito d'impresa / lavoro autonomo, accertato a seguito della corretta applicazione degli studi di settore, sia superiore al 10% del reddito d'impresa o di lavoro autonomo dichiarato.
Per la modifica apportata dall’art. 23, co. 28 del Dlgs 89/2011 agli artt. 1, 5 e 32 del Dlgs 471/1997 la sanzione minima e massima prevista nelle ipotesi di rettifica delle dichiarazioni dei redditi, IVA ed IRAP viene aumenta dal 50% nelle ipotesi di omessa presentazione del modello per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore e sempre che il contribuente non provveda alla presentazione dello stesso con una dichiarazione integrativa, anche a seguito di specifico invito da parte dell’Agenzia delle entrate.
La maggiorazione della sanzione si applica sempreché l’adempimento sia dovuto.
In relazione al superamento del limite la norma prevede che la maggiorazione della sanzione non si applica se “il maggior reddito d’impresa ovvero di arte o professione”, “la maggiore imposta accertata o la minore imposta detraibile o rimborsabile” ai fini IVA, ovvero “il maggior imponibile accertato” ai fini IRAP, a seguito della corretta applicazione degli studi di settore, non è superiore al 10 per cento di quello dichiarato.
Redditi - art. 1, D.Lgs. n. 471/97 comma 2-bis1
“la misura della sanzione minima e massima di cui al comma 2 è elevata del 50 per cento nelle ipotesi di omessa presentazione del modello per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi di settore, laddove tale adempimento sia dovuto ed il contribuente non abbia provveduto alla presentazione del modello anche a seguito di specifico invito da parte dell'Agenzia delle Entrate. Si applica la disposizione di cui al secondo periodo del comma 2- bis”.
Iva - art. 5, D.Lgs. n. 471/97 comma 4-ter:
La misura della sanzione minima e massima di cui al comma 4 è elevata del 50 per cento nelle ipotesi di omessa presentazione del modello per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi di settore, laddove tale adempimento sia dovuto ed il contribuente non abbia provveduto alla presentazione del modello anche a seguito di specifico invito da parte dell'Agenzia delle Entrate. Si applica la disposizione di cui al secondo periodo del comma 4-bis."
Irap - art. 32, D.Lgs. n. 446/97comma 2-ter:
“La misura della sanzione minima e massima di cui al comma 2 è elevata del 50 per cento nelle ipotesi di omessa presentazione del modello per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi di settore, laddove tale adempimento sia dovuto ed il contribuente non abbia provveduto alla presentazione del modello anche a seguito di specifico invito da parte dell'Agenzia delle entrate. Si applica la disposizione di cui al secondo periodo del comma 2-bis.”.
Tale disposizione si applica con riguardo alle violazioni commesse a decorrere dal 6 luglio 2011 (data di entrata in vigore del decreto), in ragione di quanto previsto dall’articolo 3 del d.lgs. n. 472 del 1997. Pertanto, la sanzione più elevata potrà essere applicata con riferimento alle dichiarazioni presentate successivamente alla entrata in vigore di tale disposizione.
Quanto alla comunicazione dei dati degli studi di settore, l'omessa presentazione del modello o la presentazione con indicazioni inesatte comporta la sanzione da 258 a 2.065 euro (Cfr. comma 1 dell’articolo 8 del decreto legislativo n. 471 del 1997). Stessa penalità nel caso di omessa o errata compilazione dei nuovi modelli Ine (Indicatori di normalità economica) che costituiscono parte integrante dell’ Unico.
Al fine di contrastare comportamenti dichiarativi, in materia di studi di settore, non corretti la lett. b) del comma 28 dell’art. 23 del Dl 98/2011 modifica il Dlgs 471/1997 prevedendo che in caso di omessa presentazione del modello dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore e sempre che il contribuente non provveda alla presentazione dello stesso con una dichiarazione integrativa, anche a seguito di specifico invito da parte dell’Agenzia delle entrate formulato,
la sanzione prevista dal comma 1 dell’articolo 8 del decreto legislativo n. 471 del 1997 sia fissata al massimo importo consentito (pari a euro 2.065).
Art. 8 del Dlgs 471/1997
1. Fuori dei casi previsti negli articoli 1, 2 e 5, se la dichiarazione ai fini delle imposte dirette o dell'imposta sul valore aggiunto compresa quella periodica non e` redatta in conformità al modello approvato dal Ministro delle finanze ovvero in essa sono omessi o non sono indicati in maniera esatta e completa dati rilevanti per l'individuazione del contribuente e, se diverso da persona fisica, del suo rappresentante, nonché per la determinazione del tributo, oppure non è indicato in maniera esatta e completa ogni altro elemento prescritto per il compimento dei controlli, si applica la sanzione amministrativa da lire cinquecentomila a lire quattro milioni. Si applica la sanzione in misura massima nelle ipotesi di omessa presentazione del modello per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell'applicazione degli studi di settore, laddove tale adempimento sia dovuto ed il contribuente non abbia provveduto alla presentazione del modello anche a seguito di specifico invito da parte dell'Agenzia delle Entrate.
La disposizione si applica con riguardo alle violazioni commesse a decorrere dal 6 luglio 2011 (data di entrata in vigore del decreto), in ragione del principio espresso dall’articolo 3 del d.lgs. n. 472 del 1997. Pertanto, secondo la Cir. 41/E/2011, l’importo della sanzione sempre in misura massima dovrà essere applicato con riferimento alle dichiarazioni presentate successivamente alla entrata in vigore di tale disposizione.
L’inibizione degli accertamenti analitici induttivi per i contribuenti virtuosi
La legge 296 del 2006 inserisce il comma 4-bis all'articolo 10 della L. 146/1998. Stando la portata del testo normativo risulta che non possono essere effettuate accertamenti analitici induttivi (o meglio, rettifiche sulla base di presunzioni semplici di cui alla lett. d), comma 1, art. 39 del D.P.R. 600/1973 ai fini delle dirette e all’ultimo periodo, comma 2, art. 54 del D.P.R. 633/1972 ai fini Iva) nei confronti dei contribuenti congrui e coerenti qualora l'ammontare dei ricavi non dichiarati, con un massimo di cinquanta mila euro, sia pari o inferiore al 40 per cento dei ricavi o dei compensi dichiarati.
La congruità,
Il comma 35 del Dl 138/2011 ha modificato il contenuto dell’art. 10, comma 4-bis, Legge n. 146/98, prevedendo che per poter beneficare del c.d. “premio di congruità” è necessario soddisfare un’ulteriore nuova condizione consistente nella congruità anche per l’anno precedente a quello interessato.
Dopo la modifica, risulta che non possono essere effettuate accertamenti analitici induttivi (o meglio, rettifiche sulla base di presunzioni semplici di cui alla lett. d), comma 1, art. 39 del D.P.R. 600/1973 ai fini delle dirette e all’ultimo periodo, comma 2, art. 54 del D.P.R. 633/1972 ai fini Iva) nei confronti dei contribuenti
- congrui e coerenti nel periodo di accertamento e
- congrui nel periodo prima
qualora l'ammontare dei ricavi non dichiarati, con un massimo di cinquanta mila euro, sia pari o inferiore al 40 per cento dei ricavi o dei compensi dichiarati.
Il livello di congruità, per entrambi gli anni, è quello derivante dall’analisi di congruità e normalità economica, eventualmente al netto dei correttivi anticrisi riconosciuti. Non è invece richiesto il rispetto della coerenza agli indicatori economici.
Art. 10 Legge 146/1998
“ co. 4-bis Le rettifiche sulla base di presunzioni semplici di cui all'articolo 39, primo comma, lettera d), secondo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e all'articolo 54, secondo comma, ultimo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 non possono essere effettuate nei confronti dei contribuenti che dichiarino, anche per effetto dell'adeguamento, ricavi o compensi pari o superiori al livello della congruità, ai fini dell'applicazione degli studi di settore di cui all'articolo 62 bis del decreto legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427 tenuto altresì conto dei valori di coerenza risultanti dagli specifici indicatori, di cui all'articolo 10 bis, comma 2, della presente legge, qualora l'ammontare delle attività non dichiarate, con un massimo di 50.000 euro, sia pari o inferiore al 40 per cento dei ricavi o compensi dichiarati. Ai fini dell'applicazione della presente disposizione, per attività, ricavi o compensi si intendono quelli indicati al comma 4, lettera a). [In caso di rettifica, nella motivazione dell'atto devono essere evidenziate le ragioni che inducono l'ufficio a disattendere le risultanze degli studi di settore in quanto inadeguate a stimare correttamente il volume di ricavi o compensi potenzialmente ascrivibili al contribuente]. La presente disposizione si applica a condizione che non siano irrogabili le sanzioni di cui ai commi 2 bis e 4 bis rispettivamente degli articoli 1 e 5 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, nonché al comma 2 bis dell'articolo 32 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 e che i contribuenti interessati risultino congrui alle risultanze degli studi di settore, anche a seguito di adeguamento, in relazione al periodo di imposta precedente”.
Si tratta di una sorta di franchigia da accertamento induttivo per contribuenti virtuosi.
Nella sostanza si ha che:
- se il contribuente è il linea con gli studi di settore, il fisco non può esperire rettifiche di tipo analitico-induttivo, basate su presunzioni semplici, qualora la rettifica fosse di importo pari o inferiore al 40 per cento dei ricavi o dei compensi dichiarati dal contribuente stesso, con il limite massimo di 50 mila euro;
- in caso contrario (quindi quando i ricavi non dichiarati sono superiori alla franchigia), l’Ufficio può procedere alle rettifiche (sull’intero valore).
In quest’ultimo caso e fino a prima della modifica apportata dall’art. 23, comma 28 del Dl 98/2011 all’art. 10, co. 4bis della legge 148/1996 (che ha soppresso l’inciso “in caso di rettifica, nella motivazione dell'atto devono essere evidenziate le ragioni che inducono l'ufficio a disattendere le risultanze degli studi di settore in quanto inadeguate a stimare correttamente il volume di ricavi o compensi potenzialmente ascrivibili al contribuente”) la norma prevedeva che nella motivazione dell'atto, l’Ufficio doveva riportare le ragioni che inducevano a disattendere le risultanze degli studi in quanto inadeguate a stimare correttamente i ricavi potenzialmente ascrivibili al contribuente. Come dire che tra tutti gli strumenti per determinare induttivamente i ricavi, gli studi di settore erano quelli da considerarsi i più affidabili e quindi l’utilizzo di altri doveva trovare una giustificazione.
Da ultimo la norma prevede – e non poteva essere il contrario - che la franchigia non trova applicazione nei confronti del contribuente al quale vengono irrogate le nuove sanzioni relative a omessa o infedele indicazione dei dati relativi agli studi di settore (commi 2-bis e 4-bis rispettivamente degli articoli 1 e 5 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, nonché al comma 2-bis dell'art. 32 D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446).
La modifica hanno effetto a decorrere dal periodo d'imposta in corso alla data del 1 gennaio 2007.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
La nullità degli atti conseguenti a violazioni di regole procedurali e garanzie previste dallo Statuto e in genere da singole leggi di imposta (quale, per esempio, il mancato rispetto delle previste autorizzazioni per accedere dal contribuente per eseguire un controllo) sono oggetto di prese di posizione, talvolta anche divergenti, da parte della Suprema Corte, ancorché le Sezioni unite, alcuni anni fa, proprio per dirimere questo contrasto, si erano espresse per la nullità.
Nella circostanza (Sezioni unite, 21 novembre 2002 n. 16424) i giudici, circa l'inutilizzabilità dei documenti provenienti da attività illegittime, evidenziarono che «detta inutilizzabilità non abbisogna di una espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale secondo cui l'assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola; il compito del giudice di vagliare le prove offerte in causa è circoscritto a quelle di cui abbia preventivamente riscontrato la rituale assunzione; l'acquisizione di un documento con violazione di legge non può rifluire a vantaggio del detentore, che sia l'autore di tale violazione, o ne sia comunque direttamente o indirettamente responsabile».
Nonostante questa univoca presa di posizione, non mancano sentenze della Sezione tributaria della Cassazione che, invece, ritengono validi gli atti compiuti in violazione di queste garanzie. Si tratta in verità di un orientamento decisamente minoritario, rispetto a quello prevalente favorevole alla nullità, probabilmente dettato da ragioni di tipo sostanziale in situazioni in cui emergono macroscopiche evasioni di imposta che verrebbero vanificate dalla violazione di regole talvolta procedurali (in tal senso A. Iorio “No a verifiche immotivate” Il Sole 24 ore del 6 novembre 2010).
È significativo, in questo contesto, l'orientamento in base al quale il contribuente, ferma restando la validità degli atti, può perseguire nelle varie sedi giudiziarie (civile e penale) i singoli funzionari del fisco che avrebbero sbagliato (Cfr. Cass. n. 8344/2001); ciò, verosimilmente, nell'intento di salvare, da una parte, l'accertamento e, dall'altra, di non lasciare impunito l'errato comportamento dei verificatori.
In realtà occorre ricordare, innanzitutto, che compete al giudice tributario disapplicare tutti gli atti amministrativi illegittimi, costituenti presupposto per l'imposizione; quindi non solo quelli a contenuto generale o normativo, come disposto dall'articolo 7, comma 2 del Dlgs 546/1992 (Cfr. Cassazione, 5929/2007 e 21974/2009).
È evidente, poi, che il mancato rispetto dei diritti dei contribuenti e delle regole procedurali, che normalmente attengono garanzie costituzionali, non può non determinare un'insanabile violazione di norme, cui deve necessariamente derivare una totale inefficacia dell'attività illegittimamente svolta. Prova della fondatezza di ciò si desume dalla considerazione che l'ipotesi contraria verrebbe a creare un pericoloso vulnus nel sistema normativo, perché avremmo norme imperative del tutto inefficaci e quindi inutili, in contrasto con fondamentali principi di certezza del diritto e buon andamento della pubblica amministrazione, costituzionalmente protetti.
NON VALIDE E PRIVE DI EFFETTI
Cass. Sez. Trib. sent. 2 luglio 2001, n. 15230
Con la Sentenza 2 luglio 2001, n. 15230, la Sezione Tributaria della Suprema Corte ha statuito che il decreto del Procuratore della Repubblica, autorizzativo della perquisizione del domicilio del contribuente, è un atto che, inserendosi in un tipico procedimento amministrativo, partecipa direttamente della natura amministrativa del procedimento considerato, condizionandone la legittimità ed è , perciò , sindacabile dal giudice civile e da quello tributario, e deve essere motivato. Il richiamo all’esistenza di una o più fonti confidenziali anonime denuncianti l’esistenza di violazioni tributarie non integra, da solo, effettiva, sufficiente e congrua motivazione dell’autorizzazione, rendendola illegittima; conseguentemente, prosegue la sentenza, gli avvisi di accertamento e di rettifica motivati con riferimento a dati acquisiti dall’Amministrazione finanziaria a seguito di accessi nell’abitazione del contribuente non legittimamente autorizzati, sono invalidi ed privi di effetti.
RILEVA ESCLUSIVAMENTE L’ATTENDIBILITÀ DELLE PROVE E NON I MODI IN CUI SONO STATE ACQUISITE
Cass. Sent. 10 aprile 2001, n. 8344
Con la Sentenza 10 aprile 2001, n. 8344, la Corte di Cassazione ha affermato che, nel procedimento tributario, “salvi i casi espressamente previsti, rileva esclusivamente l’attendibilità delle prove e non i modi in cui sono state acquisite, talché , ove l’acquisizione non sia conforme alle regole all’uopo previste, tale irregolarità non determina l’inutilizzabilità delle prove stesse in quanto, per un verso, l’inutilizzabilità è categoria giuridica valida solo per il processo penale e, per l’altro, non è giusto che la negligenza di chi ha acquisito le prove ricada sull’Amministrazione finanziaria a fronte di una prova oggettivamente valida”;
GLI ORGANI DI CONTROLLO POSSONO UTILIZZARE TUTTI I DOCUMENTI DEI QUALI SIANO VENUTI IN POSSESSO
Cass. Sent. 31 ottobre 2002, n. 8273,
Con la Sentenza 31 ottobre 2002, n. 8273, la Corte di Cassazione ha statuito che, in materia tributaria, non vige il principio, presente invece nel codice di procedura penale, secondo cui è inutilizzabile la prova acquisita irritualmente, e pertanto gli organi di controllo possono utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso, salvo la verifica della attendibilità, in considerazione della natura e del contenuto dei documenti stessi e dei limiti di utilizzabilità derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico;
NON SI TIENE CONTO DELLE PROVE INDEBITAMENTE ACQUISITE
Cass. Sez. Trib. Sent. 25 febbraio 2003, n. 11283,
Con la Sentenza 25 febbraio 2003, n. 11283, la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, tornando sull’argomento, ha affermato che il giudice tributario ha il potere-dovere, oltre che di verificare la presenza nel decreto autorizzativo di una motivazione – sia pure concisa o per relationem mediante recepimento dei rilievi dell’organo richiedente – circa il concorso di gravi indizi del verificarsi dell’illecito fiscale, anche di controllare la correttezza – in diritto – del relativo apprezzamento, verificando che faccia riferimento ad elementi cui l’ordinamento attribuisce valenza indiziaria, negando la legittimità dell’autorizzazione emessa esclusivamente sulla scorta di informazioni anonime, valutando il fondamento della pretesa fiscale senza tenere conto di quelle prove.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
Le dichiarazioni rese dal soggetto nei cui confronti la verifica (e, dunque, l'accertamento susseguente) viene condotta vanno distinte da quelle rilasciate da soggetti terzi.
Le prime sono sempre utilizzabili. Ad esse può essere riconosciuto, se contengono l'ammissione di fatti favorevoli al Fisco, il valore di confessione stragiudiziale (- Comm. Trib. Centrale, sez. X, 15 giugno 1988, n. 4929; Cass., sez. I, 9 giugno 1990), sicché la loro attendibilità - sia in riferimento all'an, sia in riferimento al quantum - è rimessa all'apprezzamento discrezionale del giudice (art. 116 del Codice di procedura civile).
Ne consegue che tutti gli spunti investigativi in esse presenti e rintracciabili devono essere sviluppati ed approfonditi nel massimo grado possibile.
In altri termini, la mera dichiarazione di parte sfornita di obiettivi riscontri può non essere sufficiente a motivare la formulazione di un rilievo, per cui, in caso di dichiarazioni indizianti rese dal soggetto verificato, è sempre doveroso per il funzionario procedente verificarne la portata e la veridicità mediante l'espletamento di ulteriori accertamenti in grado di ancorare il tenore delle affermazioni di parte a elementi di fatto oggettivamente riscontrabili.
Quanto alle dichiarazioni dei terzi, la legge consente agli Uffici ed alla Guardia di Finanza impegnati in attività di accertamento o verifica nei confronti di esercenti arti o professioni di acquisire informazioni, dati, notizie e chiarimenti, non indistintamente da tutti i soggetti, bensì solo da taluni, qualificati in relazione alla sussistenza di particolari rapporti economici intercorsi con il soggetto ispezionato.
Inoltre, molto spesso la possibilità di acquisire notizie e precisazioni è circoscritta a casi in cui l'organo inquirente abbia necessità di ottenere puntualizzazioni in ordine a documentazione già acquisita dai medesimi soggetti cui vengono poi chieste ulteriori delucidazioni.
Se ne deve desumere che un potere generalizzato di acquisire informazioni da terzi non è normativamente previsto dall'ordinamento tributario, fatta eccezione per l'ipotesi in cui l'indagine tributaria sia diretta nei confronti di contribuenti diversi da soggetti passivi IVA (a mente del combinato disposto degli artt. 37, comma 1, e 38, comma 3, del Dpr n. 600/1973).
Ciò tuttavia, non vale a precludere in senso assoluto alla polizia tributaria la possibilità di raccogliere informazioni, dati e notizie da qualunque fonte.
Da un
canto, infatti, in caso di applicazione della procedura di accertamento induttivo, rimane indiscutibile il potere dell'Ufficio di rettificare la base imponibile e l'imposta sulla base dei dati e delle notizie "comunque raccolti"; dall'altro, se talune attività non acquisiscono autonoma rilevanza in sede di istruttoria ai fini dell'accertamento, possono nondimeno essere svolte, rientrando comunque tra quelle a carattere prettamente informativo, che ogni Corpo di polizia è abilitato a svolgere in via di principio generale.
La circolare n. 1 del 1998, specifica che “in caso di applicazione della procedura di accertamento induttivo rimane indiscutibile il potere dell’Ufficio di rettificare la base imponibile e l’imposta sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti; dall’altro, se talune attività non acquisiscono autonoma rilevanza in sede di istruttoria ai fini dell’accertamento, possono nondimeno essere svolte, rientrando comunque tra quelle a carattere prettamente informativo, che ogni Corpo di polizia è abilitato a svolgere in via di principio generale”.
È evidente che, sotto il profilo della valenza probatoria, dichiarazioni acquisite al di fuori degli specifici poteri attribuiti dalle leggi d'imposta agli Uffici finanziari e alla Guardia di Finanza non saranno in nessun caso autonomamente suscettibili di essere utilizzate al fine di motivare l'accertamento, a prescindere da quanto circostanziate e numerose esse siano.
Peraltro, anche dichiarazioni acquisite nell'esercizio di quei poteri abbisogneranno sempre di esser verificate attraverso approfondimenti investigativi capaci di identificare riscontri obiettivi alle affermazioni rese.
E ciò non già in virtù di espressa previsione di legge, bensì in considerazione della complessa sistematica normativa che delinea l'accertamento come un procedimento fondato essenzialmente e pressoché indefettibilmente (salvo il caso "limite" dell'accertamento induttivo puro) sull'analisi di risultanze documentali o, quanto meno fattuali, sempre, comunque, obiettivamente riscontrabili.
Da quanto sin qui riportato, è sempre legittima l'acquisizione in sede di verifica delle dichiarazioni della parte e di terzi.
Varia, invece, da caso a caso la valenza probatoria che, ai fini dell'accertamento, è possibile riconoscere a dette dichiarazioni autonomamente considerate.
Quanto minore è il pregio che per legge è riconosciuto alle dichiarazioni verbali rese da chicchessia, tanto maggiore dovrà essere lo sforzo prodotto dagli investigatori per corroborare il principio di prova dei fatti che da esse è possibile desumere.
Così in caso di accertamento analitico-induttivo.
La Sentenza n. 118/1998 della Commissione regionale della Lombardia, afferma che “nel contesto del processo tributario, in cui è negata qualsiasi rilevanza alla prova testimoniale, le dichiarazioni rese dalle persone fisiche non possono in alcun modo entrare nella valutazione delle Commissioni; così non è possibile prendere in considerazioni le espressioni verbali raccolte dalla polizia tributaria sia a carico sia a discolpa di chicchessia”. A dire il vero va però anche ricordata la Sentenza n. 453/1997 della Commissione tributaria provinciale di Brindisi secondo la quale la leggittima una rettifica di tipo analitico fondata esclusivamente su di una dichiarazione resa da un terzo in un processo verbale di constatazione, a condizione che la dichiarazione sia sufficientemente univoca e precisa.
Anche la Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità dell’art. 7, D.Lgs. 546/1992, in cui si prescrive il divieto della prova testimoniale nel processo tributario, con Sentenza n. 18/2000, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 26 gennaio 2000, n. 21, ha asserito che “non sono fondate, con riferimento agli artt. 3, 24 e 53 Cost., le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della l. 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui esclude l’ammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario. (...) Ne consegue che il divieto della prova testimoniale nel processo tributario trova giustificazione, sia nella spiccata specificità dello stesso rispetto a quello civile ed amministrativo, correlata alla configurazione dell’organo decidente e al rapporto sostanziale oggetto del giudizio; sia nella circostanza che esso è ancora, specie sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale; sia, infine, nella stessa natura della pretesa fatta valere dall’Amministrazione finanziaria attraverso un procedimento di accertamento dell’obbligo del contribuente che mal si concilia con la prova testimoniale”. Continua però la Corte Costituzionale: “il valore probatorio delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione finanziaria nella fase dell’accertamento è, infatti, solamente quello proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione. Si tratta, dunque, di un’efficacia ben diversa da quella che deve riconoscersi alla prova testimoniale e tale rilievo è sufficiente ad escludere che l’ammissione di un mezzo di prova (le dichiarazioni di terzi) e l’esclusione dell’altro (la prova testimoniale) possa comportare la violazione del principio di parità delle armi”.
In merito, il divieto di prova testimoniale previsto dall'art. 7, comma 4, del D.Lgs. 31.12.1992, n. 546 inibisce l'ingresso a giudizio di testimonianze dirette avanti al giudice nelle particolari forme previste dal codice di procedura civile, senza pregiudicare l'assunzione delle risultanze di verbali nei quali siano trasfuse dichiarazioni che, dovendo comunque trovare conferma in elementi obiettivi di riscontro, si offrono sempre e necessariamente alle più ampie smentite e confutazioni, a partire da quelle che consentono l'istituzione e la tenuta della contabilità in conformità alle prescrizioni di legge.
La Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità dell’art. 7, D.Lgs. 546/1992, con Sentenza n. 18/2000, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 26 gennaio 2000, n. 21, ha asserito che “non sono fondate, con riferimento agli artt. 3, 24 e 53 Cost., le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della l. 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui esclude l’ammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario. (...) Ne consegue che il divieto della prova testimoniale nel processo tributario trova giustificazione, sia nella spiccata specificità dello stesso rispetto a quello civile ed amministrativo, correlata alla configurazione dell’organo decidente e al rapporto sostanziale oggetto del giudizio; sia nella circostanza che esso è ancora, specie sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale; sia, infine, nella stessa natura della pretesa fatta valere dall’Amministrazione finanziaria attraverso un procedimento di accertamento dell’obbligo del contribuente che mal si concilia con la prova testimoniale”. Continua però la Corte Costituzionale: “il valore probatorio delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione finanziaria nella fase dell’accertamento è, infatti, solamente quello proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione. Si tratta, dunque, di un’efficacia ben diversa da quella che deve riconoscersi alla prova testimoniale e tale rilievo è sufficiente ad escludere che l’ammissione di un mezzo di prova (le dichiarazioni di terzi) e l’esclusione dell’altro (la prova testimoniale) possa comportare la violazione del principio di parità delle armi”.
Le dichiarazioni indizianti rilasciate dai terzi, quindi, possono essere utilizzate dall’Amministrazione finanziaria come indizi, e quindi lasciati poi alla libera valutazione del giudice tributario. In tal senso, risulta molto chiara anche la Sentenza n. 4269/2002 della Cassazione, Sezione tributaria civile, in cui viene nuovamente affermato quanto già asserito dalla Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 18/2000, ovvero che “le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’Amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente, in un processo tributario, e che il valore probatorio di tali dichiarazioni è solamente quello proprio degli elementi indiziari (...)». La sentenza in questione continua: «ebbene, per dare concreta attuazione ai principi del giusto processo, per come riformulati nel nuovo articolo 111 della Costituzione, lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale deve essere necessariamente riconosciuto anche al contribuente per garantire la parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa. Chiaramente, anche per il contribuente, tali dichiarazioni non potranno avere valore di prova, ma dovranno avere il valore di elementi indiziari, che necessitano di essere valutati assieme ad altri elementi, non potendo da soli costituire il fondamento della decisione”.
In definitiva, poiché la verifica fiscale svolta in via ordinaria può indirizzarsi tanto nei confronti di soggetti esercenti arti e professioni, quanto nei confronti di persone fisiche non soggetti passivi Iva, nonché sfociare in un accertamento analitico o in un accertamento induttivo (o, per le persone fisiche, sintetico), la valenza probatoria di eventuali dichiarazioni verbali acquisite è necessariamente rimessa alla intelligente valutazione del direttore dell'attività ispettiva e dei componenti la pattuglia i quali, in relazione al quadro giuridico di riferimento, dovranno percepire a quali possibili utilizzi potrà essere destinato il lavoro investigativo da essi svolto, una volta che le relative risultanze siano pervenute all'ufficio investito della competenza all'accertamento.
Sotto il profilo più strettamente operativo, al di fuori delle dichiarazioni rese, a domanda o spontaneamente, dal soggetto verificato o da suoi dipendenti e collaboratori nel corso delle quotidiane operazioni di verifica (le quali verranno trascritte, come già si è detto, nel p.v. di verifica), potrà rendersi necessario acquisire dichiarazioni anche da parte di terzi, all'uopo avvalendosi delle disposizioni recate dagli artt. 51 del Dpr 633/1972 e 32 del Dpr 600/1973.
La valutazione circa l'opportunità o la necessità di procedere in tale senso è rimessa, eventualmente su suggerimento del capo pattuglia, al direttore della verifica il quale, ove necessario, provvederà ad interessare il Comandante del Reparto perché disponga l'esecuzione del servizio.
Gli esiti della valutazione devono essere riportati e motivati nel piano di verifica.
Tutte le informazioni acquisite in tal modo dovranno formare oggetto di separata verbalizzazione, tanto nel caso in cui si proceda mediante l'esecuzione di controlli incrociati con accesso presso la sede dell'attività economica di cui è titolare il soggetto dal quale si intendono assumere le dichiarazioni, quanto nel caso in cui questi sia convocato presso gli uffici del Comando.
Le risultanze di tali operazioni dovranno poi essere trasfuse anche nel p.v. di verifica che darà pertanto compiuta menzione delle operazioni condotte e dei dati, delle notizie e delle informazioni acquisiti presso terzi, nonché di eventuali osservazioni in merito della parte che di dette operazioni e dei suoi esiti verrà portata a conoscenza.
Dichiarazioni indizianti rilasciate dal verificato
Se contengono affermazioni favorevoli al Fisco, può essere riconosciuto il valore di confessione stragiudiziale. In tale caso la loro attendibilità, sull’an e sul quantum, è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice.
Dichiarazioni indizianti rilasciate da terzi
Con riferimento all’accertamento induttivo (puro), la giurisprudenza sostiene la validità delle dichiarazioni (indizianti) raccolte da terzi.
Negli altri casi fungono da indizi e possono, quindi, concorrere a formare il convincimento del giudice ma non sono idonee a costituire, da sole, il fondamento della decisione. Lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in deve essere necessariamente riconosciuto anche al contribuente per garantire la parità delle armi processuali, fermo restando che le stesse dichiarazioni avranno valenza quali indizi.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
Introduzione
L'art. 84 del Tuir offre un’organica disciplina tributaria della perdita, intesa come risultato fiscale del periodo di imposta, disponendone un favorevole utilizzo in diminuzione dal reddito complessivo dei periodi di imposta successivi (ma non oltre il quinto), con un effetto pratico equiparabile a quello di ogni altro costo deducibile.
Considerata, da un lato, l'importanza che ha per le imprese la possibilità di riportare le perdite fiscali, e, dall'altro lato, l'interesse dell'Amministrazione finanziaria ad impedire utilizzi distorti di questo beneficio, si è reso opportuno prevedere due fattispecie integrative della disposizione originaria, l'una a favore dei contribuenti, l'altra posta a tutela dell'interesse erariale: è così che sono stati introdotti nell'art. 84 i commi 2 (1-bis, nella precedente versione del Tuir, di favore per i soggetti neocostituiti) e 3 (1-ter nella vecchia versione del Tuir, di ostacolo alla diffusa pratica del c.d. "commercio di bare fiscali").
In questo modo:
- nel comma 1 sono definite le modalità applicative generali del riporto delle perdite,
- nel comma 2 è fornita la disciplina particolare per le perdite subite nei primi tre periodi di imposta di vita delle imprese e
- nel comma 3 è prevista l'esclusione del riporto delle perdite al verificarsi di determinate condizioni.
La norma in commento è applicabile alle società ed enti di cui all’art. 73 del Tuir; per ciò che concerne le società di persone e le imprese individuali, la disciplina è contenuta nell’art. 8 del Tuir.
Si tratta, in particolare, di:
- società per azioni e in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, società cooperative e società di mutua assicurazione, nonché società europee di cui al regolamento (CE) n. 2157/2001 e società cooperative europee di cui alregolamento (CE) n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato;
- enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali;
- società ed enti di ogni tipo, compresi i trust, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato.
La tipologia di perdita di cui si occupa è quella fiscale: infatti il primo periodo del comma 1 , da leggersi come conferma di quanto stabilito dell'art. 83, precisa che la perdita è determinata con le stesse regole previste per la determinazione del reddito; d'altra parte anche lo stesso art. 83 prevede sia l'ipotesi che dal conto economico risulti un utile sia che il risultato sia una perdita, disponendo nell'uno e nell'altro caso l'applicabilità "dei criteri stabiliti nelle successive disposizioni del presente testo unico".
Le due norme, in pratica, affermano lo stesso principio sebbene da angolature differenti.
Punto di partenza logico dell'art. 83 è il risultato civilistico, utile o perdita che sia, cui l'art. rende applicabile, in entrambi i casi, le medesime variazioni fiscali; l'art. 84, invece, prende le mosse da un risultato fiscale (la perdita) ribadendo che per essa le regole fiscali applicabili sono le medesime utilizzate per determinare il reddito (termine sempre inteso nella sua accezione fiscale).
Nella sostanza nell' art. 83 del Tuir viene stabilito che le variazioni imposte dal Tuir si applicano sia in caso di risultato civilistico ante imposte positivo, sia in caso di risultato negativo, e che le modalità applicative sono uguali in tutti e due i casi, nulla stabilendo invece circa il possibile segno del risultato fiscale ottenuto a seguito dell'applicazione delle variazioni: questo può essere positivo oppure negativo dando quindi origine, rispettivamente, a un reddito complessivo netto e a una perdita fiscale. Il reddito complessivo netto viene tassato (art. 77 del Tuir) mentre la perdita è regolamentata dall'art. 84. L 'art. 84 è quindi da intendersi confermativo di quanto già statuito nell'art. 83.
Non è affatto scontato che da un utile di conto economico derivi un imponibile fiscale e che da una perdita di conto economico discenda una perdita fiscale, in quanto, per effetto delle variazioni imposte dal Tuir, le due tipologie di risultati (civilistico e fiscale) seguono regole di determinazione differenti, talchè ben possono ipotizzarsi anche le ipotesi in cui una perdita civilistica si tramuti in un imponibile fiscale o, caso sicuramente più raro, un utile civilistico generi una perdita fiscale. Questa differenza rende inoltre completamente slegato il riporto fiscale delle perdite da un eventuale dipanamento delle perdite operato ai fini civilistici (Cfr. Ris. n. 9/959 del 1978).
Requisito fondamentale per l'utilizzo delle perdite fiscali nei periodi di imposta successivi a quello di realizzazione delle stesse è che nei periodi di imposta esistano redditi complessivi con cui effettuare il computo in diminuzione, ottenendo l'annullamento (o la riduzione) dei redditi imponibili.
A questo fine, nei modelli di dichiarazione dei redditi, viene richiesto di esplicitare il dettaglio delle perdite riportabili, affinchè sia agevole per l'Amministrazione ricostruire il percorso di generazione ed utilizzo delle stesse.
In ogni caso perdite non riportate in dichiarazione non fanno decadere il diritto al successivo utilizzo entro il termine quinquennale (Cfr. Ris. n.10/1429 del 15 novembre 1976).
Dalla lettura del primo periodo del comma 1 appare chiaro come l'utilizzo della perdita fiscale a diminuzione del reddito complessivo sia una facoltà, e non un obbligo, a disposizione del contribuente (viene infatti utilizzato il termine “può”); la scelta è desumibile dal comportamento adottato dal contribuente nella prima dichiarazione dei redditi successiva al conseguimento della perdita, da cui risulta un reddito complessivo su cui effettuare il computo in diminuzione.
Le modalità applicative di utilizzo della perdita sono vincolate nei tempi e nell'ammontare: infatti la computazione in diminuzione dei redditi prodotti deve avvenire ogni anno per l'intero importo della perdita che trova capienza nel reddito complessivo (nel rispetto, dal 2011, dei limiti quantitativi di cui si dirà subito dopo), salvo il caso, più sotto trattato, di presenza di crediti di imposta, ritenute di acconto, eccedenze di imposta, ecc.
