L'ANTIECONOMICITA' NEI COMPORTAMENTI DELL'IMPRESA
ARTICOLO - Pubblicato il: 17 marzo 2016 - Da: G. Manzana E. Iori
Secondo la sentenza n. 16606 depositata il 7 agosto 2015 un’unica sottofatturazione non legittima l’accertamento induttivo. Occorre, infatti, che le irregolarità siano gravi, ripetute e numerose. La Suprema Corte, in accoglimento dell’impugnazione, ha innanzitutto rilevato che secondo costante giurisprudenza in presenza di scritture contabili formalmente regolari, è ammissibile il metodo induttivo solo nell’ipotesi in cui l’ufficio fornisca la dimostrazione della complessiva inattendibilità delle scritture stesse. Devono sussistere, infatti, così come previsto dalla norma, gravi, numerose e ripetute omissioni e false o inesatte indicazioni relative agli elementi indicati nella dichiarazione e risultanti dal verbale di ispezione. Nella specie, però, difettavano tutti e tre i presupposti stante che come aveva rilevato la stessa commissione tributaria centrale, si trattava di un unico episodio di sottofatturazione del professionista. La contabilità quindi non poteva ritenersi inattendibile e l’ufficio non poteva ricorrere all’accertamento induttivo. Da quanto enunciato dalla Cassazione, dunque, ne consegue che l’amministrazione deve dimostrare la complessiva inattendibilità delle scritture.
Secondo la sentenza 24313/2014 della Cassazione depositata il 14 novembre 2014, è legittimo all'accertamento induttivo nei confronti dell'imprenditore che dichiara un reddito inferiore alla soglia Istat di povertà assoluta.
La vicenda trae origine da un avviso di accertamento con il quale l'agenzia delle Entrate ha rettificato induttivamente il reddito di un imprenditore, applicando una diversa percentuale di ricarico rispetto a quella desumibile dai dati dichiarati. L'ufficio ha poi ravvisato l'inattendibilità delle scritture contabili poiché l'utile conseguito era eccessivamente basso e inverosimile per la natura lucrativa di ogni attività commerciale.
Il contribuente ha impugnato l'avviso di accertamento ma in appello è stata confermata la correttezza della pretesa tributaria. Ne è scaturito così il ricorso per Cassazione. Il collegio di legittimità ha, però, confermato la sentenza di secondo grado e ha affermato che un reddito dichiarato inferiore alla soglia di povertà è un indizio di per sé sufficiente a giustificarne la rettifica, poiché denota una situazione commerciale anomala.
Esiti antieconomici, non ragionevoli e contrari ai canoni imprenditoriali rappresentano, infatti, comportamenti che possono disattendere l'attendibilità della contabilità. Pertanto l'ufficio è legittimato a un rettifica sulla base di presunzioni semplici. Spetta poi al contribuente provare l'effettiva sussistenza degli scarsi risultati conseguiti.
Inoltre l'ordinanza 24278/2014 (anch'essa depositata ieri) ha affermato che se l'amministrazione finanziaria sostiene l'inattendibilità delle scritture obbligatorie deve fornire un qualche elemento indiziario, quali studi di settore o medie di ricarico, in base ai quali può induttivamente quantificare la pretesa.
Secondo la Cass. sentenza 19602/2015 depositata il 1 ottobre 2015 la perdita d’esercizio risultante dal bilancio potrebbe convincere il giudice tributario dell’infondatezza dell’accertamento anche in caso di dichiarazione omessa. Nel respingere il ricorso, la Cassazione ha innanzitutto precisato che, in presenza di presunzioni «supersemplici», il giudice tributario ha l’onere di verificare l’operato dell’ufficio: deve così riscontrare se i fatti utilizzati come indizi siano compatibili con il criterio della normalità. Qualora rilevasse incongruenze e contrasti con principi di ragionevolezza, può giungere a diverse conclusioni.
La Ctr, sebbene con una succinta motivazione, aveva comunque operato una valutazione di merito priva di vizi. I giudici di appello, infatti, avevano spiegato che i valori determinati dall’ufficio si mostravano del tutto irragionevoli: secondo l’accertamento il reddito imponibile dell’esercizio doveva essere pari a circa 620milaeuro, mentre il bilancio prodotto dalla contribuente mostrava una perdita di quasi 775mila euro. Tale dato era supportato con il fallimento della società pochi mesi dopo la chiusura del periodo d’imposta verificato. In altre parole, quindi, secondo il collegio di merito appariva del tutto inverosimile che una società con un reddito di circa 600mila euro dopo pochi mesi fallisse.
Di conseguenza la perdita indicata nel bilancio, pur non essendo di per sé prova del reddito effettivo, è resa verosimile dai fatti che sono seguiti e il giudice, valutando quindi l’intero quadro probatorio, può disattendere i risultati dell’ufficio.