Nel caso in cui la perdita riportata sia di ammontare inferiore rispetto al reddito complessivo dell'anno, deve essere eseguita una compensazione completa con la conseguente riduzione del reddito complessivo, fino al massimo all'azzeramento; nell'ipotesi contraria, in cui la perdita riportata sia superiore al reddito complessivo dell'anno, la compensazione deve avvenire fino a concorrenza di quest'ultimo importo, e la perdita residua ancora disponibile può essere riportata al periodo di imposta successivo, nel quale si ripeterà il procedimento appena descritto. Il tenore della disposizione impedisce quindi qualsiasi arbitraggio fiscale in merito ai tempi di utilizzo delle perdite: la perdita realizzata, pertanto, o viene utilizzata nel primo periodo successivo in cui si manifesta un reddito imponibile, oppure non può più essere riportata in avanti. Tale aspetto, dopo le modifiche apportate al Dl 98/2011 risulta chiaro: infatti viene detto che la perdita deve essere utilizzata per “l'intero importo che trova capienza” nel reddito rispetto al quale la perdita può essere poratta in diminuzione (vedi art. 84, co.1 ultimo periodo e art. 84, co.2 del Tuir).
Nella versione della norma valevole fino al 2010 (periodo d’imposta antecedente a quello in corso al 6 luglio 2011), il riporto delle perdite era possibile al massimo fino al quinto periodo di imposta successivo a quello di sostenimento delle stesse; nel caso in cui allo scadere del periodo le perdite risultassero non ancora utilizzate, totalmente o parzialmente, l'ammontare non compensato risultava perso e non più utilizzabile.
Il comma 2 dell’art. 84 del Tuir riconosceva una disciplina di favore per le perdite conseguite nei primi tre periodi di imposta a partire da quello di costituzione della società (le cd. perdite di sturt up), stabilendone la riportabilità a tempo indeterminato.
Norma prima della modifiche apportate dal Dl 98/2011 a valere dal periodo d’imposta in corsa al 6 luglio 2011
1. La perdita di un periodo d'imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del reddito, può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d'imposta successivi, ma non oltre il quinto, per l'intero importo che trova capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi. (…)
2. Le perdite realizzate nei primi tre periodi d'imposta dalla data di costituzione possono, con le modalità previste al comma 1, essere computate in diminuzione del reddito complessivo dei periodi d'imposta successivi senza alcun limite di tempo a condizione che si riferiscano ad una nuova attività produttiva. (…)
L’articolo 23, comma 9, del decreto legge n. 98 del 2011, recante “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria” [c.d. Manovra correttiva 2011], convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, ha introdotto alcune modifiche al regime fiscale delle perdite d’impresa in ambito IRES.
Le novità riguardano, in particolare, i commi 1 e 2 dell’articolo 84 del TUIR, che disciplinano rispettivamente le modalità di riporto a nuovo delle perdite:
- di periodo;
- dei primi tre periodi d’imposta dalla data di costituzione,
e prevedono, per le prime, il riporto illimitato ma con il limite di utilizzo dell’80% del reddito imponibile e , per le seconde, un riporto illimitato e senza limite di utizzo (come peraltro, era prima della modifica).
Sul punto è intervenuta l’Ag. Delle entrate con la Cir. 53/E/2011.
L’articolo 23, comma 6, del Dl 78/2011 statuisce che: “In deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, le disposizioni del presente articolo si applicano a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto”.
Le nuove regole in materia di riporto delle perdite esplicano efficacia pertanto a partire dal periodo d’imposta in corso al 6 luglio 2011, data di entrata in vigore del decreto legge in esame. Per i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare, le medesime regole si rendono applicabili già in sede di determinazione del reddito imponibile relativo al 2011.
La disposizione contenuta nel comma 9 del citato articolo 23, che detta la nuova disciplina di utilizzo delle perdite - basata sul riporto temporalmente illimitato e sull’utilizzo in misura non superiore all’ottanta per cento del reddito di periodo - è applicabile anche alle perdite maturate nei periodi d’imposta anteriori a quello di entrata in vigore delle disposizioni in commento. Trattasi, per i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare, delle perdite risultanti alla fine del periodo d’imposta 2010.
Tale soluzione risponde a ragioni di ordine logico-sistematico e appare coerente con le finalità dell’intervento normativo finalizzato a semplificare il sistema evitando la gestione di un doppio binario in relazione alle perdite maturate in vigenza dell’articolo 84 ante e post modifica.
Si segnala, da ultimo, che formano oggetto della nuova disciplina di cui all’articolo 84 del TUIR esclusivamente le perdite risultanti dalla dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni in commento. Trattasi, per i soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare, delle perdite realizzate negli esercizi 2006-2007- 2008-2009-2010. Risultano, pertanto, escluse le perdite relative al period0 d’imposta 2005, non più riportabili per decorso del limite temporale quinquennale previsto dalla previgente disciplina.
La modifica normativa apportata dal Dl 78/2011 riguarda esclusivamente la disciplina relativa al riporto delle perdite d’impresa contenuta nell’articolo 84 del TUIR. Non risultano conseguentemente interessati dalle modifiche in commento i soggetti IRPEF in regime di contabilità ordinaria, per i quali continua ad applicarsi il limite del riporto quinquennale ai sensi del comma 3 del citato articolo 8 del TUIR.
Inoltre, per effetto del rinvio operato dall’articolo 143, comma 2, del TUIR alle disposizioni dell’articolo 8 del medesimo testo unico, restano esclusi dalle nuove regole previste in materia del riporto in avanti delle perdite gli enti non commerciali che esercitano attività d’impresa, di cui alla lettera c) del menzionato articolo 73.
In merito alle perde di periodo la norma introduce “a sistema” un nuovo regime di riporto delle perdite fiscali, prevedendo in ciascun periodo un limite al relativo impiego in misura non superiore all’ottanta per cento del reddito imponibile.
Tale previsione risponde alla duplice esigenza di escludere, da un lato, un limite temporale alla riportabilità delle perdite, e di introdurre, dall’altro, un limite quantitativo “di periodo” all’utilizzo delle stesse.
La relazione illustrativa al decreto legge in esame precisa, tra l’altro, chela norma risponde ad esigenze di semplificazione, in quanto:
- evita che le imprese pongano in essere operazioni straordinarie finalizzate al refreshing delle perdite che giungono a scadenza; operazioni che, nella sostanza, vanificano la previgente previsione relativa alla limitazione temporale al riporto;
- limita complesse valutazioni in ordine alla recuperabilità delle perdite ai fini dello stanziamento delle imposte differite in sede di predisposizione del bilancio di esercizio;
- garantisce un effetto di stabilizzazione sul gettito, attesa la tassazione in misura percentuale del reddito prodotto anche in presenza di perdite riportate a nuovo.
La limitazione quantitativa, tuttavia, non fa venire meno la possibilità di utilizzo integrale delle perdite, in quanto la finalità dell’intervento è solo quella di “modulare” l’ammontare complessivo delle perdite compensabili in ciascun periodo d’imposta.
In merito alle perdite dei primi tre periodi d’imposta il comma 2 dell’articolo 84 del TUIR prevede che queste, “possono, con le modalità previste al comma 1, essere computate in diminuzione del reddito complessivo dei periodi d’imposta successivi entro il limite del reddito imponibile di ciascuno di essi e per l’intero importo che trova capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi a condizione che si riferiscano ad una nuova attività produttiva”.
Nel riconfermare per tali soggetti il sistema di riporto in misura piena delle perdite generate nei primi tre esercizi, a condizione che si riferiscano ad una nuova attività produttiva, è stata espunta la precisazione “senza alcun limite di tempo” contenuta nella previgente formulazione della norma, non più significativa atteso il venir meno del limite temporale all’utilizzo delle perdite nell’ambito del nuovo regime ordinario basato sul riporto illimitato delle stesse.
Il limite di utilizzo delle perdite previsto dalla disciplina in esame non si applica dunque alle perdite generate “nei primi tre periodi d’imposta dalla data di costituzione”, le quali sono utilizzabili senza alcun limite temporale e quantitativo.
In altri termini, il rinvio alle “modalità previste al comma 1” dell’articolo 84 non attiene alla misura delle perdite utilizzabili, le quali, se maturate nei primi tre periodi d’imposta, sono utilizzabili per l’intero importo.
La natura agevolativa della norma porta a ritenere che in caso di coesistenza tra perdite relative al primo triennio e perdite con ordinario termine di scadenza il contribuente possa decidere di computare in diminuzione dal reddito complessivo le prime con precedenza sulle prime (l’esatto opposto ripsetto a quello che succedeva prima della modifica). Uguale libertà di scelta è lasciata al contribuente allorché sia necessario, nelle operazioni di fusione o scissione, identificare che tipo di perdite passare alla nuova entità costituita, ovviamente nel caso in cui partecipino all'operazione società con perdite computabili a tempo indeterminato.
L’art. 36, commi da 12 a 14, del decreto modifica l’art. 84, comma 2) del Tuir – scritto prima della modifica apportata dal Dl 98/2011 ma valevole, data la somiglianza letterale della norma, anche dopo, in tema di riporto illimitato delle perdite stabilisce che:
- i primi tre periodi d’imposta, in relazione ai quali è consentito il riporto devono decorrere “dalla data di costituzione” della società;
- le perdite “si riferiscano ad una nuova attività produttiva”.
In merito è intervenuta l’Agenzia delle entrate con le Circ. 28/E del 2006 e 1/E del 2007.
MANOVRA FISCALE BIS 2006
Argomento e articolo
Perdite illimitatamente riportabili (art. 36, commi 12 – 14, Dl n. 223/2006, conv. con modif. con Legge n. 248/2006)
Novità
Dal periodo d’imposta in corso al 4 luglio 2006, per i soggetti Ires l’insorgenza nei primi tre esercizi di perdite illimitatamente riportabili può avere luogo esclusivamente dalla data di costituzione della società e a condizione che si riferiscano ad una nuova attività produttiva.
Riferimento
Circ. 28/E del 2006.
DECRETO COLLEGATO alla FINANZIARIA 2007
Argomento e articolo
Perdite illimitatamente riportabili – Modifica decorrenza (art. 2, comma 22, Dl n. 262/2006, conv. con modif. con Legge n. 286/2006)
Novità
La disposizione contenuta nell’all’art. 36, comma 12, Dl n. 223/2006, conv. con modif. con Legge n. 248/2006 sul riporto illimitato delle perdite relative ai primi tre periodi d’imposta in caso di nuovi soggetti e nuove attività, si applica a partire dalle perdite maturate dal periodo d’imposta in corso al 4 luglio 2006. Invece, per le perdite relative ai primi tre periodi d’imposta formatisi in periodi anteriori alla predetta data resta ferma l’applicazione della norma antielusiva di cui all’art. 37-bis, Dpr n. 600/1973.
Riferimento
Circ. 1/E del 2007.
Nell’attuale formulazione, il comma 2 dell’art. 84 consente, quindi, il riporto illimitato qualora le perdite:
a) siano prodotte da una nuova società nei primi tre periodi d’imposta dalla data della costituzione;
b) si riferiscano ad un’attività produttiva effettivamente “nuova”.
La modifica in commento ha introdotto un requisito “oggettivo”, quello della nuova iniziativa produttiva, in aggiunta a quello “soggettivo”, riferito alla società neo-costituita, al fine di agevolare l’effettivo avvio di una nuova attività imprenditoriale, piuttosto che la continuazione di una “vecchia” attività in capo ad un “nuovo” soggetto. Si ha quindi che se la società è sorta a seguito di una operazione con caratteristiche successorie (fusione o scissione) il periodo triennale va verificato considerando anche l’anzianità del dante causa; se invece l’attività è nuova a tutti gli effetti occorre porre attenzione a eventuali trasferimenti d’azienda realizzati mediante conferimento, cessione o affitto.
Il previgente comma 2 dell’art. 84 del Tuir, invece, riconosceva il diritto al riporto illimitato nel tempo delle perdite generate nei primi tre periodi d’imposta, prescindendo dalla novità dell’iniziativa produttiva.
La norma si applica a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data di entrate in vigore del decreto (4 luglio 2006).
Il comma 13 dell’art. 36 del Dl n. 223 del 2006, con norma di carattere transitorio, disponeva che i requisiti prima richiamati sub a) e b) devono essere verificati anche con riferimento alle perdite illimitatamente riportabili (secondo la previgente disciplina) relativi a periodi d’imposta precedenti che non siano state ancora utilizzate alla data di entrata in vigore del decreto. L’articolo 2, comma 22, del Dl 262 del 2006 ha sostituito il comma 13 dell’articolo 36 del d.l. n. 223, del 2006, intervenendo sulla decorrenza, per il pregresso, delle modiche apportate al citato articolo 84, comma 2, del Tuir. In base a quanto disposto dal secondo periodo del comma 13, per le perdite relative ai primi tre periodi di imposta formatesi in periodi anteriori alla data di entrata in vigore del Dl 223 del 2006, le disposizioni del comma 12 dell’art. 36 non sono applicabili, ma resta fermo il potere dell’Amministrazione finanziaria di disconoscere, ai sensi e per gli effetti del citato articolo 37-bis, la qualifica di “perdite illimitatamente riportabili” in assenza dei requisiti “oggettivi” e “soggettivi” richiesti dalla norma. Tale aspetto sucita perplessità considerato che il riporto illimitato delle perdite era stato previsto “per favorire nuove iniziative per le quali le perdite dei primi tre anni è un evento fisiologico” (Cfr. Relazione al D.Lgs. 358 del 1997).
Non era e non è invece prevista la possibilità di computare in diminuzione le perdite di un periodo di imposta con i redditi complessivi conseguiti in periodi di imposta precedenti ("carry back").
Di difficile comprensione ad una prima lettura della norma è la prescrizione del terzo periodo del comma 1 , a causa del fatto che il successivo inserimento del secondo periodo ne stravolge i riferimenti logico lessicali. In essa è contenuta una attenuazione, a cui si è accennato poco sopra, al vincolo di compensazione totale della perdita: è previsto che, pur in presenza di reddito complessivo superiore alla perdita compensabile, è possibile diminuire il reddito in misura inferiore rispetto all'ammontare di perdita riportabile, purchè l'imposta corrispondente al reddito imponibile residuo risulti compensata da altri crediti d'imposta, ritenute alla fonte a titolo di acconto, versamenti in acconto e eccedenze di imposta.
In sostanza, l’imposta corrispondente al reddito prodotto in un anno può venire azzerata utilizzando due metodi alternativi:
- una parte dell’imposta può essere azzerata abbattendo parte del reddito prodotto con una perdita realizzata in periodi precedenti e portata a nuovo;
- una altra parte può essere azzerata mediante l’utilizzo di crediti d’imposta, ritenute d’acconto, ecc…, risultanti dalla dichiarazione medesima o risultanti da dichiarazioni relative ad anni precedenti, non chiesti a rimborso ma riportati a nuovo.
È evidente la volontà del legislatore tributario di preferire che i contribuenti compensino immediatamente i propri crediti, ritenute subite, acconti, ecc. È però il caso di segnalare che i crediti non hanno il vincolo dell'utilizzo quinquennale, che invece è proprio delle perdite; si rende necessaria quindi un'indagine tesa a stabilire se la parte di perdita non utilizzata a diminuzione del reddito complessivo per la presenza di suddetti elementi, sia ancora utilizzabile nel periodo di imposta successivo, prevedendo anche la presenza di un reddito complessivo con cui effettuare la compensazione. Tale procedura è comunque facoltativa (viene infatti utilizzato il termine “potrà”), e pertanto il contribuente è libero di utilizzare le perdite fino ad esaurimento delle stesse, e solo dopo utilizzare i crediti d’imposta.
Il Ministero nella Circ. n. 188/E del 16 luglio 1998, ha chiarito che le perdite di periodi precedenti possano essere utilizzate anche per compensare redditi che siano emersi in sede di rettifica di una dichiarazione per effetto dell’attività di accertamento degli organi fiscali, e questo anche se dette perdite non sono evidenziate nella dichiarazione.
Il riporto nel caso di regimi agevolati
La Legge Finanziaria del 2007 (cfr. L. 296 del 2006, comma 73) ha introdotto due specifici limiti all’importo della perdita riportabile da parte di società che usufruiscono di regimi agevolati sull’utile o sul reddito.
Queste novità, che si applicano dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2006 (e quindi interessano, per la prima volta, il prossimo mod. Unico 2008), riguardano:
1) contribuenti che fruiscono di regimi di esenzione del reddito, le cui perdite riportabili sono ridotte di una quota corrispondente a quella di esenzione. Viene detto che “per i soggetti che fruiscono di un regime di esenzione totale o parziale del reddito la perdita riportabile è diminuita in misura proporzionalmente corrispondente alla quota di esenzione applicabile in presenza di un reddito imponibile. Per i soggetti che fruiscono di un regime di esenzione dell'utile la perdita è riportabile per l'ammontare che eccede l'utile che non ha concorso alla formazione del reddito negli esercizi precedenti”. La modifica normativa è finalizzata - come si legge nella relazione illustrativa - a consentire di creare una simmetria tra imponibilità del risultato positivo (utile) e deducibilità del risultato negativo (perdita). Infatti, prima della modifica prevedeva che la perdita fiscale riportabile a nuovo sia ridotta dell'importo dei “proventi esenti” (con esclusione delle plusvalenze da realizzo di partecipazioni con regime di esenzione). Tutto ciò al fine di ricondurre il diritto al riporto nei limiti della perdita che si sarebbe generata se non ci fosse stato il provento esente. In via interpretativa, l'amministrazione finanziaria (Cfr. Circ. n. 37/E del 2003 e Ris. n. 108/E del 2003) ha ritenuto inapplicabile questa regola limitativa in presenza di agevolazioni o riduzioni d'imponibile che attengono a “redditi netti”.
2) contribuenti che fruiscono di regimi di esenzione dell’utile, le cui perdite sono riportabili solo per l’ammontare che eccede l’utile detassato; Viene detto che “Per i soggetti che fruiscono di un regime di esenzione dell'utile la perdita è riportabile per l'ammontare che eccede l'utile che non ha concorso alla formazione del reddito negli esercizi precedenti”.
FINANZIARIA 2007
Argomento e articolo
Riporto delle perdite (art. 1, commi 72 e 73, Legge n. n. 296 del 2006)
Novità
Per i soggetti che fruiscono di un regime di esenzione totale o parziale del reddito la perdita riportabile è diminuita in misura proporzionalmente corrispondente alla quota di esenzione applicabile in presenza di un reddito imponibile.
Per i soggetti che fruiscono di un regime di esenzione dell’utile la perdita è riportabile per l’ammontare che eccede l’utile che non ha concorso alla formazione del reddito negli esercizi precedenti.
Tali novità si applicano ai redditi prodotti e utili realizzati a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2006.
In questo modo il regime delle perdite vieniva modificato relativamente a due fattispecie.
Con il primo intervento si riduce il riporto a nuovo delle perdite per i soggetti che fruiscono di regimi di esenzione del reddito (integrale o parziale) in misura pari all'esenzione concessa. In sostanza, l'obiettivo è di considerare riportabili le perdite nella stessa misura in cui è tassato il reddito. È il caso, ad esempio, delle imprese armatoriali con navi iscritte nel registro internazionale che beneficiano di un'esenzione pari all'80% del reddito dichiarato, ove non optino per il regime della tonnage tax (si veda esempio a fianco).
La novità si applica ai redditi prodotti a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2006.
Il secondo intervento trova applicazione nei confronti delle società cooperative che beneficiano di esenzione parziale per una quota dell'utile civilistico destinata a riserva indivisibile. Queste società, infatti, hanno diversi trattamenti tributari in funzione della presenza o meno del requisito della mutualità prevalente ovvero in ragione del settore di appartenenza (cooperative agricole, di consumo, della piccola pesca, sociali, eccetera). Al riguardo, la circolare dell'agenzia delle Entrate n. 34/E del 2005 ha fornito gli opportuni chiarimenti sul trattamento fiscale delle società cooperative a seguito delle novità introdotte con la legge finanziaria 2005. La disposizione innovativa stabilisce un limite quantitativo al riporto in avanti delle perdite di esercizio che vanno ridotte fino a concorrenza del l'utile che non ha concorso alla formazione del reddito in precedenti esercizi. Più precisamente l'ammontare riportabile è pari alla quota della perdita d'esercizio eccedente l'utile che non ha concorso alla formazione del reddito nei precedenti esercizi.
La nuova disposizione si applica agli utili realizzati a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2006.
In sostanza, con riferimento alle società cooperative, sono gli utili conseguiti a partire dal periodo di imposta 2007 e non tassati a costituire il “basket” dal quale attingere per ridurre le perdite fiscali conseguite in esercizi successivi (dal periodo d'imposta 2008 in poi).
La prima delle due disposizioni (regimi di esenzione del reddito integrale o parziale) è stata abrogata e completamente riscritta, prima ancora di entrare in vigore, dall’art. 1, comma 33, lett. f), della Legge n. 244 del 2007, che ha previsto, con effetto dall’esercizio in corso al 31 dicembre 2007, che, in caso di attività per le quali sono applicabili regimi di parziale o totale detassazione del reddito, le relative perdite fiscali assumono rilevanza nella stessa misura in cui assumerebbero rilevanza i risultati positivi.
La modifica, come risulta dalla relazione ministeriale al Ddl Finanziaria per il 2008, è volta a superare taluni dubbi interpretativi circa l’esatto ambito della norma, nella precedente formulazione; dubbi, aggiungiamo, che furono esposti da Assonime nella Circ. n. 31 del 2007.
Secondo l’Associazione, la disposizione della Finanziaria del 2007 pareva limitare esclusivamente il riporto a nuovo della perdita generata dalla attività esente, consentendolo solo in misura proporzionalmente corrispondente alla quota di esenzione applicabile in presenza di un risultato imponibile positivo. Il caso preso in considerazione, aggiungeva Assonime, poteva essere quello di un’impresa commerciale esercente un’unica attività fruente di esenzione parziale (ad esempio un’impresa armatoriale che gode della esenzione dell’80% prevista dall’art. 4, comma 2, del Dl n. 457 del 97). Per tali società, dunque, le perdite sono divenute riportabili in compensazione dei risultati positivi (e parzialmente imponibili) relativi al quinquennio successivo, in proporzione alla misura di imponibilità limitata accordata ai redditi in questione (nell’esempio, al 20%).
Il dettato della norma, concludeva Assonime, non sembrava invece contemplare l’ipotesi di un’impresa che abbia sia una gestione produttiva di redditi esenti che una gestione i cui risultati sono imponibili, per la quale poteva dunque ritenersi ammessa la compensabilità, nell’anno, dei risultati di segno contrario realizzati dalle due gestioni.
Con la Finanziaria 2008, che sposta la regola dall’art. 84 (riporto perdite) all’art. 83 del Tuir (che tratta del calcolo del reddito complessivo), si intende dunque chiarire che la compensazione parziale delle perdite (cioè nella stessa limitata misura secondo cui il reddito risulta imponibile) opera già in sede di utilizzo a fronte di eventuali redditi imponibili del medesimo esercizio, oltre che, a maggior ragione, sul riporto a nuovo delle perdite stesse.
Dal 2007 (Unico 2008), scatta inoltre la norma, prevista dalla Legge n. 296 del 2006, sui contribuenti che fruiscono di regimi di esenzione dell’utile, destinata in particolare alle cooperative a mutualità prevalente, le quali, come noto, possono escludere dalla formazione del reddito imponibile Ires una quota dell’utile di bilancio, laddove accantonata ad una riserva non distribuibile né durante la vita della società, né in fase di liquidazione.
La disposizione, che non è stata modificata dalla Legge n. 244 del 2007, ed entra dunque in vigore nella sua formulazione originaria, intende impedire che la cooperativa possa, in una sequenza di esercizi in utile e in perdita, detassare prima il risultato accantonato a riserva, usufruendo altresì della riportabilità di perdite generatesi successivamente.
Ciò anche se la perdita fiscale di cui si limita l’utilizzo si determini comunque secondo regole ordinarie e non sia in alcun modo influenzata dall’accantonamento a riserva dell’utile attuato in anni precedenti.
La norma solleva diverse problematiche applicative (cfr.Assonime, Circ. n. 31 del 2007), a cominciare dal fatto che essa pare operare senza limiti di tempo. Quindi, una volta realizzato l’utile non assoggettato ad Ires in un determinato esercizio, la società sarà sottoposta al vincolo di riporto perdite (per un importo pari a quello detassato) per tutto il resto della vita sociale. Eventuali perdite realizzate, anche dopo svariati anni da quelli in cui si erano formati gli utili accantonati e non tassati, non saranno dunque riportabili per l’ammontare complessivo delle detassazioni operate. La disposizione (a parere di Assonime) non dovrebbe invece riguardare le perdite formatesi in anni precedenti a quelli in cui si generano utili non assoggettati ad Ires.
Anche la decorrenza della disposizione lascia parte talune perplessità applicative. Secondo la circolare Assonime, il nuovo vincolo al riporto perdite dovrebbe riguardare gli utili detassati per effetto del loro accantonamento a riserva a partire dal periodo 2007, con esclusione, viceversa, di quelli già accantonati in esenzione d’imposta negli esercizi precedenti a tale esercizio.
Il comma 1 continua prevedendo l’abbattimento del valore riportabile della perdita nell'ipotesi in cui, nell'anno di sostenimento della stessa, siano conseguiti proventi esenti dall'imposta; l'abbattimento è pari all'eccedenza dei suddetti proventi esenti rispetto a determinati componenti negativi non dedotti (interessi passivi eccedenti i limiti stabiliti dall’art. 96; spese e altri componenti negativi totalmente o parzialmente non deducibili ex art. 109, commi 5 e 6).
Questa disposizione, ulteriormente limitativa dell'ammontare di perdita fiscale riportabile, considera, quali elementi rilevanti:
- i proventi esenti dall'imposta, identificabili in quei componenti attivi che per disposizione di legge sono esenti da imposta totalmente o parzialmente. Si noti come nei modelli di dichiarazione dei redditi, alla riga relativa ai proventi esenti viene indicato, fra parentesi, l’art. 58 del vecchio Tuir: sembrerebbe, pertanto, che, per il Ministero, i proventi in tale art. (corrispondente all’art. 91 dell’attuale Tuir) debbano essere considerati esenti. Non devono essere inclusi nel conto i proventi derivanti dalla cessione di partecipazioni per le quali si è potuto godere dell’esenzione ex art. 87, i quali, pertanto, non vanno ad incidere sull’entità della perdita fiscale riportabile agli esercizi futuri. Per specifica indicazione nella relazione governativa di accompagnamento al nuovo Tuir, poi, i dividendi, per la parte non assoggettata ad imposizione, devono essere considerati proventi esclusi, e non esenti: pertanto tale parte non assoggettata a tassazione non deve essere considerata ai fini della rettifica da apportare alla perdita realizzata; data la mancanza di ulteriori specificazioni, sembrerebbe di dover intendere che tale soluzione valga anche per i dividendi provenienti da società non residenti;
- i componenti negativi non dedotti ex art. 96, rappresentati dagli interessi passivi eccedenti il rapporto tra i proventi che concorrono a formare il reddito e l'ammontare complessivo di tutti i proventi, avendo precedentemente decurtato dall'ammontare complessivo degli interessi passivi su cui eseguire il suddetto coalcolo, il valore risultante dalla differenza di cui al comma 3 dello stesso art. 96. Si evidenzia come gli interessi non deducibili per effetto dell’applicazione degli artt. 97 e 98 (relativi, rispettivamente, al pro-rata patrimoniale e alla lotta all’utilizzo fiscale della sotto-capitalizzazione), non abbiano alcuna rilevanza ai fini dell’applicazione della norma in commento.
- i componenti negativi non dedotti ex art. 109, comma 5, ovverosia i costi afferenti ricavi e proventi che non concorrono a formare il reddito.
- i componenti negativi non dedotti ex art. 109, comma 6.
Non può essere riportata negli esercizi successivi, perdendo quindi di fatto ogni beneficio, l'ammontare di perdita fiscale pari alla differenza tra i proventi di cui al primo punto e i componenti negativi di cui ai successivi tre punti.
La ragione di questa scelta è quella di impedire che la perdita con cui computare in diminuzione il reddito sia generata dai proventi esenti, per effetto della variazione in diminuzione ad essi relativa: nella sostanza quindi l'ammontare fiscale massimo di proventi in esenzione di imposta (al netto dei suddetti costi non dedotti) concretamente utilizzabile per compensare redditi futuri è pari al reddito imponibile calcolato senza considerare la variazione in diminuzione relativa al provento esente, proprio perchè quest'ultima non può comunque generare una perdita fiscale.
Per detto principio, ad esempio, i proventi assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta o ad imposta sostitutiva non riducono la perdita riportabile. Analogo discorso vale per i dividendi e le plusvalenze esenti ai sensi dell'art. 87 del Tuir. Ciò in quanto gli stessi si considerano espressione indiretta di utili già tassati o da tassare.
I casi di impossibilità di riporto delle perdite ed eccezioni: la norma di contrasto al commercio delle c.d. “bare fiscali”
Il comma 3 stabilisce i casi in cui non è possibile operare il riporto delle perdite.
La ragione di questa tutela è da ricercarsi nel tentativo dell’Amministrazione di affinare le difese contro il “commercio di bare fiscali”, pratica nella quale i soci di società redditizie cercavano di acquisire il controllo di società prive di senso economico ma cariche di perdite fiscali per abbattere il reddito complessivo della società redditizia ricorrendo alle più disparate operazioni.
Alla luce di quanto stabilito dalla norma, non è possibile riportare le perdite al verificarsi, congiuntamente, delle seguenti due condizioni:
- trasferimento, o comunque acquisizione da terzi (anche a titolo temporaneo e anche a titolo di usufrutto o di altro diritto reale), della maggioranza delle partecipazioni aventi diritto di voto nell’assemblea ordinaria del soggetto che riporta le perdite; la norma fa riferimento sia ai casi in cui l’acquirente ottenga il controllo integralmente mediante l’acquisizione, sia ai casi in cui lo ottenga mediante un acquisto che, in sé e per sé, non sia idoneo a trasferire il controllo, ma che sortisca questo effetto in conseguenza di partecipazioni già possedute (Cfr. Circ. n. 320/E del 1997);
- modifica dell’attività principale effettivamente svolta nei periodi d’imposta in cui le perdite furono realizzate. La modifica dell’attività svolta assume rilievo se interviene nel periodo d’imposta in corso al momento del trasferimento od acquisizione ovvero nei due successivi o nei due anteriori.
Gli elementi considerati indicativi di probabile “abuso fiscale” sono quindi il cambiamento della maggioranza della compagine sociale, collegato alla variazione dell’attività effettivamente svolta: affinché la disposizione produca i suoi effetti, è necessario che si verifichino entrambe le condizioni.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è da notare come la lettera della norma tenda a ricomprendere tutte le situazioni in cu il controllo di fatto sulla società riportante le perdite sia trasferito, con la finalità di colpire i trasferimenti in cui passi il diritto a poter disporre dell’utilizzo delle perdite.
Il secondo indicatore, cioè il periodo di monitoraggio relativo al cambiamento dell’attività principale di fatto esercitata, è costituito da cinque periodi d’imposta, identificati nei due precedenti a quello del trasferimento della maggioranza delle azioni o quote, in quello in corso al momento del suddetto trasferimento e nei due successivi.
Può certamente rappresentare un problema la univoca determinazione dell’attività principale di fatto esercitata, posto che la norma non fornisce parametri di riferimento.
Nel silenzio interpretativo si ritiene che i ricavi caratteristici conseguiti nel periodo, la tipologia dei costi sostenuti o le quantità di beni o servizi vendute possano ben rappresentare fattori su cui fondare il giudizio.
E' invece espressamente chiarito che l'attività oggetto di cambiamento debba essere quella principale, anche nel caso (peraltro marginale) in cui le perdite siano generate da una diversa attività, non definibile come principale.
Come per tutte le norme anti-abuso contenute nei disposti normativi è possibile disapplicare questa disposizione solo mediante ottenuto il parere positivo alla richiesta di interpello negativo ai sensi dell'art. 37-bis, comma 8 del Dpr n. 600 del 1973.
La norma prevedeva che le suddette limitazioni non operavano quando le partecipazioni siano relative a società che nel biennio precedente a quello di trasferimento hanno avuto un numero di dipendenti mai inferiori alle dieci unità e per le quali dal conto economico relativo all'esercizio precedente a quello di trasferimento risultino un ammontare di ricavi dell’attività caratteristica e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, di cui all'art. 2425 del Codice civile, superiore al 40 per cento di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori.
L'esistenza di parametri espressivi di una reale e concreta operatività della società porta a considerare effettive le perdite sostenute ed esclude il trasferimento della proprietà della società dal novero delle operazioni "potenzialmente pericolose" dal punto di vista fiscale, riconoscendone il pieno beneficio alla riportabilità.
Si evidenzia come l’attuale versione del Tuir faccia riferimento all’attività caratteristica della società, non richiamando la lett. A1, del conto economico, e alle spese per dipendenti e contributi di cui alla lettere B9 del conto economico
È da pensare che il mancato richiamo agli schemi del conto economico debba essere inteso come una espressione del principio della prevalenza della sostanza sulla forma: debbono essere considerati tutti i ricavi caratteristici (ossia i ricavi derivanti dall’attività tipica della società, e quindi da quell’attività per lo svolgimento della quale la società è stata costituita), indipendentemente dalla loro classificazione nel bilancio civilisticomma
Più nello specifico, per quanto riguarda le spese per lavoro subordinato, il mancato richiamo alla lett. B9 fa pensare che debbano essere considerate tutte le spese sostenute a tal fine, anche se conseguenti, ad esempio, da ristrutturazioni aziendali, oppure se di competenza di esercizi precedenti, al tempo non imputate per omesse o errate registrazioni contabili (classificabili nell’area del conto e conomico relativa alle componenti straordinarie), e quindi tutte le spese sostenute per lavoro subordinato, indipendentemente dalla loro classificazione nel conto economico civilisticomma
Il testo normativo non riporta più come esimente l'acquisto delle partecipazioni della società riportante le perdite da una società controllata dallo stesso soggetto che controlla il soggetto che riporta le perdite ovvero dal soggetto che controlla il controllante di questi.
MANOVRA FISCALE BIS 2006
Argomento e articolo
Commercio di “bare fiscali” (art. 36, comma 12, Dl n. 223/2006, conv. con modif. con Legge n. 248/2006)
Novità
L'acquisto delle partecipazioni della società riportante le perdite da una società controllata dallo stesso soggetto che controlla il soggetto che riporta le perdite (ovvero dal soggetto che controlla il controllante di questi), non costituisce più esimente alla norma contro il commercio di “bare fiscali”.
Riferimento
Circ. 28/E del 4 agosto 2006.
La previsione è stata infatti soppressa dall’art. 36, comma 12, lett. b) del Dl n. 223 del 2006 ha soppresso la prima delle due condizioni (corrispondente alla lett. a) del comma 3 dell’art. 84 del Tuir) cosichè la limitazione alla riportabilità delle perdite non opera solo limitatamente al verificarsi della seconda condizione. La modifica si applica ai soggetti le cui partecipazioni sono acquisite da terzi a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (4 luglio 2006).
Tale previsione, evidenziava una sensibilità del legislatore nei confronti dei soggetti strutturati a gruppo, stabilendo che determinati trasferimenti azionari intragruppo, giustificati dalla sostanziale identità del soggetto economico, non integrano situazioni di "abuso di beneficio fiscale".
Le perdite delle società di persone partecipate da società di capitali
Uno tra i provvedimenti di maggiore rilevanza, in materia di reddito di impresa, introdotto dalla Legge finanziaria per il 2008, è costituito dal nuovo limite alla deduzione degli oneri finanziari, basato sul 30% del cosiddetto risultato operativo lordo. La disposizione riguarda esclusivamente le società di capitali e non si estende alle ditte individuali e alle società di persone, per le quali gli interessi si deducono ordinariamente.
Al fine di contrastare possibili fenomeni elusivi consistenti nella creazione di società di persone partecipate da società di capitali, a cui attribuire l’indebitamento e i correlati oneri finanziari, la Legge finanziaria per il 2008 (Cfr. Art. 1 comma 33, lett. m) della Legge n. 244 del 2007) ha previsto, modificando l’art. 101 del Tuir, un nuovo vincolo all’utilizzo delle perdite assegnate per trasparenza dalle società personali.