Più in generale la Cassazione con giurisprudenza ormai costante ha affermato che la contabilità può essere considerata inattendibile se risulta confliggere con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente (si vedano, da ultimo, le sentenze 9968/2015 e 3279/2016).
Tra i comportamenti ritenuti dalla giurisprudenza di legittimità assolutamente contrari ai canoni nell’economia figurano:
- produzione di perdite o di redditi di scarsa entità per più anni (sentenze 21536/2007, 24436/2008, 26167/2011, 13468/2015);
- dichiarazione di utili irrisori a fronte di ricavi di notevole entità (2613/2012);
- sproporzione per difetto dei ricavi rispetto ai costi (16642/2011);- incongruità della percentuale di ricarico dichiarata (2613/2012);
- consumi di energia elettrica medi delle apparecchiature e il raffronto tra il reddito dichiarato dall’imprenditore e quello del dipendente (843/2016).
Una volta contestata dall’ufficio delle Entrate l’antieconomicità del comportamento posto in essere dal contribuente, in quanto ritenuto contrario ai canoni dell’economia, incombe su quest’ultimo l’onere di fornire le necessarie spiegazioni. L’Agenzia delle entrate ha infatti affermato, nella nota 55440/2008, che in presenza di comportamenti antieconomici incombe sul contribuente l’onere di provare la logicità ed economicità del proprio comportamento. Anche la Cassazione ha costantemente affermato lo stesso principio, precisando che il contribuente può avvalersi a tal fine di presunzioni analoghe a quelle utilizzate dall’Amministrazione finanziaria. Ad esempio, è stato ritenuto che possa essere presa in considerazione la presenza di forti investimenti negli anni precedenti, «determinati dalla finalità di introdurre un nuovo modo di gestire l’attività (cd. telemarketing); nello specifico: spese (ad utilità pluriennale) di ricerca, sviluppo e pubblicità, che avevano negativamente condizionato gli esercizi successivi» e che avevano più avanti comportato un ritorno in termini di utili (sent. 13468/2015). È stata, inoltre, considerata verosimile la dichiarazione di una perdita in caso di successivo fallimento della società che l’aveva dichiarata e ritenuto che l’accertamento induttivo fosse qui in contrasto con «il criterio della normalità» (sent. 19602/2015). Nella sentenza 26113/2015 è stata invece ritenuta non provata l’antieconomicità del comportamento del contribuente perché la prevalenza dei costi sui ricavi potrebbe derivare da «incapacità gestionale».
Il giudice di merito deve, però, sempre esplicitare i motivi per i quali vengono disattese le ragioni formulate dall’ufficio per dimostrare l’inattendibilità della contabilità (sent. 3279/2016).
Non sono invece stati ritenute situazioni di antieconomicità:
- Incapacità imprenditoriale. (Cass. sentenza 26113/2015).
- Investimenti in perdita. Effettuazione di forti investimenti in spese di ricerca, sviluppo e pubblicità che provocano perdite e redditi di modesto importo negli anni successivi. È logico, dal punto di vista economico, sostenere in alcuni anni investimenti tali da consentire, a fronte di un’iniziale produzione di perdite, di conseguire poi maggiori ricavi (Cassazione, 13468/2015)
- Vendita sottocosto. Acquisto da parte della concessionaria di veicoli usati ad un prezzo superiore a quello della successiva rivendita. È legittima la sopravvalutazione dei veicoli usati acquisiti in permuta, perché va inquadrata nel contesto complessivo dell'operazione, che ha condotto a un risultato economico positivo
(Cassazione 19408/15 e 6337/02)
- Vendita sottocosto. L'impresa effettua vendite o rende servizi sottocosto per incentivare la diffusione dei prodotti o per motivi di penetrazione del mercato.L’operato è legittimo perché la economicità va valutata prendendo in considerazione la complessiva situazione contrattuale e aziendale (Assonime circolare 16/2009)
- Prezzi bassi. L'impresa applica prezzi di vendita delle proprie merci inferiori rispetto a quelli praticati dalle imprese concorrenti. La riduzione dei margini di guadagno non contrasta con i criteri di economicità e ragionevolezza se è dettata dalla necessità di fidelizzare e mantenere i clienti in tempi di crisi
(Ctp Milano, 7546/1/2015)
- Concessione di beni in comodato. L'impresa concede in comodato gratuito i macchinari con i quali il comodatario deve svolgere l'attività a favore dello stesso comodante. Non è antieconomica l’operazione che punta a incrementare le vendite e a realizzare il programma economico del comodante
(Circolare 9/2320 del 1981. Ris. 225/E/2002 e 196/E/2008. Cassazione 16730/2015)
Nella sentenza 26113/2015 è stata invece ritenuta non provata l’antieconomicità del comportamento del contribuente perché la prevalenza dei costi sui ricavi potrebbe derivare da «incapacità gestionale».