LEGGE FINANZIARIA PER IL 2008
Argomento e articolo
Riporto delle perdite delle società di persone partecipate da società di capitali (Art. 1, comma 33, lett. m) della Legge n. 244 del 2007)
Novità
Con una modifica all’art. 101 del Tuir, si stabilisce che, per i soggetti Ires che posseggono quote di Snc e Sa.s, le relative perdite possono essere compensate solo con redditi prodotti dalla medesima società nei 5 anni successivi. Immutato invece il trattamento delle perdite delle società di persone per i soci persone fisiche non esercenti imprese (art. 8 Tuir).
È stabilito che, esclusivamente per le partecipazioni detenute da società di capitali in società di persone, le perdite assegnate al socio non possono da quest’ultimo essere compensate con il reddito dell’esercizio, e cioè operando, come avveniva in precedenza, una variazione in diminuzione nel quadro RF del mod. Unico; l’utilizzo di tali perdite può avvenire solo in modo “separato” dai redditi del socio, mediante compensazione con redditi attribuiti dalla stessa società di persone partecipata (quella, cioè, che ha prodotto la perdita) nei cinque esercizi successivi.
Nulla è previsto dalla norma nel caso in cui, in presenza di perdite residue da compensare, il socio ceda a terzi la partecipazione nella società personale prima del periodo quinquennale di riportabilità. Non è cioè chiaro se il socio subentrante possa o meno acquisire il diritto al riporto con redditi della stessa società (nel limite del quinquennio originario), oppure se ciò sia consentito solo se il socio subentrante è una società di capitali, oppure ancora se non sia consentito affatto.
La norma, che riguarda un numero limitato di contribuenti (ricordiamo che la legittimità della partecipazione di una società di capitali in una società di persone è prevista dalla legge solo dal 2004 a seguito della Riforma societaria: art. 2361, C.c. ), scatta dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007. Per il prossimo Unico 2008, dunque, valgono le regole ordinarie di compensazione con i redditi della partecipante.
In ogni caso, va segnalato che, ancorché la norma tenda a colpire, come detto, operazioni elusive di aggiramento del test del “Rol” (art. 96, Tuir), essa finisce per applicarsi anche qualora la società personale realizzi perdite in assenza di interessi passivi. In questo caso, la partecipante valuterà dunque l’opportunità di trasformare la partecipata da Snc o Sas a società di capitali, adottando il regime di trasparenza (art. 115 Tuir), ovvero il consolidato fiscale (art. 117 Tuir) laddove la tipologia della compagine lo consenta. Peraltro, trattandosi di disposizione con dichiarate finalità antielusive, dovrebbe ritenersi consentito, in situazioni in cui la società personale non consenta comunque di eludere la norma sugli interessi, ottenerne la disapplicazione mediante interpello alla Direzione regionale delle Entrate, con le modalità di cui all’art. 37-bis, comma 8, Dpr n. 600 del 1973. La questione dovrà formare oggetto di chiarimento da parte dell’Agenzia.
Si rileva infine che la norma, limitando solo l’utilizzo di perdite, non pare assolutamente sufficiente ad escludere operazioni elusive sulla deduzione degli interessi. Basterà infatti che alla società partecipata vengano attribuiti (ad esempio attraverso un conferimento di azienda), attività che producono proventi almeno pari agli interessi passivi trasferiti, con realizzo dunque, non già di una perdita, ma di un modesto reddito o di un sostanziale pareggio, per far sì che attraverso la interposizione, il gruppo riesca a scalare oneri finanziari diversamente indeducibili.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
La legge 311/2004 ha esteso l’ambito oggettivo degli obblighi di rilevazione da parte degli intermediari, che sono strumentali all’effettuazione delle risposte alle indagini finanziarie operate dagli uffici. Al fine di indirizzare l’indagine finanziaria, selezionando gli intermediari cui inviare le richieste, la manovra d’estate (art. 37, co. 4, del D.L. 223/2006) ha poi modificato il DPR 605/1973, prevedendo l’obbligo per gli intermediari finanziari di comunicare in via telematica al fisco l’esistenza di rapporti con i contribuenti nonché la natura degli stessi (senza gli importi e i movimenti).
In pratica è stata istituita, online, una vera e propria banca dati dei rapporti finanziari accessibile all’Amministrazione.
Gli intermediari hanno dovuto provvedere a effettuare le comunicazioni entro:
- entro 30/4/2007 per i rapporti esistenti al 31/12/2006
- entro 30/5/2007 per i nuovi rapporti, venuti a esistenza nel corso del 2007
Mensilmente sono previsti gli aggiornamenti.
Si tratta quindi di uno strumento informatico alimentato dalle comunicazioni periodiche degli intermediari e finalizzata a contenere tutte le informazioni che possono essere acquisite attraverso l'esercizio dei poteri di indagine finanziaria.
Tutti gli intermediari sono, infatti, obbligati a comunicare l'esistenza dei rapporti intrattenuti con i contribuenti e la loro natura.
Vanno inviati i dati relativi a tutti i tipi di rapporto, sia quelli direttamente intestati o cointestati ai contribuenti, sia quelli sui quali i medesimi hanno facoltà di disporre.
Sono oggetto di comunicazione anche le operazioni extra-conto, cioè quelle non confluite all'interno di un rapporto continuativo. A questo proposito, secondo quanto stabilito dal Provvedimento del Direttore dell'agenzia delle Entrate del 29 febbraio 2008, l'esistenza delle operazioni fuori conto in parola deve essere comunicata una sola volta, per ciascun anno solare, in occasione della prima operazione compiuta (nell'archivio è monitorata solo la prima operazione fuori conto e non tutte).
Devono in particolare essere identificati, anche con il codice fiscale, oltre ai titolari delle operazioni, i soggetti che si presentano allo sportello a nome o per conto del titolare stesso.
Non vengono, invece, mai rilevate né le disponibilità presenti di un determinato conto né la consistenza di una determinata gestione.
Nella circolare n. 18/E 2007 l’Ag. delle Entrate ha specificato che nell'anagrafe dei conti correnti vanno segnalate anche le posizioni aperte con lo scudo fiscale. Quei conti correnti e depositi che erano stati aperti tra il 2001 e il 2003 facendo emergere importi e patrimoni detenuti all'estero e non conosciuti dall'amministrazione finanziaria italiana. Per incentivare la riemersione, però, i provvedimenti dello scudo fiscale (dal decreto legge 350/01 in poi) hanno sempre fatto leva sulla riservatezza garantita a chi faceva uso della norma.
Secondo l’Amministrazione finanziaria occorre tenere presente la differenza tra l'archivio dei rapporti e le indagini finanziarie. Nell'archivio i conti scudati continueranno a essere anonimi e in fase di indagini finanziarie gli intermediari potranno opporre la "copertura" dello scudo.
Secondo l’Abi (e così le altre associazioni del settore Assosim, Assogestioni e Assofiduciaria) dovrebbero rimanere escluse.
Secondo il Garante delle Privacy rispondendo a un quesito proposto dall’Abi conferma la tesi dell’Amministrazione finanziaria: occorre distinguere tra le tutele offerte dallo scudo fiscale e le richieste dell'anagrafe. Le due discipline, come sottolinea la ricostruzione del Garante, convivono ma in ogni caso la loro compresenza non impone un intervento per la salvaguardia dei dati personali.
L'accesso alla banca dati dell'Archivio non è comunque libero e arbitrario, ma risulta vincolato alle disposizioni contenute nell'articolo 7, comma 11, Dpr 605/1973. Si ha quindi che l'Anagrafe va usata solo in connessione ad accertamenti finanziari e solo in virtù di un'autorizzazione degli organi gerarchici delle amministrazioni preposti alla procedura. Il Fisco può, infatti, interrogare la banca dati ai soli fini dell'esecuzione di indagini finanziarie ovvero per le attività connesse alla riscossione. L'accesso è quindi subordinato all'attivazione di un accertamento e all'ottenimento, nella maggior parte dei casi, di un'apposita autorizzazione.
L'utilizzabilità dei dati, delle rilevazioni e delle evidenziazioni di qualsiasi rapporto od operazione di natura finanziaria, effettuata per conto proprio ovvero per conto o a nome di terzi, è limitata alle richieste e alle risposte in via telematica in materia di indagini finanziarie, di cui agli articoli 32, Dpr 600/73 e 51, Dpr 633/72, e alle attività connesse alla riscossione mediante ruolo.
Quanto appena detto, vale fino a prima dell’entrata in vigore del Dl 138/2011. Infatti l’art. 2 co. 36-undevicies di tale norma (comma introdotto in sede di conversione) derogando a quanto previsto dall’art. 7 del Dpr 605/1973 ha previsto che “l'Agenzia delle entrate puo' procedere alla elaborazione di specifiche liste selettive di contribuenti da sottoporre a controllo basate su informazioni relative ai rapporti e operazioni di cui al citato articolo 7, sesto comma, sentite le associazioni di categoria degli operatori finanziari per le tipologie di informazioni da acquisire”.
Dopo l’entrata in vigore del Dl 138/2011 (17 settembre 2011) quindi, l'archivio dei rapporti può essere utilizzato:
1. per la selezione degli intermediari per indirizzare le richieste di indagini finanziarie nei riguardi di contribuenti già oggetto di accertamento fiscale,
2. come mezzo per elaborare specifiche liste selettive di contribuenti da sottoporre a controllo.
Si modifica così radicalmente la natura e la finalità della banca dati in questione, che non è quindi più utile solamente ad indirizzare velocemente e direttamente le richieste del Fisco agli intermediari che intrattengono rapporti con un contribuente già oggetto di verifica ma che può venir utilizzata, prima dell'avvio di una qualsiasi attività di verifica, anche per elaborare specifiche liste selettive di contribuenti da sottoporre a controllo.
ARTICOLO - Pubblicato il: 19 giugno 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
L'art. 7 del Dl 70/2011 introduce una serie di disposizioni che incidono sull’attività di verifica degli Uffici dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di finanza. In particolare intervengono su alcune norme che trattano dei diritti e delle garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali. Si tratta:
- Della permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente
- Della necessità di coordinamento e
- Della necessità, per la Gdf, di operare accessi in borghese.
Art. 7 del Dl 70/2011
(…)
2. In funzione di quanto previsto al comma 1, sono in particolare introdotte le seguenti disposizioni:
a) al fine di ridurre al massimo la possibile turbativa nell’esercizio delle attività delle imprese di cui all’articolo 2 dell’allegato alla Raccomandazione 2003/361/CE recante "Raccomandazione della Commissione
relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese", nonché di evitare duplicazioni e sovrapposizioni nell’attività di controllo nei riguardi di tali imprese, assicurando altresì una maggiore semplificazione dei relativi procedimenti e la riduzione di sprechi nell’attività amministrativa, gli accessi dovuti a controlli di natura amministrativa disposti nei confronti delle predette imprese devono essere oggetto di programmazione da parte degli enti competenti e di coordinamento tra i vari soggetti interessati. Conseguentemente:
1) a livello statale, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sono disciplinati modalità e termini idonei a garantire una concreta programmazione dei controlli in materia fiscale e contributiva, nonché il più efficace coordinamento dei conseguenti accessi presso i locali delle predette imprese da parte delle Agenzie fiscali, della Guardia di Finanza, dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato e dell’INPS e del Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Direzione generale per l'attività ispettiva, dando, a tal fine, il massimo impulso allo scambio telematico di dati e informazioni fra le citate Amministrazioni. Con il medesimo decreto è altresì assicurato che, a fini di coordinamento, ciascuna delle predette Amministrazioni informa preventivamente le altre dell’inizio di ispezioni e verifiche, fornendo al termine delle stesse eventuali elementi acquisiti utili ai fini delle attività di controllo di rispettiva competenza. Inoltre, secondo una prassi già consolidata, gli appartenenti al Corpo della Guardia di Finanza eseguono gli accessi in borghese;
2) a livello substatale, gli accessi presso i locali delle imprese disposti dalle amministrazioni locali inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, ivi comprese le Forze di Polizia locali comunque denominate e le aziende ed agenzie regionali e locali comunque denominate, devono essere oggetto di programmazione periodica. Il coordinamento degli accessi è affidato, ove istituito, allo Sportello unico per le attività produttive (SUAP) di cui all’articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, ovvero alle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura competenti per territorio;
3) gli accessi sono svolti nell’osservanza del principio della contestualità e della non ripetizione per periodi di tempo inferiori al semestre;
4) gli atti e i provvedimenti, anche sanzionatori, adottati in violazione delle disposizioni di cui ai numeri 1)-3) costituiscono, per i dipendenti pubblici che li hanno adottati, illecito disciplinare;
5) le disposizioni di cui ai numeri 1)-4) non si applicano ai controlli ed agli accessi in materia di repressione dei reati e di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro di cui al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81(1), nonché a quelli funzionali alla tutela dell’igiene pubblica, della pubblica incolumità, dell’ordine e della sicurezza pubblica. Non si applicano altresì ai controlli decisi con provvedimento adeguatamente motivato per ragioni di necessità ed urgenza;
b) le disposizioni di cui alla lettera a) costituiscono attuazione dei principi di cui all’articolo 117, comma 2, lettere e), m), p), r) della Costituzione nonché dei principi di cui alla direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 e della normativa comunitaria in materia di microimprese, piccole e medie imprese. Le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano adeguano la propria legislazione alle disposizioni di cui ai commi precedenti, secondo i rispettivi statuti e le relative norme di attuazione;
c) dopo il secondo periodo del comma 5 dell’articolo 12 della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante disposizioni in materia di Statuto dei diritti del contribuente, è aggiunto il seguente: "Il periodo di permanenza presso la sede del contribuente di cui al primo periodo, così come l’eventuale proroga ivi prevista, non può essere superiore a quindici giorni in tutti i casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi; anche in tali casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi, devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori civili o militari dell'Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente.";
d) le disposizioni di cui all’articolo 12 della legge del 27 luglio 2000, n. 212, concernente disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente, si applicano anche nelle ipotesi di attività ispettive o di controllo effettuate dagli enti di previdenza e assistenza obbligatoria;(…)
Permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente
Il comma 5 dell’art. 12, l. 212/2000 regola in merito alla durata delle verifiche. Prevede che, al fine di ridurre al minimo il disagio che l’azione ispettiva può recare all’esercizio dell’attività verificata, i verificatori hanno, quale termine perentorio di permanenza presso il contribuente, trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine, individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio.
L'art. 7, comma 2, lett. c), del D.L. n. 70/2011 integra tale disposizione prevedendo che "il periodo di permanenza presso la sede del contribuente di cui al primo periodo, cosi come l'eventuale proroga ivi prevista, non può essere superiore a quindici giorni in tutti i casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi; anche in tali casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi, devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori civili o militari dell'Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente".
Art. 12 Legge 212/2000 - Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali
(…)
5. La permanenza degli operatori civili o militari dell'amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell'indagine individuati e motivati dal dirigente dell'ufficio. Gli operatori possono ritornare nella sede del contribuente, decorso tale periodo, per esaminare le osservazioni e le richieste eventualmente presentate dal contribuente dopo la conclusione delle operazioni di verifica ovvero, previo assenso motivato del dirigente dell'ufficio, per specifiche ragioni. Il periodo di permanenza presso la sede del contribuente di cui al primo periodo, così come l’eventuale proroga ivi prevista, non può essere superiore a quindici giorni in tutti i casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi; anche in tali casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi, devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori civili o militari dell'Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente.(…)
Tale disposizione - immediatamente applicabile - introduce una differenziazione nei limiti della permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente, in quanto:
1. per le imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi la permanenza non può superare i 15 giorni, eventualmente prorogabili in caso di particolare complessità dell'indagine per ulteriori 15; in proposito, si ricorda che, ai sensi dell'art. 18 del Dpr n. 600/1973 (come da ultimo modificato dall'art. 7, comma 2, lett. m), del Dl n. 70/2011) il regime contabile delle imprese minori - cosiddetto "regime semplificato" - si applica, salva la facoltà concessa al contribuente di optare per la tenuta della "contabilità ordinaria", alle imprese che, nell'anno precedente a quello in corso e relativamente a tutte le attività esercitate, abbiano conseguito
ricavi non superiori a 400.000 euro, se esercenti attività di prestazione di servizi, ovvero 700.000 euro, se esercenti altre attività;
2. per le altre categorie di contribuenti, diverse da quelle appena sopra elencate, restano fermi i più ampi termini di 30 giorni, prorogabili per ulteriori 30,previsti dal citato art. 12, comma 5, della Legge n. 212/2000.
I diritti del contribuente durante la verifica
FUORI SEDE
Di norma la verifica va effettuata presso la sede del contribuente. Tuttavia questi ha la facoltà di richiedere che l'esame dei documenti amministrativi avvenga nell'ufficio dei verificatori o presso il professionista che dà l'assistenza.
IN SEDE
Accesso, ispezione e controllo devono avvenire nei locali destinati all'esercizio dell'attività se vi sono esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo. La verifica infatti può essere svolta attraverso la richiesta dei documenti da controllare.
Secondo la Gdf (Cir. n. 156680 del 26 maggio 2011) la disposizione vale solo per il futuro e non anche per i controlli in corso, vale a dire alle verifiche ed aicontrolli avviati con accesso dal 14 maggio 2011, data di entrata in vigore del D.L. n. 70/2011. La tesi viene motivata con l'articolo 11 delle preleggi secondo cui la legge non può che disporre per il futuro. Il documento sembra dimenticare che in tutti i provvedimenti normativi in tema di controlli e accertamenti varati negli ultimi anni e in genere sfavorevoli al contribuente sono stati sempre applicati retroattivamente sia dalla Gdf sia dalle Entrate trattandosi di norme procedurali, nonostante l'articolo 11 delle preleggi (secondo cui la legge non dispone che per il futuro) invocato ora dalla circolare.
Conseguentemente, precisa la Cir. n. 156680 del 26 maggio 2011, gli interventi che alla predetta data risultano in corso di esecuzione saranno completati rispettando la tempistica riguardante la permanenza presso la sede del contribuente prevista dalla previgente formulazione del citato art. 12, comma 5, della Legge n. 212/2000, tenuto anche conto che i piani di verifica possono essere stati impostati sulla base dei più ampi termini in precedenza stabiliti.
Su un piano generale – e quindi non a valere unicamente per le imprese in semplificate e i professionisti – la modifica apportata dal Dl 70/2011 chiarisce che ai fini del calcolo del periodo di permanenza presso la sede del contribuente, previsto dall'art. 12, comma 5, della Legge n. 212/2000, occorre fare riferimento alle giornate di effettiva presenza presso la sede del contribuente. Viene di fatto eseguita un'interpretazione autentica della norma in senso assolutamente favorevole all'Amministrazione, vanificando così le letture giurisprudenziali (e le attese dei contribuenti) che, al contrario, ritenevano che il periodo temporale dovesse intendersi quale durata della verifica, e non della permanenza fisica dei verificatori.
In passato, infatti, in manza di una specifica previsione normativa, era sorto il dubbio se la previsione del limite temporale in argomento fosse riferita alla permanenza dei verificatori presso la sede aziendale, oppure al periodo massimo di durata della verifica fiscale.
Sul punto, la prima tesi, sostenuta sia dal Comando generale della guardia di finanza che dall’agenzia delle Entrate, (sul punto, si vedano la circolare GDF 17 agosto 2000, n. 250400, 1/2008 e la C.M. 64/E/2001) ritiene che, sulla base di un’interpretazione letterale della norma, il termine in commento dovesse riferirsi alla permanenza massima presso la sede del verificato e non alla durata della verifica (intesa come esecuzione del controllo). In altre parole, stando al dettato normativo, l’Agenzia delle entrate come pure la Guardia di finanzia riteneva ammissibile che i trenta giorni fosse un limite cumulativo, nel senso che i verificatori non potessero restare in azienda per un periodo, complessivamente, superiore a quella somma di giorni, ancorché consumati «a rate». In senso contrario, c’era chi sosteneva che il termine perentorio di cui al comma 5 dell’art. 12, l. 212/2000 fosse relativo alla durata della verifica e non alla permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente (in merito, si veda Criscione, «Il tempo massimo è incerto», ne Il Sole 24 Ore del 18 marzo 2002). Tale approccio si basa sulla regola generale secondo la quale, allorquando il legislatore stabilisce un termine, ne presuppone in ogni caso la continuità, giacché procede sempre alla dettagliata disciplina dei casi di interruzione e di ripresa della relativa decorrenza. Ciò sembrerebbe ancora più lampante, analizzando la norma nella parte in cui prevede la possibilità di ritorno dei verificatori in azienda, presupponendo un concetto di continuità della loro precedente presenza.
Sull’argomento, un ulteriore problematica interpretativa riguardi l’obbligo o meno di computare nel periodo di permanenza dei trenta giorni (ovvero quindici), le sole giornate lavorative effettivamente trascorse presso il contribuente, ovvero anche i singoli interventi presso lo stesso per effettuare, ad esempio la notifica di atti, il prelievo di documenti, ecc.
La questione, pur essendo ancora dibattuta, è stata affrontata dal Gdf nella Cir. 1/2008 che ha fornito, sull’argomento, delle specifiche direttive orientate a considerare nel computo dei giorni di permanenza i soli giorni lavorativi trascorsi presso la sede del contribuente e non anche i singoli contatti.
Altro discorso riguarda la proroga di un ulteriore periodo (trenta o quindici giorni) prevista nei casi di particolare complessità dell'indagine individuati.
Secondo la circolare n. 1/2008, in via generale e fatte salve le singole circostanze del caso concreto, le «ragioni di particolare complessità» ricorrono ogni qualvolta, anche in via alternativa:
- l’ispezione è eseguita nei confronti di soggetti di medio-grandi dimensioni;
- l’ impianto contabile risulti particolarmente complesso, articolato e/o frammentato, anche a causa dell’organizzazione economico-aziendale del contribuente;
- occorre procedere a ricostruzioni complesse della base imponibile, sulla base di una enorme mole di dati e documenti da elaborare;
- l’ispezione riguarda operazioni di rilevanza internazionale o di potenziale rilievo elusivo.
Sotto il profilo formale, la proroga deve essere disposta con apposita comunicazione motivata rivolta al contribuente e allegata al foglio di servizio redatto per il trentunesimo giorno e, inoltre, copia di tale comunicazione deve essere consegnata, per notifica, al contribuente e, dell’avvenuta notifica, deve essere dato atto nel verbale di verifica.
In ultimo, è consentita la possibilità di ritornare nella sede del contribuente, decorso il termine massimo di permanenza, per esaminare le osservazioni e le richieste, eventualmente presentate, dopo la conclusione delle operazioni di verifica e per «specifiche ragioni». A tal proposito, si ritiene che tali ragioni devono ritenersi sussistenti nei casi in cui:
- a conclusione dell’ispezione svolta presso gli uffici, sia necessario procedere a specifci riscontri documentali che comprovano le risultanze della precedente attività;
- ad intervento già concluso, sopravvenga la conoscenza di nuovi elementi che legittimino la redazione di processi verbali di constatazione fnalizzati a consentire l’emanazione di accertamenti modifcativi o integrativi ex art. 43, D.P.R. 600/1973 [CFF 6343];
- ultimata un’ispezione di carattere generale, sia necessario procedere ad un successivo intervento parziale per contestare, ad esempio, gli esiti degli accertamenti bancari.
Sempre su un piano generale – e quindi non a valere unicamente per le imprese in semplificate e i professionisti – il Dl 70/2011 chiarisce che gli atti e i provvedimenti, anche sanzionatori, adottati in violazione delle disposizioni dei termini di verifica costituiscono, per i dipendenti pubblici che li hanno adottati, illecito disciplinare. Con tale precisazione, si finisce per vanificare le conseguenze di eventuali inosservanze a queste regole. È evidente che il contribuente non è interessato alla eventuale irrogazione di sanzioni disciplinari al verificatore, ma alla nullità degli atti.
Secondo Commissione provinciale di Terni (sentenza 141 del 16 dicembre 2009) che rafforzava un orientamento giurisprudenziale, volto a tutelare il contribuente sottoposto al controllo, già espresso da altri giudici di merito il mancato rispetto dei termini della verifica riteneva violasse una disposizione di legge e la sanzione era quella della nullità dell'attività svolta. Sul punto L'orientamento delle commissioni tributarie è stato, in questi anni, abbastanza alterno: a fronte di decisioni che hanno avallato l'interpretazione dell'amministrazione, ritenendo quindi irrilevante ai fini della legittimità dell'avviso di accertamento, la durata delle operazioni ispettive, non sono mancate decisioni di tenore opposto che hanno giudicato il mancato rispetto del termine una violazione a una prescrizione normativa e a un diritto del contribuente cui deve conseguire la nullità dell'avviso di accertamento successivamente emanato. In questo filone si inserisce la pronuncia della Ctp di Terni, ma occorre segnalare che, ad analoghe conclusioni, sono pervenute le commissioni regionali del Piemonte (n. 26 del 7 maggio 2009) e della Lombardia (n. 12 del 19 marzo del 2008). Anche la Cassazione è stata investita della questione (sentenza n. 26689/09) su ricorso del contribuente che lamentava, tra l'altro, l'eccessiva durata del controllo fiscale. Ma i giudici, rinviando la vicenda alla competente commissione regionale, non hanno assunto posizioni al riguardo.
Il controllo mediante richiesta documentale
Come visto, lo Statuto, all'articolo 12, prevede una serie di diritti in capo al contribuente nella fase del controllo; tuttavia, se interpretato letteralmente, buona parte di tali garanzie sembrano ancorate alle ispezioni svolte presso la sede del contribuente (come in azienda o studio) e non anche presso gli uffici (in merito alla durata, il co. 5 dell’art. 12 dello statuto – ante e post modifica - fa riferimento alle “verifiche presso la sede del contribuente”).
Una parte dei controlli/verifiche (per non dire tutti imprese in contabilità semplificata e professionisti), però, viene svolta non in azienda ma richiedendo all'interessato informazioni e documenti che poi vengono esaminati dai verificatori nei propri uffici.
A conclusione di questi controlli, normalmente preceduti da un intervento del contribuente, spesso verbalizzato con un verbale di contraddittorio, l'ufficio non redige un verbale di constatazione (cui fa riferimento l'articolo 12 dello Statuto) ma direttamente un avviso di accertamento.
Seguendo tale procedura la maggior parte degli uffici sono convinti che non debbano essere osservate le prerogative imposte dallo Statuto (facoltà di farsi assistere da un professionista, ragioni del controllo, possibilità di replicare con memorie nei successivi 60 giorni).
Secondo la Commissione tributaria provinciale di Milano, sentenza 10 maggio 2010 n. 126, le garanzie dello Statuto dei contribuenti si applicano anche se il controllo viene a svolto a seguito di richiesta documentale presso l'ufficio del Fisco e a prescindere dalla denominazione che viene data al verbale redatto (contraddittorio, constatazione).
Mancato rispetto dell’ statuto in merito:
- alla mancata indicazione nel questionario o nell'invito a comparire presso l'Agenzia, le ragioni e l'oggetto della verifica e l'avvertimento sulla facoltà di farsi assistere da un professionista;
- al mancato rispetto della durata dell’ispezione che non può superare i 30 giorni al più prorogabili di altri trenta;
- al mancato rispetto dei 60 giorni prima dell’emissione dell’avviso di accertamento o mancanza nella motivazione dell'urgenza che ha comportato la compressione di tale diritto in capo al contribuente.
La Commissione tributaria di Milano ha effettuato un'interpretazione sostanziale – e non formale – della norma, evidenziando che, a prescindere dalla denominazione dell'atto, se è stato eseguito un controllo, va da sé che devono essere garantite al contribuente le garanzie previste dallo Statuto, la cui inosservanza, conclude la sentenza, comporta la nullità dell'atto di accertamento.
Nello specifico, il contribuente lamentava la violazione dell'articolo 12, comma 2, non essendo stati indicati, né nel questionario né nell'invito a comparire presso l'Agenzia, le ragioni e l'oggetto della verifica e non essendo stato riportato l'avvertimento sulla facoltà di farsi assistere da un professionista.
In effetti, pur trattandosi di un orientamento della commissione provinciale, occorre rilevare che se non fosse come osservano i giudici milanesi, sarebbe facilmente eludibile dall'ufficio qualsivoglia garanzia in capo al soggetto controllato, spostando l'attività di controllo dall'azienda all'ufficio e denominando l'atto compilato in un modo anziché in un altro.
Si pensi per tutti al caso, anche se non frequente, di contestazione di violazioni di un'annualità prossima alla decadenza. Se l'ufficio attende gli ultimi mesi del periodo di imposta, non può concedere gli ulteriori sessanta giorni per le memorie scadrebbero i termini. Ebbene sarebbe, a questo punto molto semplice, stante il controllo in corso in ufficio, non fare un pvc, ma direttamente l'avviso di accertamento. Così operando si rischierebbe di bypassare l'obbligo imposto dall'articolo 12, comma 7, dello Statuto e, soprattutto, la motivazione imposta dalla stessa norma e ribadita dalla Corte costituzionale (ordinanza 244 del 29 luglio 2009) e dalla Cassazione (sent. 22320/2010), secondo la quale, a pena di nullità, l'urgenza che ha comportato la compressione di tale diritto in capo al contribuente, deve essere motivato.
L'altro problema che sovente si pone in occasione di controlli fiscali è la durata dell'ispezione. Lo Statuto precisa che la permanenza dei verificatori non può superare i 30 giorni al più prorogabili di altri trenta.
Di norma il mancato rispetto di tale termine non viene considerato dai giudici di merito una causa di nullità dell'atto impositivo. Tuttavia occorre segnalare, negli ultimi anni, alcune sentenze di segno opposto (per tutte: Ctp Terni n. 141/2009; Ctr Piemonte n. 26/2009, Ctr Lombardia n. 12/2008) che hanno ritenuto nullo l'accertamento emanato dopo un controllo protrattosi più di 30 o 60 giorni. Anche in questa ipotesi, il problema non è di menomare l'attività di controllo e ancor meno di non reprimere comportanti evasivi, ma solo di riequilibrare parzialmente la fase del controllo caratterizzata da ampi, quanto legittimi, poteri dell'amministrazione, cui si contrappongono non altrettanto elevati strumenti difensivi per il contribuente.
Ctp Milano, sentenza del 10 maggio 2010 n. 126
“(...) l'invito alla produzione di documenti e di registri aziendali e, in particolare, l'invito a comparire rivolto al legale rappresentante della società ricorrente presso la sede dell'Agenzia e a rispondere a specifiche domande sui prezzi correlati ai costi e, comunque, sull'attività svolta dall'azienda sociale nell'anno (...), integri la fattispecie riconducibile al processo verbale di constatazione, ancorché questo sia stato denominato «verbale di contraddittorio».
L'assenza dell'informazione (...) viola la lettera e la ratio dell'articolo 12, comma 2, della legge 212/2000 perché pregiudica i diritti e le garanzie del contribuente, incidendo sulla validità del procedimento amministrativo, quale atto presupposto dell'emanato avviso di accertamento pregiudicandone, di conseguenza, la legittimità ed efficacia”.
Programmazione e coordinamento degli accessi
Il comma 2, lett. a), dell'art. 7 prevede che "al fine di ridurre al massimo la possibile turbativa nell'esercizio delle attività delle imprese di cui all'articolo 2 dell'allegato alla Raccomandazione 2003/361/CE recante "Raccomandazione della Commissione relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese; nonché di evitare duplicazioni e sovrapposizioni nell'attività di controllo nei riguardi di tali imprese, assicurando altresì una maggiore semplificazione dei relativi procedimenti e la riduzione di sprechi nell'attività amministrativa, gli accessi dovuti a controlli di natura amministrativa disposti nei confronti delle predette imprese devono essere oggetto di programmazione da parte degli enti competenti e di coordinamento tra i vari soggetti interessati”.
Queste previsioni trovano applicazione, dal punto di vista soggettivo, con esclusivo riferimento agli interventi eseguiti mediante accesso nei confronti delle microimprese, delle piccole imprese e delle medie imprese indicate nell'art. 2 dell'allegato alla Raccomandazione 2003/361/CE in data 6 maggio 2003.
La norma di carattere essenzialmente programmatico, in quanto rinvia alle disposizioni di dettaglio contenute nei successivi paragrafi del medesimo comma 2, lett. a), che, in sintesi, stabiliscono:
- al n. 1) che, a livello statale, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'Economia e delle Finanze, di concerto con il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, sono disciplinati modalità e termini idonei a garantire una concreta programmazione dei controlli in materia fiscale e contributiva ed il più efficace coordinamento dei conseguenti accessi presso le predette imprese da parte delle Agenzie fiscali, della Guardia di Finanza, dell'Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (A.A.M.S.) e dell'Istituto Nazionale Previdenza Sociale (I.N.P.S.), nonché le direttive riguardanti le informazioni che le citate Istituzioni devono scambiarsi prima dell'inizio di ispezioni e verifiche ed al termine delle stesse;
- al n. 2) che, a livello substatale, gli accessi presso i locali delle imprese disposti dalle Amministrazioni locali inserite nel conto economico consolidato della Pubblica Amministrazione, come individuate dall'I.S.T.A.T., ai sensi dell'art. 1, comma 3, della Legge 31 dicembre 2009, n. 196, ivi comprese le Forze di Polizia locali e le aziende ed agenzie regionali e locali, devono essere oggetto di programmazione periodica, il cui coordinamento è affidato, ove istituito, allo Sportello unico per le attività produttive di cui all'art. 38, comma 3, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla Legge 6 agosto 2008, n. 133, ovvero alle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura competenti per territorio;
- al n. 3) che gli accessi sono svolti nell'osservanza del principio della contestualità e della non ripetizione per periodi di tempo inferiori al semestre;
- al n. 4) che gli atti e i provvedimenti, anche sanzionatori, adottati in violazione delle previsioni precedenti costituiscono illecito disciplinare per i dipendenti pubblici che li hanno adottati;
- al n. 5) l'inapplicabilità delle predette disposizioni ai controlli ed agli accessi in materia di repressione dei reati e di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, a quelli funzionali alla tutela dell'igiene pubblica, della pubblica incolumità, dell'ordine e della sicurezza pubblica, nonché a quelli decisi con provvedimento adeguatamente motivato per ragioni di necessità ed urgenza.
Interpretando letteralmente le nuove norme, la Cir. n. 156680 del 26 maggio 2011 della Gdf evidenzia, per esempio, che fino all'emanazione di un decreto di natura non regolamentare del ministero dell'Economia, di concerto con il ministero del Lavoro, nulla cambierà rispetto al passato. Occorrerà quindi attendere questo decreto perché si possa veramente evitare che, lo stesso contribuente, a distanza di pochi giorni o settimane, venga controllato dai vari organismi ispettivi (Fiamme gialle, Inps, agenzia delle Entrate eccetera).
C'è da sperare quindi che il decreto venga emanato in tempi brevi. In verità, dalla circolare sembra percepirsi che il provvedimento non vedrà a breve la luce in quanto «l'effettiva attuazione delle suddette disposizioni non può prescindere da un significativo adeguamento e sviluppo delle procedure informatiche per lo scambio telematico».
Il principio della non ripetizione dei controlli per periodi di tempo inferiori al semestre non si applica, secondo quanto previsto dall'art. 7, comma 2, lett. a., n. 5) del D.L. n. 70/2011, ai controlli ed agli accessi in materia di repressione dei reati e di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro di cui al citato D.Lgs. n. 81/2008, a quelli funzionali alla tutela dell'igiene pubblica, della pubblica incolumità e dell'ordine e sicurezza pubblica, nonché a quelli decisi con provvedimento adeguatamente motivato per ragioni di necessità ed urgenza.
La circolare della Gdf ritiene di individuare tra i casi di deroga al principio di non ripetizione dei controlli, quelli di verbalizzazione immediata, come la mancata emissione di scontrini e ricevute fiscali. L'interpretazione appare decisamente contraria al contribuente e anche allo spirito della norma che prevede delle deroghe ma in ipotesi di pubblica incolumità, ordine e sicurezza pubblica e ragioni di necessità e urgenza. Ora, ipotizzare che la mancata emissione di uno scontrino o di una ricevuta fiscale possa rappresentare una ragione di necessità e urgenza tale da imporre una deroga al coordinamento dei controlli, appare una forzatura, dove si voglia tener conto che queste nuove norme hanno la finalità di alleggerire la pressione, spesso inutile dell'amministrazione finanziaria sui contribuenti.
Esecuzione degli accessi in abito civile
L'art. 7, comma 2, lett. a), n. 1), ultimo periodo, prevede che, secondo una prassi già consolidata, gli appartenenti al Corpo della Guardia di Finanza eseguono gli accessi in borghese.
Questa disposizione, di immediata applicazione, non modifica le procedure operative adottate, in quanto è in linea con quanto previsto nella circolare n. 1/2008, secondo cui i militari impiegati in attività di verifica indossano, di norma, l'abito civile, salvi casi eccezionali, allorquando le condizioni particolari di tempo e di luogo inducano a ritenere che la presentazione di personale in divisa sia opportuna per agevolare il riconoscimento della qualifica degli operanti, nonché come tutela preventiva della loro sicurezza personale.
Al riguardo, nel caso in cui ricorrano le suddette circostanze, nel processo verbale che documenta le operazioni di accesso verrà dato atto della presenza di militari in uniforme, motivando le ragioni che hanno determinato tale scelta.
ARTICOLO - Pubblicato il: 19 giugno 2011- Da: G. Manzana E. Iori
Stando il contenuto dell’art. 176 del Tuir, la completa neutralità fiscale dell’operazione di conferimento d’azienda, ovverosia il fatto che la stessa non produca il realizzo di plusvalenze o di minusvalenze, si verifica a condizione che:
- il soggetto conferente assuma quale valore delle partecipazioni ricevute l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita;
- il soggetto conferitario subentri, ai fini fiscali, nella posizione del conferente per ciò che attiene agli elementi dell’attivo e del passivo dell’azienda stessa, facendo risultare da apposito prospetto di riconciliazione, da allegare alla dichiarazione dei redditi, i dati esposti in bilancio e i valori fiscalmente riconosciuti (l’obbligo di allegazione deve essere osservato per tutti i periodi d’imposta durante i quali sussistano delle divergenze tra i valori contabili e quelli fiscali).
Il regime di neutralità rende irrilevante ai fini fiscali l’eventuale iscrizione nelle scritture contabili del soggetto conferente o del soggetto conferitario di valori diversi da quelli fiscalmente riconosciuti. Ne consegue che il soggetto conferente, al momento della successiva alienazione della partecipazione, dovrà calcolare l’eventuale plusvalenza ovvero minusvalenza confrontando il prezzo di cessione con il valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione, mentre il soggetto conferitario, in caso di cessione dell’azienda, calcolerà la plusvalenza imponibile/minusvalenza deducibile in base ai valori fiscali già riconosciuti in capo al conferente.
Il soggetto conferitario, a operazione avvenuta, subentra quindi, ai fini fiscali, nelle posizioni del conferente per ciò che attiene agli elementi dell’attivo e del passivo dell’azienda stessa. Da ciò consegue che (Cfr. Circ. n. 320/E del 1997):
- per quanto riguarda le rimanenze, si conserva l’eventuale stratificazione Lifo esistente presso la conferente; qualora nelle rimanenze del conferente e in quelle del conferitario si trovino però beni omogenei, si dovrà tuttavia provvedere all’unificazione delle stratificazioni Lifo esistenti;
- per quanto riguarda i beni strumentali ammortizzabili, le residue quote di ammortamento dovranno essere computate assumendo il costo originario di tali beni (con recepimento, quindi, dei valori contabili “a saldi aperti”), mentre i singoli elementi dell’attivo manterranno la medesima vetustà, ai fini sia dell’applicazione della disciplina sugli ammortamenti anticipati (art. 102, comma 3, del Tuir), che della rateizzazione delle plusvalenze (art. 86, comma 4, del Tuir). L’applicazione della disciplina, pertanto, comporta il subingresso sia nei costi storici di acquisto della conferente (al lordo, quindi, degli ammortamenti pregressi), sia nel livello di ammortamento raggiunto da quest’ultimo, di modo che, il processo di ammortamento prosegue, in capo al conferitario, con le medesime modalità con cui sarebbe proseguito presso il conferente.
Il “passaggio” dell’avviamento
Secondo la cir. 8/E del 4 marzo 2010 il valore (fiscale) dell’avviamento eventualmente iscritto in capo al conferente prima dell’operazione di conferimento, non si trasferisce alla conferitaria e quindi rimane (fiscalmente) nella “disponibilità” della conferente.
Più precisamente, secondo quanto previsto dall’Amministrazione finanziaria:
– Il soggetto conferente, assume, quale valore delle partecipazioni ricevute, il valore fiscale dell’azienda conferita (da cui si è escluso l’avviamento ad essa riferibile).
Se l’avviamento aveva un valore fiscale - in quanto frutto di una precedente acquisizione, ovvero, in caso di operazioni di aggregazioni neutrali, in quanto affrancato ex art. 176 co. 3-ter del Tuir o art. 15 del Dl 185/2008 - questo continua a essere dedotto anche se civilisticamente la posta viene stralciata per effetto del conferimento. Così nel caso di affrancamento ex Dl 185/2008 la deduzione continuerà per noni( Cfr, art. 15, comma 10 del Dl 185/2008); negli altri casi per diciottesimi (Cfr. art. 103, comma 3-bis del Tuir). Nulla viene detto in caso di conferimento dell’unica azienda da parte dell’imprenditore individuale. In questo caso, considerato che lo stesso perde la qualifica di imprenditore (tant’è che le partecipazioni sono, obbligatoriamente acquisite nella sua sfera personale - cfr. art. 176 co. 2-bis e Circ. n.52/E del 10 dicembre 2004) il valore fiscale dell’avviamento si ritiene debba essere dedotto per intero nel periodo d’imposta di conferimento; ciò al pari di quanto previsto per i differimenti di tassazione del Tuir (vale a dire plusvalenze rateizzate, manutenzioni, vecchie spese di rappresentanza ecc.) che a “cascata” concorrono alla determinazione del reddito dell’ultimo periodo d’imposta (Cfr. chiarimenti del Sottosegretario alle Finanze durante i lavori in Commissione Finanze della Camera in data 12 giugno 1990).
– Il soggetto conferitario, in virtù del principio di neutralità che caratterizza fiscalmente tale operazione, subentra in tutti i valori fiscali che l’azienda conferita aveva presso il soggetto conferente, escluso il valore dell’avviamento. E’ sottinteso che qualora si verifichino i presupposti per l’iscrizione ex novo di una posta a titolo di avviamento, il soggetto conferitario potrà optare per il regime dell’imposta
sostitutiva di cui all’art. 15, comma 10, del Dl n. 185/2008 ovvero ai sensi dell’art. 176, comma 2-ter, del Tuir.
L’Amministrazione finanziaria giunge a queste conclusioni sulla base di una interpretazione letterale dell’art. 176 del Tuir secondo il quale “(…) il soggetto conferitario subentra nella posizione di quello conferente in ordine agli elementi dell’attivo e del passivo dell’azienda stessa”. Se ne dedurrebbe, secondo l’amministrazione, che “il concetto di azienda conferita debba ricondursi al complesso delle attività e delle passività che il soggetto conferente trasferisce al soggetto conferitario per effetto e a causa dell’operazione straordinaria in esame. In tale contesto, considerato che il valore dell’ “asset” avviamento non è oggetto di trasferimento (ma viene stornato dalla contabilità del soggetto conferente in conseguenza della perdita di valore scaturente dalla “dismissione” del compendio aziendale di riferimento), tale posta contabile deve essere esclusa dal concetto di azienda conferita, così come definita dal citato art. 176, comma 1, del Tuir. Ciò anche nella ipotesi in cui, sotto il profilo contabile, il valore dell’avviamento sia incluso nel valore delle attività dismesse ai fini della quantificazione dell’utile o della perdita da conferimento. Pertanto, sotto il profilo fiscale, il valore fiscalmente riconosciuto dell’azienda conferita equivale alla somma algebrica dei valori fiscali di tutti gli elementi patrimoniali trasferiti, escluso il valore fiscale (che resta in capo al soggetto conferente) dell’asset avviamento riferibile al compendio aziendale trasferito”.
L’Amministrazione ne da poi un’altra giustificazione. Viene detto che “le suddette conclusioni (…) derivano da una duplice serie di considerazioni:
- la quantificazione dell’avviamento da cancellare deriva da un processo di natura necessariamente valutativa del tutto simile al processo di stima seguito per il test di impairment (così come previsto dallo IAS 36);
- l’operazione di conferimento che determina lo storno contabile dell’avviamento è di natura fiscalmente neutrale e, come tale, non può costituire un’ipotesi di realizzo di plusvalenze e minusvalenze in capo al soggetto conferente. Pertanto, in virtù del principio di neutralità, il soggetto conferente deve conservare, in relazione all’asset avviamento, il medesimo regime fiscale di deduzione applicabile ante conferimento”.
In senso contrario la norma di comportamento n. 181 dell’Associazione italiana dei dottori commercialisti dell’ 8 giugno 2011 secondo la quale in caso di conferimento di un'azienda, in relazione alla quale sia già iscritta nella contabilità del conferente una posta a titolo di avviamento, il conferitario acquisisce l'avviamento unitamente agli elementi che compongono l'azienda e subentra nel valore fiscale che l'avviamento aveva in capo al conferente, indipendentemente dal valore al quale viene iscritto nella contabilità del conferitario, ciò in quanto l'avviamento rappresenta una qualità dell'azienda che non può circolare autonomamente e si trasferisce necessariamente con essa.
La norma arriva a tale conclusione dopo aver evidenziato che analogamente a quanto avviene nel caso della cessione, in sede di conferimento quello che viene rilevato nella contabilità del conferitario è quindi il medesimo avviamento che già sussisteva in capo al conferente, vale a dire la medesima "qualità" dell'azienda, anche se tale avviamento viene iscritto nella contabilità del conferitario per un valore diverso (superiore o inferiore) da quello al quale era iscritto nella contabilità del conferente.
Rileva, in proposito, che nei casi in cui sia stato sostenuto un costo per l'avviamento in sede di acquisizione dell'azienda, l'avviamento può essere iscritto in bilancio insieme alle altre attività che la compongono (articolo 2426, comma 1, n. 6), essendo vietata solamente l'iscrizione dell'avviamento autoprodotto in ossequio al principio della prudenza.
Anche la rilevanza fiscale o meno del valore di iscrizione dell'avviamento nella contabilità del conferente è del tutto ininfluente ai fini delle considerazioni in merito al suo necessario trasferimento unitamente all'azienda conferita. In ogni caso, inoltre, essendo l'avviamento un "elemento" dell'azienda, la rilevanza fiscale dell'avviamento in un'operazione di conferimento e l'eventuale affrancamento del maggior valore civilistico rispetto a quello fiscale soggiacciono alle stesse regole previste dal legislatore per gli altri elementi dell'attivo .
L'inquadramento giuridico, contabile e fiscale sopra proposto è peraltro coerente con il disposto dell'articolo 176, comma 1, del Tuir, in base al quale, in applicazione del regime di neutralità fiscale, il soggetto conferitario «subentra nella posizione di quello conferente in ordine agli elementi dell'attivo e del passivo dell'azienda» conferita .
Il decreto ministeriale 25 luglio 2008, attuativo della disciplina del riallineamento, nell'indicare che l'opzione può esercitarsi con riferimento alle differenze tra il valore contabile di «immobilizzazioni materiali e immateriali, incluso l'avviamento, e l'ultimo valore fiscalmente riconosciuto dei beni stessi», implica che il valore fiscalmente riconosciuto dell'avviamento presso il conferente sia attribuito ai beni (compreso l'avviamento) iscritti dal conferitario, in dipendenza dell'operazione.
Tale conclusione è, poi, coerente con il regime delle cessioni di azienda di cui all'articolo 86 del Tuir, il quale prevede che la parte di prezzo pagata imputabile all'avviamento concorra a formare la plusvalenza unitaria del venditore; lo stesso Tuir, pertanto, espressamente prevede che l'avviamento sia incluso nel l'azienda trasferita e concorra a formare la plusvalenza unitaria del venditore e quindi, necessariamente, anche l'unitario costo di acquisto dell'azienda per l'acquirente.
La previsione normativa, che sancisce la neutralità fiscale del conferimento d'azienda e quindi il subentro del conferitario nei valori degli elementi dell'azienda fiscalmente riconosciuti in capo al conferente, si applica alla totalità degli elementi che formano l'azienda e che con essa si sono trasferiti. Per le motivazioni sopra esposte, pertanto, il disposto dell'articolo 176 si applica necessariamente anche all'avviamento; ne consegue che il conferitario subentra nel valore fiscale che l'avviamento aveva in capo al conferente, indipendentemente dal valore al quale lo iscrive nella propria contabilità .
L'eventuale iscrizione dell'avviamento nella contabilità del conferitario a un valore diverso da quello fiscalmente riconosciuto in capo al conferente produce esclusivamente un disallineamento tra valore civilistico e costo fiscale, da gestire con le medesime modalità che, in caso di disallineamento di valori, si applicano per qualunque altro elemento dell'attivo . Il conferitario, inoltre, nel rispetto del principio di neutralità fiscale del conferimento sancito dall'articolo 176 del Tuir, potrà dedurre fiscalmente l'ammortamento dell'avviamento per lo stesso importo e con gli stessi limiti che trovavano applicazione in capo al conferente .
Ne consegue anche che poiché l'avviamento, come sopra visto, si trasferisce al conferitario unitamente all'azienda, il conferente dismette tale elemento, sia contabilmente che fiscalmente, unitamente agli altri elementi che concorrono a formare l'azienda e assume quale valore fiscale della partecipazione ricevuta lo stesso valore fiscale che aveva l'azienda conferita nel suo complesso, comprensivo dell'eventuale valore fiscale dell'avviamento.
Norma di comportamento n. 181 , su «Conferimento d'azienda e regime fiscale dell'avviamento», elaborata dalla Commissione norme di comportamento e di comune interpretazione in materia tributaria dell'Associazione italiana dottori commercialisti ed esperti contabili (Aidc).
MASSIMA
In caso di conferimento di un'azienda, in relazione alla quale sia già iscritta nella contabilità del conferente una posta a titolo di avviamento, il conferitario acquisisce l'avviamento unitamente agli elementi che compongono l'azienda e subentra nel valore fiscale che l'avviamento aveva in capo al conferente, indipendentemente dal valore al quale viene iscritto nella contabilità del conferitario, ciò in quanto l'avviamento rappresenta una qualità del l'azienda che non può circolare autonomamente e si trasferisce necessariamente con essa.
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Il conferimento è quell'operazione per effetto della quale il conferente trasferisce uno o più elementi patrimoniali alla società conferitaria, ricevendo in cambio una partecipazione in quest'ultima.
Si analizza il caso in cui oggetto di conferimento sia un'azienda in relazione alla quale, a seguito di precedenti operazioni straordinarie, nella contabilità del conferente sia iscritta una posta a titolo di avviamento di detta azienda.
L'avviamento, come indicato dal Principio contabile nazionale OIC 24, rappresenta l'attitudine dell'azienda a produrre utili in misura superiore a quelli ordinariamente prodotti dai singoli beni, materiali e immateriali, che la compongono e non è suscettibile di vita propria indipendente dal complesso aziendale.
L'avviamento è correlato alle particolari modalità con cui un'azienda è organizzata, essendo l'organizzazione del l'azienda uno degli aspetti in cui si concretizza l'esercizio dell'impresa, e può avere valore positivo o negativo.
In dottrina è stato rilevato che «l'avviamento è, giuridicamente, non un bene a se stante, ma una qualità dell'azienda» e che «l'avviamento dell'azienda, costituendone una qualità essenziale, non può farsi rientrare tra le consistenze, che costituiscono, invece, elementi (materiali o immateriali) della sua struttura» . L'avviamento non è un'autonoma consistenza dell'azienda proprio perché è una qualità di tali consistenze e in quanto tale non scindibile dalle stesse.
L'avviamento non è quindi un elemento che può circolare autonomamente ed essendo una qualità dell'azienda, inscindibile dalla stessa, si trasferisce necessariamente insieme ad essa.
Nell'istante in cui l'azienda si trasferisce al conferitario, essa è quindi caratterizzata e composta anche dal proprio avviamento, che è lo stesso che sussisteva in capo al conferente. Il fatto che la "qualità" avviamento sia valorizzata nella contabilità del conferitario diversamente da come la stessa era valorizzata nella contabilità del conferente non influisce sul fatto che si tratta sempre della medesima "qualità", cioè del medesimo avviamento, e tale diversa valutazione è quindi irrilevante ai fini di ogni analisi in merito alla trasferibilità dell'avviamento.
L'avviamento, in particolare, si caratterizza per il fatto che la sua valorizzazione in bilancio è residuale ed è pari alla differenza tra il "prezzo" pagato dal subentrante e la somma algebrica del valore effettivo attribuito a tutte le attività e passività che compongono l'azienda .
L'avviamento iscritto in bilancio afferente un'azienda ceduta è inoltre trattato dai Principi contabili internazionali Ifrs/Ias. In particolare il paragrafo 86 del Principio 36 richiede, nel caso di cessione totale di una cash generation unit (Cgu), l'inclusione dell'avviamento nel complesso aziendale ceduto ai fini della determinazione dell'utile o della perdita da dismissione. Nel caso in cui, invece, oggetto di dismissione sia solo una parte della Cgu, detto Principio contabile richiede, al fine dell'inclusione nel ramo d'azienda trasferito della quota parte di avviamento ceduto, la preventiva ripartizione dell'avviamento complessivo secondo metodologie contabili ivi indicate.
Analogamente a quanto avviene nel caso della cessione, in sede di conferimento quello che viene rilevato nella contabilità del conferitario è quindi il medesimo avviamento che già sussisteva in capo al conferente, vale a dire la medesima "qualità" dell'azienda, anche se tale avviamento viene iscritto nella contabilità del conferitario per un valore diverso (superiore o inferiore) da quello al quale era iscritto nella contabilità del conferente.
Si rileva, in proposito, che nei casi in cui sia stato sostenuto un costo per l'avviamento in sede di acquisizione dell'azienda, l'avviamento può essere iscritto in bilancio insieme alle altre attività che la compongono (articolo 2426, comma 1, n. 6), essendo vietata solamente l'iscrizione dell'avviamento autoprodotto in ossequio al principio della prudenza.
Anche la rilevanza fiscale o meno del valore di iscrizione dell'avviamento nella contabilità del conferente è del tutto ininfluente ai fini delle considerazioni in merito al suo necessario trasferimento unitamente all'azienda conferita. In ogni caso, inoltre, essendo l'avviamento un "elemento" dell'azienda, la rilevanza fiscale dell'avviamento in un'operazione di conferimento e l'eventuale affrancamento del maggior valore civilistico rispetto a quello fiscale soggiacciono alle stesse regole previste dal legislatore per gli altri elementi dell'attivo .
L'inquadramento giuridico, contabile e fiscale sopra proposto è peraltro coerente con il disposto dell'articolo 176, comma 1, del Tuir, in base al quale, in applicazione del regime di neutralità fiscale, il soggetto conferitario «subentra nella posizione di quello conferente in ordine agli elementi dell'attivo e del passivo dell'azienda» conferita .
Il decreto ministeriale 25 luglio 2008, attuativo della disciplina del riallineamento, nell'indicare che l'opzione può esercitarsi con riferimento alle differenze tra il valore contabile di «immobilizzazioni materiali e immateriali, incluso l'avviamento, e l'ultimo valore fiscalmente riconosciuto dei beni stessi», implica che il valore fiscalmente riconosciuto dell'avviamento presso il conferente sia attribuito ai beni (compreso l'avviamento) iscritti dal conferitario, in dipendenza dell'operazione.
Tale conclusione è, poi, coerente con il regime delle cessioni di azienda di cui all'articolo 86 del Tuir, il quale prevede che la parte di prezzo pagata imputabile all'avviamento concorra a formare la plusvalenza unitaria del venditore; lo stesso Tuir, pertanto, espressamente prevede che l'avviamento sia incluso nel l'azienda trasferita e concorra a formare la plusvalenza unitaria del venditore e quindi, necessariamente, anche l'unitario costo di acquisto dell'azienda per l'acquirente.
La previsione normativa, che sancisce la neutralità fiscale del conferimento d'azienda e quindi il subentro del conferitario nei valori degli elementi dell'azienda fiscalmente riconosciuti in capo al conferente, si applica alla totalità degli elementi che formano l'azienda e che con essa si sono trasferiti. Per le motivazioni sopra esposte, pertanto, il disposto dell'articolo 176 si applica necessariamente anche all'avviamento; ne consegue che il conferitario subentra nel valore fiscale che l'avviamento aveva in capo al conferente, indipendentemente dal valore al quale lo iscrive nella propria contabilità .
L'eventuale iscrizione dell'avviamento nella contabilità del conferitario a un valore diverso da quello fiscalmente riconosciuto in capo al conferente produce esclusivamente un disallineamento tra valore civilistico e costo fiscale, da gestire con le medesime modalità che, in caso di disallineamento di valori, si applicano per qualunque altro elemento dell'attivo . Il conferitario, inoltre, nel rispetto del principio di neutralità fiscale del conferimento sancito dall'articolo 176 del Tuir, potrà dedurre fiscalmente l'ammortamento dell'avviamento per lo stesso importo e con gli stessi limiti che trovavano applicazione in capo al conferente .
Ne consegue anche che poiché l'avviamento, come sopra visto, si trasferisce al conferitario unitamente all'azienda, il conferente dismette tale elemento, sia contabilmente che fiscalmente, unitamente agli altri elementi che concorrono a formare l'azienda e assume quale valore fiscale della partecipazione ricevuta lo stesso valore fiscale che aveva l'azienda conferita nel suo complesso, comprensivo dell'eventuale valore fiscale dell'avviamento.
La deduzione extracontabile dei maggiori ammortamenti
Secondo la norma di comportamento n. 178 dell’Associazione italiana dei dottori commercialisti del 20 ottobre 2010 la società conferitaria è ammessa a computare gli ammortamenti (fiscali) avendo come riferimento il costo storico dei beni previsto in capo alla società conferente. Se gli stessi non sono in tutto o in parte imputati a conto economico a causa delle tecniche contabili o valutative adottate (e non, viceversa dalla previsione di un allungamento della residua vita utile dei beni), la deducibilità, da attuarsi mediante una variazione diminutiva in sede di dichiarazione dei redditi, è ammessa in applicazione dell'articolo 109, comma 4, lettera b del Tuir.
Tale articolo, alla lettera b) prevede una deroga al c.d. principio di imputazione – principio che richiede, ai fini della deducibilità delle spese e gli altri componenti negativi l’imputazione al conto economico – nel caso di esistenza di una “disposizione di legge” che riconosce la deducibilità a prescindere dall’imputazione. Tale “disposizione di legge”, secondo l’Aidc, è individuabile nel regime di neutralità statuito dall'articolo 176 del Tuir, il quale prevede che, nelle operazioni di conferimento, “il conferitario subentra nella posizione di quello conferente in ordine agli elementi dell’attivo e del passivo dell'azienda stessa” non assumendo rilievo il valore di stima né quello contabile attribuito agli stessi; neutralità fiscale da cui deve conseguire, evidenzia la norma di comportamento, una continuità dei valori fiscalmente riconosciuti indipendentemente dai comportamenti contabili e valutativi adottati dalla società conferitaria (in tal senso anchel’Abi, circolare n. 7 del 30 marzo 1998, paragrafo 3.2.5.1, con riferimento ai conferimenti "neutrali" di cui all'articolo 4 del Dlgs 358 del 1997, la quale, trattando del caso di cespiti acquisiti nella contabilità del conferitario sulla base del loro valore di stima osserva che “sorge il dubbio in proposito se la quota di ammortamento così misurata possa considerarsi deducibile per intero, anche per la frazione non imputata al conto economico. Sembra possibile sostenere la tesi della integrale deducibilità, considerato che, nella fattispecie, la deduzione troverebbe fondamento in una esplicita disposizione di legge (si veda l'articolo 75, comma 4, del Tuir”).
La situazione non è per nulla teorica: si tratta del caso di beni oggetto di conferimento per i quali non viene (civilisticamente) palesato, o non del tutto palesato, il loro valore effettivo - o il loro valore effettivo già corrisponde al netto contabile - e per i quali si proceda alla contabilizzazione a “saldi chiusi”. In questo caso il valore di iscrizione nell'attivo della conferitaria è inferiore al costo storico lordo della società conferente. Se la conferitaria effettua gli ammortamenti civilistici applicando la stessa aliquota della conferente, la conferitaria, a parità di altre condizioni, imputerà a conto economico minori ammortamenti.
Si consideri il caso che nella contabilità della conferente un bene è iscritto a 100 e ammortizzato per 70.
Il valore peritale del suddetto bene è 20.
Il coefficiente d'ammortamento è il 10 per cento.
La conferitaria iscrive il bene a 20.
La società conferitaria imputa a conto economico l’ammortamento per 2 (20 x 10%), mentre se non ci fosse stato il conferimento la conferente avrebbe imputato ammortamenti per 10 (100 x 10%).
Secondo l’Aidc la differenza pari a 8 potrà essere dedotta come variazione diminutiva nel quadro RF.
Diversa dottrina (circolare Assonime 51/2008, paragrafo 1.3.4) esprime sul punto una posizione di maggiore cautela nel sostenere la deducibilità «a prescindere» degli ammortamenti non imputati a conto economico, quando afferma che «per effetto dell'abrogazione del regime delle deduzioni extracontabili... gli ammortamenti deducibili sono solo quelli imputati a conto economico».
Norma di comportamento n. 178, della commissione norme di comportamento e di comune interpretazione in materia tributaria dell'associazione italiana dottori commercialisti ed esperti contabili su «computo degli ammortamenti deducibili da parte delle società conferitarie in presenza di ammortamenti civilistici inferiori a quelli ammessi fiscalmente», elaborata dalla Commissione norme di comportamento e di comune interpretazione in materia tributaria dell'Associazione italiana dottori commercialisti ed esperti contabili (Aidc).
MASSIMA
In ipotesi di conferimento di azienda o di ramo d'azienda soggetto alla disciplina di cui all'articolo 176 del Testo unico delle imposte sui redditi, la società conferitaria è ammessa a computare gli ammortamenti avendo come riferimento il costo per la società conferente. Se gli stessi non sono in tutto o in parte imputati a conto economico a causa delle tecniche contabili o valutative adottate, la deducibilità è ammessa in applicazione dell'articolo 109, comma 4, lettera b del Testo unico delle imposte sui redditi. Se invece i minori ammortamenti contabili derivano dalla previsione di un allungamento della residua vita utile dei beni, gli stessi sono deducibili nei limiti dell'importo imputato a conto economico.
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In forza delle disposizioni contenute nell'articolo 176 del Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir), successivamente alle modifiche introdotte dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244, i conferimenti d'azienda (o di rami d'azienda) godono di un regime di neutralità fiscale naturalmente applicabile.
Il regime di neutralità statuito dall'articolo 176 del Tuir comporta che, nelle operazioni di conferimento, il conferitario subentri nella posizione del soggetto conferente in relazione agli elementi attivi e passivi dell'azienda ricevuta non assumendo rilievo il valore di stima né quello contabile attribuito agli stessi, fatto salvo il caso dell'opzione ex articolo 176, comma 2-ter del Tuir che consente allo stesso di ottenere il riconoscimento dei maggiori valori iscritti in bilancio in relazione alle immobilizzazioni immateriali e materiali relative all'azienda ricevuta mediante il pagamento di una imposta sostitutiva.
In applicazione del regime di neutralità il costo degli elementi attivi e passivi riconosciuti fiscalmente in capo al conferitario è quello già riconosciuto in capo al conferente alla data di effetto del conferimento, indipendentemente dalla tecnica contabile e valutativa utilizzata in sede di conferimento.
Conseguentemente il conferitario calcola le quote di ammortamento fiscalmente deducibili assumendo il costo fiscale della società conferente ed applicando allo stesso:
- nel caso di immobilizzazioni materiali, i coefficienti tabellari contenuti nel decreto 31 dicembre 1988;
- nel caso di immobilizzazioni immateriali o di spese relative a più esercizi, le misure di deducibilità individuate dagli articoli 103 e 108 del Tuir (1).
La deducibilità degli ammortamenti così calcolati è riconosciuta anche nelle ipotesi in cui, sulla base della tecnica contabile e valutativa utilizzata dal conferitario, tali quote di ammortamento risultino superiori a quelle imputate a conto economico. La deducibilità consegue all'applicazione dell'articolo 109, comma 4, lettera b del Tuir il quale legittima la deduzione, mediante una variazione in diminuzione effettuata in sede di dichiarazione dei redditi, di spese e altri componenti negativi che pur non essendo imputabili al conto economico «sono deducibili per disposizione di legge» (2). In tale fattispecie la "disposizione di legge" è quella che sancisce imperativamente la neutralità dei conferimenti d'azienda, neutralità da cui deve conseguire una continuità dei valori fiscalmente riconosciuti indipendentemente dai comportamenti contabili e valutativi adottati dalla società conferitaria (3).
Qualora invece i minori ammortamenti imputati a conto economico siano il risultato di un allungamento del piano di ammortamento posto in essere in ossequio a regole civilistiche, la differenza rispetto agli importi che si sarebbero ottenuti continuando il piano originario non è deducibile, in quanto tale comportamento, se adottato dalla conferente, avrebbe avuto come effetto quello di ottenere unicamente la deducibilità degli importi imputati a conto economico (4). Tale differenza sarà deducibile negli anni successivi come ammortamento imputato a conto economico dalla conferitaria in seguito all'allungamento del periodo di ammortamento.
Poiché il principio di neutralità delle operazioni di conferimento di azienda è applicabile anche ai fini Irap (5), le conclusioni esposte con riguardo all'Ires sono applicabili ai fini dell'imposta regionale sulle attività produttive.
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NOTE:
(1) La soluzione risulta coerente con quanto sostenuto dal ministero delle Finanze, risoluzione 235/E dell'11 agosto 1995.
(2) Si veda sul punto Abi, circolare n. 7 del 30 marzo 1998, paragrafo 3.2.5.1, con riferimento ai conferimenti "neutrali" di cui all'articolo 4 del Dlgs 358 del 1997. L'Abi osserva:
«Il soggetto conferitario acquisisce gli immobili ed altri beni strumentali sulla base del costo fiscale che i cespiti avevano presso il conferente e del corrispondente fondo di ammortamento fiscalmente riconosciuto, continuando l'ammortamento fiscale secondo le regole di cui all'articolo 67 del Tuir. In questo senso, poiché il soggetto conferitario subentra nella posizione fiscale del conferente, il coefficiente di ammortamento a lui spetta per intero, senza subire la decurtazione prevista, per i beni di nuova acquisizione, dall'articolo 67, comma 2, del Tuir. L'eventuale ammortamento anticipato va quantificato tenendo conto dell'esercizio in cui i beni sono entrati in funzione presso il conferente.
È da ritenere che l'effetto relativo si produca sia nel caso in cui i cespiti siano stati acquisiti nella contabilità del conferitario sulla base del loro valore di stima, sia nel caso in cui i cespiti siano stati acquisiti in contabilità a saldi aperti.
Nel primo caso le quote di ammortamento misurate sul maggior costo dei cespiti presso il conferente potrebbero essere di importo superiore alle quote di ammortamento portate al conto economico. Sorge il dubbio in proposito se la quota di ammortamento così misurata possa considerarsi deducibile per intero, anche per la frazione non imputata al conto economico. Sembra possibile sostenere la tesi della integrale deducibilità, considerato che, nella fattispecie, la deduzione troverebbe fondamento in una esplicita disposizione di legge (si veda l'articolo 75, comma 4, del Tuir). Sarebbe tuttavia opportuna una conferma sul punto da parte del ministero delle finanze.
In entrambi i casi gli ammortamenti dei beni conferiti debbono essere calcolati ragguagliando la quota di ammortamento imputabile all'esercizio ai giorni che intercorrono tra la data del conferimento e la fine dell'esercizio».
(3) A conclusioni analoghe a quelle riportate nella presente massima si giunge anche considerando, invece che un'operazione di conferimento, una fusione o una scissione.
(4) Ciò come effetto dell'abrogazione della possibilità di deduzione extra contabile prima prevista dall'articolo 109, comma 4, lettera b del Tuir.
(5) Circolare agenzia delle Entrate, n. 57/E del 25 settembre 2008.
ARTICOLO - Pubblicato il: 19 giugno 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
A seguito delle modifiche normative apportate dalla Legge finanziaria per il 2007 (commi da 301 a 303 dell’art. 1 della Legge n. 296 del 2006), la deducibilità delle spese derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti e soggetti domiciliati nei Paesi paradisiaci, non è più subordinata alla separata indicazione delle medesime spese in dichiarazione (comma 301 della Legge finanziaria per il 2007).
FINANZIARIA 2007
Argomento e art.
art. 1, comma 301-303, Legge n. 296 del 2006
Novità
In relazione ad operazioni effettuate con imprese residenti in Paradisi fiscali esercenti prevalentemente un’attività commerciale effettiva o rispondenti ad un effettivo interesse economico e concretamente eseguite, le spese e gli altri componenti deducibili vanno separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi dell’impresa residente, ma la separata indicazione non costituisce più condizione necessaria - anche se non sufficiente - ai fini della deducibilità degli stessi.
Riferimento
Circ. n. 11/E del 16 febbraio 2007.
La deducibilità di tali spese è subordinata unicamente al rispetto delle condizioni richieste dal primo periodo del comma 11 dell’art. 110 del Tuir (e cioè all’avvenuta dimostrazione, da parte della società residente, che la controparte estera svolge prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione).
Le spese e gli altri componenti negativi di reddito deducibili ai sensi del citato comma 11 devono continuare ad essere separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi.
L’inosservanza di tale adempimento, tuttavia, non rende i costi indeducibili, ma comporta unicamente l’irrogazione, a carico del contribuente inadempiente, delle sanzioni previste dal nuovo comma 3-bis dell’art. 8 del Dlgs n. 471 del 18 dicembre 1997 (introdotto dall’art. 1, comma 302, della Legge finanziaria per il 2007), ovverosia una sanzione amministrativa pari al 10 per cento dell'importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non indicati nella dichiarazione dei redditi, con un minimo di euro 500 ed un massimo di euro 50.000.
Secondo quanto previsto dall’Agenzia delle entrate nella Circ. n. 11/E del 2007, la sanzione prevista dal citato comma 3-bis è l’unica applicabile alle violazioni commesse successivamente all’entrata in vigore della legge finanziaria (1° gennaio 2007).
Prima della modifica, stando il dato normativo, la deduzione delle spese e degli altri componenti negativi era subordinata alla separata indicazione nella dichiarazione dei redditi dei relativi ammontari dedotti.
La separata indicazione dei componenti negativi in esame costituiva, condizione autonoma e necessaria, anche se non sufficiente, ai fini della deducibilità degli stessi (Cfr. Ris. n. 46/E del 16 marzo 2004).
L'adempimento (apparentemente formale) assumeva rilevanza sostanziale, al punto che la mancata segnalazione determina l'indeducibilità sicura degli oneri in questione, anche nell'ipotesi in cui il contribuente fosse stato in grado di fornire le prove documentali in grado di disapplicare la presunzione (Cfr. il comma 11 dell'art. 110 del Tuir). Infatti, anche nel caso in cui si fosse ottenuto parere favorevole dal Comitato antielusivo, l'onere dichiarativo specifico non cessava di essere indispensabile se si voleva ottenere la deducibilità del costo oggetto d'interpello (Cfr. Ris. Ag. Entrate n. 46/E del 2004), alla stessa stregua della dimostrazione, in sede di controllo ex post, che le operazioni avevano avuto concreta esecuzione.
Nella Ris. n. 12/E del 17 gennaio 2006 l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che nel caso in cui i costi non fossero stati separatamente indicati in dichiarazione, al contribuente era consentito correggere la dichiarazione, avvalendosi delle procedure previste dall'art. 2, commi 8 e 8-bis, del Dpr n. 322 del 1998. In questo caso si applicava la sanzione da 258 a 2.065 euro (art. 8, comma 1, ultimo periodo, del Dlgs n. 471 del 1997) ridotta a 1/5 in caso di ravvedimento operoso. Tenendo conto della precipua funzione della norma l’Agenzia delle entrate aggiungeva che la possibilità di effettuare l'integrazione della dichiarazione, con separata indicazione dei costi derivanti dalle operazioni con Paesi no white list ex art. 168-bis del Tuir (fino al 2008, black list – in merito si veda il commento all’art. 168-bis del Tuir),, era ammessa a condizione che non fossero iniziati accessi, ispezioni o verifiche o altre attività amministrative di accertamento di cui l'autore avesse avuto formale conoscenza. La posizione era stata fortemente criticata dalla dottrina (Cfr. Assonime nota del 6 dicembre 2005) e parzialmente disattesa da talune pronuncie delle commissioni tributarie (Cfr. Ctp Treviso n. 99/03/06 e 77/02/06 e Ctp Frosinone n. 158/05/05); la stessa infatti non trovava riscontro normativo: l’art. 2 del Dpr n. 322 del 1998 fa riferimento alla possibilità di rettificare “errori od omissioni” entro i termini di decadenza dell’azione di accertamento, e non prevede che l’accesso degli ogani del Fisco risulti ostativo alla rettifica (come invece fa l’art. 13 del Dlgs n. 472 del 1997 in tema di ravvedimento operoso).
La legge finanziaria per il 2007 regolamenta anche con riguardo alle violazioni commesse prima del 1 gennaio 2007. In base al comma 303 dell’art. 1 della Legge n. 296 del 2006, “La disposizione del comma 302 si applica anche per le violazioni commesse prima della data di entrata in vigore della presente legge, sempre che il contribuente fornisca la prova di cui all’art. 110, comma 11, primo periodo, del citato testo unico delle imposte sui redditi. Resta ferma, in tal caso, l’applicazione della sanzione di cui all’art. 8, comma 1, del Dlgs 471/1997”.
Secondo quanto previsto dalla Circ. n. 11/E del 2007, fermo restando che per beneficiare della deducibilità dei costi non indicati separatamente in dichiarazione occorre fornire la prova di cui al citato art. 110, comma 11, primo periodo, Tuir, con riferimento alla sanzione applicabile, la modifica normativa fa riferimento a due fattispecie diverse, non essendo possibile ipotizzare l’applicazione di due sanzioni della medesima specie ad una condotta che viola un’unica disposizione.
In particolare, nel caso in cui la violazione sia stata contestata a seguito di accessi, ispezioni o verifiche dell’amministrazione finanziaria, è applicabile solo la sanzione proporzionale di cui al nuovo comma 3-bis del citato art. 8, pari al pari al 10 per cento dei costi non indicati in dichiarazione con una minimo di 500 ed un massimo di 50.000 euro. La ratio della disposizione va rinvenuta nella volontà di mitigare il trattamento sanzionatorio riservato a tali contribuenti rispetto a quello precedentemente previsto.
Nel caso in cui, invece, il contribuente non abbia subito accessi, ispezioni o verifiche, egli potrà presentare dichiarazione integrativa ai sensi dell’art. 2, comma 8, del Dpr n. 322 del 22 luglio 1998 (sempre che ricorrano le condizioni previste dalla norma), come già chiarito nella Ris. 17 gennaio 2006, n. 12/E.
In tal caso sarà applicata la sola sanzione in misura fissa prevista dal citato art. 8, comma 1, del Dlgs n. 471 del 1997.
Telefisco 2007 – Circ. n. 11/E del 16 febbraio 2007
12.6 Deducibilità dei costi derivanti da operazioni intercorse con soggetti domiciliati nei paradisi fiscali. Sanzioni applicabili
D. In relazione ai commi 301, 302 e 303 della Legge finanziaria per il 2007, si chiede di conoscere il trattamento delle seguenti fattispecie:
- il contribuente ha omesso l’indicazione dei costi e dei componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con soggetti domiciliati nei “paradisi fiscali”, come prescritto dall’art. 110, comma 11, del Tuir, relativamente al periodo di imposta 2004 e/o 2005 e, in mancanza di controllo da parte dell’amministrazione finanziaria, decide di procedere all’integrazione della dichiarazione;
- il contribuente ha subito un controllo da parte dell’amministrazione finanziaria, in relazione a una violazione delle disposizioni di cui all’art. 110, comma 11, del Tuir.
R. A seguito delle modifiche normative apportate dalla Legge finanziaria per il 2007, la deducibilità delle spese derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti e soggetti domiciliati nei paesi no white list ex art. 168-bis del Tuir (fino al 2008, black list –in merito si veda il commento all’art. 168-bis del Tuir) non è più subordinata alla separata indicazione delle medesime spese in dichiarazione (comma 301 della Legge finanziaria per il 2007).
La deducibilità di tali spese è ora subordinata unicamente al rispetto delle condizioni richieste dal primo periodo del comma 11 dell’art. 110 del Tuir (e cioè all’avvenuta dimostrazione, da parte della società residente, che la controparte estera svolge prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione).
Le spese e gli altri componenti negativi di reddito deducibili ai sensi del citato comma 11 devono continuare ad essere separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi.
L’inosservanza di tale adempimento, tuttavia, non rende i costi indeducibili, ma comporta unicamente l’irrogazione, a carico del contribuente inadempiente, delle sanzioni previste dal nuovo comma 3-bis dell’art. 8 del Dlgs 18 dicembre 1997, n. 471, introdotto dall’art. 1, comma 302, della Legge Finanziaria per il 2007.
In particolare, la sanzione prevista dal citato comma 3-bis è l’unica applicabile alle violazioni commesse successivamente all’entrata in vigore della legge finanziaria (1° gennaio 2007).
Per quanto riguarda, invece, le violazioni commesse prima di tale data, occorre fornire alcune precisazioni.
In base al comma 303 dell’art. 1 della legge finanziaria, “La disposizione del comma 302 si applica anche per le violazioni commesse prima della data di entrata in vigore della presente legge, sempre che il contribuente fornisca la prova di cui all’art. 110, comma 11, primo periodo, del citato testo unico delle imposte sui redditi. Resta ferma, in tal caso, l’applicazione della sanzione di cui all’art. 8, comma 1, del Dlgs 471/1997”.
Fermo restando che per beneficiare della deducibilità dei costi non indicati separatamente in dichiarazione occorre fornire la prova di cui al citato art. 110, comma 11, primo periodo, Tuir, con riferimento alla sanzione applicabile, si osserva che la modifica normativa fa riferimento a due fattispecie diverse, non essendo, ovviamente, possibile ipotizzare l’applicazione di due sanzioni della medesima specie ad una condotta che viola un’unica disposizione.
In particolare, nel caso in cui la violazione sia stata contestata a seguito di accessi, ispezioni o verifiche dell’amministrazione finanziaria, è applicabile solo la sanzione proporzionale di cui al nuovo comma 3-bis del citato art. 8, pari al pari al 10 per cento dei costi non indicati in dichiarazione con una minimo di 500 ed un massimo di 50.000 euro.
La ratio della disposizione va rinvenuta nella volontà di mitigare il trattamento sanzionatorio riservato a tali contribuenti rispetto a quello precedentemente previsto.
Nel caso in cui, invece, il contribuente non abbia subito accessi, ispezioni o verifiche, egli potrà presentare dichiarazione integrativa ai sensi dell’art. 2, comma 8, del Dpr 22 luglio 1998, n. 322 (sempre che ricorrano le condizioni previste dalla norma), come già chiarito nella Ris. n. 12/E del 17 gennaio 2006.
In tal caso sarà applicata la sola sanzione in misura fissa prevista dal citato art. 8, comma 1, del Dlgs n. 471 del 1997.
ARTICOLO - Pubblicato il: 19 giugno 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
Il comma 5 dell’art. 12, l. 212/2000 regola in merito alla durata delle verifiche. Prevede che, al fine di ridurre al minimo il disagio che l’azione ispettiva può recare all’esercizio dell’attività verificata, i verificatori hanno, quale termine perentorio di permanenza presso il contribuente, trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine, individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio.
L'art. 7, comma 2, lett. c), del D.L. n. 70/2011 integra tale disposizione prevedendo che "Il periodo di permanenza presso la sede del contribuente di cui al primo periodo, così come l'eventuale proroga ivi prevista, non può essere superiore a quindici giorni lavorativi contenuti nell'arco di non più di un trimestre, in tutti i casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi. In entrambi i casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi, devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori civili o militari dell'Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente".
Art. 12 Legge 212/2000 - Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali
(…)
5. La permanenza degli operatori civili o militari dell'amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell'indagine individuati e motivati dal dirigente dell'ufficio. Gli operatori possono ritornare nella sede del contribuente, decorso tale periodo, per esaminare le osservazioni e le richieste eventualmente presentate dal contribuente dopo la conclusione delle operazioni di verifica ovvero, previo assenso motivato del dirigente dell'ufficio, per specifiche ragioni. Il periodo di permanenza presso la sede del contribuente di cui al primo periodo, così come l'eventuale proroga ivi prevista, non può essere superiore a quindici giorni lavorativi contenuti nell'arco di non più di un trimestre, in tutti i casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi. In entrambi i casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi, devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori civili o militari dell'Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente. (…)
Tale disposizione - immediatamente applicabile - introduce una differenziazione nei limiti della permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente, in quanto:
1. per le imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi la permanenza non può superare i 15 giorni, nell’arco temporale di non più di un trimestre, eventualmente prorogabili in caso di particolare complessità dell'indagine per ulteriori 15, sempre in un trimestre; in proposito, si ricorda che, ai sensi dell'art. 18 del Dpr n. 600/1973 (come da ultimo modificato dall'art. 7, comma 2, lett. m), del Dl n. 70/2011) il regime contabile delle imprese minori - cosiddetto "regime semplificato" - si applica, salva la facoltà concessa al contribuente di optare per la tenuta della "contabilità ordinaria", alle imprese che, nell'anno precedente a quello in corso e relativamente a tutte le attività esercitate, abbiano conseguito ricavi non superiori a 400.000 euro, se esercenti attività di prestazione di servizi, ovvero 700.000 euro, se esercenti altre attività;
2. per le altre categorie di contribuenti, diverse da quelle appena sopra elencate, restano fermi i più ampi termini di 30 giorni, prorogabili per ulteriori 30,previsti dal citato art. 12, comma 5, della Legge n. 212/2000.
I diritti del contribuente durante la verifica
FUORI SEDE
Di norma la verifica va effettuata presso la sede del contribuente. Tuttavia questi ha la facoltà di richiedere che l'esame dei documenti amministrativi avvenga nell'ufficio dei verificatori o presso il professionista che dà l'assistenza.
IN SEDE
Accesso, ispezione e controllo devono avvenire nei locali destinati all'esercizio dell'attività se vi sono esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo. La verifica infatti può essere svolta attraverso la richiesta dei documenti da controllare.
Su un piano generale – e quindi non a valere unicamente per le imprese in semplificate e i professionisti – la modifica apportata dal Dl 70/2011 chiarisce che ai fini del calcolo del periodo di permanenza presso la sede del contribuente, previsto dall'art. 12, comma 5, della Legge n. 212/2000, occorre fare riferimento alle giornate di effettiva presenza presso la sede del contribuente. Viene di fatto eseguita un'interpretazione autentica della norma in senso assolutamente favorevole all'Amministrazione, vanificando così le letture giurisprudenziali (e le attese dei contribuenti) che, al contrario, ritenevano che il periodo temporale dovesse intendersi quale durata della verifica, e non della permanenza fisica dei verificatori.
C’è chi ritiene che tale interpretazione sia sbagliata in quando
- il dato letterale farebbe intendere che la modifica fa riferimento unicamente a professionisti e soggetti in semplificata, e
- stando lo statuto del contribuente, una norma di interpretazione autentica deve essere qualificata come tale (e non è il caso della modifica apportata con il Dl 70/2011)
In passato, infatti, in manza di una specifica previsione normativa, era sorto il dubbio se la previsione del limite temporale in argomento fosse riferita alla permanenza dei verificatori presso la sede aziendale, oppure al periodo massimo di durata della verifica fiscale.
Sul punto, la prima tesi, sostenuta sia dal Comando generale della guardia di finanza che dall’agenzia delle Entrate, (sul punto, si vedano la circolare GDF 17 agosto 2000, n. 250400, 1/2008 e la C.M. 64/E/2001) ritiene che, sulla base di un’interpretazione letterale della norma, il termine in commento dovesse riferirsi alla permanenza massima presso la sede del verificato e non alla durata della verifica (intesa come esecuzione del controllo). In altre parole, stando al dettato normativo, l’Agenzia delle entrate come pure la Guardia di finanzia riteneva ammissibile che i trenta giorni fosse un limite cumulativo, nel senso che i verificatori non potessero restare in azienda per un periodo, complessivamente, superiore a quella somma di giorni, ancorché consumati «a rate». In senso contrario, c’era chi sosteneva che il termine perentorio di cui al comma 5 dell’art. 12, l. 212/2000 fosse relativo alla durata della verifica e non alla permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente (in merito, si veda Criscione, «Il tempo massimo è incerto», ne Il Sole 24 Ore del 18 marzo 2002). Tale approccio si basa sulla regola generale secondo la quale, allorquando il legislatore stabilisce un termine, ne presuppone in ogni caso la continuità, giacché procede sempre alla dettagliata disciplina dei casi di interruzione e di ripresa della relativa decorrenza. Ciò sembrerebbe ancora più lampante, analizzando la norma nella parte in cui prevede la possibilità di ritorno dei verificatori in azienda, presupponendo un concetto di continuità della loro precedente presenza.
Commissione tributaria della Lombardia – sent. 8 luglio 2011
La commissione tributaria regionale della Lombardia, con sentenza dell'8 luglio 2011, interviene in senso "garantista" mettendo nero su bianco che quel periodo di 30 giorni (prorogabili di altri 30) per la permanenza degli operatori del Fisco nella sede del contribuente va inteso in senso continuativo e non invece frazionato come aveva, ancora una volta, provato a sostenere l'amministrazione. Accolta così su questo punto la tesi difensiva con la quale si sottolineava la natura perentoria del termine di 30 giorni previsti dalla legge 212 del 2000.
Non solo. Più rilevante ancora è la modalità del conteggio dei giorni per il raggiungimento della scadenza. L'ufficio tributario, nell'ambito di un accertamento che coinvolgeva una società relativo a rettifica Irpeg, Irap e Iva, aveva infatti precisato che non esisteva alcuna prova del fatto che la Guardia di Finanza avesse violato il termine di 30 giorni perché lo statuto parla di «giorni lavorativi» e, durante il periodo della verifica, erano state disposte varie giornate di sospensione dell'attività, erano stati compresi weekend non lavorativi e le festività di Pasqua. Quindi la durata doveva essere intesa in maniera frazionata e comprendere solo i giorni di effettivo svolgimento dell'intervento.
Ma è proprio questo modo di interpretare la normativa che non va bene, spiegano i giudici della commissione di Milano. Non può essere approvata una maniera di conteggiare i 30 giorni che si riferisce alla somma dei singoli giorni di effettiva presenza dei verificatori nel domicilio del contribuente.
Si tratta, sottolinea con qualche durezza la commissione, di una lettura che «lascerebbe arbitri gli stessi verificatori di decidere la durata effettiva della verifica, potendo limitare a qualche giorno alla settimana o addirittura al mese l'accesso effettivo presso il contribuente». Con un effetto immediato di svuotamento di una norma che ha invece come obiettivo quello di limitare i danni per l'attività commerciale o professionale del contribuente.
Il periodo va pertanto calcolato «come periodo continuativo di 30 giorni lavorativi che, iniziando da data certa abbia un termine obiettivamente preventivabile altrettanto certo, salvo ulteriore periodo di 30 giorni, unito al precedente senza soluzione di continuità e tempestivamente autorizzato in modo che non vi sia alcun tempo di permanenza presso il domicilio del verificato privo di autorizzazione».
Una diversa lettura, ricordano i giudici, lascerebbe nei fatti il contribuente alla mercè dei verificatori «in una situazione di stallo professionale e commerciale» anche per il fatto di non potere disporre della documentazione contabile perché sigillata e messa a disposizione degli operatori fiscali.
Secondo la Gdf (Cir. n. 156680 del 26 maggio 2011) la disposizione vale solo per il futuro e non anche per i controlli in corso, vale a dire alle verifiche ed ai controlli avviati con accesso dal 14 maggio 2011, data di entrata in vigore del D.L. n. 70/2011. La tesi viene motivata con l'articolo 11 delle preleggi secondo cui la legge non può che disporre per il futuro. Il documento sembra dimenticare che in tutti i provvedimenti normativi in tema di controlli e accertamenti varati negli ultimi anni e in genere sfavorevoli al contribuente sono stati sempre applicati retroattivamente sia dalla Gdf sia dalle Entrate trattandosi di norme procedurali, nonostante l'articolo 11 delle preleggi (secondo cui la legge non dispone che per il futuro) invocato ora dalla circolare.
Conseguentemente, precisa la Cir. n. 156680 del 26 maggio 2011, gli interventi che alla predetta data risultano in corso di esecuzione saranno completati rispettando la tempistica riguardante la permanenza presso la sede del contribuente prevista dalla previgente formulazione del citato art. 12, comma 5, della Legge n. 212/2000, tenuto anche conto che i piani di verifica possono essere stati impostati sulla base dei più ampi termini in precedenza stabiliti.
Argomentando in altro modo, va detto che la modifica intervenuta con il Dl 70/2011 vorrebbe probabilmente avere una connotazione di norma d’interpretazione autentica e quindi risulterebbe valida anche per il passato. Occorre però ricordare alcuni fondamentali principi, che, per una applicazione retroattiva risulterebbero non rispettati dalla nuova norma considerato che le norme interpretative in base alla disposizioni dello Statuto (articolo 1, comma 2) possono essere disposte «soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica». Si tratterebbe della violazione di questi tre disposizioni: 1) non si rinviene alcuna eccezionalità, che giustifica un simile intervento normativo; 2) la modifica è intervenuta con decreto legge (poi modificato in sede di conversione), e non con legge ordinaria; 3) la norma non è stata qualificata come interpretativa.
Le disposizioni dello Statuto, poi, possono essere modificate o derogate solo espressamente (articolo 1, comma 1, dello stesso Statuto). Nel decreto sviluppo, invece, nessuna norma menziona la modifica dello Statuto.
Sull’argomento, un ulteriore problematica interpretativa riguardi l’obbligo o meno di computare nel periodo di permanenza dei trenta giorni (ovvero quindici), le sole giornate lavorative effettivamente trascorse presso il contribuente, ovvero anche i singoli interventi presso lo stesso per effettuare, ad esempio la notifica di atti, il prelievo di documenti, ecc.
La questione, pur essendo ancora dibattuta, è stata affrontata dal Gdf nella Cir. 1/2008 che ha fornito, sull’argomento, delle specifiche direttive orientate a considerare nel computo dei giorni di permanenza i soli giorni lavorativi trascorsi presso la sede del contribuente e non anche i singoli contatti.
Altro discorso riguarda la proroga di un ulteriore periodo (trenta o quindici giorni) prevista nei casi di particolare complessità dell'indagine individuati.
Secondo la circolare n. 1/2008, in via generale e fatte salve le singole circostanze del caso concreto, le «ragioni di particolare complessità» ricorrono ogni qualvolta, anche in via alternativa:
- l’ispezione è eseguita nei confronti di soggetti di medio-grandi dimensioni;
- l’ impianto contabile risulti particolarmente complesso, articolato e/o frammentato, anche a causa dell’organizzazione economico-aziendale del contribuente;
- occorre procedere a ricostruzioni complesse della base imponibile, sulla base di una enorme mole di dati e documenti da elaborare;
- l’ispezione riguarda operazioni di rilevanza internazionale o di potenziale rilievo elusivo.
Sotto il profilo formale, la proroga deve essere disposta con apposita comunicazione motivata rivolta al contribuente e allegata al foglio di servizio redatto per il trentunesimo giorno e, inoltre, copia di tale comunicazione deve essere consegnata, per notifica, al contribuente e, dell’avvenuta notifica, deve essere dato atto nel verbale di verifica.
In ultimo, è consentita la possibilità di ritornare nella sede del contribuente, decorso il termine massimo di permanenza, per esaminare le osservazioni e le richieste, eventualmente presentate, dopo la conclusione delle operazioni di verifica e per «specifiche ragioni». A tal proposito, si ritiene che tali ragioni devono ritenersi sussistenti nei casi in cui:
- a conclusione dell’ispezione svolta presso gli uffici, sia necessario procedere a specifici riscontri documentali che comprovano le risultanze della precedente attività;
- ad intervento già concluso, sopravvenga la conoscenza di nuovi elementi che legittimino la redazione di processi verbali di constatazione finalizzati a consentire l’emanazione di accertamenti modificativi o integrativi ex art. 43, D.P.R. 600/1973 [CFF 6343];
- ultimata un’ispezione di carattere generale, sia necessario procedere ad un successivo intervento parziale per contestare, ad esempio, gli esiti degli accertamenti bancari.
Sempre su un piano generale – e quindi non a valere unicamente per le imprese in semplificate e i professionisti – il Dl 70/2011 chiarisce che gli atti e i provvedimenti, anche sanzionatori, adottati in violazione delle disposizioni dei termini di verifica costituiscono, per i dipendenti pubblici che li hanno adottati, illecito disciplinare. Con tale precisazione, si finisce per vanificare le conseguenze di eventuali inosservanze a queste regole. È evidente che il contribuente non è interessato alla eventuale irrogazione di sanzioni disciplinari al verificatore, ma alla nullità degli atti.
ARTICOLO - Pubblicato il: 16 novembre 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
Lo Statuto, all'articolo 12, prevede una serie di diritti in capo al contribuente nella fase del controllo; tuttavia, se interpretato letteralmente, buona parte di tali garanzie sembrano ancorate alle ispezioni svolte presso la sede del contribuente (come in azienda o studio) e non anche presso gli uffici (in merito alla durata, il co. 5 dell’art. 12 dello statuto – ante e post modifica - fa riferimento alle “verifiche presso la sede del contribuente”).
Una parte dei controlli/verifiche (per non dire tutti imprese in contabilità semplificata e professionisti), però, viene svolta non in azienda ma richiedendo all'interessato informazioni e documenti che poi vengono esaminati dai verificatori nei propri uffici.
A conclusione di questi controlli, normalmente preceduti da un intervento del contribuente, spesso verbalizzato con un verbale di contraddittorio, l'ufficio non redige un verbale di constatazione (cui fa riferimento l'articolo 12 dello Statuto) ma direttamente un avviso di accertamento.
Seguendo tale procedura la maggior parte degli uffici sono convinti che non debbano essere osservate le prerogative imposte dallo Statuto (facoltà di farsi assistere da un professionista, ragioni del controllo, possibilità di replicare con memorie nei successivi 60 giorni).
Secondo la Commissione tributaria provinciale di Milano, sentenza 10 maggio 2010 n. 126, le garanzie dello Statuto dei contribuenti si applicano anche se il controllo viene a svolto a seguito di richiesta documentale presso l'ufficio del Fisco e a prescindere dalla denominazione che viene data al verbale redatto (contraddittorio, constatazione).
Mancato rispetto dell’ statuto in merito:
- alla mancata indicazione nel questionario o nell'invito a comparire presso l'Agenzia, le ragioni e l'oggetto della verifica e l'avvertimento sulla facoltà di farsi assistere da un professionista;
- al mancato rispetto della durata dell’ispezione che non può superare i 30 giorni al più prorogabili di altri trenta;
- al mancato rispetto dei 60 giorni prima dell’emissione dell’avviso di accertamento o mancanza nella motivazione dell'urgenza che ha comportato la compressione di tale diritto in capo al contribuente.
La Commissione tributaria di Milano ha effettuato un'interpretazione sostanziale – e non formale – della norma, evidenziando che, a prescindere dalla denominazione dell'atto, se è stato eseguito un controllo, va da sé che devono essere garantite al contribuente le garanzie previste dallo Statuto, la cui inosservanza, conclude la sentenza, comporta la nullità dell'atto di accertamento.
Nello specifico, il contribuente lamentava la violazione dell'articolo 12, comma 2, non essendo stati indicati, né nel questionario né nell'invito a comparire presso l'Agenzia, le ragioni e l'oggetto della verifica e non essendo stato riportato l'avvertimento sulla facoltà di farsi assistere da un professionista.
In effetti, pur trattandosi di un orientamento della commissione provinciale, occorre rilevare che se non fosse come osservano i giudici milanesi, sarebbe facilmente eludibile dall'ufficio qualsivoglia garanzia in capo al soggetto controllato, spostando l'attività di controllo dall'azienda all'ufficio e denominando l'atto compilato in un modo anziché in un altro.
Si pensi per tutti al caso, anche se non frequente, di contestazione di violazioni di un'annualità prossima alla decadenza. Se l'ufficio attende gli ultimi mesi del periodo di imposta, non può concedere gli ulteriori sessanta giorni per le memorie scadrebbero i termini. Ebbene sarebbe, a questo punto molto semplice, stante il controllo in corso in ufficio, non fare un pvc, ma direttamente l'avviso di accertamento. Così operando si rischierebbe di bypassare l'obbligo imposto dall'articolo 12, comma 7, dello Statuto e, soprattutto, la motivazione imposta dalla stessa norma e ribadita dalla Corte costituzionale (ordinanza 244 del 29 luglio 2009) e dalla Cassazione (sent. 22320/2010), secondo la quale, a pena di nullità, l'urgenza che ha comportato la compressione di tale diritto in capo al contribuente, deve essere motivato.
L'altro problema che sovente si pone in occasione di controlli fiscali è la durata dell'ispezione. Lo Statuto precisa che la permanenza dei verificatori non può superare i 30 giorni al più prorogabili di altri trenta.
Di norma il mancato rispetto di tale termine non viene considerato dai giudici di merito una causa di nullità dell'atto impositivo. Tuttavia occorre segnalare, negli ultimi anni, alcune sentenze di segno opposto (per tutte: Ctp Terni n. 141/2009; Ctr Piemonte n. 26/2009, Ctr Lombardia n. 12/2008) che hanno ritenuto nullo l'accertamento emanato dopo un controllo protrattosi più di 30 o 60 giorni. Anche in questa ipotesi, il problema non è di menomare l'attività di controllo e ancor meno di non reprimere comportanti evasivi, ma solo di riequilibrare parzialmente la fase del controllo caratterizzata da ampi, quanto legittimi, poteri dell'amministrazione, cui si contrappongono non altrettanto elevati strumenti difensivi per il contribuente.
Ctp Milano, sentenza del 10 maggio 2010 n. 126
“(...) l'invito alla produzione di documenti e di registri aziendali e, in particolare, l'invito a comparire rivolto al legale rappresentante della società ricorrente presso la sede dell'Agenzia e a rispondere a specifiche domande sui prezzi correlati ai costi e, comunque, sull'attività svolta dall'azienda sociale nell'anno (...), integri la fattispecie riconducibile al processo verbale di constatazione, ancorché questo sia stato denominato «verbale di contraddittorio».
L'assenza dell'informazione (...) viola la lettera e la ratio dell'articolo 12, comma 2, della legge 212/2000 perché pregiudica i diritti e le garanzie del contribuente, incidendo sulla validità del procedimento amministrativo, quale atto presupposto dell'emanato avviso di accertamento pregiudicandone, di conseguenza, la legittimità ed efficacia”.
In tal senso si veda anche la Ctp Reggio Emilia sent. 173/2010.
ARTICOLO - Pubblicato il: 1 febbraio 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
La pianificazione dell’attività di revisione deve passare per una corretta valutazione:
- Del rischio di revisione
- Dell’errore tollerabile.
Tali elementi guidano il revisore in tutte le fasi di controllo attuate mediante un approccio basato sul rischio (e quindi mediante un controllo a campione) che non sulla certezza (ottenibile sono mediante un controllo di tutte le poste).
Rischio di revisione
Con il termine “rischio di revisione” si definisce il rischio che il revisore esprima un giudizio non corretto nel caso in cui il bilancio sia significativamente inesatto. In altre parole attraverso l’analisi dell’efficacia del sistema informativo contabile e del rischio di revisione, il revisore è in grado di determinare le potenziali “aree di rischio” e di identificare, conseguentemente, le procedure di controllo ritenute appropriate al fine di ridurre tale rischio ad un livello accettabile.
Occorre a tale proposito considerare che il bilancio può essere giudicato corretto anche in presenza di errori a condizione però che tali errori siano giudicati non significativi. È considerata significativa l’ampiezza di un errore o di un’omissione a causa della quale è probabile che il giudizio di una persona ragionevole che si affida a tali informazioni ne sia influenzato. La significatività è quindi una grandezza al di sotto della quale gli eventuali errori riscontrati dal revisore sono ritenuti tollerabili ai fini dell’emissione del giudizio sul bilancio. In merito si veda quando viene detto dopo.
Le componenti del rischio di revisione (R.R.) sono tre:
- il rischio intrinseco (R.I.),
- il rischio di controllo (R.C.);
- il rischio di individuazione (R.IND.).
Il “rischio intrinseco” (R.I.) individua l’eventualità che un’informazione di natura contabile sia inesatta e possa quindi produrre un errore significativo nell’informativa di bilancio. Più nello specifico è la suscettibilità di un saldo di un conto (ad esempio, il saldo del conto acquisti, del conto clienti, ecc.) o di una classe di operazioni di essere inesatti e quindi generare, singolarmente o aggregati ad altri saldi di conti o classi di operazioni, inesattezze significative in bilancio, e ciò indipendentemente dalla presenza o meno di adeguati controlli interni relativi a tali conti o classi di operazioni.
Il revisore valuta il rischio due livelli:
- a livello del bilancio nel suo complesso e
- a livello di classi di operazioni, saldi contabili ed informativa, e relative asserzioni.
Rischio di errori significativi a livello di bilancio
Si tratta dei rischi di errori significativi che influenzano in modo pervasivo il bilancio nel suo complesso e che potenzialmente hanno un effetto su numerose asserzioni.
Rischi di questo genere spesso si riferiscono all’ambiente di controllo dell’impresa (sebbene questi rischi possano anche riferirsi ad altri fattori, quali il peggioramento della situazione economica) e non sono necessariamente identificabili con specifiche asserzioni a livello di classe di operazioni, saldo contabile o informativa.
Piuttosto, questi rischi generali rappresentano circostanze che incrementano il rischio che possano presentarsi errori significativi con riferimento a numerose e differenti asserzioni, per esempio, attraverso la forzatura del controllo interno da parte della direzione.
La risposta del revisore alla valutazione del rischio di errori significativi a livello di bilancio nel suo complesso comprende:
- considerazioni circa le conoscenze, l’esperienza e le capacità del personale al quale sono affidate responsabilità significative nell’incarico, inclusa la decisione se utilizzare degli esperti;
- appropriati livelli di supervisione; e
- considerazioni in merito all’esistenza di eventi o condizioni che possano destare dubbi significativi circa la sussistenza del presupposto della continuità aziendale.
Rischio di errori significativi a livello di classe di operazioni, saldo contabile ed informativa
Tali valutazioni aiutano il revisore nel determinare la natura, la tempistica e l’estensione delle procedure di revisione conseguenti a livello di asserzioni.
Il revisore ottiene elementi probativi sufficienti ed appropriati a livello di classe di operazioni, saldo contabile ed informativa che lo mettano in grado di esprimere, al termine del lavoro, il giudizio sul bilancio nel suo complesso con un livello di rischio di revisione accettabilmente basso. Il revisore utilizza vari approcci per raggiungere questo obiettivo.
Per accertare il grado di rischio intrinseco, il revisore, sulla base delle proprie competenze professionali, valuta numerosi fattori, quali ad esempio:
A livello di conti e classi di operazioni
- singoli conti di bilancio che sono suscettibili di errori (per esempio: conti che sono stati oggetto di rettifiche negli esercizi precedenti o che richiedono un alto grado di stima);
- la complessità delle operazioni effettuate o di altri eventi, che potrebbero rendere necessario l'intervento di un esperto;
- il grado di soggettività connesso alla determinazione delle varie voci di bilancio;
- il grado di suscettibilità dei beni aziendali di essere persi o soggetti ad appropriazioni indebite a causa del loro valore e perché facilmente trasferibili, come ad esempio la cassa;
- l'effettuazione di operazioni complesse o anomale poste in essere in particolare modo in prossimità della fine dell'esercizio o alla sua data di chiusura;
- le operazioni non rientranti nell'elaborazione ordinaria;
- <…>
A livello di bilancio nel suo insieme
- l'integrità della Direzione;
- l'esperienza e la competenza della Direzione e gli eventuali avvicendamenti nella sua composizione(per esempio: l'inesperienza di alcuni dirigenti potrebbe influire negativamente sulla corretta predisposizione del bilancio);
- pressioni anomale sulla Direzione (per esempio: circostanze particolari che potrebbero indurre i responsabili a produrre bilanci inesatti, quali ad esempio: fallimenti di altre aziende del settore o mancanza di capitali necessari per continuare l'attività);
- la natura dell'attività svolta dalla società (per esempio: la potenziale obsolescenza tecnologica dei prodotti o servizi, il grado di complessità della struttura del capitale proprio, la significatività dei rapporti con parti correlate, il numero e la dislocazione geografica delle unità produttive);
- i fattori che influenzano il settore nel quale opera la società (per esempio: fattori di economicità e condizioni della concorrenza, rilevabili da indicatori quali l'andamento generale dei mercati, degli indici finanziari, dei cambiamenti della tecnologia, della domanda e delle prassi contabili specifiche del settore);
- <…>
Il "rischio di controllo" (R.C.) è il rischio che un'inesattezza significativa, che potrebbe verificarsi in un conto o in una classe di operazioni, individualmente considerata o sommata ad altre inesattezze, non sia prevenuta o comunque tempestivamente individuata e corretta dai sistemi contabile e di controllo interno.
La determinazione del rischio di controllo presuppone quindi l’analisi del sistema contabile e di controllo interno. Questi possono essere ritenuti efficaci o non efficaci. Qualora ritenuto efficace, il rischio di controllo è definito “!minimo” e le verifiche di sostanza sulle voci di bilancio possono essere svolte attraverso la definizione di campioni di modeste dimensioni. Al contrario, in caso di attività di controllo ritenute non efficaci, il rischio di controllo è definito “massimo” e, al fine di un corretto controllo contabile, è necessario effettuare verifiche di sostanza approfondite sulle diverse voci di bilancio.
Trattando di comprensione del sistema contabile e di controllo interno si è già detto che, se si ritiene che i controlli applicati sono adeguati e sufficienti, l’efficacia dello stesso (e quindi l’acquisizione degli elementi probativi) viene valutata mediante le procedure di conformità. In particolare esse riguardano:
a) la struttura dei sistemi contabile e di controllo interno, al fine di comprendere se siano adeguatamente progettati per prevenire o individuare e correggere errori significativi;
b) la continuità di applicazione dei controlli nel periodo esaminato.
Il revisore deve documentare nelle carte di lavoro:
a) la conoscenza acquisita dei sistemi contabile e di controllo interno e
b) la valutazione del rischio di controllo.
Occorre considerare che:
Quando il rischio di controllo non è definito alto il revisore deve documentare anche come è giunto a tale conclusione.
Per poter esprimere una valutazione del rischio di controllo non alta, il revisore deve essere in grado di:
(1) identificare i controlli interni analitici in grado di prevenire o individuare e correggere gli errori significativi;
(2) pianificare di eseguire processi di controllo al fine di supportare la valutazione espressa.
Qualunque valutazione del rischio di controllo ad un livello medio/basso deve essere basata su elementi probativi ottenuti tramite le procedure di conformità.
Più bassa è la stima del rischio di controllo, maggiore deve il supporto fornito dagli elementi probativi acquisiti circa l'adeguatezza dei sistemi contabile e di controllo interno e la loro capacità ad operare efficacemente.
Relativamente al contesto specifico delle piccole e medie imprese, il documento 1005 evidenzia la necessità, tra le altre cose, di esaminare se il proprietario-amministratore ed il personale direttivo mostrano di avere una concreta consapevolezza del controllo e in quale misura è attivamente coinvolto nelle operazioni quotidiane.
A parte questo quello che sottolinea il documento, e su cui vale la pena porre l’attenzione, è che molti dei controlli interni che sono pertinenti nelle società di grandi dimensioni, non lo sono in quelle di piccole dimensioni; conseguentemente potrebbe rivelarsi impossibile fare affidamento sul controllo interno per individuare l’esistenza di casi di frode o di errore.
Ad esempio, la suddivisione dei compiti può essere molto limitata nelle imprese ed enti minori perché è probabile che nel processo contabile siano coinvolte poche persone le quali ricoprono al tempo stesso responsabilità operative e di custodia. Analogamente, quando vi sono pochi dipendenti, può non essere possibile istituire un sistema di controllo indipendente sul loro operato.
Allo stesso tempo, però, una inadeguata separazione delle funzioni ed il rischio di errore possono essere controbilanciati da altre procedure di controllo come, ad esempio, la supervisione rigorosa da parte del proprietario-amministratore che conosce personalmente la sua impresa e che è coinvolto nella gestione. Da qui ne consegue che il revisore può decidere di presumere che il rischio di controllo sia alto senza pianificare né effettuare, a sostegno di tale valutazione, alcuna procedura dettagliata (come le procedure di conformità). Anche quando sembra che vi siano controlli efficaci può essere più efficiente per il revisore limitare le procedure di revisione a quelle di validità. Questo però comporta l’individuazione di un rischio di revisione elevato.
Se è vero che in alcuni casi il rischio di controllo può essere molto elevato, è anche necessario considerare che un simile comportamento determinerebbe un rischio di revisione particolarmente elevato che potrebbe comportare l’emissione di un giudizio sul bilancio in assenza della richiesta ragionevole certezza della mancanza di errori significativi. L’applicazione dei soli test di validità sarebbe infatti molto dispendiosa perché, in tali casi, dovrebbe essere applicata con un’estensione considerevole del campione, o addirittura in modo integrale. Anche le minori aziende necessariamente adottano sistemi di controllo e, pertanto, si può anche ritenere che il revisore debba sempre effettuare test di conformità e, in caso di particolare debolezza del sistema dei controlli, proporre miglioramenti all’amministratore-proprietario e monitorare sull’efficacia delle decisioni intraprese. Soltanto in questo modo sarà possibile ridurre il rischio di revisione ad una soglia in grado di consentire di emettere un giudizio corretto sul bilancio.
Il “rischio di individuazione” (R.IND.) è il rischio che le procedure di validità eseguite dal revisore non evidenzino un'inesattezza significativa, individualmente considerata o aggregata ad altre inesattezze, presente in un saldo di un conto o in una classe di operazioni.
Il revisore deve utilizzare le valutazioni del rischio intrinseco e del rischio di controllo per definire le procedure di validità che costituiscono gli elementi probativi per ridurre il rischi di individuazione, e quindi il rischio di revisione a un livello accettabile.
Il revisore deve considerare la valutazione dei livelli di rischio intrinseco e di rischio di controllo nel determinare la natura, la tempistica e l'ampiezza delle procedure di validità necessarie per ridurre il rischio di revisione ad un livello accettabile.
A tal fine il revisore deve considerare:
a) la natura delle procedure di validità da effettuare, per esempio: l'utilizzo di procedure dirette ad ottenere conferme da parte di terzi esterni alla società (piuttosto che persone o documentazioni interne) o l'utilizzo di verifiche di dettaglio finalizzate ad un particolare obiettivo di revisione, in aggiunta alle procedure di analisi comparativa;
b) la tempistica di intervento delle procedure di validità, effettuandole, per esempio, alla fine dell'esercizio piuttosto che ad una data anteriore;
c) l'ampiezza delle procedure di validità, per esempio, utilizzando un campionamento più esteso.
Tra le diverse componenti del rischio di revisione vi sono relazioni di interdipendenza: esiste una relazione inversa fra il rischio di individuazione ed il livello combinato del rischio intrinseco e quello di controllo.
Quando il rischio intrinseco e quello di controllo sono alti, è necessario che il rischio di individuazione accettabile sia basso al fine di ridurre il rischio di revisione ad un livello accettabile.
Viceversa, quando il rischio intrinseco e quello di controllo sono bassi, il revisore può accettare un rischio di individuazione più elevato pur mantenendo il rischio di revisione ad un livello accettabile.
Tanto più elevata è la valutazione del revisore del rischio intrinseco e del rischio di controllo, tanto maggiori sono gli elementi probativi che il revisore deve acquisire attraverso lo svolgimento delle procedure di validità. In altre parole, quando entrambi i rischi sono valutati "alti", il revisore deve considerare se le procedure di validità possono fornire elementi probativi sufficienti ed appropriati al fine di ridurre il rischio di individuazione, e quindi il rischio di revisione, ad un livello accettabile.
Quando il revisore ritiene che il rischio di individuazione, riferito ad una asserzione di bilancio relativa ad un conto o ad una classe di operazioni significativi, non possa essere ridotto ad un livello accettabile, egli deve esprimere un giudizio con rilievi o dichiararsi impossibilitato ad esprimere un giudizio.
La frode consiste in un comportamento doloso posto in essere per ottenere un vantaggio ingiusto o illecito che comporta la presenza di errori significativi in bilancio.
Le frodi possono comportare
- false informazioni economico-finanziarie oppure
- possono essere la conseguenza di appropriazioni illecite di beni e attività dell'impresa.
Le false informazioni economico-finanziarie sono spesso dovute a forzature, da parte della direzione, di controlli interni, volte a manipolare i risultati di esercizio al fine di ingannare gli utilizzatori del bilancio.
La direzione può essere indotta a fornire informazioni economico-finanziarie false a seguito di pressioni interne o esterne all'impresa, per conseguire obiettivi non diversamente raggiungibili. Tuttavia, è alla direzione stessa che compete la responsabilità principale nella prevenzione e nell'individuazione delle frodi.
L'appropriazione illecita di beni e attività è spesso commessa da dipendenti per valori relativamente modesti tuttavia potrebbe coinvolgere anche la direzione.
Per individuare eventuali frodi, l’atteggiamento “richiesto” dal principio di revisione al professionista è di scetticismo; peraltro si tratta dell'atteggiamento richiesto al revisore in tutte le fasi del controllo, dalla pianificazione alla verifica delle singole poste di bilancio. Si richiede cioè un approccio dubitativo nei confronti della direzione e del personale dell'azienda e una valutazione critica degli elementi probativi acquisiti.
Per individuare l'esistenza di eventuali rischi di errori significativi dovuti a frodi debbono essere svolte indagini specifiche presso la direzione così da comprendere le modalità con cui i responsabili supervisionano i processi adottati dalla direzione per fronteggiare i rischi di frode e il funzionamento del controllo interno.
Più nello specifico il revisore deve:
(a) acquisire una migliore comprensione circa:
- la valutazione della Direzione del rischio che il bilancio contenga inesattezze significative derivanti da frodi;
- il sistema contabile e di controllo interno addottati dalla società per prevenire e individuare tale rischio;
(b) acquisire conoscenza del livello di comprensione che la Direzione aziendale possiede in relazione al sistema contabile e dei controlli interni in essere per la prevenzione e rilevazione degli errori.
Poiché, pur considerando necessarie le indagini presso la direzione, si ritiene improbabile che possano emergere informazioni utili a individuare frodi commesse dalla direzione stessa, si considera utile svolgere indagini presso altri soggetti dell'impresa.
L'attenzione rivolta dal revisore alla possibilità di errori dovuti a frodi, è mantenuta durante tutta l'attività di revisione contabile attraverso la rilevazione di operazioni inusuali, di fatti, importi, indici o tendenze che potrebbero indicare l'esistenza di errori.
Relativamente al contesto specifico delle piccole e medie imprese, dove la direzione è diretta da una sola persona o da un gruppo limitato senza che vi siano controlli compensativi, il documento 1005 evidenzia che se la presenza di un proprietario-amministratore costituisce un fattore importante nell’ambiente di controllo, poiché il fatto che ogni operazione debba essere da questi autorizzata può compensare le eventuali debolezze nelle procedure di controllo adottate e ridurre il rischio di frode o di errori da parte del personale, questa circostanza espone al rischio di elusione dei controlli.
Significatività e errore tollerabile
Stando ai principi contabili nazionali e internazionali (Pc n. 11 e Ias n. 1) un'informazione è da considerarsi significativa se la sua mancanza o la sua imprecisa rappresentazione potrebbe influenzare le decisioni economiche degli utilizzatori da prendere sulla base del bilancio.
La significatività dipende dalla dimensione e dalla natura della voce in esame da valutare nelle particolari circostanze della sua omissione o imprecisione. Per decidere se una voce o un insieme di voci è significativo, bisogna valutare insieme la natura e il valore della voce.
Stando a quanto previsto nel principio di revisione n. 320, tali criteri sono utilizzati anche dal revisore. Questo infatti, nella fase di pianificazione del lavoro, deve definire un livello di significatività accettabile al fine di rilevare errori quantitativamente significativi. Tuttavia è necessario considerare sia gli importi (quantità) che la natura (qualità) degli errori.
Esempi di errori qualitativi possono essere l'inadeguata o la non corretta descrizione di un principio contabile (quando è probabile che un utente del bilancio sia fuorviato da tale descrizione), e la mancanza di informativa sulla violazione di una norma che possa avere un impatto significativo sulla capacità operativa della società.
L’identificazione e la valutazione degli errori significativi deve essere effettuata sia complessivamente a livello di bilancio, sia a livello delle asserzioni che sostanziano le classi di operazioni che vengono rendicontate, i saldi contabili che lo compongono e l'informativa che lo correda (ci si riferisce alle asserzioni di esistenza, completezza, autorizzazione, correttezza matematica, classificazione e competenza).
Questo processo comporta:
- l'identificazione dei rischi e dei relativi controlli istituiti dall'impresa, considerando le classi di operazioni, i saldi contabili e l'informativa;
- il collegamento dei rischi ai profili che possono risultare errati a livello di asserzioni;
- la valutazione della rilevanza e la probabilità di manifestazione dei rischi identificati.
Nella sostanza occorre considerare indagare sull’errore significativo, dopo aver considerato l’impresa e il settore in cui opera, il sistema contabile e il controllo interno e la valutazione del rischio, in quanti tali aspetti sono fondamentali per una sua corretta individuazione.
Documento 315 evidenzia le condizioni o gli eventi che possono indicare l’esistenza di rischi di errori significativi.
− operatività in aree che sono economicamente instabili, per esempio, paesi con una svalutazione monetaria significativa od economie ad alta inflazione
− operatività esposte a mercati volatili, per esempio, negoziazione di futures
− alto grado di complessità nel quadro regolamentare
− problemi di continuità aziendale e di liquidità, inclusa la perdita di clienti significativi
− limitazioni alla disponibilità di capitale e di credito
− cambiamenti nel settore di attività in cui opera l’impresa
− cambiamenti nella catena di fornitori
− sviluppo o offerta di nuovi prodotti o servizi, o ingresso in nuove linee di attività
− espansione su nuove località
− cambiamenti nell’impresa, quali grandi acquisizioni o ristrutturazioni o altri eventi inusuali
− partecipazioni o settori di attività in via di smobilizzo
− alleanze e joint venture complesse
− utilizzo di operazioni finanziarie fuori bilancio, imprese con scopi speciali ed altri complessi strumenti finanziari
− operazioni significative con parti correlate
− assenza di personale con competenze adeguate riguardo alla contabilità ed all’informativa economico-finanziaria
− cambiamenti del personale chiave, in particolare a livello dirigenziale
− punti di debolezza nel controllo interno specialmente quelli non affrontati dalla direzione
− incoerenza tra la strategia IT dell’impresa e le sue strategie di gestione
− cambiamenti dell’ambiente IT
− installazione di nuovi significativi sistemi informativi rilevanti per l’informativa economico-finanziaria
− indagini in merito ad attività od a risultati finanziari dell’impresa da parte di Autorità di Vigilanza o dell’autorità governativa
− errori significativi avvenuti in passato, casistica degli errori o numero significativo di rettifiche a fine esercizio
− numero significativo di operazioni non di routine o non sistematiche, con particolare riferimento a operazioni intragruppo ed a operazioni con ricavi significativi a fine esercizio
− operazioni che sono registrate sulla base dell’intendimento della direzione, per esempio, rifinanziamento del debito, beni da vendere e classificazione dei titoli negoziabili
− applicazione di nuovi pronunciamenti in materia contabile
− misurazioni contabili comportanti processi complessi
− eventi od operazioni che comportano una significativa incertezza di misurazione, incluse le stime contabili
− controversie in corso e passività potenziali; per esempio, garanzie di vendita, garanzie finanziarie e bonifiche ambientali.
I principi di revisione non individuano le modalità di valutazioni della significatività in termini quantitativi: il revisore dovrà pertanto giudicare professionalmente caso per caso.
Uno degli approcci possibili è quello di utilizzare una percentuale di una voce fondamentale del bilancio. La prassi professionale è solita utilizzare le voci che si va di seguito a elencare, e determina la significatività moltiplicandole per le percentuali individuate nell’ambito della normativa che tratta sul falso in bilancio. Assume poi come errore tollerabile il 50 per cento della significatività.
Sta al revisore giudicare caso per caso la voce da prendere a base per la determinazione della significatività. Sicuramente rilevante è l’analisi del rischio di revisione. La significatività ed il rischio di revisione sono infatti tra loro inversamente proporzionali. Il revisore deve considerare tale proporzionalità inversa tra significatività e rischio di revisione quando determina la natura, la tempistica e l'ampiezza delle procedure di revisione da svolgere.
Nella prassi professionali in genere viene considerato che elementi quali:
- il totale del Patrimonio Netto o del Reddito ante imposte è da preferire in caso di andamenti stabili (e, per converso, da evitare qualora si verifichino situazioni altalenanti che portano a dati differenti di anno in anno);
- il totale dell’Attivo è da preferire in caso di piccole – medie imprese;
- i valore dei Ricavi è da preferire nelle società di servizi e della grande distribuzione in quanto grandezza preminente rispetto alle altre.
Come si ha già avuto modo di dire, la significatività deve essere considerata quando il revisore:
a) determina la natura, la tempistica e l'ampiezza delle procedure di revisione e
b) valuta gli effetti degli errori.
In merito alle procedure di revisione, la valutazione preliminare della significatività di singole poste di bilancio e classi di operazioni, aiuta il revisore nella scelta delle voci da esaminare e nella scelta del tipo di procedure di revisione da applicare al fine di ridurre il rischio di revisione ad un livello accettabile (ad esempio, l'utilizzo di metodi di campionamento o lo svolgimento di procedure di analisi comparativa).
La significatività ed il rischio di revisione sono tra loro inversamente proporzionali; quindi ad un livello di significatività elevato, corrisponde un rischio di revisione basso e viceversa. Il revisore deve considerare tale proporzionalità inversa tra significatività e rischio di revisione quando determina la natura, la tempistica e l'ampiezza delle procedure di revisione da svolgere. Occorre poi considerare che la valutazione della significatività e del rischio di revisione può essere diversa, al momento iniziale della pianificazione del lavoro, rispetto al momento della valutazione dei risultati delle procedure di revisione svolte.
Per quanto concerne gli effetti degli errori è necessario che il revisore valuti la significatività sia a livello del bilancio nel suo complesso, sia in relazione a singoli conti, classi di operazioni e informazioni.
A tale proposito va considerato che:
- l’errore tollerabile è da considerarsi la soglia di errore ammissibile per singola posta di bilancio
- se si supera la soglia di significatività il revisore non può esprimere un giudizio positivo sul bilancio.
A tale fine occorre considerare che tanti errori di piccolo importo, nel loro insieme, possono influenzare significativamente il bilancio.
Per esempio, un errore in una procedura di fine mese può essere l'indizio di un errore potenzialmente significativo, se tale errore si ripetesse ogni mese.
Nel valutare la corretta presentazione del bilancio, il revisore deve stabilire se l'insieme degli errori rilevati e non eliminati sia significativo. L'insieme degli errori rilevati e non eliminati comprende:
a) specifici errori identificati dal revisore incluso l'effetto netto degli errori identificati nel corso delle precedenti revisioni e non ancora eliminati;
b) la miglior stima del revisore di altri errori che non possono essere specificamente identificati (ad esempio, errori prevedibili).
Se il revisore conclude che gli errori sono significativi, deve considerare di ridurre il rischio di revisione estendendo le procedure di revisione o chiedendo alla Direzione di correggere il bilancio. La Direzione può infatti essere disposta a modificare il bilancio a seguito degli errori rilevati.
Se la Direzione rifiuta di correggere il bilancio ed i risultati dell'estensione delle procedure di revisione non permettono al revisore di concludere che l'insieme degli errori non eliminati non sia significativo, il revisore deve considerarne gli effetti ai fini dell'espressione del proprio giudizio.
GIUDIZIO DEL REVISORE
Al fine del giudizio sul bilancio il revisore deve valutare l'insieme degli errori rilevati e non eliminati. Sta alla sua “sensibilità” professionale individuare in che modo incidono nella relazione finale.
Occorre a tal fine considerare che:
se gli errori (o l’errore) rilevati per area di bilancio superano la soglia dell’errore tollerabile ma non quella della significatività il revisore deve esprimere un giudizio con rilievi;
- se gli errori (o l’errore) rilevati per area di bilancio superano la soglia dell’errore tollerabile e anche quella della significatività il revisore non può esprimere un giudizio positivo sul bilancio.
Il revisore deve valutare se l'insieme degli errori rilevati e non eliminati sia significativo.
Se il revisore conclude che gli errori sono significativi, deve considerare di ridurre il rischio di revisione estendendo le procedure di revisione o chiedendo alla direzione di correggere il bilancio. La direzione può infatti essere disposta a modificare il bilancio a seguito degli errori rilevati. Se la direzione rifiuta di correggere il bilancio ed i risultati dell'estensione delle procedure di revisione non permettono al revisore di concludere che l'insieme degli errori non eliminati non sia significativo, il revisore deve considerarne gli effetti ai fini dell'espressione del proprio giudizio.
Se l'insieme degli errori non eliminati che il revisore ha identificato, si avvicina al livello di significatività prefissato, il revisore deve considerare la probabilità che gli errori non rilevati, unitamente all'insieme degli errori non eliminati, possano superare il livello di significatività. Pertanto, se l'insieme degli errori non eliminati si avvicina al livello di significatività, il revisore deve prendere in considerazione se ridurre il rischio svolgendo procedure di revisione addizionali o richiedere alla direzione di correggere il bilancio eliminando gli errori identificati.
Ogniqualvolta il revisore esprime un giudizio con rilievi deve inserire nella relazione una chiara descrizione di tutte le ragioni sostanziali e una quantificazione dell’effetto sul bilancio.
Tale informativa va inserita in un paragrafo che precede il giudizio sul bilancio (punto e) dallo schema previsto dalle norme di comportamento del revisore unico).
Il campione
Si ha avuto modo di dire che pianificare significa sviluppare una strategia generale e porta a definire un approccio dettagliato con riguardo all’attuazione di tale strategia in termini di:
- tipo
- tempo di attuazione
- ampiezza del lavoro di revisione (rappresentato dal programma di revisione).
Non potendo verificare tutto, ma solo alcune voci, il processo revisione deve essere campionario.
Il campione scelto deve essere in grado di garantire che il rischio è al di sotto di un livello accettabile, sulla base di una determinata singificatività.
Si ha quindi che CAMPIONE = (P/E)*R
Il campione, o numerosità di test da effettuare, è ricavato tramite una formula che mette in correlazione la popolazione (P) da esaminare (ad esempio il saldo del conto di bilancio), il rischio di revisione (R) e l’errore tollerabile (E, che dipende dal livello di significatività o materialità).
La scelta campionaria deve essere fatta:
- per prima cosa, avendo a riferimento voci di importo maggiore dell’errore tollerabile; conseguentemente gli indicatori come la “copertura del saldo” sono utili ma non devono essere considerati assoluti;
- poi, mediante la scelta casuale (random); le selezioni statistiche pure sono quelle che mettono al riparo da qualunque tipo di contestazione sul lavoro svolto.
In ogni caso deve essere posta sempre adeguata attenzione agli importi di tipo ripetitivo all’interno dei saldi così come alle operazioni inusuali e/o a cavallo dell’esercizio.
ARTICOLO - Pubblicato il: 8 gennaio 2011 - Da: G. Manzana E. Iori
Di seguito si analizzano alcuni interventi di prassi e dottrina intervenuti negli anni scorsi che hanno riguardato i conferimento d’azienda.
Nello specifico si tratta:
1) Della necessità (civilistica) di effettuare il conferimento a “saldi chiusi”
2) Della possibilità (civilistica) di non far emergere plusvalenze
3) Della necessità (civilistica) dell’iscrizione della plusvalenza in capo alla conferente e della disponibilità (civilistica) della riserva nascente
4) Iscrizione dell’imposizione differita
5) Dell’eliminazione (civilisitica) dell’imposizione differita a seguito dell’affracamento fiscale delle divergenze nascenti in capo alla conferente
1) Necessità (civilistica) di effettuare il conferimento a saldi chiusi
L’operazione di conferimento è, dal punto di vista civilistico, un’operazione realizzativa e in quanto tale nella generalità dei casi avviene invece a saldi chiusi sia per i soggetti che redigono il bilancio secondo i principi contabili nazionali, sia per quelli che adottano i principi contabili internazionali IAS/IFRS (Cfr. l’Assonime nella Circ. 51 del 12 settembre 2008).
Va anche detto che per i soggetti che adottano i principi contabili nazionali, in dottrina si discute se, ai fini civilistici, la società conferitaria debba contabilizzare i beni sempre a saldi chiusi, in conformità alla natura di atto di trasferimento di beni ovvero anche a saldi aperti (in continuità di valori, come in sede fiscale) nella particolare ipotesi in cui l’azienda venga presa in carico dalla società conferitaria agli stessi valori iniziali del soggetto conferente. Si tratta di una questione aperta con alterne posizioni interpretative.
Con riguardo ai soggetti che applicano gli IAS/IFRS, l’operazione di conferimento viene contabilizzata dal soggetto conferitario a saldi chiusi qualora l’azienda ricevuta sia oggetto di acquisizione nell’ambito di una business combination. In questa ipotesi, cioè, i beni dell’azienda ricevuta sono iscritti in bilancio al rispettivo fair value e l’eventuale eccedenza tra il fair value delle partecipazioni emesse per acquisire tali beni e il loro valore complessivo netto è imputata ad una voce di avviamento (se positiva) o come componente positiva di natura straordinaria (se negativa), in applicazione dell’IFRS 3. La neutralità dell’operazione implica che quest’ultima componente, anche se imputata a conto economico non debba concorrere alla formazione dell’imponibile.Se invece si tratta di operazioni di conferimento infragruppo prive di un significativo impatto sui flussi di cassa (cd. business combination under common control), secondo l’opinione dell’Assirevi (OPI n. 1) – non potendosi applicare l’IFRS 3 – dovrebbe essere adottato un criterio di rappresentazione contabile ispirato alla continuità, rilevando le attività e le passività a saldi aperti. In quest’ottica, il soggetto conferente dovrebbe imputare il maggior valore di apporto dell’azienda ad una apposita riserva patrimoniale, mentre il soggetto conferitario dovrebbe imputare la differenza tra valori storici e valori di trasferimento dell’azienda ricevuta ad una riserva negativa del patrimonio netto. Al limite, secondo l’Assirevi, sarebbe possibile applicare il principio di continuità assumendo in luogo del costo storico dell’azienda, quello eventualmente risultante dal bilancio consolidato della capogruppo che controlla entrambi i soggetti che prendono parte all’operazione. In dottrina, la tesi fin qui descritta ha sollevato talune perplessità. E’ stato, in particolare, osservato che sarebbe difficile conciliare l’impostazione anzidetta con la ricostruzione civilistica dell’operazione che vede il conferimento quale atto di trasferimento tra soggetti giuridicamente distinti (cui peraltro possono partecipare diversi soci di minoranza), nonché con le norme di diritto societario in base alle quali i maggiori valori di apporto dovrebbero consentire di sottoscrivere un aumento di capitale piuttosto che concorrere ad una riduzione del patrimonio netto. E’ stato altresì messo in rilievo che la tesi anzidetta, a ben vedere, non sembra trovare pieno conforto negli stessi principi sistematici desumibili dagli IAS/IFRS. In generale, infatti, i principi contabili internazionali dispongono che l’acquisizione di un bene debba essere rilevata iscrivendo tale bene al fair value del suo corrispettivo costituito dalle partecipazioni emesse (cfr. IFRS 2, IAS 27, IAS 39 e IAS 32). Rispetto a questa regola generale l’IFRS 3 costituisce una deroga nel senso di consentire l’iscrizione delle aziende acquisite al fair value dei beni che le compongono ed imputando l’eccedenza del costo di acquisizione ad avviamento. In altri termini, l’IFRS 3, a differenza degli altri principi contabili, consente di iscrivere i beni al loro fair value anche se superiore al loro costo complessivo di acquisizione (fair value delle partecipazioni). Se così è le operazioni di conferimento di azienda under common control, pur non potendo ricondursi alla deroga contenuta nell’IFRS 3, dovrebbero comunque poter essere rappresentate secondo la regola generale, ossia con iscrizione dell’azienda al fair value delle partecipazioni emesse per acquisirla. In quest’ottica, dunque, anche i conferimenti che costituiscono operazioni di mera riorganizzazione, dovrebbero essere contabilizzate a saldi chiusi e non in regime di continuità. In altri
termini, in base a questa diversa ricostruzione, partendo dal presupposto che i principi contabili internazionali sono tesi a regolare, in prima battuta, i bilanci consolidati e che in quest’ottica ben si spiega che l’IFRS 3 si riferisca al passaggio del controllo fra società indipendenti (e non fra società appartenenti al medesimo gruppo), la rappresentazione in continuità delle operazioni under common control dovrebbe logicamente trovare spazio solo nel bilancio consolidato e non anche nel bilancio separato di ciascuna delle società aggregate.
2) Possibilità (civilistica) di non far emergere plusvalenze
Secondo la giurisprudenza è ammesso civilisticamente, dare corso al conferimento emettendo azioni o quote a un prezzo inferiore al valore effettivo dei beni ricevuti in apporto è ammessa dal Codice civile (Cfr. per tutti, Tribunale di Milano, 15 ottobre 1987; Abi, circolari 7 agosto 1990, n. 43, pag. 14 e 30 marzo 1998, n. 7, pag. 19, nota 25). In particolare nell'ottica del Codice civile, il valore normale dei beni costituisce solo il limite massimo dell'aumento del capitale sociale a fronte dei conferimenti in natura. Tanto, è agevolmente ricavabile,tra l'altro, sia dalla disciplina ordinaria (articoli 2343 e 2465 del Codice civile), sia dalla circostanza che, in base all'articolo 2343 quater, gli amministratori devono attestare per i conferimenti senza perizia che il valore attribuito ai beni «è almeno pari» a quello corrispondente all'aumento di capitale sociale. Nulla vieta, quindi, che, in particolare nelle società non Ias, le parti possano decidere, a fronte di un valore di mercato dei beni, per esempio, stimato pari a 1.000, di eseguire il conferimento per 900 (come pure di aumentare il capitale sociale di 800 e attribuire a riserva la differenza di 200).
Massime dei Notai del Triveneto in tema di conferimenti S.p.a H.A.8 – S.r.l. I.A.8: I conferimenti in natura possono avvenire anche per un valore nominale delle azioni con essi liberate, comprensivo del sovrapprezzo, inferiore a quello reale dei beni conferiti.
E’ sottinteso che quanto appena detto assume rilevanza pratica nell’ambito di operazioni di riorganizzazione societaria che prevedono, per la realizzazione, anche operazioni di conferimento (quindi, sostanzialmente in caso di conferimento di aziende o di partecipazioni in una società di nuova costituzione ovvero in una società (già) controllata). In caso, viceversa, di operazioni di conferimento anche nella sostanza realizzative, nel senso che interessano terze economie, è nell’interesse delle parti fare emergere le plusvalenze latenti .
3) Necessità (civilistica) dell’iscrizione della plusvalenza in capo alla conferente e della disponibilità (civilistica) della riserva nascente
Quanto all’iscrizione in bilancio dell’eventuale plusvalenza, va rilevato che l’operazione di conferimento è un’operazione (dal punto di vista civilistico) realizzativa; ne consegue che nel bilancio dell’esercizio in cui il conferimento viene effettuato va rilevata la plusvalenza nascente dall’operazione. E’ questione controversa se ciò valga anche in caso di conferimento di aziende o di partecipazioni in una società di nuova costituzione ovvero in una società (già) controllata; in tal caso si tratta di proventi che hanno origine all'interno di un gruppo con la conseguenza che si pone il problema di chiarire se gli stessi possano essere considerati "utili realizzati" e possano, conseguentemente, essere imputati a conto economico (Cfr. La plusvalenza partecipa all’utile, F. Rossi Ragazzi, Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2007).
Sul punto anche la Consob (comunicazione 94004211/94), ha ampiamente condiviso la rilevanza attribuita in sede di determinazione del risultato d'esercizio della plusvalenza da conferimento in una società controllata «ancorché abbia avuto origine all'interno del gruppo … in ossequio al principio dell'alterità dei soggetti giuridici, ma a condizione che l'operazione non sia manifestamente artificiosa (…) ». Il che significa che questo principio non è applicabile in presenza di operazioni prive di valide ragioni economiche e finalizzate esclusivamente alla "realizzazione" di plusvalori da destinare alla copertura di perdite di bilancio.
A ciò si aggiunga che anche la terminologia adottata dal legislatore ai fini del bilancio consolidato conferma quanto ora affermato laddove, nel dettare i principi di consolidamento (articolo 31 del Dlgs 127/91), dopo aver espressamente previsto che «i proventi e gli oneri delle imprese incluse nel consolidamento sono ripresi integralmente», dispone che «sono invece eliminati (...) i proventi e gli oneri relativi ad operazioni effettuate tra le imprese medesime». E poiché il punto di partenza per la redazione del bilancio consolidato sono i bilanci d'esercizio delle singole società comprese nell'area di consolidamento, appare evidente come, nel riferirsi alla "eliminazione" di proventi e oneri, il legislatore lasci chiaramente intendere che si tratta di elementi reddituali che hanno legittimamente trovato rilevazione nel bilancio d'esercizio delle singole società.
Peraltro, ai fini del bilancio consolidato, gli "utili interni" (derivanti da operazioni poste in essere con le società del gruppo) debbono essere eliminati non perché privi del requisito del "realizzo", bensì in quanto non sono rappresentativi degli utili conseguiti dal gruppo che il bilancio consolidato deve esprimere.
In senso conforme si è anche espressa l'Assirevi, nel documento di ricerca approvato dalla Commissione tecnica il 12 gennaio 1998, laddove, in merito al trattamento contabile dei conferimenti di aziende, ha precisato che «ai fini civilistici (...) la plusvalenza di cui sopra è realizzata e pertanto va iscritta a conto economico tra i Proventi straordinari...».
Con riguardo alla distribuibilità ai soci della plusvalenza da conferimento si osserva, per compiutezza, che la Consob ha ravvisato semplicemente «l'opportunità che la politica di distribuzione degli utili scaturenti dall'operazione in questione sia il più possibile correlata con la realizzazione finanziaria dei plusvalori», con ciò implicitamente ammettendo che un'eventuale distribuzione degli utili de quibus non può ritenersi illegittima; anche se il principio della prudenza induce a ritenere che gli utili medesimi vengano distribuiti, quanto meno, "in misura parallela" agli ammortamenti effettuati dalla società conferitaria sui beni ricevuti.
E sempre per compiutezza si richiama l'attenzione in ordine alla circostanza che le conclusioni fin qui esposte non sono certamente applicabili ai soggetti che adottano i princìpi contabili internazionali qualora il conferimento non si qualifichi "business combination", vale a dire non si tratti di una "aggregazione aziendale" mediante la quale una sola entità (acquirente) ottiene il controllo di una o più attività aziendali distinte.
4) Iscrizione dell’imposizione differita
Note circ 51-2008 assonime
I principi contabili – sia nazionali (cfr. OIC n. 25) che internazionali (IAS 12) prevedono che in sede di effettuazione di operazioni di aggregazione aziendale fiscalmente neutrali (conferimento di azienda, fusione e scissione) a fronte dei maggiori valori iscritti ai fini civilistici, si rilevino le corrispondenti imposte differite passive.
La differenza temporanea è pari alla differenza tra il valore attribuito ad una attività o ad una passività secondo criteri civilistici ed il valore attribuito a quell'attività o a quella passività ai fini fiscali.
La contabilizzazione avviene attraverso l’ incremento corrispondente del l'importo attivo, purché il valore finale del bene non superi quello effettivo. In pratica si calcola il maggior valore al lordo delle imposte differite, iscrivendolo all'attivo, con un corrispondente fondo imposte nel passivo.
Per quanto riguarda l’avviamento, lo IAS 12 e l’IFRS 3 dispongono che la sua determinazione avvenga considerando, tra le attività e le passività rilevabili a seguito dell’operazione di aggregazione aziendale, anche i valori patrimoniali connessi alla fiscalità differita. Tuttavia, in deroga a questa regola generale, lo IAS 12, par. 21, non consente di iscrivere le imposte differite passive corrispondenti all’avviamento rilevato a seguito di una aggregazione aziendale a motivo del fatto che tale posta è di carattere residuale ed, in particolare, corrisponde all’eccedenza (positiva) tra il fair value delle partecipazioni emesse per realizzare l’acquisizione ed il fair value delle attività e delle passività che compongono l’azienda acquisita. Il principio contabile IAS 12 non permette di contabilizzare le imposte differite passive connesse al goodwill perché in contropartita a tale stanziamento sarebbe richiesta la rilevazione di un incremento dello stesso goodwill che non corrisponderebbe più, in valore assoluto, all’eccedenza tra il fair value del costo dell’acquisizione e il fair value dei beni acquisiti.
5) Eliminazione (civilisitica) dell’imposizione differita a seguito dell’affrancamento
Il documento interpretativo n. 3 del 2009 dell’ Oic dopo aver ricordato che la presenza di un disallineamento tra valori “civilistici” e valori “fiscali” rappresenta una differenza temporanea, che di norma determina la rilevazione di imposte differite passive in sede di contabilizzazione dell’operazione straordinaria. Pertanto, l’affrancamento dei maggiori valori mediante il pagamento dell’imposta sostitutiva determina l’eliminazione della residua differenza temporanea tassabile comportando lo storno in contropartita del conto economico delle relative imposte differite.
La rilevazione degli effetti dell’eliminazione del fondo imposte differite nel conto economico dell’esercizio, è basata sul presupposto che in ogni caso quel fondo imposte differite avrebbe prodotto i propri effetti a conto economico, attraverso l’utilizzo dello stesso in corrispondenza degli ammortamenti del maggior valore attribuito all’immobilizzazione immateriale. Quindi il venir meno della differenza temporanea imponibile che aveva generato il fondo in un’unica soluzione, deve seguire lo stesso trattamento contabile che lo stesso avrebbe subito se la differenza temporanea si riducesse nel corso di più esercizi, fino all’azzeramento. Gli effetti contabili derivanti dall’eliminazione della differenza temporanea sono rilevati a conto economico alla voce E22 – “Imposte sul reddito dell’esercizio, correnti, differite e anticipate”, con separata indicazione , ove rilevante, delle relative componenti.
Nelle note al bilancio saranno adeguatamente commentati gli effetti derivanti dall’adesione alla opzione di cui al decreto legge n. 185/2008 distinguendoli da quelli derivanti dalla fiscalità ordinaria.
La decisione dell’impresa di aderire all’affrancamento delle attività immateriali escluso l’avviamento, comporta l’iscrizione di un costo nell’esercizio in cui questa decisione è presa. Infatti, coerentemente con quanto già previsto per l’utilizzo del Fondo imposte differite, si può ritenere che a fronte del beneficio espresso nel conto economico per il venir meno della differenza temporanea sulle immobilizzazioni immateriali, l’impresa sostiene un costo – pari al debito tributario per la sostitutiva – che mitiga tale beneficio. Per effetto di questo trattamento contabile l’impresa rileva a conto economico nella voce E22 il costo relativo all’affrancamento.
Quanto appena detto non vale per l’avviamento. Per tale posta, in caso di fusioni, l’OIC 4, stabilisce che l’avviamento, laddove esso esista, è rilevato come posta residuale successivamente all’imputazione del disavanzo di fusione agli elementi dell’attivo o del passivo. E’ questa l’impostazione espressamente disciplinata dallo IAS 12 che prevede e motiva l’eccezione in merito all’iscrizione di differite passive “in quanto l’avviamento è valutato come valore residuo e la rilevazione della passività fiscale differita ne incrementerebbe il valore contabile”. Tale trattamento contabile risulta coerentemente applicabile anche alla disciplina italiana, in operazioni di conferimento o scissione oltre che per le fusioni.
In assenza di un fondo imposte differite sull’avviamento, non è possibile rilevare immediatamente in bilancio il beneficio fiscale conseguente all’adesione al regime fiscale dell’affrancamento dell’avviamento. Pertanto, a fronte dell’iscrizione del debito tributario per il pagamento della sostitutiva, il documento interpretativo 3/2009 dell’Oic non ritiene necessario imputare immediatamente a conto economico l’intero ammontare della sostitutiva, in quanto, a differenza di quanto previsto per le altre poste, viene meno il contemporaneo rilascio a conto economico del fondo imposte differite, e la relativa correlazione con il futuro beneficio fiscale. Da qui la conseguente possibilità di differimento dell’onere connesso con il debito dell’imposta sostitutiva.
Nella fattispecie dell’affrancamento dell’avviamento, - che secondo la disciplina nazionale va ammortizzato nel bilancio d’esercizio - l’imposta sostitutiva assume il connotato di anticipazione di future imposte correnti recuperabili in più esercizi.
Si tratta di un costo sostenuto nell’esercizio, i cui benefici saranno rilevati contabilmente dall’impresa solo negli esercizi futuri attraverso la deducibilità fiscale totale o parziale degli ammortamenti dell’avviamento. L’iscrizione di tale anticipazione di imposte correnti future è rilevata nella voce II – Crediti, 4 ter) imposte anticipate dello stato patrimoniale, con separata indicazione degli effetti legati a tale disposizione. Inoltre, sarà fornita nella nota integrativa l’informativa necessaria indicata nell’OIC 25.
Tenuto conto che i benefici economici attesi dall’attività iscritta in bilancio si manifesteranno attraverso la deducibilità per intero o in parte dell’ammortamento dell’avviamento alla data d’iscrizione dell’anticipazione di future imposte correnti e ad ogni successiva chiusura contabile, sarà necessario verificare la recuperabilità dell’attività iscritta conformemente a quanto già previsto dall’OIC 25 in tema di attività per imposte anticipate: “L'ammontare delle imposte anticipate iscritto in bilancio è rivisto ogni anno in quanto occorre verificare se continua a sussistere la ragionevole certezza di conseguire in futuro redditi imponibili fiscali e quindi la possibilità di recuperare l'intero importo delle imposte anticipate”.
ARTICOLO - Pubblicato il: 8 dicembre 2010 - Da: G. Manzana E. Iori
Non è ancora nato e già fa tribolare. Del nuovo redditometro sappiamo solo i lineamenti generali in quanto il Dl 78/2010 rimanda, per la regolamentazione, al decreto attuativo (di futura emanazione). Ciò nonostante, grazie anche alle prime anticipazioni dei tecnici dell’Amministrazione finanziaria, già si conoscono le differenze positive (poche) e negative rispetto al redditometro vecchio stile.
Numeri alla mano
Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle entrate, intervenendo nei giorni scorsi in un convegno tenutosi a Cuneo, ha avuto modo di dire che il nuovo redditometro servirà soprattutto alla compliance e per questo sarà accompagnato da campagne di sensibilizzazioni di massa. Ne deriva che è possibile che le segnalazione siano nell’ordine dei milioni. Tutto questo fa riflettere. Potrà anche essere vero che si voglia pensare al nuovo redditometro più come strumento di prevenzione che non di accertamento vero e proprio, ma non va dimenticato che ciò non toglie che d’ora in poi più contribuenti (persone fisiche) non tenuti per legge a alcuna contabilità, si troveranno obbligati a annotare le proprie spese e gli utilizzi dei propri conti correnti per essere in grado, in caso di richiesta dell’amministrazione finanziaria, a giustificare che il proprio tenore di vita non è frutto di scontrini non battuti, costi inventati o fatture buttate, ma di redditi regolarmente dichiarati dove il reddito presunto scaturente dal redditometro è giustificato da disinvestimenti patrimoniali, mutui, finanziamenti, mance elargite da genitori facoltosi o da “accompagnatori” virtuosi ecc.
Peraltro che l’Amministrazione intenda attribuire al nuovo redditometro un ruolo di comparsa nello scenario accertativo non convince. Il nuovo redditometro - così come pure quello vecchio - individua una presunzione legale; ciò a differenza degli studi di settore che costituiscono una presunzione semplice. E questo l’Amministrazione lo sa, come pure sa la differente difficoltà che si incontra a far star in piedi un accertamento che trova fondamento su presunzioni semplici rispetto a uno basato su presunzioni legali; come pure conosce la differente soddisfazione che, in termini di gettito per le casse erariali, le due tipologie di accertamento danno. E i numeri questo lo dimostrano: negli accertamenti complessivi degli ultimi anni l’utilizzo dei due strumenti si sta progressivamente avvicinando. Dati dell’Agenzia delle entrate dicono che gli accertamenti da Gerico si vanno riducendo: nel 2009 erano stati 52.310, rispetto ai 74.696 del 2008; quelli da redditometro invece aumentano: quest’anno sono previsti (e può essere che il dato sarà superato) 25 mila accertamenti, per l’anno prossimo sono previsti 35 mila e le previsioni sono in crescita. Non male se si pensa a uno strumento che fino a qualche anno era roba da cimitero degli elefanti e che in futuro dovrebbe costituire uno strumento di prevenzione.
Strumento più efficiente
Secondo la relazione al del Dl 78/2010 uno dei fini delle modifiche apportate all’art. 38 del Dpr 600/1973 e quello di renderlo più efficiente, nel senso, sembrerebbe di capire, di evitare che le “nuove” forme di spesa non vengano considerate o vengano considerate solo in maniera marginale nella determinazione del reddito presunto. Già con le vecchie regole (si veda l’art. 1, comma 2 del citato Dm 19 novembre 1992) l’Ufficio ha la possibilità di quantificare la capacità contributiva del contribuente anche attraverso elementi diversi da quelli espressamente previsti dallo stesso Decreto. Ma tali indicatori, e qui sta la rilevanza nell’introdurre nuove voci di spesa nell’elenco, non godono delle condizioni di favore rese possibili dal Dm 10 settembre 1992 e, quindi, sottostanno alle regole generali in base alle quali il Fisco può ragionevolmente addebitare al contribuente non più della sommatoria degli esborsi di cui sia in grado concretamente di fornire la prova, senza applicare a proprio favore gli effetti incrementativi del reddito accertabile, dovuti ai coefficienti e ai moltiplicatori previsti dal decreto.
Il contraddittorio obbligatorio
Nel nuovo redditometro quello che era una facoltà (vedi Circ. 49/E/2007) diventa un obbligo: quindi, non più in via facoltativa ma per previsione normativa, l’Ufficio dovrà prima convocare il contribuente per permettergli di fornire dati e notizie e poi, se, nonostante i dati addotti intende procedere al controllo, dovrà invitarlo al contraddittorio. Se tutto questo, in prima battuta, è visto come garanzia per il contribuente, non va dimenticato che potrebbe tradursi in collaborazione forzosa; infatti, non va dimenticato come già alla prima chiamata il contribuente dovrà fornire all’Ufficio tutti i dati e le notizie che ritiene utili per la sua difesa pena, oltre alla sanzione di natura economica, la sterilizzazione degli elementi richiesti e non addotti (ai sensi del co. 7 dell’art. 32 del Dpr 600/1973). A ciò va poi aggiunto che il diritto del contribuente di volersi difendere davanti al giudice tributario (e non anche prima in sede amministrativa) potrebbe cosargli caro considerato che quest’ultimo potrebbe valutare non positivamente la sua mancata cooperazione, sulla falsariga del solco giurisprudenziale tracciato dalle sezioni unite della Cassazione in materia di contraddittorio preventivo da studi di settore.
Incrementi patrimoniali
Sparisce la previsione degli incrementi patrimoniali. Stando il redditometro vecchia versione il reddito complessivo netto imponibile veniva determinato avendo a riferimento oltre che alla c.d. capacità gestionale del contribuente, ossia il reddito necessario per il contribuente per gestire i propri beni, anche alla capacità patrimoniale del contribuente, riferita ad una serie di negozi e atti incrementativi del proprio patrimonio. A tal fine si presumeva che la spesa era stata sostenuta con redditi conseguiti nell'anno e nei quattro precedenti con l’effetto quindi che gli incrementi patrimoniali rilevavano per un quinto.Ora sparisce il riferimento agli incrementi patrimoniali. Ciò non vuol dire, come avuto modo di dire l’Amministrazione finanziaria, che degli incrementi patrimoniali non si tiene più conto; viceversa significa che della spesa per incrementi patrimoniali, al pari di qualunque altra spesa, gli Uffici nel calcolo del reddito presunto ne terranno conto per intero e non per un quinto.
L’entità dello scostamento per giustificare l’accertamento
Viene ridotta l’entità dello scostamento ai fini dell’accertamento: in base alla nuova norma la rettifica potrà essere operata quando il reddito presunto si discosta di almeno un quinto rispetto a quello dichiarato (20%); nella precedente versione normativa lo scostamento richiesto era di un quarto (25 %).
Il ripetersi della non congruità per giustificare l’accertamento
Sarà sufficiente essere non congrui nel singolo periodo d’imposta per essere accertato. Cade quindi la condizione essenziale, in vigore nel vecchio redditometro, che affinché l'accertamento risulti legittimo occorre che il contribuente risulti "non congruo" in almeno due periodi d'imposta. Tale condizione era una conseguenza del presupposto del redditometro basato sulla disponibilità di un determinato bene o di un servizio (e non sulla spesa sostenuta). Infatti, la disponibilità di questi ultimi doveva individuare la possibilità di mantenimento nel tempo dei beni o dei servizi e, quindi, doveva rappresentare un reddito periodico e non occasionale. Tale modifica, dovrebbe confermare il fatto che il baricentro del nuovo redditometro si sposterà più sulla spesa effettiva che su quella figurativa, vale a dire sulla spesa sostenute più che sui beni a disposizione dei contribuenti. Speriamo.
Applicazione
Una cosa di buono in tutte le modifiche in ogni caso c’è: il nuovo redditometro non avrà efficacia retroattiva in quanto si applicherà per gli accertamenti relativi al periodo d’imposta 2009 e successivi e non anche a quelli per i periodi d’imposta precedenti. Ciò significa che una volta entrato in vigore ci sarà un periodo (sino alla fine del 2013 – 2014 per i contribuenti che hanno omesso di presentare la dichiarazione dei redditi) in cui i due redditometri dovranno necessariamente convivere; giusto il tempo per farci riflettere su come si stava meglio quanto di stava peggio.
ARTICOLO - Pubblicato il: 8 dicembre 2010 - Da: G. Manzana E. Iori
Lo statuto del contribuente al comma 7 dell’art. 12 prevede che “dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente possa comunicare entro 60 giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere mandato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”.
L'articolo 12, comma 7, rafforza, in modo ancor più incisivo rispetto alle altre disposizioni dello Statuto, la collaborazione tra le due parti del rapporto tributario, ponendosi in diretta attuazione dei principi di buon andamento e imparzialità dell'amministrazione in base all'articolo 97 della Costituzione.
Ciò si traduce, da un lato, in una “facoltà” per il contribuente e, dall'altro, in un duplice obbligo di non fare per l'Amministrazione finanziaria: per il primo, infatti, è possibile formulare osservazioni e richieste; per la seconda, invece, si tratta della necessità di valutare gli elementi eventualmente proposti e, al contempo, di non procedere alla notifica dell'avviso di accertamento “salvo casi di particolare e motivata urgenza”.
Occorre a tale proposito capire quali possano:
- gli effetti del mancato rispetto da parte dell’Amministrazione finanziaria dei termini suddetti
- i casi di “particolare e motivata urgenza” che legittimano l’emissione dell’atto impositivo senza il rispetto dei 60 giorni e in particolare se tra questi possa rientrare le verifiche per le quali, scatta la decadenza entro la fine dell’anno.
Il mancato rispetto dei termini
Per la Corte costituzionale (ordinanza n. 244 del 24 luglio 2009), l'avviso di accertamento emanato prima della scadenza del termine di 60 giorni dal rilascio del Pvc, è invalido nel caso in cui esso sia privo di un'adeguata motivazione sulla sua «particolare urgenza».
Per la Consulta l'obbligo di motivazione discende dalla generale previsione di motivazione degli atti amministrativi e, tra essi, di quelli dell'amministrazione. L'inosservanza è sanzionata con l'invalidità dell'atto, in via generale, dall'articolo 21-septies della legge n. 241/90 (che prevede la sanzione per l'atto privo di un elemento essenziale quale quello della motivazione), e in via particolare dagli articoli 42 del Dpr 600/73 (per gli accertamenti sulle imposte sui redditi) e 56 del Dpr n. 633/72 (per gli accertamenti in materia di Iva) che richiedono a pena di nullità la motivazione in ordine ai presupposti di fatto e alle ragioni di diritto che hanno determinato l'accertamento.
I PASSAGGI CHIAVE DELL’ORDINANZA – Corte Costituzionale ordinanza n. 244 del 24 luglio 2009
(…)
- che la questione di legittimità costituzionale è manifestamente inammissibile, perché il giudice a quo, invece di sollevarla, avrebbe dovuto preliminarmente esperire un tentativo di interpretare diversamente la disposizione censurata ed il complessivo quadro normativo in cui essa si inserisce, cosí da consentire di superare il prospettato dubbio di costituzionalità;
- che, in particolare, la Commissione tributaria avrebbe dovuto saggiare la possibilità di ritenere invalido l’avviso di accertamento emanato prima della scadenza del suddetto termine di sessanta giorni, nel caso in cui tale avviso sia privo di una adeguata motivazione sulla sua «particolare […] urgenza»;
- che, a sostegno di tale percorso ermeneutico, il giudice rimettenteavrebbe potuto prendere in considerazione il combinato disposto della censurata disposizione con l’art. 7, comma 1, della legge n. 212 del 2000 e con gli artt. 3 e 21-septies della legge 27 luglio 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi);
- che, alla luce di tali disposizioni, la Commissione tributaria avrebbe potuto prendere atto del fatto che lo specifico obbligo di motivare, anche sotto il profilo dell’urgenza, l’avviso di accertamento emanato prima della scadenza del termine di sessanta giorni decorrente dal rilascio al contribuente della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni, da parte degli organi di controllo, è previsto dalla stessa disposizione censurata ed è espressione del generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi e, tra essi, di quelli dell’amministrazione finanziaria (artt. 3 della legge n. 241 del 1990 e 7, comma 1, della legge n. 212 del 2000);
- che, sulla base di tale premessa, la rimettente avrebbe potuto altresì valutare se, nel caso in esame, l’inosservanza dell’obbligo di motivazione,anche in relazione alla «particolare […] urgenza» dell’avviso di accertamento, sia già espressamente sanzionata in termini di invalidità dell’atto, in via generale, dall’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990 (che prevede tale sanzione per il provvedimento amministrativo privo di un elemento essenziale, quale è la motivazione ( e, con speciale riferimento all’accertamento delle imposte sui redditi e dell’IVA, dagli artt. 42, secondo e terzo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi) e 56, quinto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), i quali stabiliscono che l’avviso di accertamento deve essere motivato, a pena di nullità, in relazione ai presupposti di fatto ed alle ragioni giuridiche che lo hanno determinato;
- che il giudice a quo si è limitato, invece, ad asserire che la disposizione censurata non è assistita da alcuna sanzione di invalidità, facendo derivare da tale mera asserzione la prospettata illegittimità costituzionale;(…)
Non va in ogni caso dimenticato come la previsione dell'articolo 12, comma 7, e dunque la facoltà del contribuente di produrre la memoria posi consegna del processo verbale di constatazione, sia qualificabile come una forma di contraddittorio precontenzioso, che richiama quello previsto dall'art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689, articolo che, in tema di sanzioni amministrative, prevede che entro 30 giorni dalla contestazione della violazione (e prima dell'emanazione dell'atto amministrativo che recepisce le risultanze della contestazione medesima) l'interessato può depositare scritti difensivi o documenti. La Corte di Cassazione, in relazione all'art. 18 appena citato, ha fatto notare che l'irrogazione della sanzione prima del decorso di tale termine comporta la nullità insanabile dell'ordinanza ingiunzione che «ratifica» le contestazioni contenute nel verbale (Cass., 7 ottobre 1987, n. 7495).
E’ da ritenere, quindi, sul punto conclusa la querelle inerente l'ipotizzata preclusione circa la declaratoria di nullità dell'atto solo perché l'articolo 12, comma 7, in esame non la contempla espressamente (soprattutto nel caso in cui l'avviso di accertamento venga emesso prima dei sessanta giorni di "inattività" previsti), fondata essenzialmente su una lettura -di parte - dell'ordinanza della Corte Costituzionale n. 244 del 24 luglio 2009, con la quale i Giudici delle leggi hanno dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'articolo de qua in riferimento agli articoli 24 e 111 della Carta, in quanto norma che regola il procedimento di accertamento tributario e, pertanto, non avente natura processuale.
Ebbene, come si è visto, dall'ordinanza traspare in primo luogo «la possibilità di ritenere invalido l'avviso di accertamento emanato prima della scadenza del suddetto termine di sessanta giorni, nel caso in cui tale avviso sia privo di una adeguata motivazione sulla sua particolare urgenza» e, in secondo luogo, come «lo specifico obbligo di motivazione, anche sotto il pigio dell'urgenza è previsto dalla stessa disposizione censurata ed è espressione del generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi, e tra essi, di quelli dell'amministrazione finanziaria».
Pertanto, a fronte di una sanzione di invalidità dell'atto, sposta in via generale dall'articolo 21-septies della legge n. 241 del 1990, prevista nei casi in cui il provvedimento amministrativo risulti privo di un elemento essenziale quale la motivazione, è pressoché automatico far derivare la nullità dello stesso in ragione dell'espressa sanzione prevista sia nell'articolo 42, secondo e terzo comma, del Dpr n. 600/1973 sia nell'articolo 56, quinto comma, del Dpr n. 633 del 1972, per quanto rispettivamente attiene all'ambito della imposi dirette e dell'Iva.
La Cassazione, sulla scia della Corte costituzionale, sancisce l'indefettibilità di un'adeguata valutazione delle ragioni «di particolare e motivata urgenza» per le quali l'ufficio abbia ritenuto di emanare un avviso prima della scadenza del termine di sessanta giorni, così impedendo al contribuente di esercitare il diritto assicurato dall'ultimo comma dell'articolo 12 (Cfr. Cass. Sent. 3 novembre 2010, n. 22320).
L’atto impositivo, per la Cassazione, non è di per se stesso nullo, ma diventa tale se non c'è una motivazione adeguata sulla particolare urgenza.
La nullità dell'avviso immotivatamente notificato prima del termine, per la Cassazione, ancorché non espressamente sanzionata, è desumibile:
a) in generale, dalla legge 241/1990 (il cui articolo 3 statuisce l'obbligo di motivazione per tutti gli atti amministrativi – come del resto l'articolo 7 dello Statuto per gli atti dell'amministrazione finanziaria –, e il cui articolo 21-septies prevede la nullità del provvedimento amministrativo privo di un elemento essenziale);
b), in particolare, dalle specifiche norme dettate in tema di accertamento delle imposte sui redditi e in tema di Iva, che prevedono l'obbligo di motivazione dell'avviso di accertamento, a pena di nullità, in relazione ai presupposti di fatto e alle ragioni giuridiche che lo hanno determinato (articolo 42, commi 2 e 3, Dpr n. 600/1973 e articolo 56, comma 5, Dpr n. 633/1972), e dunque anche in relazione agli specifici presupposti di legittimità che lo sorreggono.
In sostanza, viene rivalutata ulteriormente la motivazione, da intendere, ormai, come elemento essenziale del provvedimento, con la conseguenza che, se una motivazione specifica sulla urgenza non viene prospettata, l'atto è nullo.
I PASSAGGI DELLA SENTENZA - Cass. Sent. 3 novembre 2010, n. 22320
(...) Nel ravvisare la nullità dell'avviso di accertamento impugnato in base alla mera circostanza della relativa emanazione «prima della conclusione dell'attività ispettiva», senza nulla indicare in motivazione in ordine al requisito dell'"urgenza", anche sotto il profilo della verifica della eventuale mancata deduzione e allegazione a opera dell'odierna ricorrente (...) agenzia delle Entrate, il giudice del gravame di merito ha nell'impugnata sentenza disattesa invero il suindicato principio.
In tal senso, se vogliamo "anticipando" i Giudici delle leggi, la giurisprudenza di merito la quale, fornendo una lettura costituzionalmente orientata, ha affermato come la disposizione che ci interessa “costituisce norma di carattere imperativo e non richiede, in virtù di detta natura, una comminatoria espressa di nullità del provvedimento. Conseguentemente, l’anticipata notificazione dell’avviso di accertamento conduce alla declaratoria di illegittimità dell'atto impositivo, essendo la norma in parola espressione di principi costituzionali, di cui lo Statuto è diretta attuazione, ed essendo leso il diritto del contribuente all’instaurazione di un contraddittorio amministrativo e precontenzioso volto a rendere edotta l'Amministrazione finanziaria delle proprie doglianze, delle quali la medesima è chiamata a dare conto ex post in sede di motivazione dell'avviso stesso, giusta il principio di cooperazione e leale collaborazione” (C.T.R. Puglia, Sez. XIV, sentenza n. 67 dell'11.7.2008). Violazione, dunque, capace di ripercuotersi anche sui principi della buona fede e dell'affidamento contemplati dall'articolo 10 dello Statuto, come ribadito anche da altri Giudici regionali i quali hanno ritenuto come “L'anticipata notificazione al contribuente dell'avviso di accertamento comporta vulnus al principio di leale collaborazione e vizio di illegittimità dell'atto per carenza di potere. L'avviso di accertamento, agli effetti del combinato disposto dell'ad. 12, comma 7, L. n. 212/2000 e dell'art. 21-septies, L n. 241/1990, costituisce fattispecie a formazione progressiva la cui validità ed efficacia è condizionata dalla sussistenza di tutti gli elementi costitutivi previsti dalla legge. Deve pertanto comminarsi la nullità - inesistenza giuridica all’atto, ancorché non espressamente stabilita dalla norma dello Statuto del contribuente, per l'inidoneità dell'avviso di accertamento a spiegare efficacia per incompletezza della fattispecie” (C.T.R. Friuli Venezia Giulia, sez. XI, sentenza n. 9 del 26.3.2008). Sempre in merito a interventi di giudici di prime cure, si richiama anche la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza n. 173 del 2010 secondo la quale ènullo l'avviso di "accertamento anticipato", ossia quello notificato prima dei 60 giorni dal rilascio del processo verbale di constatazione (Pvc), in assenza di ulteriori specificazioni da parte degli uffici, anche se il Pvc è formalmente riferito a un'annualità differente da quella oggetto di accertamento.
Va detto, peraltro, che secondo vari giudici di merito (Cfr. Milano sent. 126/2010 e Ctp Reggio Emilia sent. 173/2010) la censura della nullità opera a prescindere dalla denominazione data all'atto che precede l'avviso di accertamento, essendo del tutto irrilevante che si tratti di un invito al contraddittorio, di un questionario, piuttosto che di un Pvc. Ci si riferisce al fatto che in prossimità della fine dell'anno si assiste all'emissione di atti di accertamento non preceduti da Pvc né da verbali di verifica, quasi a voler bypassare la censura di nullità. In altre parole vari uffici, pur effettuando un'attività di controllo, ritengono che, in assenza della redazione di un atto formalmente denominato Pvc, non debbano rispettare le prescrizioni in questione: è il caso di controlli conclusi solo negli ultimi mesi dell'anno a seguito di invito al contraddittorio, o attraverso questionari, che di norma riguardano l'anno per il quale sta decadendo l'azione di controllo.
Accertamenti non preceduti da PVC
01 NOTIFICA ANTICIPATA
- Alcuni uffici notificano l'avviso di accertamento prima di 60 giorni dalla consegna non di un processo verbale di constatazione (Pvc) ma di una atto che pur avendo differente denominazione adempie allo stesso scopo
- Tali atti sono prodromici all'accertamento (inviti al contraddittorio, questionari, richiamo a precedenti Pvc) ma non sono accompagnati da una motivazione sull'urgenza
- L'amministrazione finanziaria, di solito, indica i motivi dell'urgenza per il mancato rispetto del termine dei 60 giorni solo se l'avviso di accertamento precede un Pvc
02 LE POSSIBILI DIFESE
- Il contribuente può ricorrere presso la commissione tributaria provinciale competente per territorio contro l'accertamento notificato prima dei 60 giorni dall'invio di un atto diverso dal Pvc senza l'indicazione di una motivazione sull'urgenza
- Il contribuente può rilevare che, a prescindere dalla denominazione dell'atto, lo scopo dello Statuto del contribuente è di garantire un adeguato lasso temporale
- A seguito di un controllo, il contribuente può rilevare la necessità di avere a disposizione un intervallo temporale per formulare delle osservazioni idonee a evitare, in tutto o in parte, l'atto impositivo da parte dell'amministrazione finanziaria
La particolare e motivata urgenza
E’ stato evidenziato dalla giurisprudenza che non ogni urgenza è idonea a restituire il potere sospeso, ma è idonea solo l'urgenza "particolare" e "motivata", propria di una situazione specifica, che deve essere portata all'esterno, inserita nell'atto, per consentirne il controllo.
Il giudice, investito del problema dal contribuente, deve avere la possibilità di valutare sia la sussistenza del presupposto del caso di "particolare" urgenza, sia la congruità e l'adeguatezza della motivazione offerta per esercitare un potere che altrimenti non spetterebbe. Il giudice, quindi, deve avere il potere di dichiarare la nullità dell'atto se ritiene che sia stato emanato in carenza di potere, o di procedere all'annullamento di esso, se dovesse ritenere sussistente una illegittimità derivante da una violazione di legge (nel caso, quella che impone una motivazione specifica).
Con la nota del 14 ottobre 2009, la direzione centrale accertamento, recependo il contenuto dell'ordinanza 244/09 della Corte costituzionale ha richiamato l'attenzione dei propri uffici periferici su quelli che dovranno essere i contenuti della motivazione sulla particolare urgenza, pena il rischio di vedersi dichiarata in contenzioso l'invalidità dell'accertamento.
La particolare urgenza, per l'Agenzia, deve essere rappresentata e descritta nella motivazione dell'accertamento. Con distinto riferimento alle circostanze di fatto, che rendono evidente l'impossibilità di rinviare l'emanazione dell'atto e che costituiscono motivi di deroga rispetto al termine.
Nella nota, ad esempio, viene indicata l'ipotesi particolare nella quale si trova l'amministrazione che ha necessità di notificare l'avviso di accertamento nell'imminenza dello spirare dei termini di decadenza dell'azione accertatrice con riferimento ai processi verbali consegnati al contribuente in prossimità di tali termini.
In queste circostanze, le ragioni dell'urgenza (che hanno spinto i verificatori a notificare il verbale di contestazione nel l'immediatezza dei termini di decadenza e l'ufficio a emettere anticipatamente l'accertamento) dovranno essere compiutamente e analiticamente esposte nella motivazione del l'avviso.
Con una direttiva di novembre 2009, la Guardia di finanza ha richiesto ai verificatori di indicare, a partire dal Pvc, le circostanze di eccezionale urgenza che hanno impedito la procedura. Peraltro, già con la circolare 1/2008, le Fiamme gialle hanno optato per una soluzione pro-contribuente. Le scelte attinenti ai periodi da sottoporre a ispezione devono essere adottate in modo da porre in condizione l'ufficio, titolare dell'accertamento, di rispettare la norma dello Statuto. Lo stesso documento ha poi indicato che, tendenzialmente, occorre procedere alla redazione di Pvc non oltre la fine del mese di agosto.
Secondo la sent. n. 96/29/09 del 22 settembre 2009 della Ctr di Firenze, l’atto di accertamento notificato prima dei 60 giorni dal rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni di controllo, a meno di esigenze straordinarie dell'amministrazione, è nullo. E tra le giustificazioni che possono essere invocate per accorciare i tempi, non ci può essere quella per cui i termini di accertamento previsti dalla legge stanno per scadere.
Nel caso esaminato dai giudici l'avviso di accertamento era stato emanato sette giorni dopo il rilascio della copia del Pvc. La norma di riferimento è il comma 7 dell'articolo 12 della legge 212 del 2000, che consente al contribuente di comunicare all'ufficio, entro 60 giorni successivi al rilascio del processo verbale, osservazioni e richieste. La norma, secondo i giudici fiorentini, «nel consentire al contribuente di comunicare osservazioni che altrimenti gli uffici impositori non sarebbero in grado di conoscere, pone gli uffici finanziari nella condizione di emettere atti di accertamento ben ponderati, e, quindi, meglio motivati e conseguentemente meno attaccabili in sede contenziosa». Il periodo di 60 giorni consente al contribuente anche di «chiedere all'ente accertatore la definizione in via amministrativa della questione», attraverso un'istanza di accertamento con adesione o con la richiesta di autotutela da parte dell'ufficio. La sentenza quindi spiega che, data l'importanza degli interessi protetti, il termine non può che avere carattere perentorio al quale è possibile derogare solo, come prevede la norma dello Statuto, «nell'ipotesi di particolare e motivata urgenza». L'urgenza era stata spiegata dall'ufficio con la circostanza che era prossimo alla scadenza il termine per l'accertamento. Una giustificazione che non ha convinto i giudici: «l'ufficio non può – argomentano i giudici – fare ricadere sul contribuente le conseguenze della propria precorsa inerzia in ragione della quale la verifica è iniziata a ridosso del termine prescrizionale per l'accertamento, laddove l'amministrazione e gli organi di polizia finanziaria avevano a disposizione cinque anni per effettuare i relativi controlli». La sentenza richiama alcuni precedenti già nel senso della decisione adottata.
LA GIURISPRUDENZA
- Corte costituzionale ordinanza n. 244 del 24 luglio 2009
- Cass. Sent. 3 novembre 2010, n. 22320
- Ctp di Reggio Emilia con la sentenza n. 173 del 2010
- Ctr di Firenze n. 96/29/09 del 22 settembre 2009
- Ctr Friuli Venezia Giulia, sez. XI, sentenza n. 9 del 26.3.2008
- Ctr Puglia, Sez. XIV, sentenza n. 67 dell'11.7.2008
- Ctp Bari n. 112/2008
- Ctp La Spezia n. 210/2007
- Ctr Lazio n. 197/2007
- Ctr Lazio n. 181/2006
- Ctp Genova n. 15/2006
- Ctp Siracusa n. 4/2006
- Ctp Viterbo, n. 141/2006
- Ctp Pordenone n. 1/2005
- Ctp Caltanisetta n. 15/2004
- Ctp Sassari n. 97/2003
- Ctp Brescia Sez. IX, 7 marzo 2002, n. 12
- Ctp Roma, n. 556/2002,
- Ctp Brescia n. 12/2000
ARTICOLO - Pubblicato il: 19 settembre 2010 - Da: G. Manzana E. Iori
Sintesi
Il problema della deducibilità del compenso amministratori non è nuovo alla Cassazione. Senza voler scomodare l’ordinanza n. 18702 del 23 agosto del 2010 che mette in discussione la deducibilità in base a logiche che vanno oltre a quanto è possibile dedurre dal dettato normativo, si ricorderà le sentenze che intervengono sulla deducibilità compenso in caso di mancanza di delibera assembleare e sulla possibilità dell’amministrazione finanziaria di sindacare l’entità del compenso.
Normativa
Secondo il co. 5, art. 95, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 [5195], i compensi erogati agli amministratori sono deducibili nell’esercizio in cui vengono corrisposti: la deducibilità è condizionata al loro effettivo pagamento.
La norma poi estende la disciplina prevista anche ai compensi erogati sotto forma di partecipazioni agli utili, erogati ai soci fondatori o ai promotori, recependo nel Tuir la previsione di cui all’art. 14, co. 3, lett. i), L. 24 dicembre 1993, n. 537 [1287]. Anche in questo caso si applica il criterio di cassa e, in deroga al principio dell’imputazione (ex art. 109, co. 4, Tuir), i compensi sono deducibili anche se non sono imputati a conto economico dell'esercizio cui si riferisce l'utile che ha costituito la base di calcolo del compenso.
Si noti come la deducibilità in base al principio di cassa riguardi esclusivamente il compenso; i relativi contributi previdenziali dovranno pertanto rispettare il principio di competenza.
L’adozione del criterio di cassa, in deroga al principio generale della competenza, trova la sua giustificazione nell’esigenza di rimuovere gli inconvenienti derivanti dal precedente dettato normativo, in virtù del quale la deduzione dei compensi erogati sotto forma di partecipazioni agli utili avveniva nel rispetto del principio della competenza economica e quindi temporalmente anticipata rispetto al momento in cui i compensi stessi venivano assoggettati ad imposizione nei confronti del percettore e indipendentemente dall'effettiva tassazione dei compensi stessi.
Si noti come la norma regoli in merito ai compensi agli amministratori senza fare quindi riferimento alla natura reddituale che tali somme costituiscono per il percettore. Si ha quindi che i costi relativi a collaborazioni coordinate e continuative (ad esempio, membro del collegio sindacale, collegio dei revisore dei conti non titolare di partita Iva) ovvero da collaborazioni professionali che non derivino da attività di amministratore, sono esclusi dalla deducibilità in base al principio di cassa e continuano ad essere deducibili per l'impresa in base al principio di competenza temporale.
Da un'applicazione letterale dell'art. 95, co. 5, Tuir si dovrebbe concludere che la società deduce solo le somme effettivamente corrisposte agli amministratori entro il 31 dicembre di ciascun periodo d'imposta. Tuttavia occorre segnalare che la questione fu diversamente risolta dall'Agenzia delle Entrate (si vedano la C.M. 18 giugno2001, n. 57 e 12 dicembre 2001, n. 105), la quale ha affermato che anche per la società deve applicarsi il criterio di cassa allargato in considerazione del fatto che all’amministratore si applica la speciale regola di cui all'art. 51, co. 1, Tuir [5151], cioè le somme incassate entro il 12 gennaio sono figurativamente percepite entro il precedente periodo d'imposta.
Pertanto la società può dedurre i compensi pagati agli amministratori fino al 12 gennaio dell'esercizio successivo al termine del periodo d'imposta, come se figurativamente li avesse erogati entro il 31 dicembre.
Considerato che la ratio della pronuncia dell'Agenzia è quella di far coincidere i criteri di tassazione tra erogante e percipiente, nel caso di amministratore professionista il principio di cassa allargato non trova applicazione. In questo caso, infatti, per l’amministratore i compensi corrisposti nei primi giorni di gennaio concorrono a formare il reddito nel nuovo esercizio.
Stessa cosa dicasi in caso di società con esercizio a cavallo dell’anno solare, considerato che anche in questo caso non trova applicazione il principio di cassa allargato.
L’ordinanza n. 18702 del 23 agosto 2010
Con l’ordinanza n. 18702 del 23 agosto 2010 la Cassazione sostiene che i compensi corrisposti agli amministratori di società di capitali non costituiscono un costo deducibile. Dalla motivazione del provvedimento emerge che è stato applicato l'articolo 62 del Dpr 917/1986, che disciplinava, fino al 31 dicembre 2003, le spese per prestazioni di lavoro nell'ambito della determinazione del reddito di impresa. Questa norma -che a differenza dell’attuale trattava del reddito d’impresa nell’ambito dell’Irpef e valeva solo per rimando anche per le società di capitali (gli allora soggetti Irpeg) - prevedeva la non deducibilità di somme a titolo di compenso del lavoro prestato o dell'opera svolta dall'imprenditore individuale, mentre al comma 3 prevedeva la deducibilità dei compensi spettanti agli amministratori delle società di persone aventi natura commerciale.
In sintesi secondo la Cassazione il regime di deducibilità dell’allora art. 62 del Tuir non era applicabile agli amministratori delle società di capitali essendo la loro prestazione assimilabile più a quella dell'imprenditore che a quella degli amministratori di società di persone. Per i giudici la posizione dell'amministratore delle società di capitali era equiparabile «sotto il profilo giuridico, a quella dell'imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l'assoggettamento all'altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione».
La decisione, che non dovrebbe più destare dubbi con le regole ora in vigore, desta forti perplessità.
In prima battuta sembra che la Suprema corte non abbia considerato che esisteva un'altra norma (l’allora art. 95 del Tuir) la quale estendeva la disciplina delle società di persone anche alle società di capitali. Sia il sistema normativo precedente al 2004, che in quello successivo l'imprenditore individuale non ha alcun diritto a detrarre somme per l'attività gestoria che egli svolge ma, contestualmente, non tassa il compenso percepito, mentre l'imprenditore societario (società di persone o società di capitali non fa differenza) può sempre dedurre le somme corrisposte agli amministratori i quali dovranno portarli a tassazione.
In seconda battuta non va dimenticato che una società ha una propria personalità giuridica (soggettività giuridica in caso di società di persone) che fa si che l’amministratore, ancorchè possa essere anche socio della società, sia soggetto in ogni caso distinto rispetto alla società; ciò a differenza dell’imprenditore, dove le c.d. sfere, quella personale e quella e imprenditoriale sono una finzione fiscale che nulla hanno a che vedere con gli ambiti giuridici. Quanto all'assimilazione delle prestazioni degli amministratori delle società di capitali a quelle dell'imprenditore, va ricordato che in diritto commerciale si è sempre pacificamente ritenuto che l'attività gestoria di una società (spesso affidata a persone non socie, chiamate a svolgere l'attività di amministrazione per le loro professionalità) debba essere retribuita con somme (o con forme di partecipazioni agli utili) che chiaramente costituiscono un costo per la società. E se c'é un costo (sicuramente inerente in quanto sorto per consentire la gestione della società) automaticamente c'è una generale deducibilità del costo, essendo impensabile il contrario. Nel caso delle società di capitali, peraltro, la distinzione tra i soci, da una parte, e l'amministrazione, dall'altra, presenta profili maggiori, e ancora più evidenti, rispetto alla situazione delle società di persone.
Come anticipato, la decisione della suprema corte, in ogni caso non dovrebbe destare dubbi con le regole in vigore dal 1 gennaio 2004. La riforma fiscale (Dlgs n. 344/2003) pur senza avere apportato modifiche sostanziali al regime delle spese per gli amministratori, ha riscritto - dopo l'introduzione dell'imposta sulle società - le norme sulle società di capitali facendo discendere da esse l'imposizione del reddito di tutte le imprese. Con le regole ora in vigore, il calcolo del reddito imponibile delle società di capitali avviene secondo una disciplina specifica e non più, per rimando, in base alle norme delle imprese Irpef.
La deducibilità del compenso in caso di mancanza di delibera assembleare
Ci si potrebbe chiedere se la deducibilità fiscale delle remunerazioni erogate agli amministratori sia condizionata dalla regolarità civilistica della procedura adottata dalla società per l'assunzione dell'obbligo e del relativo pagamento.
Sul piano civilistico il compenso agli amministratori è regolato, tra gli altri, dagli artt. 2364, 2389, 2432 e 2421, Codice civile; in particolare, tali norme prevedono che la determinazione del compenso agli amministratori compete all'assemblea dei soci. Il problema si pone nel caso in cui difetti una delibera: perché non si sia provveduto alla verbalizzazione di una deliberazione effettivamente adottata o perché non si sia deliberato alcunché. In materia societaria vige uno statuto speciale che fissa termini di decadenza assai ristretti per impugnare gli atti societari, spirati i quali una delibera (trasfusa in un verbale di assemblea) in ipotesi viziata, non è più impugnabile.
Cass. sentenza n. 3774/1995
Sul tema, su un piano squisitamente civilistico, è intervenuta la Cassazione con la sentenza n. 3774/1995, pronunciata su un motivo di ricorso proposto nei confronti di una sentenza che aveva dichiarato l'illegittimità della ratifica, mediante approvazione del bilancio, dei compensi che gli amministratori di una società per azioni si erano autodeterminati, senza preventiva delibera dell'assemblea (e pertanto con affermazioni che ne costituiscono la ratiodecidendi e non mero obiterdictum), il compenso «può essere inserito in bilancio, in quanto sia stato deliberato dalla assemblea con un'autonoma decisione, che non può essere implicita nella approvazione del bilancio stesso».
Cass. sentenza n. 2832/2001
Di contro, con la sentenza n. 2832/2001 la Cassazione ha affermato che l'approvazione del bilancio nel quale figuri iscritta la voce relativa al compenso ha valore giuridico di approvazione e ratifica dell'operato dell'amministratore che si sia attribuito tale compenso senza che l'assemblea lo abbia previamente deliberato. L'approvazione del bilancio, infatti, costituirebbe manifestazione di volontà specificamente diretta all'approvazione di tale attribuzione, perchè non costituirebbe una mera presa d'atto di dati contabili, ma rappresenterebbe un atto di appropriazione del rapporto da parte della società e pertanto una ratifica.
Affermando tale principio la sentenza richiama la Cassazione n. 6935/1983 la quale, pronunciando in una fattispecie in cui un soggetto poi nominato amministratore di una società di capitali, in epoca antecedente alla costituzione, aveva stipulato un contratto di locazione, ha ritenuto che la delibera di approvazione del bilancio, in cui sia incluso il debito per i relativi canoni, non costituendo una mera dichiarazione di scienza, nè un semplice atto unilaterale ed interno, ma un atto in cui rileva la volontà che sta alla base della formazione della deliberazione stessa, ove sia provata la conoscenza dell'instaurazione del rapporto locativo da parte dell'assemblea, costituisce un atto di appropriazione di tale rapporto da parte della società e vale come ratifica dell'atto posto in essere da chi ha agito in nome della società stessa senza averne il potere.
Cass. sentenze n. 28243/2005 e n. 11490/2007
Il principio affermato con la sentenza n. 2832 del 2001, è stato condiviso, in modo espresso e mediante rinvio esplicito, dalla successiva sentenza n. 28243/2005, e implicitamente da Cassazione n. 11490/2007, che tuttavia ha negato che, allo scopo di valutare la possibilità di sanare l'autoattribuzione di compensi da parte dell'amministratore, non preventivamente deliberata dall'assemblea, mediante delibera
di approvazione di bilancio, sia sufficiente l'affermazione del principio di diritto astratto di cui alla decisione del 2001, essendo necessario che in concreto siano indicati gli elementi probatori dai quali risulti che la specifica spesa era stata acquisita al bagaglio istruttorio della delibera relativa al bilancio.
La stessa duplicità di orientamenti evidenziata all'interno della giurisprudenza di legittimità si è registra anche nella giurisprudenza di merito e nella dottrina.
Cass. Sezione Unite con la sentenza del 29 agosto 2008, n. 21933
In tempi successivi alle sentenze sopra riportate è intervenuta la Cassazione a Sezione Unite con la sentenza del 29 agosto 2008, n. 21933. Viene detto che i compensi degli amministratori devono essere determinati con una delibera societaria specifica in quanto non si può pensare che questa delibera possa essere implicita in quella che ha approvato il bilancio.
Nella sostanza le Sezioni unite per arrivare alla conclusione più restrittiva sottolineano innanzitutto che il tema della remunerazione degli amministratori delle società di capitali (che, sulla base della riforma del 2003 può essere costituita in tutto o in parte da partecipazioni agli utili o dall'attribuzione del diritto di sottoscrivere a prezzo predefinito azioni di futura emissione) è tra i più importanti nell'ambito delle problematiche del governo societario. Tanto che la Commissione europea è più volte intervenuta sul punto e il Testo unico sull'intermediazione finanziaria è stato modificato in alcuni aspetti, sempre alla ricerca di un equilibrio tra gli interessi dei soggetti che hanno compiti di direzione delle società e quelli degli azionisti.
L'articolo del Codice civile che disciplina la materia, il 2389, nella lettura delle Sezioni unite, ha una natura imperativa e inderogabile «sia perché, in generale, le discipline della struttura e del funzionamento delle società regolari sono dettate (anche) nell'interesse pubblico al regolare svolgimento dell'attività commerciale e industriale del Paese, sia perché la loro violazione, in particolare la percezione di compensi non previamente deliberati dall'assemblea era prevista dall'articolo 2630, 2° comma n. 1, del Codice civile (...) come delitto che non poteva essere certo scriminato dall'approvazione del bilancio successiva alla consumazione».
Le delibere di approvazione del bilancio e di determinazione del compenso degli amministratori hanno poi oggetti chiaramente diversi. La prima è indirizzata a controllare la legittimità di un atto di competenza degli amministratori, approvandolo o no, mentre l'altra ha la funzione di determinare o stabilire la la remunerazione dei manager. In ogni caso, mette ancora in evidenza la sentenza, anche a volere ipotizzare l'ammissibilità di una ratifica tacita della autodeterminazione del compenso da parte dell'amministratore sarebbe necessaria la prova che, approvando il bilancio, l'assemblea è a conoscenza del vizio ha espresso la volontà di fare proprio l'atto compiuto dall'organo privo di potere non potendo invece essere considerata sufficiente una generica delibera di approvazione.
Prendendo poi in considerazione le pronunce sia di merito sia di legittimità che hanno seguito un indirizzo diverso, le Sezioni unite ricordano che si è di solito trattato di sentenze che non hanno riguardato la violazione di norme imperative come avviene invece nel caso di quelle sui compensi degli amministratori. La stessa dottrina ritiene poi che l'ammissibilità di delibere tacite o implicite sia in contrasto con le regole di formazione della volontà della società e in particolare con la disciplina del Codice civile che stabilisce l'indicazione esplicita dell'ordine del giorno degli argomenti sui quali deliberare in maniera tale da permettere la partecipazione all'assemblea di soci preparati.
Per le Sezioni unite, infine, va conservata la distinzione tra approvazione del bilancio e degli atti gestori a esso sottostanti; distinzione che deve trovare un riflesso anche nella separata indicazione nell'ordine del giorno tra i punti da trattare. L'unica possibilità di un'approvazione dei compensi contestualmente al bilancio è nella prova che l'assemblea dopo avere licenziato il rendiconto ha affrontato e approvato in maniera esplicita il nodo della retribuzione.
La posizione degli organi verificatori è spesso improntata alla valorizzazione, anche sotto il profilo fiscale, della carenza di deliberazione. Gli argomenti utilizzati sono riconducibili essenzialmente al difetto di certezza del costo sostenuto, anche sotto il profilo della mancanza di data certa; e, ancor prima, alla carenza di un idoneo titolo di pagamento. Secondo alcuni, l'eccessiva asprezza di questa conclusione (che cozza anche contro ragioni di "simmetria" fiscale nel caso di regolare tassazione dell'emolumento da parte dell'amministratore) invita a valutare interpretazioni alternative, che però non possono prescindere dal superamento di un ostacolo significativo: la carenza di una delibera determina l'inesistenza del titolo giuridico che legittima il pagamento. In questo caso, infatti, la società mantiene in astratto il diritto alla ripetizione dall'amministratore delle somme "indebitamente" versate. Se il diritto alla restituzione viene non attivato dalla società, si potrebbe configurare una liberalità e, come tutte le donazioni, un onere non rilevante nei rapporti con il Fisco (Cfr.G. Maccagnani e G.P. Ranocchi, Delibera anche retroattiva, Il Sole 24 Ore 27 marzo 2006).
In questa prospettiva va segnalato che nulla impedisce alla società di adottare una delibera dotata di tutti i crismi formali che "sani" la situazione con efficacia espressamente retroattiva (si badi a scanso di equivoci che la delibera in ratifica sarebbe adottata al momento, ad esempio, della verifica fiscale; e si tenga anche nel giusto conto, dell'orientamento ministeriale e giurisprudenziale, a proposito della non utilizzabilità in sede contenziosa dei documenti non esibiti nel corso della verifica). All'eccezione del Fisco secondo cui in questo caso il requisito della certezza sarebbe difettoso perché acquisito posteriormente alla data di deduzione del costo, potrebbe obiettarsi, che sussistono plurimi elementi oggettivamente incardinati nel tempo (ad esempio l'annotazione dei movimenti nelle scritture contabili, i versamenti periodici delle ritenute, il rilascio delle certificazioni, gli elementi risultanti dai bilanci approvati e depositati), indirettamente ma inequivocabilmente idonei a conferire, pur a posteriori, la certezza oggettiva del costo, tale da renderlo fiscalmente deducibile.
L’entità del compenso
L'entità del compenso è decisione che di norma spetta all'assemblea dei soci (art. 2364, Codice civile), salva l'ipotesi di amministratori investiti di particolari cariche per i quali la misura del compenso è stabilita dal l'organo amministrativo (art. 2389, comma 3, Codice civile), a meno che lo statuto non affidi anche questa decisione all'assemblea. Il punto delicato è valutare se la misura del compensi deliberati possa essere disconosciuta dal Fisco se giudicata eccessivamente elevata.
Cass. n. 12813 del 27 settembre 2000
Cass. 30 ottobre 2001 n. 13478
Cass. 27 settembre 2000 n. 12813
Cass. n. 13478/2001
Una prima pronuncia in cui questa tesi fu riconosciuta valida si ha con la sentenza della Cassazione n. 12813 del 27 settembre 2000 (poi seguita dalle sentenze della Corte di Cass. 30 ottobre 2001 n. 13478 e Corte di Cass. 27 settembre 2000 n. 12813). Sulla base del principio generale secondo il quale l'amministrazione può valutare la congruità di costi e ricavi a prescindere dalla contestazione della loro veridicità, la Suprema corte ha riconosciuto fondati i rilievi del Fisco che aveva disconosciuto parte dei compensi erogati all'organo amministrativo.
La questione era inerente i compensi ad amministratori di società in nome collettivo ma la vicenda assume evidentemente contorni generali quando nella sentenza si afferma: “Per quanto attiene ai compensi degli amministratori delle società in nome collettivo, la loro deducibilità, riconosciuta dall'art. 62 del Tuir indipendentemente dal fatto che gli amministratori siano o non siano soci, non significa che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni sociali o contratti, e ciò a prescindere dall'invalidità di questi atti sotto il profilo civilistico”.
Secondo questa pronuncia, il Fisco avrebbe potuto procedere alla rettifica delle dichiarazioni dei redditi, sia pure nel rispetto dei principi dettati dal decreto sull'accertamento e dal Tuir in materia di reddito d'impresa, e negare in tutto o in parte la deducibilità dei costi, se eccessivi rispetto al montante ricavi o all'oggetto dell'impresa. E questo anche in mancanza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi degli atti giuridici compiuti nell'esercizio dell'attività imprenditoriale. I giudici precisano ulteriormente che il Fisco non poteva essere vincolato alle deliberazioni assembleari in tal senso e che questo percorso logico dovesse estendersi anche agli altri elementi di costo sostenuti dall'impresa (Cfr. Corte di Cass. Sentenza n. 13478/2001).
Cass. n. 6599 del 9 maggio 2002
Cass. n. 21155 del 31 ottobre 2005
La vicenda ha suscitato molte critiche per un motivo molto semplice: nel precedente Testo unico (Dpr n. 597 del 1973) era sì prevista una soglia massima per legittimare la deducibilità fiscale del compenso degli amministratori soci - soglia parametrata alla misura corrente degli emolumenti spettanti ad amministratori non soci - ma con l'entrata in vigore del Tuir questo parametro è stato abrogato. Sia nel precedente art. 62 sia nell'attuale art. 95 del Tuir non vi è traccia di alcun tetto limite quale condizione necessaria per la deduzione fiscale del compenso.
Da qui la tesi che la misura del compenso non sia oggetto di possibile sindacato di congruità da parte del Fisco. Questa tesi è stata sostenuta da altre e recenti pronunce della Suprema Corte tra, le quali vale la pena di ricordare la n. 21155 del 31 ottobre 2005 in cui emerge chiaramente l'insindacabilità della misura del compenso (prima la Cassazione n. 6599 del 9 maggio 2002).: “Questo orientamento è basato sul fatto che l'art. 62 del Tuir, nella sua nuova formulazione introdotta dal testo unico, non prevede più il richiamo a un parametro da utilizzare nella valutazione della entità dei compensi, per cui l'interprete non può che prendere atto della modificazione normativa e concludere per l'inesistenza del potere di verificare la congruità delle somme date ad un amministratore di società a titolo di compensi per l'attività svolta”. Va anche ricordato che la società ricorrente aveva aggiunto che in ogni caso il compenso erogato agli amministratori rappresentava il 2,6 per cento dei ricavi contabilizzati ed era da ritenersi congruo anche sulla base delle tariffe professionali dei dottori commercialisti chiamati a svolgere incarichi amministrativi.
La Suprema corte nella sentenza n. 6599/02 ricorda che l'articolo 59 del previgente Dpr n. 597 del 1973 aveva tentato di mettere un argine al fenomeno, sottoponendo i compensi degli amministratori soci ai limiti «delle misure correnti per gli amministratori non soci». Il fatto che tale elemento non sia stato accolto nelle disposizioni successive, elimina ogni possibilità di intervento, anche perché la norma antielusiva (articolo 37-bis del Dpr n. 600 del 1973) non è applicabile alle ipotesi di specie. Inoltre, sempre secondo il richiamato orientamento della Suprema Corte, il comportamento dell'impresa non sarebbe attaccabile neppure sul piano dell'inerenza, dovendo quest'ultimo requisito essere riferito alla "qualità" del costo e non alla sua "quantità".
In buona sostanza, se la spesa serve a produrre ricavi, sindacarne la misura corrisponderebbe a "sostituirsi" all'imprenditore, unico soggetto cui spetta la scelta delle strategie aziendali.
Il nuovo “filone” interpretativo fa notare che l'art. 62 del Tuir (oggi art. 95, comma 5) al comma 3 dispone, sic et simpliciter, che i compensi spettanti agli amministratori, anche in forma di partecipazione agli utili, si deducono nell'anno fiscale in cui sono corrisposti.
Pertanto, la Cassazione non vede in questa norma, né in altre, il riferimento a tabelle o ad altre indicazioni vincolanti sul piano della deducibilità fiscale degli emolumenti all'organo amministrativo. Vincoli che invece esistevano nella norma precedente al Tuir, ove nell'art. 59 del Dpr n. 597 del 1973 era espressamente previsto che i compensi agli amministratori erano deducibili “nei limiti delle misure correnti”. La mancanza nelle nuove norme del Tuir di questo vincolo alla deduzione delle remunerazioni amministrative e di una norma antielusiva generale, impongono al Fisco di osservare un limite netto e preciso al proprio potere di accertamento sulla congruità dei compensi agli amministratori e, in generale, di qualsivoglia voce di costo dell'impresa, onde evitare “il rischio concreto dell'arbitrarietà”.
È evidente il contrasto che emerge nella giurisprudenza della Suprema corte che ha prodotto diverse sentenze alternativamente ispirate alla tesi della sindacabilità e del l'insindacabilità dell'entità del compenso. La tesi che evidentemente appare più rispettosa del nuovo dato normativo, e l'unica in grado di spiegare il motivo per cui da un testo in cui era presente un parametro si è passati all'attuale norma priva di qualunque tetto di congruità, è quella che vede la misura del compenso quale decisione che spetta solo al l'organo sociale deputato a prenderla senza che il Fisco possa esercitare alcun sindacato di congruità.
Ai fini accertativi il “problema” però può spostarsi in termini di prove. In merito la dottrina più autorevole invita sul punto a considerare che l'antieconomicità (ovvero la manifesta irragionevolezza di certe scelte) non può, da sola, costituire il "quadro accusatorio" della rettifica, ma solo un indizio che, unitamente ad altre considerazioni, può qualificare la presunzione a favore del Fisco e invertire l'onere della prova. Non va poi dimenticato l'aspetto della doppia imposizione, generalmente tenuto in secondo piano quando si discute di congruità dei costi a livello di singola impresa e non di sistema. Insomma, anche in questo caso l'assenza nel sistema normativo di un qualsivoglia riferimento finisce per danneggiare le imprese, che hanno il gravoso compito, all'atto della fissazione dei compensi, di individuare un importo «economicamente convincente » agli occhi dei futuri verificatori, operazione che si presenta ancora più complessa con riferimento alla remunerazione in natura (fringe benefit) e a quella differita, vale a dire il trattamento di fine mandato (Tfm).
ARTICOLO - Pubblicato il: 27 giugno 2010 - Da: G. Manzana E. Iori
L’art. 22 del Dl 78/2010, al fine di adeguare l’accertamento redditometrico al nuovo contesto socio economico (si consideri che questo metodo di accertamento ha la propria fonte normativa «primaria» nell’art. 38, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 ma risale agli anni ‘50 e ai criteri di determinazione induttiva del reddito basati sul «tenore di vita del contribuente» - art. 137, Tuid del 1958) mette mano al contenuto dei vari commi.
Il fine è quello di
- Renderlo più efficiente, nel senso, sembrerebbe di capire, di evitare che le “nuove” forme di spesa non vengano considerate o vengano considerate solo in maniera marginale nella determinazione del reddito presunto
- dotandolo di garanzie per il contribuente, anche mediante la previsione del contraddittorio obbligatorio.
In merito al primo punto va evidenziato come già con le vecchie regole (si veda l’art. 1, comma 2 del citato Dm 19 novembre 1992) l’Ufficio ha la possibilità di quantificare la capacità contributiva del contribuente anche attraverso elementi diversi da quelli espressamente previsti dallo stesso Decreto. Ma tali indicatori, e qui sta la rilevanza nell’introdurre nuove voci di spesa nell’elenco, non godono delle condizioni di favore rese possibili dal Dm 10 settembre 1992 e, quindi, sottostanno alle regole generali in base alle quali il Fisco può ragionevolmente addebitare al contribuente non più della sommatoria degli esborsi di cui sia in grado concretamente di fornire la prova. E, soprattutto, senza che esso possa applicare a proprio favore gli effetti incrementativi del reddito accertabile, dovuti al coefficiente, ai sensi dell'articolo 3 del Dm 10 settembre 1992. In altre parole, le somme erogate per fruire di questi beni o servizi, una volta che ne viene provato dal Fisco l'effettivo sostenimento in capo al soggetto verificato, possono al più essere utilizzate ai fini del calcolo del reddito complessivo netto in misura pari alla cifra di volta in volta comprovabile come effettivamente spesa. Quindi, senza i grossi vantaggi che, viceversa, i beni e i servizi previsti nel decreto, grazie ai suoi "moltiplicatori" riserva a favore del Fisco.
Nel capitolo 12 della Circ. 1/2008 la Guardia di finanza introduce nuovi indici di ricchezza, precisando che, a titolo di orientamento e in via non esaustiva, tra gli elementi e le circostanze di fatto indicativi di capacità contributiva da considerare nel quadro della ricostruzione sintetica del reddito, in aggiunta a quelli espressamente riportati dalla legge, possono rilevare i seguenti:
- pagamento di consistenti rate di mutuo;
- pagamento di canoni di locazione finanziaria (leasing), soprattutto in relazione ad unità immobiliari di pregio, auto di lusso e natanti da diporto;
- pagamento di canoni per l’affitto di posti barca;
- spese per la ristrutturazione di immobili;
- spese per arredi di lusso di abitazione;
- pagamento di quote di iscrizione in circoli esclusivi;
- pagamento di rette per scuole private particolarmente costose;
- assidua frequenza di case da gioco;
- partecipazione ad aste;
- frequenti viaggi e crociere;
- acquisto di beni di particolare valore quali quadri, sculture, gioielli, reperti di interesse storico-archeologico, ecc.;
- disponibilità di riserve di caccia o di pesca;
- hobby particolarmente costosi quali, ad esempio, partecipazione a gare automobilistiche, rally, gare di motonautica, ecc.
In merito al secondo punto viene preso atto che l’attuale strumento crea discriminazioni e iniquità perché, ad esempio, considera più ricco chi va al mare con la roulotte o con il camper rispetto a quello che va in albergo (magari a quattro stelle) e non distingue, tra una casa di 100 metri quadrati in centro rispetto a una della stessa metratura in periferia o, ancora, che pesa allo stesso modo i cavalli fiscali dell’auto sportiva e quelli identici del Suv coreano. E fra tutte, poi, il fatto che il vecchio redditometro è quasi interamente basato sui beni a disposizione più che sulla spesa effettiva.
Sempre in merito al secondo punto vengono introdotte nuove garanzie per il contribuente, visto che viene previsto per legge che lo stesso debba essere invitato per fornire dati e notizie e poi, comunque, debba essere attivato il contraddittorio dell'accertamento con adesione. Oggi il contraddittorio non è previsto per legge con la conseguenza che le circostanze di fatto in base ai quali il reddito viene rideterminato non devono essere preventivamente contestati al contribuente; ciò anche se, è bene evidenziare, la circolare n. 49 del 2007 comunque invita gli uffici ad utilizzare il contraddittorio preventivo e oggigiorno, a partire dall’introduzione (o, meglio, dalla esplicita formalizzazione, con la Legge 212/2000 sullo Statuto dei diritti del contribuente) del principio di «collaborazione» fra Amministrazione finanziaria e contribuente (art. 10, L. 212/2000), il «contraddittorio preventivo» dovrebbe essere la «regola» nel procedimento di accertamento dei tributi, così come si può (indirettamente) evincere da taluni recenti pronunciamenti delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cfr. Cass., Sentenza 18 dicembre 2009, n. 26635, in cui – a proposito di applicazione di parametri e studi di settore – la Corte pare voler rinvenire nel «sistema» un principio generale di attivazione del «contraddittorio preventivo»).
Da quando si applicherà
Il nuovo redditometro non manderà in pensione quello vecchio. Espressamente viene detto che avrà effetto “per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non e ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto” vale che si applicherà per gli accertamenti relativi al periodo d’imposta 2009 e successivi. Sul punto è già stato fatto notare che tale previsione non sembra in linea con quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità sulle precedenti revisioni del redditometro, per le quali è sempre stata sostenuta la natura procedimentale e, quindi, l'effetto retroattivo (CAss. 13318 del 2007, Cass., Sez. Ia Civ., Sent. 11 agosto 1995, n. 8812; Sent. 20 giugno 2001, n. 8372; Sez. Trib., Sent. 4 settembre 2001, n. 11366; Sez. Trib., Sent. 5 ottobre 2005, n. 19403; 23 giugno 2006, n. 14692; Sez. Trib., Sent. 28 giugno 2006, n. 14951; 30 giugno 2006, n. 15124; Sez. Trib., Sent. 9 agosto 2006, n. 17986. Cass., Sez. Ia Civ., Sent. 1 settembre 1999, n. 9209; Sez. Trib., Sent. 15 giugno 2001, n. 8116). Si dirà, probabilmente, che questa modifica non si limita a rivedere i decreti attuativi, ma, viceversa, attua una vera e propria rivoluzione dell'accertamento sintetico e di quello redditometrico, per cui non si può pensare a una validità retroattiva del nuovo strumento. Su questo aspetto, però, non si è completamente d'accordo, in quanto il presupposto di base dell'accertamento sintetico, così come di quello redditometrico, sostanzialmente non muta. Infatti, sia prima, sia con la manovra economica 2010, il fondamento è quello della ricostruzione del reddito attraverso le spese sostenute dal contribuente. Va rilevato che lo stesso principio valeva anche per il vecchio redditometro: quest'ultimo si basava sulla disponibilità di determinati beni (autovetture, abitazioni eccetera), la quale comunque voleva rappresentare la capacità di mantenimento da parte del contribuente dei beni stessi e, quindi, una spesa. Solamente che con il vecchio redditometro si avevano dei risultati molte volte irrazionali. Quello operato con il Dl 78/2010 appare, quindi, un intervento di chiara natura procedimentale e non di tipo sostanziale, per cui sembrerebbe lecita l'applicazione anche retroattiva. Sicché, la norma relativa all'entrata in vigore delle nuove disposizioni parrebbe illegittima, in quanto lesiva del principio di difesa di cui all'articolo 24 della Costituzione (in merito si veda D. Deotto, Spesa e famiglia misurano il reddito. Il Sole 24 Ore 11 giugno 2010).
Per la sua applicazione pratica occorrerà in ogni caso attendere il decreto attuativo.
Le modifiche introdotte
VECCHIO
“L'ufficio, indipendentemente dalle disposizioni recate dai commi precedenti e dall'articolo 39, può, in base ad elementi e circostanze di fatto certi, determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze quando il reddito complessivo netto accertabile si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato.
A tal fine, con decreto del Ministro delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale (ndr Dm 10 settembre 1992 - provvedimento n. 51 del 2007) , sono stabilite le modalità in base alle quali l'ufficio può determinare induttivamente il reddito o il maggior reddito in relazione ad elementi indicativi di capacità contributiva individuati con lo stesso decreto quando il reddito dichiarato non risulta congruo rispetto ai predetti elementi per due o più periodi di imposta.
Qualora l'ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la stessa si presume sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti, in quote costanti, nell'anno in cui è stata effettuata e nei cinque precedenti.
Il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell'accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d'imposta. L'entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”.
NUOVO
“L'ufficio, indipendentemente dalle disposizioni recate dai commi precedenti e dall'articolo 39, può sempre determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente sulla base delle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d’imposta, salva la prova che il relativo finanziamento è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile.
La determinazione sintetica può essere altresì fondata sul contenuto induttivo di elementi indicativi di capacità contributiva individuato mediante l’analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza, con decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale con periodicità biennale. In tale caso è fatta salva per il contribuente la prova contraria di cui al quarto comma. dalla legge”.
La determinazione sintetica del reddito complessivo di cui ai precedenti commi è ammessa a condizione che il reddito complessivo accertabile ecceda di almeno un quinto quello dichiarato.
L’ufficio che procede alla determinazione sintetica del reddito complessivo ha l’obbligo di invitare il contribuente a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento e, successivamente, di avviare il procedimento di accertamento con adesione ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218.
Dal reddito complessivo determinato sinteticamente sono deducibili i soli oneri previsti dall’articolo 10 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986 n. 917; competono, inoltre, per gli oneri sostenuti dal contribuente, le detrazioni dall’imposta lorda previste dalla legge.”.
Nulla cambia in merito alla natura della presunzione: come in passato, l'accertamento redditometrico e, più in generale, quello sintetico si fonda su una presunzione legale relativa, con il contribuente che ha la possibilità di fornire la prova contraria.
Nulla cambia nemmeno per quanto concerne la modalità di difesa: la dimostrazione che il maggior reddito determinato sinteticamente nella sostanza non è stato prodotto potrà essere data provando che il relativo finanziamento è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile.
Nulla vieta che si possa fare ricorso anche ad altre giustificazioni che, pur non essendo espressamente considerate dalla normativa, devono tuttavia es¬sere oggetto di debita considerazione da par¬te dell’Ufficio procedente. E’ in tale ottica che la C.M. 9 agosto 2007, n. 49/E, alle motivazioni di legge aggiunge
- le somme riscosse a titolo di disinvestimenti patrimoniali,
- l’utilizzo di finanziamenti (quali il mutuo o il leasing, ma in tal caso si hanno conseguenze negative in termini di redditi gestionali, in quanto giocoforza il pagamento delle rate di mutuo o di leasing denota una maggiore capacità reddituale sul piano gestionale),
- l’utilizzo di somme di denaro derivanti da eredità, donazioni, vincite, ecc., l’utilizzo di effettivi redditi conseguiti a fronte di importi fiscali convenzionali (ad esempio, i redditi agrari),
- l’utilizzo di somme riscosse, fuori dall’esercizio dell’impresa, a titolo di risarcimento patrimoniale.
L’elenco fornito dalla circolare va considerato esclusivamente esemplificativo e non certo esaustivo: spazio, dunque, a tutte le possibili argomentazioni che, a vario titolo e «carte alla mano», dimostrano che la distonia tra il reddito dichiarato e il tenore di vita dimostrato e/o gli incrementi patrimoniali riscontrati sono coerenti con quanto il Fisco non ha visto o non ha potuto vedere.
Al riguardo, l’agenzia delle Entrate avverte che nel corso della fase istruttoria mediante convocazione in Ufficio o mediante questionario o nell’ambito del procedimento di accertamento con adesione, cd. «concordato a regime», è necessario acquisire tutte le informazioni e la relativa documentazione probatoria non conoscibili attraverso gli strumenti informativi a disposizione, o per suffragare quelli conoscibili, che configurano la «prova contraria» che il contribuente oggetto di controllo può fornire prima della notificazione dell’atto di accertamento.
Il contribuente può, quindi, fornire le prove che giustificano le differenze tra il reddito dichiarato e quello sinteticamente attribuibile dal redditometro, dimostrando che:
- possiede redditi esenti, quali Bot, Cct, e simili;
- è titolare di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, quali depositi bancari, buoni postali o altro;
- esercita attività d’impresa o di lavoro autonomo con proventi non tassabili o esenti, quali i redditi conseguiti dai cd. venditori porta a porta, soggetti a ritenuta a titolo d’imposta;
- il reddito conseguito non è quello effettivamente conseguito per effetto della tassazione forfetaria prevista dalla legge;
- ha venduto beni immobili.
Ciò che cambia sono invece:
1. gli elementi a base della determinazione induttiva del reddito
2. l’utilizzo degli incrementi patrimoniali per la determinazione induttiva del reddito
3. l’entità dello scostamento (tra presunto e dichiarato) per giustificare l’accertamento
4. il ripetersi della non congruità per giustificare l’accertamento
1. Gli elementi a base della determinazione induttiva del reddito
Viene espressamente detto che gli elementi indicativi di capacità contributiva verranno individuati “mediante l’analisi di campioni significativi di contribuenti, differenziati anche in funzione del nucleo familiare e dell’area territoriale di appartenenza”.
Si tratta della vera novità: il nuovo accertamento da redditometro risulterà maggiormente "calibrato" in funzione del nucleo familiare e dell'area territoriale di appartenenza del contribuente abbandonando elementi di capacità di spesa superati e incapaci di portare a una determinazione statistica del reddito coerente con un certo tenore di vita. In questo momento appare difficile prevedere quali saranno gli elementi presi a base dai futuri decreti, però, da quanto è stato annunciato, rileveranno maggiormente le spese effettivamente sostenute rispetto alla semplice disponibilità di determinati beni. E’ un punto molto delicato in quanto attorno a questo elemento che si gioca la sfida della credibilità dello strumento.
2. L’utilizzo degli incrementi patrimoniali per la determinazione induttiva del reddito
Sparisce la previsione degli incrementi patrimoniali. Stando il contenuto del secondo periodo del comma 4 dell’art. 38 e comma 5 dello stesso articolo (vecchia versione), il reddito complessivo netto imponibile viene determinato avendo a riferimento oltre che alla c.d. capacità gestionale del contribuente, ossia il reddito necessario per il contribuente per gestire i propri beni, alla capacità patrimoniale del contribuente, riferita ad una serie di negozi e atti incrementativi del proprio patrimonio (si presume che la spesa sia stata sostenuta con redditi conseguiti nell'anno e nei quattro precedenti). L’importo complessivo così determinato rappresenta il reddito presunto attribuibile al contribuente.
L’effetto è che, nel calcolo del reddito presunto, di questi beni se ne tiene conto due volte: sia come incremento patrimoniale che come semplice disponibilità, per effetto degli specifici coefficienti moltiplicatori. In futuro, gli incrementi patrimoniali non dovrebbero rilevare più, salvo che non vengano in qualche modo considerati dal provvedimento attuativo del nuovo redditometro.
3. L’entità dello scostamento (tra presunto e dichiarato) per giustificare l’accertamento
Viene ridotto l’entità dello scostamento ai fini dell’accertamento: in base alla nuova norma la rettifica potrà essere operata quando il reddito presunto si discosta di almeno un quinto rispetto a quello dichiarato; nella precedente versione normativa lo scostamento richiesto era di un quarto.
4. Il ripetersi della non congruità per giustificare l’accertamento
Sarà sufficiente essere non congrui nel singolo periodo d’imposta per essere accertato. Cade quindi la condizione essenziale, attualmente in vigore, che affinché l'accertamento risulti legittimo occorre che il contribuente risulti "non congruo" in almeno due periodi d'imposta. In ogni caso, come detto sopra, lo scostamento - sia per il sintetico che per il redditometro - dovrà comunque essere almeno pari a un quinto del reddito dichiarato.
Il fatto che il contribuente dovesse risultare non congruo in almeno due periodi d'imposta era una conseguenza del presupposto del redditometro basato sulla disponibilità di un determinato bene o di un servizio (e non sulla spesa sostenuta). Infatti, la disponibilità di questi ultimi doveva individuare la possibilità di mantenimento nel tempo dei beni o dei servizi e, quindi, doveva rappresentare un reddito periodico e non occasionale. Tale modifica, dovrebbe confermare il fatto che il baricentro del nuovo redditometro si sposterà più sulla spesa effettiva che su quella figurativa, vale a dire sulla spesa sostenute più che sui beni a disposizione dei contribuenti.